venerdì 30 dicembre 2011

Synkatabasis: l'incontro tra Dio e l'uomo

La Sacra Scrittura racconta e celebra la fedeltà di Dio per gli uomini. La chiesa antica ha coniato un termine che la rievocava in modo appropriato: synkatabasis, amore accondiscendente. 
II termine richiama un movimento di discesa e di accompagnamento.
Gregorio di Nissa vede annunciata la synkatabasis nella parabola del Buon Samaritano, poiché ritiene che il Signore Gesù sia stato il buon samaritano per antonomasia, sceso a cercare l'umanità intera: «Col termine "è disceso" si indica il Signore che e disceso per colui che scendeva da Gerusalemme a Gerico e che incappò nei briganti; e disceso insieme con l'uomo caduto in mano ai nemici, condividendone la sorte. Con questa parabola si allude alla discesa amorosa dell'Immensità immortale nella miseria della nostra natura».
Vediamo, ora, come veniva rievocata dai Padri la discesa amorosa di Dio nel mondo.
La prima "discesa" avviene con la creazione stessa. Isacco di Ninive contempla l’atto creativo ponendolo in relazione con la discesa del Cristo nel mondo, come se insieme costituissero due modi diversi della medesima accondiscendenza: «Una é la causa dell’esistenza del mondo e della venuta del Cristo nel mondo, la rivelazione della grande carità di Dio».
La Trinità Santa non ha voluto trattenere per sé la sua ricchezza ma ha voluto che altri essere godessero della sua bontà. Il Verbo, collaborando col Padre, ha agito nello stesso senso: Egli «é creatore della natura umana, non indotto alla formazione dell'uomo da qualche necessita, ma spinto alla creazione di una tale creatura dalla sovrabbondanza dell'amore. Perché la sua luce non doveva restare invisibile, né la sua gloria senza testimone, né la sua bontà senza chi ne godesse».
Da quando ha avuto inizio l'amore di Dio verso il mondo? In realtà, precisa Isacco il Siro, «anche se v'era tempo in cui la creazione non era venuta alla sua esistenza, pure non v'e un tempo in cui Dio non abbia posseduto la sua carità verso di lei, perché, anche se essa non era, pure per Dio non v'e tempo in cui la creazione non sia nella sua conoscenza».
Come ho ricordato, Dio non e stato indotto a creare spinto da qualche necessita, ma dal suo sentimento di generosità estrema. Questo non era forse stato compreso e sostenuto anche dalla filosofia? Secondo Plotino, l'Uno, il divino trascendente, e l'infinito Bene che non e avaro delle sue ricchezze né invidia chi ne può essere partecipe. La filosofia di Plotino e fondata sopra questa intuizione religiosa della infinita liberalità dello svelarsi di Dio. Gregorio di Nissa conosceva questa grande dottrina filosofica, eppure egli non dice soltanto che Dio e il Bene che irradia bontà, ma, riecheggiando la Scrittura, dichiara che Dio é amore.
«In che cosa si differenzia questa filosofia religiosa da quella cristiana? Per la consapevolezza di questa verità semplice e pro-fonda: che nel donare quel che più conta è l'animo di colui che dona, cioè a dire, che la liberalità ha un autentico pregio soltanto se si interiorizza in dedizione per amore e il Bene, dunque, amando le sue creature non si abbassa, ma celebra il suo sovrano valore. Il Bene, nel suo assoluto concetto, é soltanto il Dio-Amore, perché l'amore vale per se stesso più che ogni altro bene. Ma era una verità che doveva cambiare il volto del mondo, e forse per raggiungerla, non poteva bastare soltanto una filosofia».
Il cuore dell'annuncio della Scrittura sta proprio in questo: Dio è amore. Egli non solo benefica gli uomini ma entra in dialoga con loro: affida loro delle responsabilità, li rende partecipi di un progetto, ascolta la loro voce, attende la loro risposta.
Ho parlato della accondiscendenza di Dio nell'atto creativo ma come è avvenuta la discesa di Dio nel corso della storia? Origene insegna che Dio nutre una «passione d'amore» per noi. Da quando esiste il mondo, Dio Padre partecipa misteriosamente al dolore de-gli uomini e una tale compartecipazione sta all’origine dell'invio compassionevole del Figlio suo nel mondo. «II Salvatore e disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi e disceso e si e mostrato. Quale è questa passione che per noi ha sofferto? E la passione dell'amore. Persino il Padre, il Dio dell'universo, "pietoso e clemente e ricco di benevolenza", non soffre anche lui in certo qual modo? Non sai che quando governa le cose umane, condivide le sofferenze degli uomini? Infatti "il Signore tuo Dio ha sopportato i tuoi costumi, come il Figlio di Dio porta le nostre sofferenze. Nemmeno il Padre e impassibile. Se lo preghiamo, prova pietà e misericordia, soffre di amore e s'immedesima nei sentimenti che non potrebbe avere, data la grandezza della sua natura, e per causa nostra sopporta i dolori degli uomini».
In realtà, parlando di patimento in Dio, Origene ricorre ad un linguaggio estremo e non si preoccupa affatto di precisare la questione in termini filosofici. Lasciandosi guidare dalla Sacra Scrittura, diventa capace di sfidare la cultura dell’epoca ed introdurre un elemento di grande novità.
In un'altra circostanza, commentando l'episodio della visione avuta da Giacobbe della scala posta tra cielo e terra, Origene n riesce ad immaginare che Dio rimanga sulla cima ad osservare differente la faticosa ascesa dell'uomo verso di lui e così afferma «Non ha detto: Ho visto il Signore che stava in piedi sul quindicesimo gradino; noi non potremmo giungere al Signore se stesse eretto, in piedi. Ma nota quanto dice: lo vide appoggiato sulla scala Nota quanto dice: dalla posizione eretta si è curvato, si è abbassato affinché noi potessimo salire. II Signore rimane curvo, si è abbassato per te: sali sicuro».



L’agape di Dio nella redenzione e nella divinizzazione

La "passione d'amore" divina si manifesta ancora maggiormente nella donazione del Figlio e nella comunicazione a noi della sua stessa vita. Origene pone a confronto creazione e redenzione vede nella seconda l'autentica meraviglia dell'accondiscendenza divina: «I cieli confessano le tue meraviglie, Signore. Quali meraviglie? Perché hai creato il cielo? O perché hai posto le fondamenta alla terra? Ma quale importanza può avere questo per Dio, per quale dire e creare tutte le cose è stato istantaneo? Questo grande per Dio, queste furono le meraviglie di Dio: che Dio si è fatto uomo, che si sia occultato nel grembo della Vergine...., che sia stato ferito dagli uomini lui che guariva le ferite degli uomini, c sia stato schiaffeggiato, crocifisso, che abbia sopportato la morte lui che soffrì tutte queste cose perché gli uomini non dovesse sopportarne la pena».
Cabasilas rimarca questa convinzione. A suo parere, ci sono di modi con cui l'amante può beneficare l'amato; il primo consiste nel procuragli tutto il bene possibile, il secondo nello scegliere di soffrire per lui. Dio Padre, amico degli uomini, aveva sempre cerca di colmarli dei suoi benefici, ma tuttavia Egli era rimasto come lontano da loro, «L'amore era oltre misura, ma mancava il segno che lo rendesse manifesto. Eppure non doveva restare nascosto quanto immensamente Dio ci amasse: quindi, per darci esperienza del suo grande amore e mostrare che ci ama di un amore senza limiti, Dio inventa il suo annientamento, lo realizza e fa in modo di divenire capace di soffrire e di patire cose terribili. Cosi, con tutto quello che sopporta, Dio convince gli uomini del suo straordinario amore per loro e li attira nuovamente a sé, essi che fuggivano il Signore buono credendo di esserne odiati».
Dio inventa il suo annientamento per poter divinizzarci. La deificazione, dono estremo dell'accondiscendenza, e basata sullo scambio e perciò sulla "discesa" del Signore fino a noi. Lo esprimo servendomi di una formulazione classica: «L'opera più perfetta dell'amore consiste nell'effettuare uno scambio relazionale fra coloro che esso unisce in modo che giungano a convenire ad entrambi le rispettive proprietà e denominazioni». L'amore, allora, costringe Dio a farsi uomo per rendere l'uomo dio. II Verbo diventa uomo perché l'uomo possa acquistare la dignità di figlio di Dio;
non riceve una figliolanza qualsiasi, ma la possibilità di assimilare quel modo di essere figlio proprio del Verbo stesso, non soltanto sul piano giuridico ma su quello della realtà.
La serie di testi che ho presentato ci offre la possibilità di cogliere le caratteristiche proprie dell'agape, dell'amore che appartiene a Dio. Facendoci aiutare da A. Nygren, possiamo ricapitolarle in questo modo:l’agape e la via di Dio verso l'uomo, il suo abbassamento (o, per richiamare il testo di Cabasilas, l'invenzione del suo annientamento), perciò essa è anche sacrificio. L'agape è amore disinteressato, «non cerca il proprio vantaggio», è dono di sé. Non si rivolge a delle creature belle, attratta dal loro fascino, ma si riversa su una creazione deformata e la rende bella perché l'ama. L’agape ama e crea un valore nel suo oggetto. Di conseguenza essa è anche sovrana rispetto al suo oggetto, vale per i "buoni" come per i cattivi.



La risposta dell'uomo alla rivelazione della bellezza divina

«Nel cuore dell’uomo v'è un impulso molto nobile: ascendere direttamente a ciò che é alto e perfetto. Ma la realtà più alta e più grande, perfetta in senso assoluto è Dio; quindi il cuore umano vuole salire a Lui...».
Il desiderio dell'ascesa era gia stato espresso dalla filosofia greca. I Padri avevano avvertito il valore di questo desiderio, pur percependone nel contempo la precarietà. Apprezzano l’apertura "naturale" dell'uomo a Dio, per la quale egli e «ad immagine» di Lui, ma con questo non intendono affermare che egli sia capace con le sue sole forze di divinizzarsi o di divenire adeguato alla co-munione con Dio e degno di essa. Insegnano, piuttosto, che l'uomo e chiamato a divenire figlio di Dio e che é stato creato per la comunione con Lui. «II desiderio, che si sprigiona da questo "fondo" dell'anima é un desiderio "per privazione" e non per "inizio di possesso"». Come attesta Cabasilas: «Dio ha infuso nelle anime il desiderio di possedere il bene di cui manchiamo, e di conoscere la verità di cui siamo privi».
La rivelazione della bellezza di Dio, anziché situarsi come il risultato dello sforzo della meditazione, é stata concessa in dono e viene contemplata nell'umanità di Gesù, il Verbo incarnato: «Nelle anime umane e deposta evidentemente una grande e mirabile disposizione all’amore e alla gioia, la quale diviene pienamente ope-rante alla presenza di colui che e il vero amabile e diletto. È questa quella gioia piena di cui parla il Salvatore». Il desiderio umano di verità e di bene era rimasto in gran parte inappagato perché da nessuna parte l'uomo aveva trovato una verità e un bene sufficientemente puri. Solo in Cristo si trova una bellezza assoluta e quindi soltanto in questo incontro l'amore si risveglia in tutta la sua forza, «perciò, prima, non era noto quanto fosse grande la nostra potenza di amare e di godere, perché non erano presenti le realtà che bisognava amare e di cui si poteva godere, né era conosciuto il vincolo del desiderio e l'ardore del fuoco».



L'incontro con la bellezza divina

Quando avviene l'incontro con la Bellezza assoluta, il Cristo? I contemporanei di Gesù potevano vederlo, ascoltarlo, dialogare con Lui. Come e possibile oggi trovarsi alla sua presenza? In realtà, ora, da Risorto e più vicino a noi di quanto lo fosse e potesse esserlo da uomo terreno. «II Signore ha promesso ai suoi santi non solo di essere, ma anche di restare accanto a loro e, cosa ancora più grande, di fare dimora in loro... Addirittura sta scritto che il Signore amico degli uomini si unisce ai suoi santi con tale amore da formare un solo spirito con loro».
Dove possiamo esperimentare la sua vicinanza? L'incontro determinante con Cristo avviene nell'evento mirabile dell'iniziazione cristiana, quando il fedele viene battezzato, cresimato e ammesso al banchetto eucaristico.
II battesimo permette una vera esperienza di Dio. E necessario parlare, appunto di esperienza e non solo di conoscenza. Su questo argomento, seguo alcuni temi dell'insegnamento del grande Cabasilas. Una esperienza offre un apprendimento migliore di quello comunicato da un insegnamento perché «conoscere per esperienza, vuol dire raggiungere la cosa stessa». Nel battesimo avviene questo evento o esperienza: il Cristo presente ineffabilmente trasforma e plasma le anime degli uomini incidendo in loro se stesso; lo Spirito santo irrompe nei cuori e li rende nuovi. Cabasilas insiste: nel battesimo viene attinta una conoscenza di Dio che non consiste in ragionamenti, ma per esso «ci e dato di trovare qualcosa di più grande e di più vicino alla realtà». Che cosa accade in una parola? In esso riceviamo «una percezione immediata di Dio, prodotta dal tocco invisibile del suo raggio sull'anima».
In altre parole, possiamo paragonare il battesimo alla guarigione del cieco nato compiuta da Gesù. Il battezzato, al tocco invisibile del Signore, lo vede e così la creatura conosce il Creatore, la mente la verità, il desiderio anela al solo desiderabile.
È possibile avere un segno di riscontro della verità dell'evento? «È frutto di questa percezione la gioia ineffabile e l'amore soprannaturale, dai quali dipendono la grandezza delle opere buone, la manifestazione di imprese mirabili e la capacita di passare da vincitori [sul male]».
Ricapitolando, il credente incontra e "vede" la Bellezza del Verbo di Dio nell'evento dell'iniziazione. Questa bellezza risveglia e potenzia l’erosdell'uomo — ossia il desiderio di ascesa, il bisogno di Dio che lo inquietava da sempre, per lo più inconsapevolmente — e gli imprime una direzione precisa. L'iniziazione, pero, non e solo la presentazione agli occhi del credente della bellezza del Cristo affinché lo attragga. In essa troviamo molto di più: il Signore assume e trasforma il nostro amore nel suo. L'erosumano acquista il valore dell’agape, dell’amore proprio di Dio perché viene coinvolto nello sgorgare dell'agape infusa dall'alto nel nostro intimo. Noi diventiamo quella risposta all'amore del Padre che e stato Gesù stesso. 


martedì 27 dicembre 2011

Senso teologico della preghiera comune (von Allmen)

Dall'eremo camaldolese di Bardolino (Verona) 27.12. 2011


I.
CHE COSA FA LA CHIESA QUANDO PREGA ?

A una tale domanda, si possono dare — credo — le tre seguenti risposte :
1. — Essa esprime la sua identità più profonda.

La Chiesa, quando prega, si manifesta proprio in quanto Chiesa. Essa si riunisce. E nota 1'affermazione della Costituzione conciliare sulla Liturgia ; affermazione, a mio avviso, tra le piu importanti del Concilio Vaticano II: «... tutti devono dare la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno alvescovo, principalmente nella chiesa cattedrale: convinti che la principale manifestazione della Chiesa (praecipua manifestatio Ecclesiae) consiste nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, in una sola preghiera (in una oratione), presso il medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri»(2). La manifestazione per eccellenza della Chiesa si verifica quando questa si riunisce per la preghiera comune. È allora che essa realizza se stessa al più alto grado; diviene allora « visibilmente » ciò che è « misteriosamente » : popolo di Dio riunito davanti a Lui; essa trova allora anche la sua struttura fondamentale : popolo riunito, diaconi che riuniscono le preghiere di tutti, e prostamenos che le presenta a Dio Padre, in nome di Gesù Cristo, nella comunione dello Spirito Santo.
Si ricorda che Ignazio d'Antiochia scriveva ai Magnesii: « II Signore, che era tutt’uno con il Padre, non fece nulla senza di Lui (cfr. Gv 5, 18 ; 12, 50), né agendo da solo, né (agendo) per mezzo dei suoi Apostoli; e cosi anche voi nulla dovete fare senza il vescovo e senza i presbiteri. Ed è inutile che cerchiate di far apparire buono ciò che fate voi, privatamente; siate una cosa sola : un'unica speranza nell'amore, un'unica gioia purissima : questo è Gesù Cristo e nulla e meglio di Lui! Accorrete dunque tutti a quell'unico tempio di Dio, intorno a quell'unico altare che è Gesù Cristo : Egli è uno, e procedendo dall'unico Padre, e rimasto a Lui unito, e a Lui è ritornato nell'unità»(3).
Benché, tuttavia, quest’assemblea della Chiesa non possa non essere assemblea locale, essa ha di fatto dimensioni molto più estese, nello spazio e nel tempo : per e attraverso la sua preghiera comune diviene la Chiesa di Dio, tale quale è a X ; e questa localizzazione dev'esser presa sul serio, perché essa è una delle condizioni della sua ecclesialità. Ma l'assemblea della Chiesa diviene ancor di più : il sacramento, cioé, — con e accanto alle altre Chiese locali — della santa Chiesa stessa di Dio, diffusa nel mondo e nei secoli, che si unisce alla compagnia degli angeli per celebrare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Sicché, quando si parla di preghiera comune, bisogna dire che essa è necessariamente comune alla Chiesa in tutta la sua cattolicità : quando 1'assemblea della Chiesa prega, prega, di fatto, con la Chiesa intera. Essa è, nei limiti inevitabili del «qui» e dell' «ora », epifania del popolo di Dio. Ma se la Chiesa acquista nella preghiera comune la sua identità più profonda in quanto popolo, anche ciascuno dei suoi membri trova in essa che cosa egli è nel più profondo di se stesso : innestato sul Figlio unico, egli è divenuto capace, attraverso lo Spirito, di dire a Dio : «Padre » (4). Egli ha raggiunto il suo vero destino ; ha risposto alla sua vocazione : quella di mettersi alla presenza del Signore, per celebrare, coi fratelli, la gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito, e per divenire, attraverso e in questa celebrazione, theias koinonòs physeos (2 Pt. 1, 4) : partecipe della divina natura.
2. — Essa ubbidisce al comando del Signore.
Quando la Chiesa prega, ubbidisce. È la seconda risposta che bisogna dare alla nostra domanda. Certo, la Chiesa tende verso il suo Signore come una giovane verso il suo fidanzato ; ma ciò che motiva la sua pre-ghiera non e necessariamente la necessità o la voglia di pregare : in tempi di aridità spirituale, infatti, può non averne affatto voglia (5).
Essa si riunisce per pregare perchè ha ricevuto il comando di farlo. Il culto religioso non è anzitutto risultato di un bisogno religioso (per questo, la sua forma non è quella di riuscire ben gradito) : è innanzitutto ubbidienza ad un ordine : «... fate questo in memoria di me . . . », «... quando pregate, dite . . . », « pregate sempre . . . ». Ma perchè questo comando ? Credo si debba avere il coraggio di rispondere: perchè la preghiera, a causa dell'esaudimento di Dio, fa avanzare la storia della salvezza del mondo. Ogni autentica preghiera cristiana è portatrice, realizzatrice di storia, essa provoca l'avvicinamento della fine del mondo (e anche qui ve-diamo che non è possibile fare una netta distinzione teologica tra preghiera comune e preghiera privata, preghiera tradizionale e preghiera improvvisata). L'esaudimento della preghiera — sarà necessario ritornarvi sopra — mostra, come osserva K. Barth, che vi e « un influsso della preghiera sull'azione, sull'esistenza di Dio » (6).
In altre parole, quando la Chiesa si riunisce per la preghiera, diviene realizzatrice del disegno di Dio per il mondo ; «essa è allora — come dice J. Ellul — generazione di un futuro . . . , è (lì) . . . per assicurare la possibilità di una storia»(7) : la storia della salvezza. Si rivela qui, di fatto, il carattere politico della preghiera cristiana : essa fa maturare la storia, anche se in modo modesto, nascosto, non demagogico . . . « L'atto di pregare — diceva recentemente 1'arcivescovo Antonio Bloom - è un atto di ribellione contro la schiavitù, più essenziale più efficace della lotta armata»(8)

3 — Essa si presenta a Dio nel nome del mondo.
La Chiesa, quando prega, esprime l’identità più vera i se stessa, e 1'identità più naturale dei suoi membri. Essa ubbidisce a un comando del Signore e in tal modo contribuisce a far venire il Regno (9). In terzo luogo, bisogna dire che la Chiesa, quando prega, si sostituisce al mondo, che non sa più o non sa ancora, pregare. Essa si esercita nell'offrirsi sacrificio regale. II famoso «sacerdozio universale », infatti, e molto più 1'ufficio attraverso il quale la Chiesa intera, in Gesù Cristo, si presenta Dio in nome e al posto del mondo, che il diritto, per ogni uomo, di presentarsi immediatamente a Dio. L'ufficio, cioè, al riparo del quale il mondo può sussistere sotto la pazienza di Dio . . . Primizia delle creature, dice, parlando della Chiesa, la lettera di Giacomo (cf. 1, 18) : ciò in cui il mondo intero può comparire e sussistere dinanzi Dio.  È ciò che pone la Chiesa in preghiera, cosi vicino la Croce di Cristo.
Qui, fin dall'inizio noi troviamo, nella giusta prospettiva, la portata politica della preghiera comune : recitata in nome del mondo, questo sopravvive malgrado ciò che 1'attira verso la morte, e un tal fatto gli permette esser raggiunto ancora dall'Evangelo. Ci si sente colpiti, leggendo il Nuovo Testamento, nel notare che si manifesta in esso cosi poco sentimento di responsabilità politica diretta, II suo tenore, a proposito di questo fatto, e molto diverso da quel che si sente dire ascoltando la teologia contemporanea. Non credo ciò dipenda da una certa indifferenza per i poveri e gli sfruttati, e neppure dal fatto che l' ansia escatologica e 1'attesa dell' imminente parusia distogliesse la Chiesa nascente da un impegno politico concreto ; credo piuttosto sia dovuto al fatto che la Chiesa situava il principale esercizio della sua responsabilità politica nella preghiera : nel suo dovere, cioè, di porsi dinanzi a Dio in nome del mondo, perchè il mondo, protetto dalla di lei preghiera, potesse durare ancora e l'Evangelo vi fosse proclamato come 1'unica possibilità di salvezza. La Chiesa, quando prega, e come 1'apostolo Paolo che spezza il pane sul mare in tempesta e garantisce, mediante la sua presenza, la sopravvivenza di tutti i passeggeri. Sarebbe tanto desiderabile che la Chiesa riprendesse oggi coscienza che e proprio mediante la preghiera ch'essa si rende veramente utile al mondo! sarebbe tanto desiderabile che essa fosse fedele a questa sua vocazione!


II. CHE COSA DICE LA CHIESA QUANDO PREGA ?
Cominciamo con 1'osservare che non ogni preghiera e buona per esser recitata, in Chiesa. Bisogna pregare « secondo la volontà di Dio » (cf. 1 Gv 5, 14), o pregare «in nome di Gesù Cristo ». K. Barth chiama la preghiera cristiana «1'atto che consiste nel dare la nostra adesione all'opera di Dio»(10). Egli rileva, dunque, dal senso teologico della preghiera comune, che questa e regolata da ciò che noi sappiamo della volontà di Dio rivelata in Gesù Cristo. Questa volontà, vaglia — se cosi posso dire — tutto ciò che ci potrebbe venire in mente di dire a Dio. E’ ciò che fa anche in modo che la preghiera comune non possa non tener conto della tradizione liturgica della Chiesa: non necessariamente per ripetere preghiere di un tempo — come si ripeterebbero delle formule che essendo gia state esaudite garantirebbero di esser esaudite di nuovo — ma per pregare come un tempo, secondo gli stessi grandi schemi. Ora mi sembra possibile affermare che pregare « secondo la volontà di Dio » implichi essenzialmente tre cose : 1° - la celebrazione di Dio, che intende ed esaudisce; 2° - la domanda perchè venga il suo Regno ; 3° - 1'intercessione perchè la sua volontà di salvezza si diffonda, si realizzi, si consolidi. Tutte le altre preghiere non sono, per essere cristiane, che delle ramificazioni di questa triplice preghiera fondamentale. Vediamo la cosa un pò più da vicino.
1. — Essa celebra le grandi opere di Dio.
La preghiera comune e innanzitutto celebrazione delle grandi opere di Dio. « Santo è il suo nome : di generazione in generazione la sua misericordia stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore ; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre ». (Lc 1, 50 ss).
«Benedetto il Signore Dio d'Israele, perchè ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi una
salvezza potente nella casa di Davide, suo servo, come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d'un tempo : salvezza dai nostri nemici e dalle mani di quanti ci odiano. Cosi Egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si e ricordato della sua santa alleanza, del giura-mento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dai nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni» (Lc 1, 68 ss).
« Signore, tu sei Colui che hai fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che sono in essi, tu, mediante lo Spirito Santo, per bocca del padre nostro e tuo servo David, hai detto : 'Perchè fremettero le genti, e i popoli hanno meditate cose vane? I re della terra si presentarono, e i principi si sono radunati insieme contro il Signore e contro il suo Cristo. E veramente, in questa città si sono radunati Erode e Ponzio Pilato, insieme coi Gentili e con tutto il popolo d'Israele, contro il santo tuo Figliolo Gesù, che tu hai consacrato! Essi han fatto quel che la tua mano e il tuo consiglio decreto si facesse» (At 4, 24 ss).
A queste tre preghiere si dovrebbe aggiungere anche la citazione delle innumerevoli formule dossologiche contenute nelle lettere di Paolo, nell'Apocalisse, ed in altri testi. Si dovrebbero aggiungere ancora le formule di confessione di fede mediante le quali la Chiesa riunita si pone di fronte a Dio per celebrarlo, per enumerare tutto quello che Egli ha fatto in Gesù Cristo, dando in Lui, al mondo, un riferimento e una speranza. E questa celebrazione di Dio — primo contenuto della preghiera comune — si basa su una convinzione talmente salda che in Gesu di Nazareth Dio ha fatto biforcare la sorte del mondo intero che, come ad esempio nel magnificat o nel Cantico di Zaccaria, ciò che e ancora tutt’al più solo iniziato — la sconfitta degli orgogliosi, cioè, e il rovesciamento della situazione degli umili e degli affamati — è cantato come irreversibilmente stabilito e realizzato. Proprio come nell'espressione detta da Cristo sulla Croce : « Tutto e compiuto » (Gv 19, 30).
Nella sua preghiera, dunque, la Chiesa comincia col celebrare Dio, la sua misericordia, la sua storia, la sua vittoria. Si pensi al catechismo di Heidelberg, che tanto insiste sul fatto che la preghiera « e la principale parte della riconoscenza che Dio reclama da noi»(ll).
2. — Essa esprime la sua attesa del rinnovamento di tutte le realtà, in Gesù Cristo.
Ciò che la Chiesa esprime, in secondo luogo, nella preghiera comune, e il suo ardente desiderio di vedere incontestabilmente realizzato il rinnovamento di tutte le cose ottenuto dalla morte e resurrezione di Gesù Cristo. «Venga la (tua) grazia e passi questo mondo ! » (12). È la preghiera medesima che chiude lo stesso Nuovo Testamento : «Lo Spirito e la Sposa dicono : Vieni! Vieni, Signore Gesu ! » (Ap 22, 17.20) (13).
Ed e in questa prospettiva — credo — che bisogna interpretare anche 1'insieme dell'orazione domenicale. Essa e la preghiera di coloro per i quali niente conta altrettanto quanto la conferma pubblica, universale, della loro confessione di fede : la dimostrazione che la resurrezione di Gesù nel mattino di Pasqua non può non portare come conseguenza il rinnovamento dell'intera creazione, attraverso lo stabilirsi del Regno di Dio e il godimento dei beni escatologici. Per questo — mi sembra — anche il tenore delle ultime richieste dell'orazione domenicale implora la parusia : il pane epiousios, « soprasostanziale », la cancellazione di tutto ciò che porrebbe 1'uomo in conflitto con Dio, la capacita di resistere al maligno nel giorno dell'ultimo giudizio. E il semeron della quarta richiesta mi sembra allora voglia dire che, nell'ansiosa attesa della parusia, fin d'oggi noi possiamo vivere della vittoria del Cristo e della venuta dello Spirito Santo, come attesta la variante della versione lucana della preghiera del Si-gnore : «venga su di noi il tuo Santo Spirito e ci purifichi» (Lc 11,2).
3. — Essa attesta l'evangelizzazione del mondo,
II terzo elemento veramente importante della preghiera comune, e che non ostante gli ostacoli posti dal1'avversario, il disegno di Dio avanza nel mondo ; coloro, perciò, che sono incaricati di essere i portatori dell'Evangelo del Signore, lo siano senza affievolirsi. Si potrebbe anche dire che il terzo elemento veramente importante della preghiera comune, e 1'evangelizzazione del mondo. « E adesso, Signore, tieni presenti» le minacce di Erode, di Pilato, delle nazioni, del popolo d'Israele «e concedi ai tuoi servi di annunziare la tua parola con tutta fran-chezza, mentre tu stendi la mano a risanare e a operar segni e prodigi per mezzo del nome del santo tuo Figlio Gesù», dicono i fedeli di Gerusalemme al ritorno di Pietro e Giovanni dopo che avevano essi dovuto comparire dinanzi al Sinedrio (At 4, 29 ss). Sono stato colpito nel notare la regolarità di questo tipo di preghiera nei testi neotestamentari: la richiesta che 1'Evangelo si radichi, si fortifichi la dove e gia piantato, che arrivi a nuovi luoghi d'impiantazione. Non è possibile farne 1'enumerazione completa ; pochi esempi saranno sufficienti.
Si potrebbero anzitutto rilevare i rendimenti di grazie con cui Paolo inizia le sue lettere, e che sono dominati dalla preoccupazione dell'avanzamento dell'Evangelo nel mondo. «Ringraziamo Iddio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, ogni volta che preghiamo per voi, sentendo la fede che avete in Cristo Gesu e 1'amore che portate a tutti i santi, per via della speranza che e riposta per voi nei cieli; speranza che avete gia da tempo concepito nella parola di verità del Vangelo pervenuto a voi, come in tutto il mondo sta producendo i suoi frutti e facendo progressi quali fa tra voi, dal di che 1'avete udito, e avete conosciuto la grazia di Dio nella sua verità . . . Perciò anche noi. . . non cessiamo dal pregare per voi e dal chiedere che siate ben compenetrati della conoscenza di quel che e la sua volontà in tutto il campo della sapienza e intelligenza spirituale, si da procedere in modo degno del Signore, con pieno suo gradimento, in ogni opera buona, fruttificando e progredendo nella cognizione di Dio, in ogni virtù fortificati secondo la sua gloriosa potenza a sopportare ogni cosa con pazienza e longanimità, con gioia ringraziando Dio Padre dell'avervi resi atti ad aver parte nell'eredita dei santi nella luce ; quel Dio, che ci ha sottratti all'impero delle tenebre, e ci ha trasportati nel regno del Figlio dell'amor suo, in cui abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati » (Cl 1, 3-14). O ancora : « Io ringrazio il mio Dio ad ogni ricordo di voi, sempre, in ogni orazione mia, pregando con gioia per tutti voi, a motivo della vostra partecipazione al Vangelo, dal primo giorno fino ad ora, persuaso di questo appunto che chi ha cominciato in voi 1'opera buona, la compirà fino al giorno di Gesu Cristo. Ed e giusto per me il pensar questo di tutti voi, perchè vi ho nel cuore, come quelli che, e nelle mie catene, e nella difesa e nella confermazione del Vangelo, siete tutti compagni a me nella grazia. Poiché Dio mi e testimone che io voglio bene a tutti voi nelle viscere di Gesù Cristo ; e questa e la mia preghiera che la vostra carità cresca sempre più e più, in cognizione e in ogni finezza di senso, si da riconoscere voi le cose migliori, affinché siate schietti e irreprensibili fino al giorno di Cristo, ripieni del frutto della giustizia per via di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio » (Fl 1, 3-11).
Questi esempi potrebbero esser moltiplicati. Ad essi bisogna aggiungere, nello stesso senso, 1'esortazione rivolta ai Tessalonicesi o ai Colossesi, di pregare per lui « perchè la parola del Signore abbia corso e sia glorificata ovunque . . . e affinché noi siamo liberati dagli uomini protervi e malvagi, poiché non e di tutti la fede » (2 Tss 3, 1 ss); o di pregare sempre per lui «affinché Iddio gli apra la porta della parola, e gli sia dato annunziare il mistero di Cristo, per il quale anche ora e in catene, affinché lo manifesti come conviene che ne parli» (cfr. Cl 4, 3 ss). Si ritrova qui come un'eco della preghiera sacerdotale di Gesù che chiede a Dio non di togliere dal mondo coloro a cui Egli da 1'incarico di rappresentarlo in esso, ma di preservarli dal male, santificarli attraverso la verità e unirli incrollabilmente « affinché il mondo riconosca che tu mi hai mandato e che li hai amati, come hai amato me » (Gv 17, 9 ss).
Questa stessa preoccupazione dell'avanzamento del1'Evangelo e del consolidamento della fede di coloro che hanno creduto, si ritrova ancora, di frequente, nelle benedizioni dossologiche riportate dal nuovo Testamento:
«A Colui che può consolidarvi secondo il mio Vangelo e la predicazione di Gesù Cristo, conforme alla rivelazione di un mistero per lunghi secoli taciuto, (ma ora rivelato, per mezzo delle Scritture profetiche, giusta 1'ordine dell'eterno Dio e conosciuto fra tutte le genti per trarle all'obbedienza della fede), a Dio unico Sapiente, per via di Gesù Cristo, sia gloria per i secoli dei secoli. Amen ! » (Rm 16, 25 ss: cf. Giud. 24 ss).
Riassumendo : se, mediante la preghiera comune, la Chiesa esprime la sua più profonda identità, fa avanzare la storia della salvezza, tiene il suo ruolo di popolo sacerdotale, mediatore tra Dio e il mondo, tra il mondo e Dio, quello che essa celebra in questa preghiera e innanzitutto Dio e la storia che Egli concretizza per salvare il mondo; e poi 1' implorazione perchè venga la parusia e con essa sia (definitivamente) stabilito il Regno di Dio; e infine la richiesta che essa, la Chiesa, e coloro che ne sono i responsabili, possano fedelmente assolvere il com-pito che solo loro sono capaci di assolvere, e che e indispensabile al mondo e alla sua salvezza : far in modo, cioè, che nell'attesa della parusia, 1'Evangelo si diffonda, s'impianti, si consolidi e porti il suo frutto. Non credo esagerato dire che tutte le altre preghiere non sono cri-stiane che nella misura in cui scaturiscono da queste tre preghiere fondamentali e preparano ad esse.



III.
A CHE COSA, LA PREGHIERA COMUNE, IMPEGNA LA CHIESA, CHE LA RIVOLGE A DIO?
Mi domando spesso se l'attuale crisi della preghiera e della vita di preghiera non sia dovuta in gran parte ad un riflesso d'onesta : in coloro, evidentemente, che non dubitano (dell’esistenza) di un Dio, vivente e personale. Si prega male, si prega poco, perchè s'insiste sulla serietà della preghiera, s'insiste nel dire che la preghiera impegna. Si tende allora a rifugiarsi nella preghiera della Chiesa. Ma anche questa impegna, impegna altrettanto. A che cosa pero ?
1. — Volere ciò che si chiede a Dio.
La preghiera impegna la Chiesa a volere essa stessa ciò che domanda a Dio. Se la preghiera — per riprendere la citazione di K. Barth riportata poco fa — è «l'atto che consiste nel dare la nostra adesione all'opera di Dio » (14), questa adesione impegna. La Chiesa stessa diventa responsabile di ciò che domanda. Si, liberamente responsabile : senza alcun timore, cioè, per tutto ciò che si dovrà fare. A questo proposito, 1'assenza di frenesia che caratterizza la politica missionaria di Paolo : di lui, che, pure — se 1' esegesi di 2 Tm 2 proposta da O. Cullmann è corretta (15) — era incaricato in modo più particolare degli altri del compimento del terzo momento del contenuto della preghiera, e che sapeva di essere un elemento chiave dell'avanzamento della storia della salvezza, e esemplare.
Se Paolo fosse stato veramente convinto della parusia, avrebbe egli organizzato si saggiamente la sua strategia missionaria, da impiantare 1'Evangelo soltanto nelle città, per poi arrivare a poco a poco, alle campagne ? Avrebbe egli pazientemente atteso tre anni nelle prigioni di Cesarea, prima di appellare a Cesare ? La preghiera impegna la Chiesa a mettersi innanzitutto al servizio dell'esaudimento di ciò che essa domanda a Dio. Essa stessa diviene allora collaboratrice di Dio nell'avanzamento del piano di salvezza, qualunque sia 1'esegesi di Theou sunergoi che si adotta per spiegare il testo di 1 Cr 3, 9 (16).
E di tutta la vita della Chiesa che bisognerebbe qui parlare, perchè essa non e altro che un volontariato per e nell'opera della salvezza che Dio persegue nel mondo.
Riguardo a ciò che abbiamo rilevato parlando del contenuto della preghiera cristiana, impegnarsi nel servizio dell'esaudimento di quel che si domanda a Dio, significa — ricondotto all'essenziale — : sapere che quel che conta veramente, nel mondo, e la venuta, 1'insegnamento, la passione, la vittoria e la glorificazione di Gesù Cristo e 1'agire m conseguenza (di queste stesse realtà) ;
esser tesi verso la manifestazione di ciò che e avvenuto nel momento dell'incarnazione e sottomettere alla speranza di questa manifestazione 1'insieme della propria vita, dare all'impiantazione e alla crescita dell'Evangelo la preferenza su ogni altra attività ; compiere ciò che è specificamente cristiano, ciò che nessuna cosa e nessun altro che la Chiesa può compiere qui in terra.
2. — Pregare in modo unanime.
Parlando della preghiera comune, il Nuovo Testamento utilizza frequentemente due espressioni che fanno riflettere: la comunità cristiana, per la sua preghiera si riunisce epi to auto, «in uno stesso luogo » (17), e questa preghiera e pronunziata «in maniera unanime », «in comune», homothymadon (18). La Chiesa, che la preghiera costituisce in assemblea di Dio, e una Chiesa una. Come non si va a presentare a Dio la propria offerta in stato di inimicizia col fratello, ma si va prima a riconciliarsi con lui (cfr. Mt 5, 23 ss), cosi la Chiesa non deve presentarsi a Dio divisa. La sua divisione sarebbe infatti una smentita — per cosi dire — di ciò che essa e, un sabotaggio della propria preghiera (cfr. Mt 18, 19). E’ qui anche il senso del bacio di pace che precede il momento più importante della preghiera comune : 1'Eucaristia (19).
Se la preghiera comune impegna a mettersi al servizio di ciò che si domanda a Dio e ad accettare di divenire noi stessi operatori di esaudimento, bisogna ora dire, in secondo luogo, che la preghiera comune impegna la Chiesa — che la rivolge a Dio — a far questo in modo unanime, nell'unita ; che 1'impegna, di conseguenza, ad una particolare cura per impedire le divisioni e, se queste si sono prodotte, a guarirle.
Commentando 1'interpretazione data dai grandi catechismi della Riforma — quello di Calvino, il cate-chismo di Heidelberg e i due catechismi di Lutero — K. Barth osserva : «essendo i Riformatori unanimi in ciò che concerne la preghiera, sono essi d'accordo sul fondo delle cose. E se si può pregare insieme, si dovrebbe anche poter comunicarsi insieme; giacche le differenze dottrinali non possono essere allora che differenze secondarie»(20).
Noi non siamo qui per abbordare, ancor meno per trattare le relazioni tra preghiera comune e ricerca ecumenica, ma sarebbe cosa estremamente importante il porci almeno le domande: sono le nostre divisioni talmente profonde, da impedirci di pregare insieme, perché convinti di non rivolgerci allo stesso Dio, attra-verso lo stesso Cristo e nello stesso Spirito ? E se esse non sono tali, se esse non c'impediscono di pregare insieme, che cosa attendiamo per misurarne non la profondità ma la piccolezza e per svelarla ed eliminarla, onde la Chiesa locale possa riunirsi epi to auto, per rivolgersi a Dio homoihymadon ?
3. — Una preghiera già esaudita.
Un ultimo punto in questo breve esame da noi fatto, per conoscere a che cosa la preghiera impegna. Esso ci ha condotto all'esaudimento della preghiera. « Questa è la fiducia che noi abbiamo in Lui — dice la prima lettera di Giovanni — che qualunque cosa chiederemo secondo la sua volontà, Egli ci esaudisce. E sappiamo che ci esaudisce, qualunque cosa gli chiediamo ; lo sappiamo perchè abbiamo 1'effetto delle richieste a Lui fatte» (5, 14-15). Ciò significa — credo — che la preghiera cristiana e una preghiera gia esaudita in Gesù Cristo, una preghiera di cui noi domandiamo a Dio di confermare 1'esaudimento. « Perciò vi dico — afferma Gesù — tutte le cose che domanderete nella preghiera, abbiate fede di ottenerle e le otterrete » (Mc 11, 24). La preghiera comune dei cristiani si appoggia, in qualche modo, a ciò che Dio ha compiuto in Gesù Cristo e che e «infinitamente al di la di quel che noi domandiamo, o pensiamo » (Ef 3, 20); ed è in questa situazione ch'essa è pronunziata. Noi non possiamo domandare di più di quello che Dio ci ha donato, possiamo nondimeno domandare 1'apocalisse, lo svelamento, la manifestazione incontestabile di tutto questo. Ciò che mi sembra significare, in modo assai concreto, tre cose :
1° - la pazienza nell'attesa dell'esaudimento, o piuttosto dell'esaudimento manifesto. Può sembrare talvolta— o anche spesso — che Dio risponda al contrario di ciò che gli domandiamo anche con fede; come indica la preghiera stessa, non esaudita, di Gesù nel Getsemani
— prima che Egli si piegasse alla volontà di Dio (Mc 14, 36) — o come Paolo apprende dopo aver chiesto per tre volte (anche lui 1 Cfr. Mc 14, 36.39.41) di esser oberato da quel misterioso stimolo della carne (cf. 2 Cr 12, 7). Apprende cioè che gli è sufficiente la grazia di Dio, poiché la forza di Dio si compie nella debolezza. Si, può sembrare che Dio risponda al contrario, come appresero anche quelle persone — di cui il mondo era indegno — che furono lapidate, segate, perirono di spada, andarono raminghe, furono denudate, oppresse, maltrattate perchè non dovevano giungere alla perfezione senza di noi (cf. Ebr 11, 37).
L'esaudimento segreto preliminare, e garante dell'esaudimento ultimo manifesto. La preghiera comune o privata impegna dunque alla fiducia nella virtù, nella validità, e sufficienza dell'esaudimento preliminare di ogni preghiera cristiana, impegna alla fede in Gesù Cristo, incarnato, crocifisso, risuscitato e glorificato.
In secondo luogo, se la preghiera impegna alla pazienza, nell'attesa dell'esaudimento finale della preghiera gia fin d'ora esaudita, essa non impegna di meno a ricercare tutti quei segni in cui 1'esaudimento preliminare e finale trovano la propria attestazione, ed a gioirne. E specie a ricercare ed a gioire di quel momento più importante, in cui si attesta, per eco ed anticipazione, l'esaudimento della preghiera : l'Eucaristia della domenica.
Infine, se l'esaudimento che attendiamo, è la manifestazione e la conferma di ciò che è passato nella vita, morte e resurrezione di Gesù di Nazareth, se esso è 1'esaurimento dell'esaudimento, allora noi sappiamo che cosa domandare per pregare secondo Dio: è infatti l'orazione domenicale quella preghiera totalmente differente dalla preghiera spontanea, che sale dal cuore dell'uomo (21) e provoca e segna l'avanzamento della storia della salvezza.

Jean-Jacques von Allmen  da Vita monastica 118-119 (1974) 137-155   Camaldoli 1974

giovedì 15 dicembre 2011

Introduzione ai Salmi (d. bonhoeffer)

«Signore, insegnaci a pregare!» (Lc 11,1). Così i discepoli dicevano a Gesù, riconoscendo in tal modo di non saper pregare con le proprie forze. Essi avevano necessità di imparare.

Imparare a pregare: l’espressione ci suona contraddittoria. Infatti ci sembra che il cuore o sarà così traboccante da iniziare da solo a pregare, o non imparerà mai. Ma è un pericoloso errore, oggi in effetti molto diffuso nella cristianità, quello di ritenere che il cuore sia naturalmente portato a pregare. Scambiamo la preghiera con i desideri, le speranze, i sospiri, i lamenti, la gioia; tutte cose queste che il cuore sa esprimere per suo conto. Ma così scambiamo la terra con il cielo, l’uomo con Dio. Pregare non significa semplicemente dare sfogo al proprio cuore, ma significa procedere nel cammino verso Dio e parlare con lui, sia che il nostro cuore sia traboccante oppure vuoto. Ma per trovare questa strada non bastano le risorse umane ed è necessario Gesù Cristo.

I discepoli vogliono pregare, ma non sanno farlo. Può diventare un grande tormento il voler parlare con Dio senza sapere come, l’esser costretti al mutismo davanti a lui, il rendersi conto che l’eco di ogni nostra invocazione resta confinata all’interno del nostro io, che il cuore e la bocca parlano una lingua stravolta, cui Dio non vuole prestar ascolto. In questa penosa situazione ricorriamo ad uomini che possono aiutarci, che sappiano qualcosa della preghiera. Se uno che sa pregare ci coinvolgesse, ci consentisse di partecipare alla sua preghiera, ne avremmo un aiuto! Certamente qui possono aiutarci molto quei cristiani che hanno già percorso molta strada, ma solo per mezzo di colui che deve aiutare anche loro e al quale essi ci indirizzeranno, se sono autentici maestri di preghiera, cioè per mezzo di Gesù Cristo. Se egli ci coinvolge nella sua preghiera, se ci consente di pregare con lui, se ci fa percorrere in sua compagnia il cammino verso Dio e ci insegna a pregare, allora saremo liberati dal tormento dell’impossibilità di pregare. Ed è questo che Gesù Cristo vuole. Vuol pregare con noi, noi partecipiamo alla sua preghiera e perciò possiamo avere la certezza e la gioia che Dio ci presterà ascolto. È corretta la nostra preghiera se tutta la nostra volontà, tutto il nostro cuore fa tutt’uno con la preghiera di Cristo. Solo in Gesù Cristo possiamo pregare, e con lui saremo esauditi anche noi.
Dunque è necessario che impariamo a pregare. Il bambino impara a parlare in quanto il padre gli parla. Impara la lingua del padre. Allo stesso modo impariamo a parlare a Dio, in quanto Dio ci ha parlato e ci parla. Sulla base del linguaggio del Padre celeste i figli imparano a parlare con lui. Nel ripetere le parole stesse di Dio, noi iniziamo a pregarlo. Non dobbiamo parlare a Dio, né egli vuol ascoltare da noi il linguaggio alterato e corrotto del nostro cuore, ma il linguaggio chiaro e puro che Dio ha rivolto a noi in Gesù Cristo.
Il linguaggio di Dio in Gesù Cristo lo incontriamo nella sacra Scrittura. Se vogliamo pregare nella certezza e nella gioia, dobbiamo porre la parola della Scrittura come solida base della nostra preghiera. Da qui sappiamo che Gesù Cristo, Parola di Dio, ci insegna a pregare. Le parole che vengono da Dio saranno i gradini della scala per giungere a Dio.

Ora nella sacra Scrittura c’è un libro che si distingue da tutti gli altri per il fatto di contenere solo preghiere. È il libro dei salmi. A un primo sguardo è molto sorprendente trovar nella Bibbia un libro di preghiera. Infatti la sacra Scrittura è la Parola di Dio a noi, mentre le preghiere sono parole umane. Come mai entrano nella Bibbia? Non lasciamoci trarre in inganno: la Bibbia è Parola di Dio anche nei salmi. Ma allora le preghiere a Dio sono Parola di Dio? È qualcosa che ci sembra difficilmente comprensibile. Se ci pensiamo, l’unica cosa che possiamo capire è che solo da Gesù Cristo si può imparare a pregare nel modo giusto, che in lui siamo in presenza della Parola del Figlio di Dio, vivente in mezzo agli uomini, che si rivolge al Padre, che vive nell’ eternità. Gesù Cristo ha portato al cospetto di Dio ogni miseria, ogni gioia, ogni gratitudine e ogni speranza degli uomini. Sulle sue labbra la parola umana diventa Parola di Dio, e nel nostro partecipare alla sua preghiera la Parola di Dio si fa a sua volta parola umana. Così tutte le preghiere della Bibbia sono preghiere in cui noi partecipiamo alla preghiera di Gesù Cristo, in cui egli ci coinvolge, portandoci al cospetto di Dio; altrimenti non sono le preghiere giuste, perché possiamo pregare solo in e con Gesù Cristo.

Se partiamo da questo presupposto, se vogliamo leggere e pregare le preghiere della Bibbia, e in particolare i salmi, non dobbiamo cominciare col chiederci che riferimento essi abbiano a noi, ma che riferimento abbiano a Gesù Cristo. Dobbiamo chiederci come comprendere i salmi in quanto Parola di Dio; solo a quel punto possiamo partecipare alla preghiera che in essi è pronunciata. Non ha nessuna importanza che i salmi esprimano proprio il sentimento presente nel nostro cuore. Forse è addirittura necessario pregare opponendoci al nostro cuore, se vogliamo pregare bene. L’importante non è ciò che risponde al nostro volere, ma ciò che Dio vuole sia detto nella nostra invocazione. Se dovessimo contare solo su noi stessi, la nostra preghiera sarebbe spesso soltanto la quarta invocazione del Padre nostro. Ma Dio stabilisce diversamente: non la povertà del nostro cuore, ma la ricchezza della Parola di Dio deve caratterizzare la nostra preghiera.
Se dunque la Bibbia contiene anche un libro di preghiera, questo ci insegna che la Parola di Dio non è solo quella che Dio ci dice, ma anche quella che egli vuol udire da noi, in quanto Parola del Figlio che egli ama. È grazia di grande rilievo il fatto che Dio ci dica come poter parlare e comunicare con lui. Questo ci è consentito in quanto preghiamo nel nome di Gesù Cristo. I salmi ci sono dati perché impariamo a pregare nel nome suo.
Alla richiesta dei discepoli Gesù ha corrisposto insegnando il Padre nostro (Mt 6,9-13; Lc 11,2-43). In esso è contenuta ogni preghiera. Ciò che rientra nelle richieste del Padre nostro è corretto, ciò che non vi rientra non è preghiera. Ogni preghiera della sacra Scrittura è ricapitolata nel Padre nostro, nella sua infinita capacità di comprenderle tutte. Le altre preghiere dunque non vengono rese superflue dal Padre nostro, ma ne esplicitano l’inesauribile ricchezza, così come il Padre nostro ne costituisce il culmine e l’unità. Dice Lutero circa il salterio: «Il salterio si richiama al Padre nostro e il Padre nostro al salterio, in modo tale che si può benissimo interpretare l’uno in base all’altro e stabilire felicemente la reciproca concordanza». Per cui il Padre nostro è la pietra di paragone che ci permette di riconoscere se preghiamo in nome di Gesù Cristo o a nostro nome. È perciò ben motivato il frequente inserimento del salterio nelle nostre edizioni del Nuovo Testamento. È la preghiera della comunità di Gesù Cristo, rientra nel Padre nostro.


Chi prega nei salmi?

Dei 150 salmi, 73 vengono attribuiti al re David, 12 ad Asaf, il maestro del coro di cui si serviva David, 12 alla famiglia dei figli di Core, cantori leviti al servizio di David, 2 al re Salomone, uno per ciascuno Eman ed Etan, probabilmente maestri di musica all’ epoca di David e di Salomone. Si capisce quindi perché sia soprattutto il nome di David ad esser collegato con il salterio.
Si racconta che David, dopo esser stato consacrato re in segreto, sia stato chiamato dal re Saul, riprovato da Dio e tormentato da uno spirito malvagio, perché gli suonasse l’arpa. «Or quando lo spirito di Dio assaliva Saul, David prendeva l’arpa e si metteva a suonare, e Saul ne aveva sollievo e stava meglio, e lo spirito cattivo si partiva da lui» (1 Sam 16,23). Probabilmente è da qui che ha preso avvio la composizione dei salmi di David. Con la forza dello spirito di Dio, sceso su di lui con la consacrazione regale, egli scaccia con il canto lo spirito del male. Non ci è giunto nessun salmo di epoca precedente alla consacrazione. Soltanto colui che ha ricevuto la vocazione di re messianico, e da cui sarebbe disceso il re promesso, Gesù Cristo, ha pregato nella forma dei salmi, poi inclusi nel canone della sacra Scrittura.
Secondo la testimonianza biblica, David come re consacrato del popolo eletto da Dio è prefigurazione di Gesù Cristo. Ciò che gli accade, è in vista di colui che già in David è presente e che ne discenderà, vale a dire Gesù Cristo; e questo, non a sua insaputa; infatti, «siccome era profeta e sapeva che Dio, con giuramento, gli aveva promesso che uno della sua stirpe doveva sedere sopra il suo trono, egli previde e annunciò la risurrezione di Gesù Cristo» (At 2,30s.). David fu un testimone di Gesù nel suo ministero, nella vita e nelle parole. Il Nuovo Testamento in effetti dice anche di più. Nei salmi di David è il Cristo promesso in persona a parlare (Eb 2,12; 10,5) o, come anche ci viene detto, lo Spirito santo (Eb 3,7). Dunque le medesime parole di David sono pronunciate in lui dal Messia futuro. Le preghiere di David sono dette anche da Cristo, o meglio è Cristo stesso a pregare nel suo precursore David.
Questa breve osservazione sul Nuovo Testamento getta una luce significativa su tutto il salterio. Lo riferisce a Cristo. Dovremo poi soffermarci ancora su come sia da intendere questo nei singoli casi. Per noi è importante il fatto che anche David preghi richiamandosi a Cristo che abita in lui, e non soltanto alle risorse del proprio cuore traboccante. Certamente è lui che prega nei salmi, ma in lui e con lui c’è Cristo. Le stesse ultime parole pronunciate da David ormai vecchio esprimono questo fatto, in forma misteriosa: «Dice David, figlio di lesse, dice l’uomo che è stato innalzato, l’Unto del Dio di Giacobbe, il soave cantore dei salmi d’Israele: lo spirito del Signore ha parlato in me, e la sua parola è sulla mia lingua», a cui poi segue l’ultima profezia sul futuro re della giustizia, Gesù Cristo (2 Sam 23,2ss.).
Torniamo così a quanto abbiamo visto sopra. Certamente, non tutti i salmi sono di David, e non c’è alcun passo del Nuovo Testamento che attribuisca a Cristo la citazione dell’intero salterio. Comunque gli accenni che si sono raccolti bastano per tutto il salterio, che è senz’altro collegato indissolubilmente al nome di David, mentre Gesù in persona riferisce al complesso dei salmi l’annuncio della sua morte e risurrezione, nonché la predicazione dell’evangelo (Le 24,44ss.).
Come è possibile che la preghiera dei salmi sia pronunciata contemporaneamente da un uomo qualsiasi e da Gesù Cristo? È il Figlio di Dio incarnato, che ha portato nella sua propria carne ogni debolezza umana, a sfogare davanti a Dio il cuore di tutta l’umanità, a prendere il nostro posto e a pregare per noi. Egli ha conosciuto più profondamente di noi il tormento e il dolore, la colpa e la morte. Per questo è la preghiera della natura umana da lui assunta a presentarsi davanti a Dio. È veramente la nostra preghiera, ma egli ci conosce meglio di quanto noi non conosciamo noi stessi, è stato vero uomo a nostro favore, e per questo anche la preghiera è veramente sua preghiera, anzi possiamo farla nostra solo perché è stata la sua.
Chi prega nei salmi? David (Salomone, Asaf ecc.), Cristo, anche noi. Nel dire ‘noi’ si deve intendere anzitutto l’intera comunità, la sola che può applicare nella preghiera l’intera ricchezza del salterio, ma infine anche ciascuno di noi, preso singolarmente, in quanto partecipa al Cristo e alla sua comunità, di cui condivide la preghiera. David, Cristo, la comunità, io stesso: se consideriamo tutto questo insieme, riconosciamo il cammino meraviglioso percorso da Dio per insegnarci a pregare.


Nomi, musica, forma dei versetti

Il titolo ebraico del salterio equivale a ‘Inni’. Nel Sal 72,20 si parla di tutti i salmi precedenti come di «preghiere di David». Le due cose sono sorprendenti, anche se comprensibili. In effetti il salterio non contiene a prima vista né solo inni, né solo preghiere. Nonostante ciò, anche i salmi didattici e i canti di lamentazione in fondo sono inni, perché servono a celebrare la gloria di Dio; gli stessi salmi che non contengono alcuna invocazione a Dio (per es. 1,2, 78) possono esser considerati preghiere, in quanto servono ad immergersi nel pensiero di Dio e nella sua volontà. Il ‘salterio’ è originariamente uno strumento musicale e sta ad indicare solo metaforicamente la raccolta delle preghiere rivolte a Dio nel canto.
I salmi, nella tradizione giunta fino a noi, sono in gran parte musicati per l’uso liturgico. Vi possono entrare voci umane e strumenti di ogni tipo. Di nuovo si deve risalire a David per la prima musica propriamente liturgica. Come un tempo il suono della sua arpa scacciava lo spirito malvagio, così la musica liturgica ha un’efficacia tale, che può esser indicata con lo stesso termine usato per la predicazione profetica (1 Cr 25,2). Molti dei titoli dei salmi, di difficile comprensione, sono istruzioni per il maestro di musica. Lo stesso vale per il termine ‘sela’, che spesso ricorre nel salmo, ed indica presumibilmente una pausa. «Il ‘sela’ indica che bisogna fare silenzio e meditare diligentemente la parola del salmo; essa infatti richiede un’anima quieta e raccolta, che possa comprendere e assimilare ciò che lo Spirito santo le presenta e le ispira» (Lutero).
I salmi erano cantati per lo più a cori alterni. Vi si adattava in modo specifico anche la forma del versetto, per cui le due parti che lo compongono sono così strettamente collegate tra di loro, che esprimono in parole diverse più o meno lo stesso pensiero. È il cosiddetto parallelismo degli emistichi, forma non casuale, ma avente lo scopo di non far interrompere la preghiera e inoltre di favorire la dimensione collettiva di questa. Noi che siamo abituati a pregare in fretta, troviamo che si tratta di ripetizioni inutili, ma in realtà si tratta di una giusta concentrazione e raccoglimento nella preghiera, e al tempo stesso è il segno dell’unità e della coincidenza nella preghiera di molti, anzi di tutti i credenti, pur nella diversità delle parole in cui si esprimono. Per cui la stessa forma del versetto ci esorta a pregare i salmi in comune.


La liturgia e i salmi

In molte chiese, la domenica o addirittura ogni giorno, si leggono o si cantano i salmi a cori alternati. Queste chiese hanno conservato un’immensa ricchezza, poiché solo l’uso quotidiano permette di maturare nella comprensione di quel libro di preghiera che ci viene da Dio. Se lo leggiamo solo occasionalmente, queste preghiere ci risultano di una densità e di una forza insostenibili, per cui subito torniamo a qualcosa di più accessibile. Ma chi ha iniziato a pregare il salterio con serietà e regolarità, ben presto «darà il benservito» alle altre più facili e familiari «preghierine devozionali», dicendo: «qui non c’è il vigore, la forza, l’impeto e il fuoco che trovo nel salterio, tutto sembra freddo ed arido» (Lutero).
Se dunque nelle nostre chiese non si pregano più i salmi, tanto più dobbiamo includere il salterio nelle nostre meditazioni del mattino e della sera, ogni giorno per quanto è possibile dobbiamo leggere e pregare in comune più salmi, in modo da ripassare questo libro più volte nel corso dell’ anno e da entrarvi sempre più in profondità. Non ci è nemmeno lecito farne una scelta secondo i nostri gusti; sarebbe un modo per non rendere onore al libro di preghiera della Bibbia, nella presunzione di sapere meglio di Dio stesso come dobbiamo pregare. Nella chiesa antica non era inconsueto sapere a memoria «tutto David». In una chiesa orientale questa era la condizione indispensabile per il ministero ecclesiastico. Un padre della chiesa, Girolamo, racconta che ai suoi tempi si sentivano cantare i salmi nei campi e nei giardini. Il salterio riempiva la vita della giovane cristianità. Ma più importante ancora di tutto ciò è il fatto che Gesù è morto sulla croce con le parole dei salmi sulle labbra [Mt 27,46 e Mc 15,34 (Sal 22, 2: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»); Lc 23,46 (Sal 31,6: “Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito»)].
Una comunità cristiana perde un tesoro incomparabile se non ricorre al salterio, mentre scopre in sé una forza insospettata, quando lo ritrova.


I diversi gruppi di salmi

Suddividiamo la materia dei salmi nel modo seguente: la creazione, la legge, la storia della salvezza, il messia, la chiesa, la vita, la sofferenza, la colpa, i nemici, la fine. Non sarebbe difficile stabilire un rapporto fra tutte queste sezioni e il Padre nostro, per dimostrare quanto profondamente tutto il salterio sia incluso nella preghiera di Gesù. Ma per non anticipare questo risultato delle nostre riflessioni, ci atteniamo alla classificazione che risulta dai salmi stessi.

La creazione
La Scrittura proclama Dio creatore del cielo e della terra. Molti salmi ci esortano a rendergli onore, lode e grazie. Ma non c’è nessun salmo che parli solo della creazione. È sempre quel Dio che già si è rivelato al suo popolo nella Parola, ad essere riconosciuto come creatore del mondo. Possiamo credere in Dio creatore perché egli ci ha parlato, perché il Nome di Dio ci è stato rivelato. Altrimenti non potremmo conoscerlo. La creazione è un’immagine del potere e della fedeltà di Dio, che ci è stata dimostrata nella rivelazione che Dio ha fatto di sé in Gesù Cristo. Noi invochiamo il creatore che ci si è rivelato come redentore.
Il Salmo 8 celebra il nome di Dio e la sua azione di grazia nei confronti dell’uomo, in quanto coronamento della sua opera, il che non potrebbe essere compreso in base alla sola creazione. Il Salmo 19 non può parlare della meraviglia del corso degli astri senza contemporaneamente passare alla gloria molto maggiore della rivelazione della legge divina, ed è un passaggio brusco, senza mediazione, una tematica nuova, da cui proviene poi l’appello al pentimento. Il Salmo 29 presenta alla nostra ammirazione la tremenda forza di Dio nella tempesta, ma lo scopo del salmo sta nel richiamare la forza, la benedizione e la pace che Dio dona al suo popolo. Il Salmo 104 abbraccia con lo sguardo tutte le opere di Dio e al tempo stesso le giudica un nulla al suo cospetto; solo la sua gloria rimane eterna ed egli annienterà i peccatori.
I salmi della creazione non sono poetiche effusioni liriche, ma un’introduzione alla scoperta e all’adorazione del creatore del mondo, che il popolo di Dio può trovare nella salvezza che sperimenta come grazia. La creazione serve al fedele, e ogni creatura di Dio è buona, se noi l’accogliamo con gratitudine (1 Tm 4,3s.). E noi possiamo ringraziare solo per ciò che è consono alla rivelazione di Dio in Gesù Cristo. È per amore di Gesù Cristo che la creazione, con tutti i suoi doni, esiste. Così noi rendiamo grazie a Dio con, in e per mezzo di Gesù Cristo, a cui apparteniamo, per lo splendore della sua creazione.

La legge
I tre Salmi (1. 19. 119) che hanno come specifico oggetto di ringraziamento, di lode e di richiesta la legge di Dio, vogliono anzitutto presentarci i benefici della legge. Per ‘legge’ si deve intendere per lo più tutta l’azione redentiva di Dio e la prescrizione di una nuova vita nell’ubbidienza. La gioia per la legge, per i comandamenti di Dio, riempie il nostro animo, se Dio per mezzo di Gesù Cristo ha impresso la grande svolta alla nostra vita. La nuova vita teme più di ogni altra cosa la possibilità che Dio nasconda il suo comandamento (Sal 119,19), che un giorno non faccia più riconoscere la sua volontà.
È grazia conoscere i comandi di Dio. Essi ci liberano dai progetti e dai conflitti che vengono dalla nostra iniziativa. Danno sicurezza ai nostri passi e gioia al nostro cammino. Dio dà i comandamenti perché noi li adempiamo e «i suoi comandamenti non sono gravosi» (1 Gv 5,3) per chi ha trovato pienamente in Gesù Cristo la salvezza. Lo stesso Gesù si è sottoposto alla legge e l’ha adempiuta in completa ubbidienza al Padre. La volontà di Dio è la sua gioia, il suo nutrimento. Così egli rende grazie in noi per la grazia della legge e ci dà la gioia nell’adempierla. Nel professare il nostro amore per la legge, confermiamo che essa ci è cara e chiediamo di essere mantenuti irreprensibili in essa. Non lo facciamo contando su noi stessi, ma preghiamo nel nome di Gesù Cristo, che è per noi e in noi.
Forse ci risulterà particolarmente difficile il Salmo 119 per la sua lunghezza e monotonia. Qui può esserci di aiuto il procedere con molta lentezza, tranquillità, pazienza, parola per parola, frase per frase. Allora ci rendiamo conto che le ripetizioni sono solo apparenti, ma che in realtà sono aspetti sempre nuovi di un unico tema, l’amore per la Parola di Dio. Un amore che non può aver fine, così come non possono aver fine le parole che lo confessano. Esse hanno l’intento di accompagnarci per l’intera vita, e nella loro semplicità si adattano alla preghiera del bambino, dell’uomo maturo e del vecchio.


La storia della salvezza
I Salmi 78, 105, 106 ci raccontano la storia del popolo di Dio in terra, la grazia dell’elezione e la fedeltà di Dio, l’infedeltà e l’ingratitudine del suo popolo. Il Salmo 78 non presenta alcuna invocazione di preghiera. Come possiamo pregarlo? Il Salmo 106 ci esortar al ringraziamento, all’ adorazione, alla promessa, alla richiesta, alla confessione dei peccati e all’invocazione di aiuto, di fronte alla storia della salvezza realizzatasi nel passato. Gratitudine per la bontà di Dio, che è valida in eterno per il suo popolo, che noi sperimentiamo alla stessa maniera dei nostri padri; adorazione al cospetto dei miracoli che Dio ha compiuto a nostro beneficio, dalla redenzione del suo popolo dall’Egitto fino al Golgota; promessa di essere fedeli al comandamento di Dio più di quanto lo siamo stati finora; preghiera perché la grazia di Dio ci sostenga, secondo la sua promessa; confessione dei nostri peccati, dell’infedeltà e dell’indegnità nei confronti di così grande misericordia; invocazione perché il popolo di Dio sia definitivamente radunato e si compia la sua redenzione.
Noi preghiamo questi salmi, nel considerare come rivolto a noi tutto ciò che Dio a suo tempo ha compiuto per il suo popolo, nel riconoscere la nostra colpa e la grazia di Dio, nel richiamare le promesse di Dio, in base ai benefici già ricevuti, nel chiedere l’adempimento di queste promesse, nel riconoscere infine in Gesù Cristo, da cui abbiamo ricevuto e riceviamo aiuto, l’adempimento di tutta la storia di Dio con la sua comunità. Per amore di Gesù Cristo rendiamo grazie a Dio, lo preghiamo e lo confessiamo.

Il messia
La storia divina della salvezza si compie con l’invio del messia. Secondo la stessa interpretazione di Gesù, il salterio ha profetizzato questo messia (Le 24,44). I Salmi 22 e 69 sono conosciuti dalla comunità come i salmi della passione di Cristo.
L’inizio del Salmo 22 è stato pregato da Gesù stesso in croce, che in tal modo ne ha fatto con ogni evidenza una sua preghiera. Il versetto 23 è stato posto in bocca a Cristo da Eb 2,12. I versetti 9 e 19 sono dirette profezie della crocifissione di Gesù. Per quanto sia stato David in persona ad aver pregato nella propria sofferenza questo salmo, in quella situazione egli rappresentava il re consacrato da Dio e per tal motivo perseguitato dagli uomini, da cui sarebbe disceso Cristo. In quella circostanza egli era colui che portava in sé Cristo. Cristo ha fatto propria questa preghiera, e solo così essa ha acquistato il suo pieno valore. Da parte nostra, possiamo pregare secondo questo salmo solo nella comunione con Gesù Cristo, nella partecipazione alla sua sofferenza. La nostra preghiera secondo questo salmo non si fonda sulla nostra sofferenza occasionale, personale, ma su quella di Cristo, alla quale anche noi partecipiamo. E noi sentiamo che Gesù prega sempre con noi, e attraverso Gesù anche il re dell’Antico Testamento; nel ripetere questa preghiera, pur senza poterne mai misurare o comprendere tutta la profondità, ci presentiamo davanti al trono di Dio pregando con Cristo.
Nel Salmo 69 di solito il verso 6 crea difficoltà, perché in esso Cristo si lamenta della propria follia e delle proprie colpe davanti a Dio. Certamente qui David ha parlato della sua colpa personale. Cristo però parla della colpa di tutti gli uomini, anche di quella di David e della mia, che egli ha preso e portato su di sé, per cui ora subisce l’ira del Padre. Il vero uomo Gesù Cristo prega in questo salmo e ci include nella sua preghiera.
I Salmi 2 e 110 testimoniano la vittoria di Cristo sui suoi nemici, l’instaurarsi del suo regno, l’adorazione prestatagli dal popolo di Dio. Anche qui la profezia si richiama a David e alla sua regalità. E in David abbiamo la prefigurazione del Cristo futuro. Lutero parla del Salmo 110 come del «vero grande salmo del nostro amato Signore Gesù Cristo».
I Salmi 20, 21, 72 in origine si riferiscono indubbiamente alla regalità terrena di David e Salomone. Il Salmo 20 invoca la vittoria del re messianico sui nemici, l’accettazione del suo sacrificio da parte di Dio; il Salmo 21 ringrazia per la vittoria e l’incoronazione del re; il Salmo 72 prega per la giustizia e l’aiuto da prestare ai poveri, per la pace, per uno stabile dominio, per un’ eterna gloria nel regno. In questi salmi noi preghiamo per la vittoria di Gesù Cristo nel mondo, ringraziamo per la vittoria ottenuta e chiediamo l’instaurazione del regno di giustizia e di pace, in cui è re Gesù Cristo. In questo ambito rientrano anche i Salmi 61,7ss.; 63,12.
Dell’ amore per il re messianico parla il molto discusso Salmo 45, in cui si celebra la sua bellezza, la sua ricchezza, la sua forza. La sposa che si unisce in matrimonio con questo re deve dimenticare il proprio popolo e la casa paterna (v. 11) e rendere omaggio al re. Per lui solo deve adornarsi e con gioia prendere dimora presso di lui. È il canto e la preghiera che celebra l’amore fra Gesù, il re, e la sua comunità, che gli appartiene.

La chiesa
I Salmi 27,42,46,48,63,81,84,87 ecc. cantano Gerusalemme, la città di Dio, le grandi solennità del popolo di Dio, il tempio e la bellezza dei servizi liturgici. È la presenza del Dio della salvezza nella sua comunità, ad esser qui il motivo del nostro ringraziamento, della nostra gioia, del nostro desiderio. Ciò che per gli israeliti era il monte Sion e il tempio, per noi è la chiesa di Dio in tutto il mondo, ogni luogo in cui Dio abita presso la sua comunità nella Parola e nel sacramento. Questa chiesa sussisterà, nonostante i suoi nemici (Sal 46), e la sua prigionia sotto il dominio delle potenze del mondo senza Dio avrà fine (126, 137). Il Dio di misericordia, presente in Cristo alla sua comunità, è il compimento di ogni moto di gratitudine, di gioia e di nostalgia dei salmi. Anche Gesù, in cui abita Dio stesso, ha desiderato la comunione di Dio, in quanto è stato uomo come noi (Lc 2,49), e per questo egli prega con noi per la vicinanza e presenza piena di Dio presso i suoi.
Dio ha promesso di essere presente alla sua comunità nel culto, per cui la comunità tiene il suo culto secondo l’ordine posto da Dio. E Gesù Cristo stesso ha prestato il culto perfetto, in cui ha portato a compimento ogni sacrificio prescritto nel libero e perfettamente puro sacrificio di sé. Cristo ha compiuto in sé il sacrificio di Dio per noi e il nostro sacrificio a Dio. A noi non resta che il sacrificio di lode e di ringraziamento, nella preghiera, nel canto, in una vita secondo i comandamenti di Dio (Sal 15, Sal 50). Così tutta la nostra vita si trasforma in culto, in sacrificio di ringraziamento. A tale sacrificio di ringraziamento Dio non farà mancare il suo assenso e mostrerà la sua salvezza a chi gli si rivolgerà con gratitudine (Sal 50,23 ). Questi salmi hanno il compito di insegnarci la gratitudine a Dio per amore di Cristo e la lode a Dio nella comunità, una lode che sale dal cuore, dalle labbra e dalle mani.

La vita
Molti di coloro che cercano di essere cristiani con serietà sono sorpresi dalla frequenza con cui s’incontra, nella preghiera dei salmi, la richiesta della vita e della felicità. Dalla contemplazione della croce di Cristo, certi fanno derivare la poco sana convinzione che la vita e le benedizioni terrene e sensibili di Dio siano per se stesse un bene ambiguo, e comunque da non richiedere. Di conseguenza parlano delle corrispondenti preghiere del salterio come di un grado preliminare, imperfetto della spiritualità dell’ Antico Testamento, che il Nuovo Testamento avrebbe superato, ma in tal modo vogliono essere più pii di Dio stesso.
La richiesta del pane quotidiano comprende tutto il campo delle necessità della vita fisica, allo stesso modo in cui la richiesta di vita, di salute, di prove visibili del favore divino fa parte necessariamente della preghiera rivolta a Dio che ha creato e che conserva questa vita. La vita fisica non va disprezzata, anzi, Dio ci ha donato la sua comunione in Gesù Cristo, perché possiamo vivere al suo cospetto in questa vita, e poi di conseguenza anche nell’ altra. Per questo ci dà le preghiere terrene, in modo che riusciamo a conoscerlo, a lodarlo e ad amarlo quanto più possibile. Dio vuole che i pii abbiano prosperità in terra (Sal 37) 13. Questa volontà non viene messa fuori causa nemmeno dalla croce di Gesù Cristo, anzi se mai viene confermata, e proprio laddove gli uomini, nella sequela di Gesù, devono farsi carico di molte privazioni, ad essi succederà come ai discepoli, che alla domanda di Gesù: «Vi è mancato forse qualche cosa?» rispondono: «Niente!» (Le 22,35). Ciò presuppone quanto dice il salmo: «Meglio è il poco di cui gode il giusto che l’abbondanza di molti empi» (Sal 37,16).
In effetti non dobbiamo avere scrupoli di coscienza a pregare con il salterio per ottenere vita, salute, pace, beni terreni, purché con il salmo riconosciamo in tutto questo i segni della comunione di grazia che Dio ci concede e teniamo ben fermo che la benevolenza di Dio è preferibile alla vita (Sal 63,4; 73,25s.).
Il Salmo 103 ci insegna tutta la ricchezza dei doni di Dio, dalla conservazione della vita fino alla remissione dei peccati, e ce ne fa comprendere il carattere unitario, per cui dobbiamo presentare a Dio lodi e grazie (cfr. anche Sal 65). Per amore di Cristo, il creatore ci dà e ci conserva la vita. Così pure vuol disporci ad ottenere in ultimo la vita eterna, facendoci perdere, con la morte, tutti i beni terreni. Solo per amore di Gesù Cristo e per suo comando possiamo chiedere nella preghiera i beni terreni e anche farlo con fiducia. E se riceviamo ciò di cui abbiamo bisogno, non cesseremo di ringraziarne di cuore Dio, così benevolo nei nostri confronti per amore di Gesù Cristo.

La sofferenza
Dove si trovano parole di tristezza più lamentosa e più straziante di quelle dei salmi di lamentazione? È come se si leggesse nel cuore di tutti i santi, quando si sentono in preda alla morte, anzi, all’inferno. Lì si vede l’oscurità che ci invade, quando ci sentiamo sotto lo sguardo adirato di Dio (Lutero).
Il salterio ci dà molti insegnamenti sul giusto modo di presentarci a Dio nelle molte specie di sofferenze che il mondo ci procura. Gravi malattie e profondo abbandono da parte di Dio e degli uomini, minacce, persecuzioni, prigionia e ogni tipo di miseria che possa esserci in terra, tutto questo è ben noto ai salmi (13, 31, 35, 41, 44, 54, 55, 56,61, 74, 79, 86, 88, 102, 105 ecc.). Non si nega la sofferenza, non la si camuffa con espressioni devote, anzi i salmi la riconoscono come dura prova per la fede, anzi talvolta non vedono alcuna prospettiva al di là della sofferenza (Sal 88), e tutti se ne lamentano con Dio. Nessun uomo può pregare i salmi di lamentazione sulla base della propria esperienza; in essi viene esposta la miseria dell’intera comunità in tutti i tempi, e il solo ad averla provata integralmente è Gesù Cristo. Poiché essa accade per volontà di Dio, anzi, poiché Dio solo la conosce integralmente e più di quanto noi la conosciamo, per questo è solo Dio che può portarci aiuto, ma è vero anche che per questo tutte le richieste devono sempre insistentemente rivolgersi a Dio.
Nei salmi non c’è una troppo rapida resa alla sofferenza. Si passa sempre attraverso un combattimento, si vive la paura, il dubbio. Si mette in discussione la giustizia di Dio, che fa soffrire i pii e salvaguarda gli empi, e addirittura si mette in discussione la bontà e la grazia del volere divino (Sal 44,35). Il suo agire è troppo incomprensibile, ma anche nella più profonda disperazione, Dio resta il solo a cui ci si rivolge. Non si aspetta aiuto dagli uomini, né si perde di vista nell’ autocommiserazione l’origine e il fine di ogni miseria, cioè Dio. Chi soffre, combatte contro Dio in difesa di Dio. Al Dio adirato si rinfacciano moltissime volte le sue promesse, la sua precedente benevolenza, la gloria del suo nome tra gli uomini.
Se sono colpevole, perché Dio non perdona? Se sono innocente, perché non pone fine ai tormenti, dimostrando la mia innocenza davanti ai miei nemici? (Sal 38, 79, 44). A tutte queste domande non c’è una risposta sul piano teorico, come del resto neppure nel Nuovo Testamento. L’unica risposta reale è Gesù Cristo. E questa risposta è già nei salmi. Anzi è la risposta che tutti i salmi hanno in sé, in quanto in essi ogni miseria e ogni tentazione viene presentata a Dio, nell’invocare: non ce la facciamo più a sopportare, dacci sollievo e prendi tutto su di te, tu solo puoi aver ragione della sofferenza. Questo è lo scopo di tutti i salmi di lamentazione. Essi invocano colui che si è fatto carico di ogni nostra malattia e infermità, Gesù Cristo, lo predicano come unico aiuto nella sofferenza, poiché in lui Dio ci è vicino.
Nei salmi di lamentazione si tratta della piena comunione con Dio, che è giustizia e amore. Ma Gesù Cristo non è solo lo scopo della nostra preghiera, bensì egli è anche personalmente presente nel nostro pregare. Avendo sopportato ogni nostra miseria16, l’ha portata davanti a Dio, per amor nostro ha pregato in nome di Dio: «Non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu». Per amor nostro sulla croce ha gridato:. «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Ora sappiamo che non c’è più sofferenza sulla terra, in cui Cristo non sia presso di noi, nella condivisione del dolore, nella preghiera, lui, l’unico che ci può portare aiuto.
Su questa base nascono i grandi salmi di fiducia. Una fiducia in Dio senza Cristo è vuota e priva di certezza, anzi non è altro che una nuova forma di fiducia in se stessi. Ma chi sa che in Gesù Cristo Dio stesso partecipa alla nostra sofferenza, può dire con grande fiducia: «Tu sei con me, la tua verga e il tuo bastone mi rassicurano» (Sal 23, 37, 63, 73, 91, 121).

La colpa
Più raramente di quanto non ci si aspetti ricorre nel salterio la preghiera per la remissione dei peccati. La maggior parte dei salmi presuppone la completa certezza della remissione dei peccati. Ciò può sorprenderci, ma anche nel Nuovo Testamento le cose non stanno in modo diverso. Si impoverisce e si compromette la preghiera cristiana, riportandola esclusivamente all’invocazione che i peccati siano rimessi. Per amore di Gesù Cristo è possibile lasciarsi alle spalle con fiducia il peccato.
Tuttavia nel salterio non manca in assoluto la preghiera di penitenza. I cosiddetti sette salmi penitenziali (6,32,38,51, 102, 130, 143), ma non solo essi (Sal 14, 15,25,31,39,40,41 ecc.), ci danno tutta la profondità della confessione di peccato davanti a Dio, ci aiutano a confessare la nostra colpa, indirizzano tutta la nostra fiducia alla grazia della remissione divina, e giustamente Lutero li ha chiamati i «salmi paolini». Per lo più si hanno circostanze specifiche che inducono a tale preghiera, o una grave colpa (Sal 32, 51), o una sofferenza inattesa, che spinge alla penitenza (Sal 38, 102). Comunque si ripone tutta la speranza nella libera remissione che Dio ci ha offerto e promesso nella sua Parola incarnata in Gesù Cristo, per l’eternità.
Pregare questi salmi non offrirà difficoltà di nessun tipo al cristiano. Ma potrebbe sorgere la domanda sulla possibilità che anche Cristo possa pregare con noi secondo lo spirito di questi salmi. Come può chiedere remissione un innocente? In nessun altro modo, se non come l’innocente che porta i peccati di tutto il mondo e che è stato reso peccato per noi (2 Cor 5,21). Gesù prega per la remissione del peccato, non a causa di un suo peccato, ma a causa del nostro peccato di cui egli si è fatto carico, per il quale soffre. Egli si mette senza riserve dalla nostra parte, vuol essere un uomo come noi al cospetto di Dio. E quindi egli prega con noi anche la più umana delle preghiere, mostrandosi proprio in questo vero Figlio di Dio.
Per un cristiano evangelico risulta spesso particolarmente sorprendente e sconcertante il fatto che nel salterio si parli non solo della colpa, ma in uguale misura anche dell’innocenza dell’uomo religioso (cfr. Sal 5, 7, 9, 16, 17,26,35,41,44,59,66,68,69,73, 86 ecc.). Qui sembra emergere un resto della cosiddetta giustificazione per mezzo delle opere, che si attribuisce all’Antico Testamento, e che si ritiene non abbia più niente a che fare con i cristiani. Ma una considerazione del genere resta del tutto alla superficie, ed ignora tutto della profondità della Parola di Dio. È certo che si possa parlare della propria innocenza con l’intento di autogiustificarsi, ma forse non sappiamo che anche la più umile confessione del peccato può essere mossa dallo stesso intento? Si può esser lontani da Dio sia nel parlare della propria colpa che della propria innocenza.
Ma la questione non è di conoscere i possibili motivi che stanno dietro ad una preghiera, bensì se il suo contenuto sia giusto o no. E qui è chiaro che il cristiano veramente credente non deve parlare solo della sua colpa, ma ha qualcosa di altrettanto importante da dire circa la sua innocenza e giustizia. Rientra nella fede di un cristiano il riconoscimento di esser divenuto, per la grazia di Dio e per il merito di Gesù Cristo, integralmente giusto e innocente agli occhi di Dio, per cui «non c’è più nulla da condannare in coloro che sono in Gesù Cristo» (Rm 8,1). E nella preghiera del cristiano rientra anche la partecipazione a questa innocenza e giustizia, a cui deve attenersi, richiamandosi alla Parola di Dio e ringraziando. Per cui non solo ci è consentito, ma ci è fatto obbligo addirittura, se prendiamo sul serio l’azione di Dio in noi, di pregare con grande umiltà e sicurezza nel modo seguente: «Integro sono stato dinanzi a lui e mi sono guardato dalla mia iniquità» (Sal 18,24), «Tu hai visitato il mio cuore, niente di male hai trovato» (Sal 17 ,3 )21. Con tali preghiere ci troviamo nel cuore del Nuovo Testamento, nella comunione con la croce di Gesù Cristo.
Particolarmente forte è l’affermazione di innocenza nei salmi che trattano dell’ oppressione ad opera di nemici senza Dio. Qui prevale la preoccupazione per il diritto della causa di Dio, che naturalmente dà ragione a chi la sostiene. Se siamo perseguitati per la causa di Dio, egli ci dà ragione nei confronti del suo nemico. Accanto all’innocenza oggettiva, che certo non può mai restare solo tale, visto che la causa della grazia di Dio ci riguarda sempre anche personalmente, ci può essere in alcuni di questi salmi anche una confessione di colpa soggettiva (Sal 41,5; 69,6), a sua volta solo un segno del fatto che realmente solo la causa di Dio mi sta a cuore. Posso addirittura chiedere nello stesso momento: «Giudicami, o Dio, difendi la mia causa da gente senza pietà» (Sal 43,1).
È senz’ altro contrario alla Bibbia e fuorviante l’idea che non sia possibile la sofferenza innocente, cioè finché siamo immuni da colpa. Non è questo il modo di vedere né dell’Antico, né del Nuovo Testamento. Se siamo perseguitati per la causa di Dio, soffriamo innocentemente, il che significa appunto che soffriamo con Dio stesso; la nostra reale vicinanza a Dio e quindi la nostra innocenza risulterà proprio dal fatto che chiediamo la remissione dei peccati.
Ma non siamo innocenti solo al cospetto dei nemici di Dio, bensì anche davanti a Dio stesso; infatti ora egli ci vede legati alla sua causa, in cui egli stesso ci ha coinvolto, e ci rimette i nostri peccati. Così tutti i salmi che proclamano l’innocenza confluiscono nel canto: «Il sangue e la giustizia di Cristo sono il mio ornamento e la mia veste d’onore; così mi presenterò a Dio quando andrò in cielo».


I nemici
Nessuna parte del salterio ci procura oggi imbarazzo maggiore di quella costituita dai cosiddetti salmi di vendetta. È spaventosa la frequenza di questi pensieri in tutto il salterio (5,7,9, 10, 13, 16, 21, 23, 28, 31, 35, 36, 40, 41, 44, 52, 54, 55, 58, 59, 68, 69, 70, 71, 137 ecc.). Qui si direbbe che siano condannati al fallimento tutti i tentativi di far nostre queste preghiere, e veramente pare che ci si trovi di fronte a un grado inferiore di religiosità, come esso viene chiamato, rispetto al Nuovo Testamento. Cristo in croce ha pregato per i suoi nemici e ci ha insegnato a fare altrettanto. Come possiamo ancora con i salmi invocare vendetta sui nemici? Dunque il problema è se i salmi di vendetta possano essere intesi come Parola di Dio per noi e come preghiera di Gesù Cristo. Possiamo da cristiani pregare questi salmi? Si noti ancora che non si tratta dei possibili motivi, per noi insondabili, ma del contenuto della preghiera.
I nemici di cui qui si parla sono nemici della causa di Dio, che ci assalgono per questo motivo. Non si tratta dunque mai di una contesa personale. Mai colui che prega nei salmi vuole eseguire la vendetta con le sue mani, ma l’affida a Dio solo (cfr. Rm 12,19). Quindi deve liberarsi da qualsiasi idea di vendetta personale, da qualsiasi brama di vendicarsi, altrimenti la vendetta non sarebbe veramente rimessa a Dio. Ma solo chi è personalmente innocente nei confronti del nemico può affidare a Dio la vendetta. La preghiera per la vendetta di Dio è la preghiera per la piena applicazione della sua giustizia nel giudicare i peccati. Questo giudizio deve compiersi, se Dio è fedele alla sua Parola, e deve applicarsi a chiunque; io stesso con il mio peccato devo sottostarvi. Non ho alcun diritto a impedirlo. Deve compiersi per volontà di Dio, ed è stato compiuto, sia pure non per la via più consueta.
La vendetta di Dio non ha infatti colpito i peccatori, ma l’unico innocente, che ha preso il posto dei peccatori, il Figlio di Dio. Gesù Cristo ha portato il peso della vendetta di Dio, di cui il salmo chiede l’esecuzione. Egli ha placato l’ira di Dio per il peccato e così ha pregato nell’ ora del giudizio divino: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Solo lui poteva pregare così, in quanto ha preso su di sé l’ira di Dio. Qui si è posto fine ad ogni idea sbagliata dell’ amore di Dio, come se esso non prendesse sul serio il peccato. Dio odia e giudica i suoi nemici nell’unico giusto, e questi chiede remissione per i nemici di Dio. Solo nella croce di Gesù Cristo è possibile trovare l’amore di Dio.
Così il salmo di vendetta ci porta alla croce di Gesù e all’amore di Dio che perdona ai nemici. Non posso con le mie forze perdonare il nemico di Dio, può farlo solo il Cristo crocifisso, e io lo posso attraverso di lui. In tal modo l’esecuzione della vendetta si trasforma in grazia per tutti gli uomini in Gesù Cristo.
Certamente è cosa molto diversa, se ci si trova a pregare il salmo nel tempo della promessa o nel tempo del compimento, ma è una differenza che vale per tutti i salmi. Prego secondo i salmi di vendetta essendo certo che questa sarà eseguita in modo miracoloso, rimetto la vendetta nelle mani di Dio e gli chiedo di applicare la sua giustizia a tutti i suoi nemici, sapendo che Dio è rimasto fedele a se stesso e si è fatto giustizia nel giudizio dell’ira pronunciato sulla croce, e che quest’ira è divenuta grazia e gioia per noi. Gesù Cristo in persona chiede l’esecuzione della vendetta di Dio sul suo corpo, e così ogni giorno mi richiama al peso e alla grazia della sua croce per me e per tutti i nemici di Dio.
Anche oggi posso credere all’ amore di Dio e perdonare ai nemici solo passando per la croce di Cristo, per l’esecuzione della vendetta di Dio. La croce di Gesù Cristo è per tutti. Chi vi si oppone, chi altera la parola della croce di Cristo, deve subire direttamente la vendetta di Dio, deve sopportare la maledizione di Dio sulla terra o nell’aldilà. E il Nuovo Testamento parla con la massima chiarezza di questa maledizione che colpisce chi odia Cristo, in questo non distinguendosi dall’Antico, parla però anche della gioia della comunità nel giorno del giudizio finale (Gal 1,8s.; 1 Co; 16,22; Ap 18; 19; 20, Il). In tal modo Gesù crocifisso ci insegna ad applicare nel giusto modo i salmi di vendetta alla preghiera.

La fine
La speranza dei cristiani è rivolta al ritorno di Gesù e alla risurrezione dei morti. Nel salterio non c’è una formulazione letterale di questa speranza. Ciò che dopo la risurrezione di Gesù si è sviluppato per la chiesa in una lunga successione di eventi di storia della salvezza, in rapporto con la fine di tutte le cose, nella prospettiva dell’ Antico Testamento risulta ancora come un tutto indivisibile. Oggetto della preghiera nei salmi è la vita in comunione con il Dio della rivelazione, la vittoria finale di Dio nel mondo e l’instaurarsi del regno messianico.
Qui in sostanza non c’è differenza dal Nuovo Testamento. In effetti i salmi invocano la comunione con Dio nella vita terrena; sanno però che essa non si realizza in terra, ma differisce molto da questo ordine di realtà, anzi addirittura si oppone ad esso (Sal 17 ,14s.; 6,3425). Per cui la vita in comunione con Dio è sempre posta al di là della morte. È vero che questa è considerata sempre l’irrevocabile, amara fine per il corpo e l’anima. È il salario del peccato, e il richiamarla è doloroso (Sal 39 e 90). Ma al di là della morte c’è Dio, che è eterno (Sal 90 e 102). Perciò non sarà la morte, ma la vita nella forza di Dio a trionfare (Sal 16,9ss.; 56,14; 49,16; 73,24; 118,15ss.). Troviamo questa vita nella risurrezione di Gesù Cristo, e l’invochiamo per il presente e per l’eternità.
I salmi della vittoria finale di Dio e del suo messia (Sal 2.96.97. 98.110.148-150) ci guidano nella lode, nel ringraziamento e nella richiesta della fine di tutte le cose, allorché tutto il mondo renderà onore a Dio, e la comunità dei redenti regnerà con Dio in eterno, mentre le potenze del maligno finiranno e Dio solo avrà potere.
Abbiamo intrapreso questo breve percorso del salterio, nella speranza di imparare a pregare meglio alcuni salmi. Non sarebbe difficile riportare al Padre nostro tutti i salmi citati. Ci sarebbe ben poco da mutare nella successione dei paragrafi che abbiamo seguito. Ma l’unica cosa importante è il ricominciare di nuovo con fedeltà e amore a pregare i salmi, in nome del nostro Signore Gesù Cristo.
«Il nostro diletto Signore, che ci ha dato e ci ha insegnato a pregare secondo il salterio e il Padre nostro, ci dia anche lo spirito della preghiera e della grazia, cosicché sentiamo il gusto della preghiera, ci manteniamo in essa rigorosamente fedeli e perseveranti; infatti è per noi una necessità, e Dio ce l’ha comandato e questo si attende da noi. A lui sia lode, onore e grazie. Amen» (Lutero).

DIETRICH BONHOEFFER