lunedì 29 aprile 2013

Basilio a Gregorio (Epistola 2)


In questa lettera Basilio spiega a Gregorio (di Nazianzo) come si propone di vivere ad Annisa, dopo aver scelto la vita monastica per suggerimento di Eustazio di Sebaste e della sorella Macrina. 


Lo scopo della solitudine e della vita ritirata

1. Ho riconosciuto la tua lettera come si  riconoscono i figli degli amici  per i tratti di somiglianza  manifesta che hanno  con i loro genitori. Mi dici che non ha alcuna importanza  per te la bellezza del luogo per risolverti a venire a vivere insieme a me. Piuttosto, invece di aver notizie sul luogo, preferiresti sapere in che modo dovrà scorrere la nostra vita. Il tuo intento è giusto e conforme alla grandezza del tuo animo. Infatti tu non dai più importanza alle cose della terra ma ti interessi alla beatitudine riposta nei cieli che ci è stata promessa. Da parte mia sono molto esitante a riferirti ciò che faccio qui, giorno e notte, in questo luogo fuori del mondo. Ho lasciato gli usi della città, occasioni di una miriade di mali, ma non sono stato in grado di abbandonare me stesso. Sono simile a quei passeggeri che soffrono di nausea e di mal di mare, a motivo della loro scarsa esperienza di navigazione. Non riescono a sopportare la mole della nave quando viene scossa da una forte tempesta. Tuttavia, dopo essersi trasferiti  in una barca più piccola o in un battello, soffro comunque lo sballottamento e il malessere: persistono ancora nausea e mal di stomaco. Questa è la mia situazione. Le passioni, che abbiamo portato con noi, anche in questo luogo ci causano  turbamenti e la solitudine non ci ha offerto alcun vero rimedio. Tuttavia dovevo fare questo passo e da questo luogo cominciamo a seguire da vicino le orme del Signore che ci guida alla salvezza. Sono quelle che ci suggerisce: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24). 
2. Bisogna cercare di tenere la mente tranquilla. L'occhio che si volge di continuo da ogni parte, che ora scruta di traverso, ora in alto e ora in basso, non può osservare bene qualcosa ma, al contrario, dovrà soffermarsi su qualche oggetto, se vorrà farsene un'idea precisa. Allo stesso modo la mente dell'uomo, se viene distratta da una miriade di preoccupazioni mondane, non potrà mai contemplare la verità in modo efficace. L'uomo che non si è ancora lasciato stringere dai vincoli delle nozze, viene turbato dagli assalti dell'istinto, da impulsi che non è possibile dominare facilmente e da passioni che lo rovinano. Chi ha accattato di sottostare alla relazione con un coniuge, soffre un altro genere di turbamenti: se è senza figli, desidera averne; se ne ha, si preoccupa dello loro educazione; deve custodire la sposa, badare alla casa, dirigere la servitù, dovrà affrontare le sventure che capitano, le contese con i vicini, i procedimenti giudiziari, i pericoli degli affari, le fatiche dell'agricoltura. Ogni giorno porta con sé una nuova preoccupazione. Di notte, colpita dai problemi della giornata, la mente è agitata dai impressioni e da ricordi. Per liberarsi da tutti questi affanni, è necessario separarsi dal mondo. La vera separazione, però, non consiste nell'allontanamento fisico ma nello sradicare dall'anima tutti gli attaccamenti che le derivano dal trovarsi unita al corpo. Bisogna vivere senza una città, senza una casa, senza possessi, senza legami, senza dipendenze, senza possedimenti, senza curarsi dei beni necessari alla vita; bisogna essere liberi dagli affari, privi di legami, chiusi ai suggerimenti offerti da altri uomini. Al contrario bisogna essere pronti a ricevere nel cuore gli insegnamenti che ci vengono incisi da Dio. La disponibilità del cuore consiste nel dimenticare di tutte le convinzioni accolte in precedenza in seguito alle cattive abitudini. Non è possibile infatti scrivere sopra una tavoletta di cera, se prima non vengono raschiati i segni tracciati in precedenza. Allo stesso modo non è possibile introdurre nell'anima gli insegnamenti divini, se non si sono tolte le convinzioni immesse in precedenza a cause dell'abitudine. La solitudine diventa per noi un aiuto enorme per conseguire tale obiettivo, perché assopisce le nostre passioni ed offre un'occasione alla ragione di eliminarle del tutto dall'anima. Le belve, se vengono trattate bene, facilmente vengono sottomesse, così le brame, l'ira, la paura, i dolori, gli stimoli malvagi dell'anima, ammorbiditi dalla solitudine, non più acutizzati da un continuo eccitamento, vengono dominati con facilità dalla forza della ragione. Un luogo assegnato a questo scopo, come è il nostro, dovrà essere libero dal contatto con gli uomini, affinché nessuna relazione estranea venga ad attenuare la continuità dell'esercizio ascetico. La pratica della vita religiosa nutre l'anima con pensieri divini. Che cosa c'è di più attraente dell'imitare sulla terra il comportamento degli angeli? Subito, non appena comincia il giorno, è opportuno darsi alla preghiera, venerare il Creatore con canti ed inni; poi, quando il sole comincia a risplendere, intraprendere il lavoro, accompagnandolo sempre dalla preghiera e condire le attività con il sale degli inni. Il frequente inneggiare infonde nell'anima un sentimento di gioia e di benessere. La tranquillità rende possibile la purificazione dell'anima, poiché impedisce di chiacchierare di cose umane, proibisce di guardare ai colori e alle forme attraenti, non permette che il vigore dell'anima venga attenuato dall'ascolto di canti  creati per il piacere e non consente di ascoltare le facezie delle persone che vogliono far ridere ed è questo prima di tutto a dissolvere il vigore dello spirito. La mente che non si dissipa per il contatto con l'esterno, che non si espande sul mondo con i sensi, ritorna a se stessa e per mezzo di se stessa sale al pensiero di Dio. Illuminata da quella bellezza, dimentica la sua natura, non è distratta dalla preoccupazione del cibo, né abbassa l'anima interessandola a cose passeggere; libera dalle preoccupazioni terrene, si interessa soltanto di acquisire i beni eterni: come ottenere la castità e il coraggio, la giustizia e la prudenza e le altre virtù che suddivise in queste forme, in modo conveniente ognuna di esse diventano una sollecitazione per l'uomo retto a conseguirle nella sua vita. 


La meditazione della Bibbia

3. Il metodo migliore in assoluto per scoprire in che modo dobbiamo vivere è apprendere le Scritture ispirate, esercitandoci in esse. Qui troviamo i modelli del nostro agire; osservando le vite degli uomini santi, immagini viventi del comportamento secondo il volere di Dio, riportate in questi scritti, veniamo spinti ad imitare le buone opere. Chi si sentirà debole in qualche settore, rivolgendo proprio là la sua attenzione, come se si sottoponesse ad una cura in un ospedale, troverà la medicina adatta alla sua malattia. Chi vuole diventare casto, leggerà a lungo la storia di Giuseppe e da lui imparerà a comportarsi con temperanza; scoprirà non soltanto come dominarsi nei piaceri ma anche come restare costante nella ricerca della virtù. Apprenderà da Giobbe il coraggio. Questi si sottopose alle contrarietà della vita; quando da ricco divenne povero, quando in breve tempo perse tutti i suoi meravigliosi figli, rimase uguale a se stesso, guardò di non farsi abbattere dal dolore. Quando gli amici che l'avevano visitato per consolarlo, lo insultavano e acuivano il suo dolore, non si adirò con loro. Intento soltanto a comportarsi con mitezza e con grandezza d'animo, respinse con durezza il peccato ma trattò i peccatori con benevolenza. Troverai l'esempio di Davide che si comportò con generosità  anche nelle operazioni militari, rimanendo mite e libero dal risentimento perfino quando doveva opporsi ai suoi nemici. Anche Mosè si mostrò un uomo come questi perché, mentre avrebbe dovuto prendere severi provvedimenti contro gli uomini che avevano peccato contro Dio, rimanendo tranquillo, si mostrò disposto a prendere su di sé le pene. Come i pittori quando devono dipingere un'immagine  ispirandosi ad un'altra immagine, guardando di continuo il modello, cercano di trasferire nel loro lavoro la perfezione di quello, così allo stesso modo gli uomini che desiderano ottenere la perfezione componendo i tratti delle virtù, devono osservare le vite dei santi, come se fossero delle immagini viventi e attuali e trasferire in se stessi, con l'imitazione, le proposte di vita retta che appaiono in loro. 


La preghiera dopo la lettura

4. Dopo aver letto, bisogna pregare. Le preghiere rinvigoriscono l'anima e la rendono più forte poiché alimentato in essa il desiderio di Dio. La preghiera pura imprime nell'anima la conoscenza di Dio. Fa abitare Dio dentro di noi e, per mezzo del ricordo di Dio, rende possibile che Dio continui ad essere presente nell'intimo. In questo modo diventiamo templi di Dio. Quando, spento il ricordo persistente degli interessi terreni, non viene più scosso nell'intimo da passioni improvvise, allora, per essersi separato da tutto, l'amico di Dio sperimenta la comunione con Lui nella solitudine. Allora respinge le passioni che lo spingono alla corruzione e continua a coltivare le attività che lo conducono alla virtù. 


La collactio (scambio fraterno)

5. In primo luogo deve servirsi del dialogo per non restare privo d'istruzione, interrogando senza arroganza e rispondere senza far mostra di sé. Non deve interrompere chi sta esponendo il suo pensiero, mentre sta dicendo qualcosa di utile, cominciando a parlare per ostentazione. Bisogna parlare ed ascoltare in modo conveniente; imparare senza fastidio e insegnare con generosità, e se attingiamo qualche pensiero da un altro, non dobbiamo nasconderlo, come fanno le donne poco oneste che fanno passare come naturali i figli illegittimi, ma rivelare con nobiltà d'animo l'autore del pensiero che citiamo. E' opportuno parlare con voce dimessa, evitando che il tono di voce troppo basso renda impossibile l'ascolto né, al contrario, che un tono troppo alto provochi fastidio. Prima bisognerà esaminare dentro di sé ciò che si vuole comunicare e solo in seguito si potrà esporlo in pubblico. Dobbiamo essere affabili con i nostri interlocutori e dolci nel parlare; pur usando uno stile di benevolenza mediante un'esortazione pacata, evitiamo di usare facezie per renderci simpatici. Non dobbiamo mai essere aspri, neppure nei rimproveri. Se useremo un contegno umile, allora la nostra cura sarà accolta volentieri da chi ne ha bisogno. Spesso sarà utile imitare il modo con cui il profeta [Natan] impartì il suo ammonimento. Egli, quando Davide peccò, non decise da solo la modalità della punizione ma, utilizzando l'indignazione del suo interlocutore, lo fece diventare giudice del suo peccato. Questi, dopo aver espresso da sé la sentenza, non poté più adirarsi contro chi lo aveva rimproverato. 


Gregorio di Nazianzo (Rubliev)
Le norme del comportamento

6. Chi vuole vive da povero con umiltà, deve avere un aspetto dimesso e tenere lo sguardo a terra come se fosse preso da tristezza. Non terrà la chioma ben curata né avrà un abito pulito perché coloro che per libera scelta hanno deciso di vivere in penitenza, devono diventare una testimonianza palese per gli altri. La tunica sarà stretta al corpo con una cintura, ma non dovrà essere essere posta al di sopra dei fianchi, al modo delle donne né dovrà essere allentata in modo da sfuggire. Sarebbe un vestirsi troppo rilassato. L'incedere non sarà troppo fiacco per non rivelare luna certa rilassatezza ma neppure veemente e ardito come se fosse il passo di una persona insensata. Il vestito sia composto di un materiale tale da poter coprire il corpo in modo adeguato sia d'estate che d'inverno, senza dover ricorrere ad un altro. Non abbia un colore vistoso né sia composto da altri elementi di raffinatezza o di mollezza. Vestire in modo sgargiante è una preoccupazione tipica della moda femminile; oltretutto le donne cercano di colorare le guance o i capelli con tinte forti. Le calzature non devono costare troppo, purché siano tali da servire allo scopo. Infine, per dire tutto in una parola, bisogna nello scegliere un vestito badare all'utilità. Allo stesso modo, anche per quanto riguarda l'alimentazione, un pane dovrà bastare al bisogno di cibo e l'acqua basterà a dissetare una persona in buona salute e tutte le verdure che crescono da un seme saranno sufficienti a garantire la robustezza del fisico, fornendo l'aiuto indispensabile. Nel nutrirci non dobbiamo mostrare una fame da lupi, ma, conservando un atteggiamento modesto e mite, essere padroni dello stimolo del piacere. Non siamo svogliati nel ricordo di Dio ma piuttosto attenti a ringraziarlo per la qualità dei cibi e per l'energia nutritiva che possiedono per sostentare il nostro corpo. Infatti il Signore che tutto provvede ha pensato ad una grande varietà di cibi perché soddisfino i vari bisogni del nostro fisico. Prima di mangiare rivolgeremo a Dio delle preghiere che siano degne dei suoi doni, per quelli che ci offre al presente e che ci elargirà nel futuro. Le preghiere dopo il pasto dovranno essere un ringraziamento per i doni ricevuti e una richiesta per ottenere in futuro ciò che ci è stato promesso. Si stabilisca un'unica ora per i pasti, che sia fissa nel volgersi del tempo. Delle venti quattro ore di cui sono composte il giorno e la notte, soltanto una sola  sia destinata per l'alimentazione del corpo; l'asceta trascorrerà le altre ore per infondere energia allo spirito. Il sonno sia leggero e non diventi un'impresa risvegliarsi: questo accadrà spontaneamente se il pasto non sarà stato pesante. Dovrà essere interrotto facilmente quando ci occuperemo di attività più importanti. Se ci lasceremo andare ad un sopore profondo, con le membra  abbandonate ad esso, diventeremo preda di incubi irrazionali così da rendere i dormienti delle persone che ogni giorno sono già mezze morte. Se gli altri uomini si svegliano all'alba, i cultori della vita religiosa si alzeranno a mezzanotte, poiché la pace della notte offre all'anima un tempo prezioso. Il buio impedisce agli occhi o agli orecchi di ricevere impressioni negative. La mente vivrà soltanto per Dio, proverà dolore al ricordo dei peccati, stabilirà da sé i provvedimenti per vincere i vizi e chiederà a Dio di essere aiutato a portare a termine l'impegno per raggiungere la perfezione. 

tr. Bonato Vincenzo

venerdì 12 aprile 2013

Pulcheria (Gregorio di Nissa)


Quando muore una bambina....

Omelia funebre per la morte di Pulcheria tenuta da Gregorio di Nissa 

Il nemico delle nostre anime, mediante un inganno, introdusse il male, che non ha di per sé alcuna consistenza. A motivo di ciò, affinché il male, infuso dentro di noi non potesse durare per sempre,  con un atto provvidenziale ancora più significativo, il vaso per un certo tempo viene consegnato alla morte, affinché nella nuova creazione, il male scompaia dalla nostra umanità e la vita ritornata com'era nella sua origine sia del tutto libera dal male. La risurrezione è un rifacimento della nostra umanità secondo il suo modello originario. Non è possibile che la nostra umanità venga plasmata di nuovo, ottenendo il meglio, senza che vi sia la risurrezione. Se la morte non ci sorprende, non è possibile neppure la risurrezione. La morte allora è un evento positivo poiché diventa il principio e il cammino in vista di un cambiamento per il meglio. Fratelli, abbandoniamo allora il lutto per i defunti, adatto soltanto per gli uomini che sono privi di speranza. La nostra speranza invece è il Cristo, al quale sia gloria, potenza, onore e adorazione nei secoli. Amen. 


Un vero terremoto interiore in aggiunta ad un altro sisma

La scomparsa di una persona cara provoca un profondo sconvolgimento
nelle persone, sopratutto se a morire una figlia giovane.
Gregorio paragona la morte di Pulcheria ad un sisma che
ha colpito i genitori (Teodosio e Flacilla, imperatori a
Costantinopoli)
Non so come sviluppare il discorso. Vedo che dovrei trattare due argomenti che sono dolorosi l'uno e l'altro, e se li affronto entrambi, c'è il rischio che mi metta a piangere. L'ultimo accadimento, nel volgere del tempo, come è stato annunciato proprio ieri dal nostro pastore, ci assorbe totalmente. Una sventura è accaduto alla città vicina a noi poiché é stata colpita dal terremoto. Come potrei ricordare questi fatti senza piangere? Tuttavia [Costantinopoli] la città grande ed illustre, che domina  su tutte le regioni della terra, la città splendida, ha dovuto sopportare a sua una volta un vero sisma. Ha perduto un ornamento non trascurabile: una stella che brillava in essa e che aveva contribuito a rallegrare ancora di più la famiglia reale, è scomparsa all'improvviso e questo fatto la rende solidale al lutto dei sovrani.  Queste notizie, voi tutti che formate quest'assemblea, già le conoscete e avete verificato come ha reagito la città in cui ci troviamo e il dolore che l'ha avvolta. Non so a quale dei due fatti sconvolgenti devo volgere l'attenzione, se richiamare quello più recente o quello avvenuto in precedenza. è opportuno soffermarsi sul dolore più acuto e attenuare con un discorso appropriato il dolore che ha colpito proprio questa città cercando di alleviarlo. Se non tutte le persone che sono rimaste colpite dal fatto doloroso sono ora presenti a quest'assemblea, il mio discorso verrà comunicato agli assenti dai fedeli che sono qui presenti. I medici più valenti, del resto, si sforzano di applicare le loro conoscenze curando il dolore più intenso e solo in seguito prestano la loro attenzione al male più leggero. Così affermano gli esperti: se un corpo viene colpito da due malattie, soltanto quella più grave si fa avvertire; il malanno più serio rende il dolore così acuto che il malato non bada alla sofferenza più lieve. Nella circostanza attuale, anch'io mi comporto così. Il dolore più recente che ci ha colpiti  è molto più intenso delle altre sofferenze che ricordiamo. Come potremmo non addoloraci di quanto è accaduto? Chi potrebbe restare indifferente? Chi potrebbe essere così duro da rimanere insensibile all'avvenimento? Sapete che questa giovane, allevata come una colomba nel nido della reggia, non aveva ancora visto crescere le ali per spiccare il nobile volo ma aveva tuttavia delle qualità superiori alla sua età, ci è stata tolta e ha abbandonato il nido. Si è sottratta al nostro sguardo, non appena l'invidia ha deciso di strapparcela. L'ho denominata una colomba ma avrei potuto definirla un fiore appena dischiuso, che non ha ancora mostrato del tutto la corolla. Mostrando qualcosa della sua bellezza aveva suscitato tanta attesa e sebbene avesse rivelato soltanto una piccola parte di sé, già risplendeva nella sua pochezza. All'improvviso è stato strappato via; prima di aprirsi in tutto il suo splendore, quando il fiore non aveva ancora sparso il suo profumo, si è inaridito, si è polverizzato. Nessuno può coglierlo né comporre con essa una corona. La natura ha operato invano. L'invidia colpendo di traverso come una spada ha troncato quel bene nel quale speravamo e ha fatto cadere ogni nostra aspettativa. Quanto è accaduto è un vero sisma, fratelli! Un terremoto non è una sventura più lieve delle altre. Non ha deturpato la bellezza di un edificio materiale, non ha distrutto pitture ragguardevoli né ha gettato a terra dei palazzi in pietra, belli a vedersi, ma uno scuotimento, verificatosi all'improvviso, ha demolito una costruzione vivente che risplendeva per la sua bellezza e era raggiante al suo apparire. 
Avevo visto anch'io il nobile germoglio, la palma elevata (sto riferendomi alla potenza del sovrano). Con le sue virtù sovrane, come se fossero dei rami, copre tutta la terra e accoglie in sé ogni cosa. Ho visto che, mentre emergeva su tutti, soccombeva alla natura e s'inclinava alla caduta del fiore. Ho visto quella nobile vite che si appoggia alla palma, che aveva partorito per noi questo fiore, [allusione alla regina Flacilla madre di Pulcheria] quale dolore, una seconda volta, abbia dovuto affrontare nel suo animo più che nel suo corpo quando le venne strappato il suo germoglio! Chi è stato colpito dalla sventura rimanendo indifferente? Chi non si è lamentato quando ha dovuto subire nella vita una disgrazia? Chi non ha versato lacrime nel dolore? Chi non ha unito la propria voce al lamento universale?

Racconto delle esequie

Sono stato spettatore di un fatto certo che però suscita diffidenza a chi riceve la notizia su questo evento insolito. Ho visto una marea umana, per la moltitudine delle persone riunite, e come un torrente che si diffondeva da ogni parte sotto il mio sguardo; pieno il tempio, pieni gli atri del tempio, piena la piazza antistante, i quartieri, i bivi, le strade trasversali, gli spazi sui tetti; ogni spazio possibile era occupato, come se tutto il mondo si fosse radunato qui, spinto dal dolore. Una visione offerta a tutti era quel santo fiore portato sopra una lettiga dorata. Tutti osservano con sguardo mesto. Molti piangevano e congiungevano le loro mani in preghiera; quanti gemiti si udivano a testimoniare un dolore profondo che saliva dal cuore. Mi sembrò in quel momento (forse a nessun altro dei presenti), che l'oro non risplendesse come il suo solito, nonostante i riflessi delle pietre, gli abiti trapunti d'oro, i riflessi d'argento e la luce del fuoco; un fuoco copioso e vivo derivante dal fatto che molti, secondo il costume, portavano, in qualsiasi punto e direzione, candele di cera. Tutto anneriva conformandosi al lutto e tutto partecipava al cordoglio comune. Allora il grande Davide cantò i suoi inni unendoli ai lamenti e trasformò le sue composizioni gioiose in canti di mestizia e di dolore, e modulò i canti in lamentazioni. Per tutto il tempo del rito funebre, ogni piacere si spense e soltanto le lacrime offrivano sollievo agli astanti.


Necessità di evangelizzare anche il lutto più atroce

Poiché la mente è oppressa dal dolore in modo intenso, per questo è opportuno in questo momento rafforzare, per quanto è possibile, con utili considerazioni, l'anima prostrata. Corriamo un grave rischio se trascuriamo in questa circostanza l'insegnamento dell'Apostolo che critica gli uomini chiusi alla speranza. Afferma infatti, come abbiamo ascoltato poco fa dal lettore,  che non dobbiamo affliggerci riguardo a coloro che si sono addormentati (cf 1 Ts 4,12). Soltanto gli uomini che non hanno alcuna speranza devono addolorarsi. Mi obietterà qualcuno, troppo debole: «Il divino apostolo ci chiede cose impossibili e ci ordina degli atteggiamenti che superano le nostre possibilità umane. Come è possibile ad una persona che vive in questa vita superare il dolore e non essere dominata dal lutto quando osserva un fatto come questo a cui stiamo assistendo? Quando la morte non giunge nell'età della vecchiaia ma mentre[ una persona si trova ancora] in età giovanile la sua bellezza viene spenta dalla morte; l'intensità dello sguardo viene nascosto dalle palpebre chiuse e il rossore delle guance si tramuta in pallore mortale, la bocca viene chiusa dal silenzio e il fiore delle labbra abbellisce. [Sopportare tutto questo] è difficile non soltanto ai genitori, ma anche a chiunque è spettatore di un simile  lutto». Che cosa posso dire in risposta? Non vi espongo un mio pensiero, fratelli,  ma vi presento la parola del Vangelo che ci è stata proclamata. Avete sentito il Signore dire: «Lasciate che i bambini vengano a me e non proibitelo a loro perché il regno di Dio appartiene a costoro» (Mt 19,14). Se a te è stata tolta la bambina, questa è andata in tutta fretta presso il Signore. Ha chiuso gli occhi alla tua vista, ma li ha aperti alla luce eterna; si è allontanata dalla tua tavola, ma si è aggiunta a quella degli angeli; la pianticella è stata sradicata da questa terra  ma è stata trapiantata nel paradiso; è passato da un regno ad un altro regno; si è svestita dell'ornamento di porpora, ma ha indossato la veste del regno celeste. Ti ricorderò di che cosa è fatto l'indumento divino: non è di lino, non è di lana né intessuto di fili di seta. Ascolta Davide quando attesta di quale abito è stato rivestito da Dio: «Mi hai vestito della confessione e della lode», rivestendosi di luce come di un manto (Sal 103,1). Vi siete resi conto della qualità del cambiamento? Ti dispiace di non poter più ammirare la bellezza del suo corpo, ma non riesci ad immaginare la vera bellezza, quella della sua anima che ora sta esultando unita ai cori celesti. Fortunati gli occhi che contemplano Dio! Quanto è dolce la bocca che esulta nel celebrare il Signore: «Dalla bocca di bambini e lattanti hai tratto la tua lode» (SAl 8,3). Quanto sono belle le mani che non hanno operato alcun male! Fortunati i piedi che non possono più camminare nel male né lasciare un'orma sulla strada dei peccatori! Quanto è bello l'aspetto dell'anima: non è adornata di pietre preziose ma risplende per la semplicità e l'innocenza!


Miseria della vita umana

Ti addolori perché non ha raggiunto la vecchiaia? Dimmi: che ci trovi di bello nella vecchiaia? Ti pare bello che la vista si offuschi, che il viso si copra di rughe, che i denti si stacchino dalla bocca, che la lingua si intoppi nel parlare, che le mani tremino, che la schiena s'incurvi a terra, che i piedi avanzino strascicando? Ti sembra bello dover farsi condurre da altri, perdersi nella mente e balbettare e sperimentare tutti gli altri disagi che capitano di necessità?  Sapendo questo, ci adiriamo perché ci è stato impedito di far esperienza di questi mali? Non conviene piuttosto congratularsi con coloro la cui vita non ha provato questi disagi, non hanno sofferto le cose tristi qui questo mondo né hanno conosciuto questi affanni? L'anima di questa [bambina], essendo del tutto senza colpa, non teme la Genna, non viene sottoposta a giudizio; vive senza paura in totale tranquillità poiché, non essendo consapevole di alcun male commesso, evita il timore del giudizio. Sarebbe stato meglio, mi obietti, che almeno avesse conosciuto la giovinezza e avesse potuto godere del talamo nuziale. Il vero Sposo tuttavia ti replica che il è molto migliore il letto celeste, molto più preferibile è il matrimonio che non teme la vedovanza. Dimmi, quali vantaggi ha perduto ora che si è svestita della nostra esistenza di carne? Ti elencherò i vantaggi della vita: dolori e piaceri, fastidi e paure, speranze e attese. Ecco a che cosa andiamo incontro in questa nostra esistenza attuale. Quale svantaggio ha subito nell'essersi sottratta a questa tirannia? Ogni passione, quando diventa veemente, tiranneggia il nostro intimo dopo aver soggiogato la nostra ragione. Ci dispiace che non sia più appesantita dai dolori, che non sia più preoccupata per educare i figli, che non si possa più sottoporre a quelle tribolazioni sopportate dai suoi genitori per lei? Queste cose dovrebbero suscitare delle congratulazioni piuttosto che dei rimpianti. Non sperimentare alcun male è il meglio che possa capitare ad un uomo. Del resto il saggio Salomone, nella sua opera, considera il morto più fortunato del superstite. Anche il grande Davide dichiara che il permanere nella carne suscita lamento e gemito. Sebbene entrambi i nostri splendidi sovrani, abbiano la possibilità per il loro grado di godere dei piaceri della vita, non si sono orientati al godimento dei beni presenti, ma, nutrendo il desiderio dei beni ineffabili che superano la vita terrena, ritengono una sventura la vita nella carne. Di frequente Davide, come lo sentiamo dire nei componimenti sacri dei salmi, desiderando uscire da questa vita che ci opprime attesta in un passo: «Brama e langue di desiderio la mia anima per gli atri del Signore» (Sal 83,2) ; e in altro passo chiede: «Libera dal carcere la mia anima» (Sal 141,8). Ugualmente Geremia considera degno di essere maledetto quel giorno che diede inizio alla sua vita. Nella divina Scrittura spesso sono riportate espressioni simili pronunciate dai santi antichi, i quali, nel desiderio della vita vera, sopportavano la permanenza in questa carne.


L'esempio di Abramo

Così il grande Abramo volentieri offrì in sacrificio a Dio il figlio amato, sapendo che il ragazzo sarebbe passato ad un'esistenza migliore e più simile a quella divina. Chi di voi conosce la storia biblica, conoscete bene ciò che vi è raccontato a suo riguardo. Che cosa afferma la Scrittura? Quando Abramo era ancora giovane ricevette da Dio la promessa che avrebbe avuto un figlio. Intanto il suo vigore diminuiva e se ne andava a causa dell'avanzare degli anni. Ora, proprio quando il corpo era diventato incapace della riproduzione, perché la vecchiaia non riceveva più lo stimolo della passione, allora la promessa si realizzò, contraddicendo tutte le attese umane. Generò il figlio Isacco. Intanto trascorse altro tempo. Quando questi crebbe come un germoglio in bellezza e in statura, e i genitori erano felici di ammirare la sua giovinezza che brillava in tutta la sua bellezza, allora Abramo venne messo ad una prova difficile, se era capace di riconoscere con saggezza quale fosse la bellezza tra le realtà del mondo o se limitava il suo sguardo alla vita presente. Dio gli disse: «Offri il tuo figlio in sacrificio, come olocausto» (). Tutti voi che siete padri e avete dei figli, e che avete appreso in modo naturale a nutrire un grande affetto per i figli, capirete quale potesse essere il sentimento di Abramo  se avesse guardato soltanto a questa vita, se fosse stato asservito alla nauta, se avesse pensato che soltanto nel corso di questa esistenza è possibile cogliere la dolcezza della vita. Perché parlo soltanto di lui, mettendo da parte la sua donna che rappresenta la parte più debole dell'umanità? Se  quella non avesse appreso dal marito le cose celesti, se non avesse pensato che la vita invisibile era migliore di quella che si vede, avrebbe permesso al marito di compiere quel gesto contro il figlio? Sconvolta nel suo sentimento materno,  avrebbe stretto a sé il figlio, lo avrebbe accolto nelle sue braccia prima che ricevesse il colpo mortale. Posso immaginare che avrebbe parlato così ad Abramo: «Risparmia il figlio, o uomo! Non diventare argomento di pessimi racconti; stiamo per divenire un caso paradossale per il futuro,  non togliere la vita a tuo figlio, non privarlo del dolce raggio del sole; i padri preparano ai figli il talamo, non la tomba; offrono la corona di nozze, non una spada mortifera; la lampada nuziale, non il fuoco per la sepoltura. Sono i briganti e i nemici non le mani dei padri a fare questo ai figli. Se questo male è proprio necessario, l'occhio di Sara non veda il figlio Isacco morire. Se la spada deve colpire entrambi, madre e figlio, comincia pure da me. Basta un colpo per uccidere l'uno e l'altra. Avremo entrambi un'unica sepoltura, un'unica iscrizione ricorderà con orrore la comune sventura». 
Se non avesse innalzato lo sguardo a quei beni che rimangono per noi invisibili, Sara avrebbe pronunciato queste parole. Sapeva infatti che la fine della vita nella carne diventa principio di una vita più divina per coloro che compiono questo passaggio. Abbandonano le ombre e ricevono la verità; lasciano tutte le apparenze e gli sconvolgimenti e trovano quei beni che sono superiori all'occhio, all'orecchio e al cuore. Il desiderio non li tormenta né la brama di cose turpi li travia; non si gonfiano per la vanagloria e nessuna passione di cose tristi appesantisce la loro anima. Dio diventa il tutto per loro. Per questo offre a Dio il fanciullo volentieri.


L'esempio di Giobbe

Che cosa dire del grande Giobbe? Quando a lui che era già stato spogliato, all'improvviso, di tutti i beni che aveva, prima che la sua anima si rendesse conto dei colpi ricevuti, gli venne annunziata il dolore più grave, come accolse la notizia della morte dei figli? Aveva tre figlie ed sette figli; era felice di avere avuto questi figli. Pur essendo così numerosi, tutti erano come uno solo grazie all'amore reciproco. Non erano divisi tra loro per il fatto che ognuno voleva vivere da solo, ma tutti si frequentavano tra loro, e continuavano a rallegrare gli altri e a ricevere gioia dagli altri, come in un circolo d'amore. Allora, seguendo questo avvicendamento, il banchetto dei fratelli era stato fissato presso il maggiore. Colmi gli otri, colma la tavola di vivande, i bicchieri in mano: un bello spettacolo e in aggiunta c'erano brindisi, omaggi, scherzi, risate e tutte le altre cose che rallegrano la tavola di un incontro tra giovani. Che cosa accadde allora? Quando il godimento dei momenti più felici era al colmo, crolla il tetto su di loro, e il banchetto diventa una tomba per i dieci figli. Il vino si mescola con il sangue di quei giovani e le vivande si sporcano con il sangue dei cadaveri. Giobbe ricevette la notizia della disgrazia. Seguimi nel mio discorso e guarda a quell'atleta, non soltanto per ammirare il vincitore, sebbene anche questo non sarebbe un guadagno trascurabile,  ma per imitare da vicino quell'uomo. Diventi il tuo allenatore. Il suo esempio di sopportazione e di coraggio unga la tua anima nel giorno della tribolazione. 
Che fece quell'uomo? Fece qualcosa di male come fanno gli uomini meschini, oppure disse parole o fece gesti di protesta? Graffiò con le unghie le guance, si strappò i capelli dal capo, si cosparse di polvere, si colpì con le mani il petto, si rotolò a terra, emise lamenti o chiamò i trapassati, unendo pianti al loro ricordo? Non agì affatto in questo modo. L'annunciatore del male raccontò subito la sventura che era capitata ai giovani.  Non appena l'udì, subito ragionò sulla natura degli esseri, pensando da dove provengono i viventi, da parte di chi giungono all'essere e quale sia colui che domina tutta la realtà. «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto» Gli uomini derivano da Dio e si dissolvono in Lui; presso la sorgente da cui provengono, là concludono la loro esistenza. Dio è Colui che può dare e lui può togliere. Essendo buono, vuole soltanto il bene, essendo saggio, procura ciò che giova. Quanto al Signore è piaciuto fare (a Lui piace tutto ciò che è bene), così ha anche fatto. Sia benedetto il nome del Signore(Gb 1,21 ss). Osserva la vastità della sua grandezza d'animo: trasformò un fatto tragico in ricerca di saggezza sul senso della vita. Sapeva con acutezza che la vita degli esseri dipende dalla speranza e che la vita presente è come un seme della futura. I beni sperati sono molto diversi da quelli attuali, quanto una spiga è del tutto differente dal chicco da cui germina. La vita presente è come un chicco; la vita attesa mostra tutto il suo vigore nella spiga. «Bisogna infatti che ciò che è corruttibile si rivesta d'incorruttibilità, e ciò che è mortale si rivesta di immortalità» (1 Cor 15,55). Guardando a questo traguardo, Giobbe gode insieme con i figli di questo esito felice, non appena si sarebbero liberati dai vincoli della vita. Ne era un segno anticipatore il fatto che avesse ricevuto, al posto dei beni che aveva perduto, il doppio di quanto Dio aveva promesso. Mentre di tutti i beni riceveva come ricompensa un doppio risarcimento, soltanto non ottenne un raddoppiamento dei figli, ma dieci soltanto gli vennero dati al posto dei dieci che gli erano stati sottratti. Poiché infatti le anime degli uomini vivono per sempre, a motivo di questo, ricevette come ricompensa il doppio di quelli che aveva perduto. Infatti l'aggiunta dei dieci deve essere sommata a quelli che aveva generato in precedenza, poiché tutti erano ancora viventi per Dio e coloro che avevano perduto questa esistenza passeggera, continuavano ad essere in vita.


La resurrezione, unica vera speranza

La morte degli uomini è soltanto una purificazione per i loro peccati. La nostra umanità, al principio, era stata creata dal Dio di tutti come un vaso adatto ad accogliere il bene. Il nemico delle nostre anime, mediante un inganno, introdusse il male, che non ha di per sé alcuna consistenza. A motivo di ciò, affinché il male, infuso dentro di noi non potesse durare per sempre,  con un atto provvidenziale ancora più significativo, il vaso per un certo tempo viene consegnato alla morte, affinché nella nuova creazione, il male scompaia dalla nostra umanità e la vita ritornata com'era nella sua origine sia del tutto libera dal male. La risurrezione è un rifacimento della nostra umanità secondo il suo modello originario. Non è possibile che la nostra umanità venga plasmata di nuovo, ottenendo il meglio, senza che vi sia la risurrezione. Se la morte non ci sorprende, non è possibile neppure la risurrezione. La morte allora è un evento positivo poiché diventa il principio e il cammino in vista di un cambiamento per il meglio. Fratelli, abbandoniamo allora il lutto per i defunti, adatto soltanto per gli uomini che sono privi di speranza. La nostra speranza invece è il Cristo, al quale sia gloria, potenza, onore e adorazione nei secoli. Amen

martedì 9 aprile 2013

La pesca di giovanni cap. 21


Dopo questi fatti. Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. 'Dice loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dicono: «Veniamo anche noi con tè». Uscirono e salirono sulla barca e in quella notte non presero nulla. Quando già era l'alba Gesù stette in piedi sulla riva, ma i discepoli non sapevano che era Gesù.

Il passo ci fornisce la testimonianza di im'ulteriore manifestazione di Gesù, tipicamente post-pasquale. Egli infatti si rende nuovamente presente ai discepoli, i cui nomi sono elencati questa volta puntualmente, uno ad uno: Pietro, Tommaso, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo Giovanni e Giacomo, e altri due discepoli. Per tale motivo, alla domanda se questo possa essere davvero considerato il resoconto di un'apparizione, è possibile rispondere senz'altro affermativamente.
Il racconto possiede dei risvolti amari, a causa del clamoroso insuccesso dei discepoli nella pesca; tuttavia presenta anche dei lati affascinanti, quali l'ambientazione in cui si svolge la vicenda.
L'espressione «stette in piedi» rappresenta l'effettiva posizione assunta da Gesù in quell'occasione, ma soprattutto, com'è già stato rilevato più volte nel capitolo precedente, simboleggia chiaramente la risurrezione. Sul piano letterale i discepoli non riconoscono Gesù a causa della distanza che li separa da lui, mentre a livello simbolico il riconoscere o meno il Signore allude all'oscillazione dell'esperienza di fede. Nello specifico. Gesù viene poi identificato in quanto tale, ma allo stesso tempo i discepoli si chiedono se la persona comparsa improvvisamente, pur essendo presente ed evidente, sia proprio lui. È questa dunque la conoscenza tipica che caratterizza la comunità cristiana dopo la Pasqua, in una prospettiva delineata prettamente dall'esperienza di fede.

'Gesù quindi dice loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». 'Allora disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non potevano più tirarla su per la quantità dei pesci.

Il «no» secco e perentorio dei discepoli alla domanda del Signore risulta molto efficace anche dal punto di vista letterario, perché manifesta chiaramente tutto il disappunto e l'amara delusione per una notte di lavoro assai faticosa, ma purtroppo priva di frutti. Gesù non si risente affatto di fronte alla risposta negativa piuttosto brusca e fornisce ai discepoli un'indicazione pratica per risolvere immediatamente il loro problema.
Possiamo considerare questo episodio espressamente come un fatto miracoloso? Mendel Nun, un pescatore ebreo divenuto poi autorevole intellettuale, specialista in tutti gli aspetti riguardanti il Lago di Tiberiade, dopo aver effettuato un'analisi precisa e accurata, ha fatto una considerazione interessante in merito al punto esatto in cui attualmente è situata la chiesa del «Primato di Pietro». Va detto che possiamo contare su una tradizione archeologica assai radicata e attendibile, costituita da alcuni gradini, già indicati dalla pellegrina Egeria tra la fine del III sec. e gli inizi del IV, i quali attestano che il fatto sia realmente avvenuto in quel luogo preciso. Ora, egli sostiene che in un certo periodo dell'anno, come in aprile, proprio chi si trova sulla riva riesce a scorgere in controluce i branchi di pesci in movimento, mentre dalla barca non è affatto possibile vederli. Questo ci suggerisce che possa trattarsi di un fatto reale e concreto, e non necessariamente di un miracolo, per cui definire l'episo-dio «pesca miracolosa» è evidentemente improprio.
Considerando invece il testo dal punto di vista simbolico, emergono ulteriori elementi interessanti, tra i quali il fatto che i discepoli ormai siano divenuti «pescatori di uomini» (cf. Me 1,17; Mt 4,19). Anche se in Giovanni non compare esplicitamente questa espressione, Gesù glielo aveva in ogni caso fatto intendere e tutto ciò era certamente noto alla tradizione giovannea. Nell'ambito del periodo successivo alla Pasqua, l'intensa attività di pesca non può essere più paragonata a quella svolta in precedenza, ma diventa simbolo della nuova attività specifica. I discepoli, in quanto «pescatori di uomini», sono chiamati a occuparsi di tutti: è ormai questo l'oggetto principale della loro cura e fatica. Essi devono comunicare all'umanità intera l'inestimabile novità di Cristo.
Questo è il mandato fondamentale della Chiesa post-pasquale. È una Chiesa che già possiede, perlomeno intuitivamente, la preziosissima ricchezza del Risorto che non deve essere gelosamente custodita per sé, ma esige di essere comunicata a tutti; in questo senso, alcuni in particolare - i «pescatori di uomini» - dovranno impegnarsi e prodigarsi
a tal fine. Un simile impegno è estremamente faticoso e la notte di lavoro dei discepoli che apparentemente non produce risultato ne è l'emblema. Lo sforzo e l'impegno della Chiesa nell'atti vita di pesca dedicata agli uomini non è quantizzabile: il lavoro non viene espresso nel risultato, sebbene questo in seguito non tarderà a manifestarsi. Il Gesù che non si vede è comunque sempre presente ed è lui stesso a determinare i tempi e le modalità di concretizzazione, nonché la fruttuosità del lavoro dei pescatori. È dunque evidente che l'impegno apostolico non segue le leggi aziendali o di mercato, dove conta esclusivamente il ricavo economico. Il lavoro degli apostoli può sì apparire a fondo perduto, ma ha una sua sorprendente fecondità nei momenti opportunamente stabiliti da Dio, per cui sfugge alle usuali leggi umane del controllo del profitto.
Questo genere di impegno consiste nel persistere a lavorare con coraggio e fiducia anche nella notte più fosca, pur senza l'immediato conforto della vista del Signore, il quale rimane comunque accanto a noi per sostenerci nelle difficoltà e concederci le forze necessarie al fecondo compimento del servizio pastorale. Se i discepoli si fossero lasciati vincere dallo sconforto e avessero interrotto il loro lavoro ai primi deludenti tentativi, il racconto non avrebbe acquisito una simile pienezza ed essi non avrebbero incontrato il Signore con la fruttuosità scoperta poi ali'alba. Ecco perché, in questo modo, ci viene indirettamente comunicato un messaggio che riguarda l'attività tipica della Chiesa post-pasquale.
Dopo aver riferito l'episodio della pesca, il Vangelo propone una scena aggiuntiva nella quale si verifica il riconoscimento della presenza di Gesù. Egli era con loro fin dal principio, ma nessuno l'aveva percepito e riconosciuto come tale, sebbene lui avesse indicato il luogo preciso in cui pescare. Infine viene descritto rincontro tra Gesù e i discepoli, durante il quale viene conferito il primato a Pietro.
Quindi quel discepolo che Gesù amava dice a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che è il Signore, si cinse ai fianchi il camiciotto, poiché era spogliato, e si gettò in mare.
Il riconoscimento della presenza del Signore è compiuto dal discepolo che accetta in pieno l'amore di Gesù. Possiamo quindi affermare che è proprio la logica dell'amore a favorire tale riconoscimento. Innanzitutto si ama, e solo in seguito si potrà conoscere: questo è l'evidente messaggio suggeriteci dal testo. Ciò vuoi dire che anche la presenza di Gesù nell'attività successiva alla Pasqua verrà rilevata in proporzione all'amore che lega i discepoli a lui. Pertanto, per riconoscere davvero il Signore è indispensabile diventare simili al discepolo che Gesù ama.
Anche il gesto di Pietro di correre immediatamente incontro al Signore assume una valenza fondamentale. Esaminando il testo da un punto di vista letterale, il brano sembra qui riportare un semplice atto di riguardo e deferenza nei confronti di Gesù: Pietro, che per pescare più comodamente si era levato gli abiti, ritiene sconveniente presentarsi svestito di fronte a lui; per questa ragione si premura di coprirsi. Se consideriamo il testo da un punto di vista simbolico, invece, intuiamo che l'esigenza di rivestirsi di Pietro deriva dal fatto che la sua condizione di nudità non è solo fisica, ma è soprattutto morale. Pietro desidera fortemente incontrare il Signore, ma si sente inadeguato e spoglio.
Per riconoscere davvero Gesù e incontrarlo pienamente è necessario rivestirsi di un amore autentico, accresciuto e rinnovato, un amore puro e sincero come quello del discepolo prediletto. In tal senso, si può ravvisare di nuovo il legame particolarmente stretto tra Pietro e il discepolo che Gesù ama: costui infatti non rivela a tutti l'identità del Signore, ma si limita a confidarla al solo Pietro, poiché in lui è urgente e sincero il desiderio di porsi in sintonia con l'amore che il discepolo amato già possiede. Quest'ultimo infatti accetta in pieno l'amore di Gesù e Pietro, volendo andare incontro al Signore, si veste non solo materialmente, ma anche metaforicamente, ovvero si ricopre dello stesso amore messo in atto. Egli dunque va incontro al Signore, attivando il suo amore: ecco il motivo per cui Gesù gli chiederà se lo ama più degli altri.

Gli  altri discepoli vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: infatti non erano lontani da terra se non un centinaio di metri. 'Quando dunque scesero a terra, videro un fuoco di brace posto là e del pesce sopra e del pane. '"Disse loro Gesù: «Portate un po' del pesce che avete preso or ora». "Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si spezzò.

In questo passo il testo descrive una sorta di colazione che Gesù ha preparato per i discepoli. Limitandosi a un'interpretazione letterale del testo, sembra doversi escludere il riferimento all'Eucaristia, perché qui, accostato al pane, compare il pesce e non il vino; inoltre il pane e il pesce erano anche i cibi caratteristici delle «moltiplicazioni». In chiave simbolica invece, nello stesso modo in cui la moltiplicazione dei pani rimanda all'Eucaristia, così in questo caso avviene con il pane e il pesce. Naturalmente non possono venire propriamente equiparati all'Eucaristia; tuttavia è evidente l'esplicito richiamo ad essa, per cui può essere legittimo concludere che Gesù si rende effettivamente presente in un contesto eucaristico e, quindi, di celebrazione domenicale.
A prima vista i particolari fomiti da Giovanni sul numero esatto di pesci - centocinquantatre - e sul dettaglio della mancata rottura della rete da pesca appaiono marginali; tuttavia è importante ricordare che in Giovanni nulla è mai casuale. Per questa ragione le indicazioni minuziose forniteci dall'evangelista vanno, come sempre, interpretate. Ciò significa che, in questo caso, i pesci pescati rappresentano tutti gli uomini raggiunti dall'azione apostolica dei pescatori che sono chiamati ad annunciare e rendere presente Cristo. Essi incarnano allora la Chiesa, composta da coloro che accettano pienamente il Signore. È suggestivo sottolineare il fatto che il numero centocinquantatre in ebraico passa sotto il nome di Qehai Adonai, cioè «chiesa di Dio», per cui è un criptogramma chiaramente evocativo. Tale prospettiva simbolica è certamente più vicina a quella di Apocalisse piuttosto che a quella più immediata del Quarto Vangelo; resta il fatto che il valore di questo particolare numero indica davvero, con tutta probabilità, gli uomini che compongono la Chiesa di Dio. In tal senso, la rete è simbolo della Chiesa stessa, la quale potrà contenere tutti coloro che entreranno a farvi parte e non cederà nonostante il loro numero.
In conclusione, il messaggio che queste pagine intendono comunicarci consiste proprio nel rassicurare noi tutti sul fatto che ali'interno della Chiesa non saremo mai considerati troppi, ma anzi, verremo comunque accolti e benvoluti.
"Gesù disse loro: «Venite, fate colazione». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», sapendo che è il Signore. "Gesù viene e prende il pane e lo da loro, e così pure il pesce. "Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti.
Dopo il faticoso lavoro notturno, i discepoli, comprensibilmente stanchi e affamati, accettano molto volentieri l'invito di Gesù. Va notato che i discepoli, seppur fortemente tentati dal porre domande a Gesù, non osano farlo. Se questa apparizione fosse simile a quelle di cui abbiamo già parlato, non riscontreremmo tale perplessità nei discepoli, poiché essi non avrebbero alcun dubbio in merito ali'identità di Gesù. Nelle prime due apparizioni non vi è alcuna esitazione nel riconoscerlo in quanto tale; in questa particolare circostanza invece ciò non avviene: ecco perché i discepoli sentono insinuarsi in loro stessi un simile quesito che, tuttavia, rimane inespresso.
Del resto, non è altro che l'esperienza di fede della Chiesa post-pasquale, nella quale il Signore si vede, ma allo stesso tempo non è riconoscibile in modo così immediato. Una situazione analoga si verifica pure al giorno d'oggi: talvolta anche noi, attraversando periodi di crisi della nostra fede, o vivendo momenti particolarmente bui e tormentati, siamo tentati di chiedere al Signore se ci sia davvero, ma non osiamo farlo, perché in fondo sappiamo che lui c'è ed è davvero presente accanto a noi in ogni singolo istante. Il desiderio di porgli tale domanda è un chiaro segnale che rimanda
in modo suggestivo all'episodio del cammino sulle acque (cf. Gv 6,16-21) e che è tipico della fede post-pasquale.
Dal testo si evince che Gesù si fa vicino in continuazione e serve i discepoli personalmente. L'insistenza su questo punto induce senz'altro a pensare al servizio eucaristico;
pertanto il dono del pane e del pesce diviene, nello specifico, simbolo del corpo e del sangue di Gesù offerti a noi.
Va evidenziato poi come qui ci troviamo ormai di fronte alla prospettiva di una Chiesa che realizza compiutamente la propria identità, diventando essa stessa quei centocinquanta-tre grossi pesci che simboleggiano il popolo di Dio. La Chiesa si dilata al massimo grado, e una simile apertura non altera affatto la sua identità di fondo, in quanto la rete, nonostante F abbondanza di pesci, non si spezza e rimane integra.
In tal senso, emergono alcuni aspetti alquanto significativi, sui quali è opportuno soffermarsi con attenzione. Innanzitutto notiamo il particolare accostamento di due figure di grande rilievo: quella di Pietro e quella del discepolo che Gesù ama. Tale binomio ha inizio in questo punto e prosegue per l'intero capitolo. Potremmo definirlo come una specie di bipolarità tipica del racconto, che connoterà considerevolmente anche il messaggio veicolato dal testo. Osserviamo inoltre che nel momento in cui le reti si riempiono, il discepolo amato riconosce Gesù, eppure non accenna a muoversi, al contrario di Pietro che si riveste immediatamente per andare incontro al Signore.
Come già precisato in precedenza. Fatto di rivestirsi di Pietro a prima vista può essere considerato semplicemente come un gesto di deferenza, ma ad un livello più alto assume un valore di fondamentale importanza, ovvero sta a indicare che per incontrare personalmente il Signore è essenziale assumere un certo atteggiamento. A questo proposito è opportuno richiamare alla memoria la veste nuziale necessaria per partecipare al banchetto di nozze e menzionata da Matteo (cf. 22,11-14). L'Apocalisse poi ci fornisce diverse indicazioni utili. Nella lettera indirizzata alla Chiesa di Laodicea, Gesù rivolge a essa un rimprovero assai deciso: «Ti consiglio di comprare da me delle vesti bianche per coprire la tua nudità» (ef. 3,18). Nell'Apocalisse le vesti bianche sono il simbolo evidente della partecipazione alla vitalità di Cristo risorto e indicano una specifica qualità della persona che gli altri avranno modo di riconoscere solo in seguito. Gesù, dunque, dice alla Chiesa di acquisire da lui la partecipazione alla novità di Cristo risorto, poiché ne ha urgente bisogno. Essa non può presentarsi agli altri priva di questa vitalità, altrimenti rischierebbe di suscitare imbarazzo, al pari di una persona che cammina per strada senza vestiti oppure di Pietro che lavorava nudo. Per presentarsi degnamente al cospetto di Gesù, la Chiesa di Laodicea ha bisogno di accettare pienamente i doni del Cristo morto e risorto, la sua comunicazione di vita e di risurrezione, e proprio questa acccttazione totale le insegnerà ad amare in senso pieno e autentico. Nella comunità le vesti bianche verranno abbinate ali'oro infuocato, simbolo dell'amore che insegnerà ad amare in maniera profonda e senza riserve. L'episodio di Pietro viene dunque a collocarsi sulla medesima lunghezza d'onda. Il testo è evocativo, ma revocazione ha una ragion d'essere assai radicata, in quanto Pietro per incontrare davvero con tutto se stesso Gesù ha assolutamente bisogno di rivestirsi di ciò che lui comunica con la sua risurrezione, ovvero di attivare pienamente il suo amore. Allora è proprio perché riesce a realizzare tutto ciò che egli si riveste e va subito incontro a Gesù.
C'è un'ulteriore considerazione importante su cui riflettere: quando il discepolo prediletto riconosce Gesù, Pietro non esita a raggiungerlo. Questo indica che è di gran lunga più importante il Signore, rispetto al lavoro che la Chiesa post-pasquale sta svolgendo. Pietro abbandona immediatamente il suo lavoro, e di conseguenza anche la rete piena di pesci, per correre incontro al Signore. Solo in seguito all'invito a mangiare e a portare qualcosa, Pietro completerà il lavoro che ormai gli era addirittura passato di mente a motivo del Signore. Questo particolare costituisce un forte monito alla Chiesa, la quale non può scordare che Cristo è più importante persino dell'opera apostolica e che ha la priorità assoluta su qualunque genere di attività concreta. Il punto di partenza rimane senz'altro il rapporto personale con lui, ed è necessario insistere soprattutto su questa reciprocità piena e sulla totale condivisione della sua vitalità di risorto; tutto il resto poi non tarderà a venire.
Abbiamo già sottolineato il fatto che i discepoli avvertono la forte necessità di domandare a Gesù chi sia veramente, ma si trattengono dal farlo, poiché nell'intimo sanno bene che è il Signore. Una simile considerazione di primo acchito può sembrare priva di fondamento: non vedevano forse coi propri occhi che avevano di fronte il Signore? Dal punto di vista fisico, non aveva affatto cambiato la propria fisionomia. Com'è stato già rilevato, la perplessità che fa sorgere spontanea la domanda sulla sua identità può essere giustificata, a un livello di lettura più approfondito, con l'esperienza della Chiesa post-pasquale che non vede direttamente il Signore, però sa che c'è. Noi stessi potremmo essere protagonisti dì una situazione analoga: in alcuni momenti della nostra vita, infatti, può accadere di provare l'impulso di rivolgergli una simile domanda, tuttavia non dobbiamo cedere ad esso, poiché la nostra scelta di fede di per sé è già una forte garanzia della sua effettiva presenza accanto a noi.

Ugo Vanni, da «Il tesoro di Giovanni», Cittadella editrice, 2010, 240-249

lunedì 8 aprile 2013

Melezio d'Antiochia e Gregorio di Nissa


In ricordo di Melezio, il santo patriarca di Antiochia. Presiedette il Concilio di Constantinopoli (381)
Discorso pronunciato da Gregorio di Nissa

San Melezio d'Antiochia
Originario di Melitene nella Piccola Armenia, Melezio fu eletto vescovo di Sebaste nel 358, in seguito si ritirò ad Aleppo, ma nel 360 fu scelto come patriarca di Antiochia, chiesa che in quel tempo era profondamente ariana. Forse si pensò che le sue posizioni cristologiche fossero concilianti o che il suo carattere debole avrebbe permesso alla fazione ariana di raggirarlo. Di fatto si rivelò, sin dall'anno della sua elezione, un partigiano del Credo niceno, questo fu chiaro quando tenne una predica alla presenza dell'imperatore Costanzo II che non lasciava dubbi a proposito. L'imperatore lo fece destituire immediatamente e lo fece sostituire da Euzosio.
Con l'imperatore Giuliano tutte le misure di esilio e di destituzione, decretate dal predecessore, furono annullate e Melezio ritornò nel 361 alla sua sede vescovile di Antiochia. Qui la chiesa locale profondamente ariana gli fu molto ostile. Con l'ascesa al potere del nuovo imperatore Valente dovette di nuovo subire un esilio dal 365 al 367. Nel 380 fu nominato da Teodosio I presidente dei dibattiti del concilio di Costantinopoli, ma morì prima della fine dei lavori il 23 o 24 agosto del 381.
Ai funerali fu San Gregorio di Nissa a tenerne l'omelia funebre. Per ordine dell'imperatore il corpo fu traslato nella sua sede vescovile ad Antiochia, qualche anno più tardi fu il suo discepolo San Giovanni Crisostomo che gli fece il Panegirico.



Antiochia, la seconda comunità cristiana dopo Gerusalemme,
ora si chiama Antakia e fa parte della Turchia

Melezio, il nuovo apostolo, colui che è stato reso partecipe del coro degli apostoli, ha aumentato per noi il numero degli apostoli. I santi hanno accolto presso di loro quest'uomo pari a loro; cinti di corona, hanno accolto quest'uomo cinto d'una corona; i lottatori [hanno accolto] l'uomo casto; i puri di cuore, l'uomo puro; i ministri della parola, l'annunciatore del messaggio divino. Beato davvero il nostro Padre divenuto compagno di tenda degli apostoli e beato colui che si è dissolto in Cristo. Noi, invece, siamo dei miseri! Come possiamo rallegrarci della buona sorte del nostro Padre, mentre soffriamo per la sua mancanza? Per lui è bello trovarsi con Cristo, grazie al dissolvimento in lui, mentre per noi è difficile vivere privi del sostegno del Padre. Ecco, questo sarebbe il tempo di prendere decisioni, ma la nostra guida ormai tace. Siamo circondanti dal nemico, ci troviamo in guerra con gli eretici, ma il comandante è assente. La malattia affatica il corpo della Chiesa, e il medico è assente. Guardate in quali difficoltà ci troviamo! Avrei voluto, se fosse stato possibile, rafforzarmi nella debolezza, conformarmi alla gravità della sventura, e formulare un discorso capace di esprimere [la vastità] del nostro dolore; come hanno fatto questi vescovi che hanno pianto la morte del loro Padre in una maniera veramente consona all'evento. Ma che cosa posso fare? In che modo potrò costringere la mia lingua a parlare, ostacolata com'è dall'acutezza del dolore come da un ceppo? Come potrò aprir bocca, impedito come sono di parlare? Come alzerò una voce smorzata dalla sofferenza e dai lamenti? Come potrò sollevare gli occhi dell'anima mentre mi sento avvolto dalla tenebra di questa disgrazia?  Mi sono inoltrato in una nube di dolore, densa e oscura; chi potrà mostrarmi di nuovo la luce splendida della pace in un cielo sereno? Se il sole è scomparso, come potrà inviarci il suo raggio? Veramente è un'oscurità spaventosa quella che non può sperare di rivedere la luce! In questo luogo tutto ci è diventato contrario ed ora perfino i discorsi sono gravosi. Fino a poco tempo fa eravamo nella gioia come quando si canta in una festa nuziale mentre ora , come miseri, ci sentiamo oppressi dalla tristezza. Allora intonavamo un canto nuziale e adesso un canto funebre. Ricordate quando vi avevo invitato ad un matrimonio spirituale per introdurre la vergine nella casa dello sposo, così bello? Allora avevo parlato con grande ardore offrendo come doni nuziali le nostre stesse parole; mentre infondevo gioia, ero rallegrato a mia volta da voi. Ora la gioia si è tramutata in lamento, il sacco ha sostituito l'abito di letizia. Il dolore ci costringe al silenzio, a rinchiudere la sofferenza nella taciturnità, per non irritare gli invitati a nozze. Non possiamo indossare un gioioso vestito da nozze ma dobbiamo presentarci piuttosto in un abito oscuro, adatto per un lutto. Lo sposo buono ci è stato sottratto e noi siamo precipitati nel dolore. Non pronuncio, come il solito, discorsi affascinanti, visto che l'invidia ci ha lasciati privi della veste che costituiva il nostro vanto. Siamo venuti incontro a voi colmi di beni, ma ci allontaniamo nudi e poveri. Risplendeva sul nostro capo una lampada accesa, molto luminosa, ora ci accompagna spenta e il suo splendore è finito in fumo e cenere. Avevamo un grande tesoro in un vaso di creta. Ora il tesoro è scomparso e il vaso di creta, privo di ogni ricchezza, è riconsegnato integro a quelli che ce l'avevano dato. Che diremo, noi che ce l'abbiamo fatto sfuggire? Che cosa risponderemo a chi ce ne domanda ragione? Un grave naufragio é avvenuto! Come è potuto accadere mentre eravamo in porto, colmi di speranza? Come è possibile che la nave, affondando con tutto il carico, abbia lasciato nudi noi che eravamo ricchi fino a poco tempo fa? Poiché non è più tesa la vela che sempre era gonfiata [dal vento] dello Spirito Santo? Come mai è venuto meno il timone sicuro delle nostre anime, grazie al quale abbiamo attraversato con sicurezza le tempeste dell'eresia? Dove è finita l'ancora sicura della conoscenza alla quale potevamo, fiduciosi, fare affidamento riposandoci in tutta sicurezza? Come ritrovare il timoniere esperto che dirigeva la nave mirando in alto? Forse non è accaduto nulla di grave, e mi lamento inutilmente? O piuttosto non riesco a illustrare la gravità della sventura per quanto mi sforzi di esporla nel mio discorso? Versate, fratelli, versate lacrime di compassione. Quando eravate lieti, mi ero unito alla vostra gioia. Ora rendetemi questo triste compenso. "Gioite con chi gioisce": questo è ciò che io ho fatto per voi; "Piangete con chi piange": questo è ciò che mi dovete in cambio. 
Un tempo un popolo straniero pianse il patriarca Giacobbe e s'unì intimamente ad una sofferenza che era di altri. Quando i figli portarono fuori dall'Egitto il Padre, tutto il popolo pianse la loro sventura come se non fosse capitata a stranieri e prolungarono il lutto per trecento giorni e per altrettanto notti. Imitate ora questi stranieri, voi che siete suoi fratelli e gente della sua stessa stirpe! Stranieri e indigeni piansero insieme; anche al presente accomunatevi nel lutto, tanto più che la sventura ha toccato tutti. Guardate questi patriarchi: sono tutti figli del nostro Giacobbe. Tutti sono nati dalla donna libera. Nessuno è spurio o illegittimo. Non era lecito a quello introdurre nella sincerità della fede un'altra generazione servile. Orbene lo stesso vale per il nostro padre, perché il padre apparteneva al nostro Padre. 
Avete ascoltato di recente da Efraim e da Manasse le cose che vi hanno riferito sul nostro Padre e [vi siete resi conto] che le opere meravigliose da lui compiute superano le parole. Concedetemi di intervenire anch'io su questo argomento. Esprimere un elogio del resto non implica alcun rischio e non temo l'invidia. Quale male peggiore potrebbe capitarmi ancora? 
Ecco vi espongo le caratteristiche della sua persona. Era un nobile proveniente dall'oriente, uomo senza macchia, giusto, vero, pio, estraneo da qualsiasi azione malvagia. Il grande Giobbe non si rammarichi se gli attestati ricevuti da lui, li attribuisco anche al suo imitatore. Tuttavia l'invidia che scruta tutti osservò con occhio cattivo anche questa persona buona; essa si muove in ogni angolo del mondo e così è giunta anche presso di noi e ha inserito nella nostra vita tranquilla un segno vasto di dolore. Non ha disperso mandrie di buoi o greggi di pecore, almeno che non si attribuisca un senso spirituale al termine gregge, interpretandolo come prefigurazione della Chiesa. Chiaramente i danni compiuti dall'invidia non riguardano gli animali né ha colpito asini o cammelli e neppure ha provocato ferite al nostro corpo ma ci ha privato del nostro capo. Eliminata la testa,  siamo rimasti privi dell'uso degli altri organi. Non esiste più l'Occhio capace di contemplare il cielo, non c'è più l'Orecchio attento alla voce divina non c'è più la Lingua pronta ad annunciare il genuino messaggio della verità. Dove troviamo la dolce serenità dello sguardo? Dove il lieto sorriso sulle labbra? Dove l'affabile mano destra che accompagnava con i segni delle dita la benedizione pronunciata dalla bocca? Comincio, come se fossi in una scena teatrale, a gridare più forte la disgrazia accaduta: ho pietà di te, o Chiesa! Parlo a te, città di Antioco! Ti compiango per il cambiamento doloroso che hai sofferto. Come mai si è spenta la tua bellezza? Come mai è venuto meno il tuo ornamento? Come mai il tuo fiore si è inaridito all'improvviso?  Davvero l'erba si è inaridita e il fiore è caduto. Perché sei stata guardata con occhio malvagio? Quale cattiva magia ha esercitato il suo influsso contro quella Chiesa [di Antiochia]? Quale cambiamento da una situazione all'altra! Si è esaurita la sorgente, si è prosciugato il fiume. Ancora una volta l'acqua è diventata sangue. Quale triste notizia fu quella che annunciò alla Chiesa un lutto simile! Chi dirà ai figli di essere diventati orfani? Chi dirà alla sposa di essere diventata vedova? Quale sventura! Che cosa lasciarono partire e che cosa ricevettero di ritorno? Hanno lasciato partire un'arca e accolsero di ritorno un feretro. Fratelli, quell'uomo di Dio [Melezio] era un'arca! Un'arca che conteneva in sé i misteri di Dio; là c'era l'urna d'oro colma di manna divina. In quella le tavole dell'Alleanza, scritte sulle tavole del cuore non con l'inchiostro ma con lo spirito del Dio vivente. In un cuore puro non può essere impresso alcun pensiero tenebroso e maligno. In lui si trovavano le colonne, le basi, i capitelli, l'incensiere, il candelabro, il propiziatorio, le vasche di purificazione, i veli delle porte. In lui c'era il bastone del sacerdozio germogliato nelle sue mani. Tutti gli oggetti che erano presenti nell'arca, come abbiamo sentito, erano contenuti nell'anima di quell'uomo. 
In onore di queste qualità che faremo? [Si preparino] bianche lenzuola e tessuti di seta, mirra ed aromi abbondanti, [offriremo] la venerazione con i profumi delle donne e di altre gesta compiute con decoro. Ricordiamo anche i gesti con i quali quella donna onorò il sacerdote, in sua testimonianza: cosparse con abbondanza il capo del sacerdote con la mirra contenuta in un vaso d'alabastro . Ma che cosa è conservato in queste spoglie? Che cosa? Ossa di morti, prima della morte destinate alla morte, tristi memorie delle nostre sventure! Quale voce di nuovo si è fatta sentire in Rama! Rachele non piange i suoi figli ma quest'uomo e non vuole essere consolata. Ritiratevi, consolatori, ritiratevi. Non sforzatevi di portare consolazione! La vedova s'addolori amaramente. Comprenda la gravità della sventura con la quale è stata colpita. Sebbene fosse abituata a rimanere sola, allenata a soffrire la solitudine durante le lotte sostenute dall'atleta [Melezio]. Ricordate con cura i discorsi [degli altri oratori] rivolti a voi, prima di questo mio intervento, come abbiano rievocato le lotte sostenute da quest'uomo! Le affrontò per onorare la Trinità grazie alla molteplicità delle sue battaglie ha preservato il suo onore, affrontando l'assalto delle prove sopratutto in tre particolari occasioni. Avete sentito esporre la sequenze delle fatiche affrontate e come egli si comportò all'inizio, nel mezzo e al termine [del suo ministero]. Considero inutile ripetere ciò che è già stato detto molto bene. Ritengo utile, tuttavia, aggiungere questa precisazione: quando quella saggia Chiesa [di Antiochia] vide quell'uomo, vide un uomo conformato veramente all'immagine di Dio, vide una carità che sgorgava come un torrente, vide la grazia sparsa sulle labbra, vede la massima forma d'umiltà della quale non si poteva immaginarne una più profonda. Vide una mitezza pari a quella di Davide, una saggezza uguale a quella di Salomone. Vide di nuovo la bontà di Mosè, il discernimento sapiente di Samuele; la castità di Giuseppe, la sapienza di Daniele, lo zelo nella difesa della fede del grande Elia, la sublimità di Giovanni  nella custodia integra del corpo, la carità insuperabile di Paolo. Vide la somma di tutte queste virtù in una sola persona. Allora quella Chiesa venne ferita per l'amore e cominciò ad amare il suo sposo con una casta sapienza d'amore. Prima che la brama d'unione s'adempisse, prima che il desiderio si realizzasse, mentre ancora era fervente d'amore, fu lasciata sola poiché la necessità della prova convocava l'atleta alla gara. Sopportò con saggezza, custodendo integro il matrimonio. L'assenza durò a lungo, e [il trascorrere del tempo] rendeva più facile che  l'immacolata camera nuziale venisse macchiata [d'adulterio]. La sposa invece non si macchiò; vide il suo ritorno e un nuovo esilio e perfino un terzo, finché il Signore dissipò la tenebra dell'eresia, diffuse i raggi della pace,  e concesse di sperare in un riposo in seguito a quelle gravi fatiche. In seguito si rividero e si risvegliò il sentimento casto e il piacere spirituale. Tuttavia, non appena il desiderio dell'unione si accese, all'improvviso quest'ultima lontananza ha interrotto ogni godimento. Ritornò per abbellire la sua sposa ma non poté farlo. Aggiunse all'onesto matrimonio le corone della benedizione. Imitò il Signore. Ciò che Egli fece a Cana di Galilea, lo compì qui l'imitatore di Cristo. Trasformò le idrie giudaiche colmate dall'acqua dell'eresia, in idrie piene di vino genuino e con la forza della fede cambiò la loro natura. Offerse spesso a voi il calice sobrio, versando grazia abbondante con la dolcezza della sua voce; spesso vi offrì un banchetto spirituale. Egli benediceva e porgeva il cibo, mentre i suoi buoni discepoli, si mettevano a servizio delle moltitudini spiegando loro la parola. Anche noi ne abbiamo goduto, appropriandoci della gloria di altri. Vi ho parlato di fatti gioiosi e magari il mio discorso potesse concludersi in questo modo. Tuttavia dopo questa narrazione, che cosa devo aggiungere? «Piangete o lamentatrici», dice Geremia (9,17). Non è possibile spegnere un cuore infiammato dal dolore e addolorato per il lutto se non lo si allevia con gemiti e con lacrime. Un tempo  il dolore della separazione era attenuato dalla speranza del ritorno ma ora ci è stato tolto da una separazione definitiva. Tra lui e la sua Chiesa si è aperto un abisso invalicabile. Egli riposa nel seno di Abramo ma non c'è chi porti una goccia d'acqua per rinfrescare la lingua dei sofferenti. Sparì la bontà, ammutolisce la Chiesa. Le labbra rimangono chiuse e la gioia è dissolta. La felicità è un ricordo passato. L'ascesa dalla terra a Dio del profeta Elia rattristò il popolo d'Israele. Eliseo però si consolò di quella dipartita poiché si rivestì del mantello del suo maestro. Ora invece il dolore supera ogni possibilità di conforto: Elia è salito in alto ma non è rimasto alcun Eliseo. Ascoltate le dolorose e tristi parole pronunciate da Geremia, con le quali pianse la città di Gerusalemme abbandonata: "Guai a Sio in pianto" (Lam 1,4). Queste parole vengono ripetute adesso e si realizzano. Quando si diffuse l'annuncio della sua morte, le strade si riempirono di persone addolorate e le persone che erano appartenute al suo gregge, ripetevano le parole pronunciate dai Niniviti in lutto: piangevano un lutto più grave del loro. In quel caso il lamento dissolse la loro paura, ma ora non è possibile sperare che dal pianto derivi una liberazione dai mali. Ho colto un'altra espressione pronunciata da Geremia, riportata nei libri dei salmi, e che riguardava la prigionia del popolo d'Israele. Così suona: "Ai salici appendemmo le cetre" (Sal 37,2), condannando al silenzio noi stessi e i nostri strumenti musicali. Mi conformerò a questa decisione. Se vedrò rinnovarsi la confusione delle eresie (Babilonia significa confusione)e se vedrò le tentazioni scorrere da questa confusione, chiamerò con questo nome i torrenti di Babilonia e sedendo al loro fianco, piangeremo non avendo più il traghettatore ce ci consentiva di attraversarli. Se parlerai di salici e di strumenti ad essi appesi, ti chiarirò questo enigma. Infatti la nostra vita è come un salice. Il salice è un albero improduttivo. Ora il dolce frutto della vita ci è stato sottratto. Così siamo divenuti salici improduttivi e abbiamo appeso agli alberi strumenti musicali privi d'amore e sterili . "Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra" (Sal 137,2). Concedetemi la possibilità di modificare un poco questa frase, poiché non siamo stati noi a dimenticare la nostra destra ma è stata la nostra destra a dimenticarsi di noi. La lingua, incollandosi alla gola, ha impedito l'emissione della voce affinché non possiamo più ascoltare la nostra dolce voce. Asciugatemi allora le lacrime perché non voglio avvertire più di quanto sia opportuno il dolore, mostrando la sensibilità di una donna. Lo sposo non ci è stato tolto ma risiede tra noi, anche se non lo vediamo. Il Sacerdote è all'interno del santuario, oltre il velo ove è entrato il Cristo come precursore. Ha abbandonato il velo della carne. Non presta più il culto delle realtà celesti restando ancora nell'immagine e nella prefigurazione, ma contempla la realtà delle cose nel loro apparire. Non più come attraverso uno specchio né in modo velato ma intercede Dio faccia faccia. Intercede per noi e per il popolo di quelli che sono nell'errore. Depose il mantello di pelli perché coloro che sono nel paradiso non hanno bisogno di portare indumenti del genere. Sono adorni invece di quelle vesti che hanno intessuto con la purezza della loro vita. Preziosa agli occhi del Signore è la morte di costoro. Non sperimentano più la morte ma la rottura delle catene. "Hai spezzato le mie catene" (Sal 116, 17). Simeone è stato sciolto, liberato dalle catene del corpo. Il laccio si è spezzato e l'uccello è volato via. Ha lasciato l'Egitto, la vita materiale. Ha attraversato non il mare Rosso ma il mare nero e buio di questa vita. è entrato nella terra promessa, dove parla con Dio sul monte. ha sciolto il legaccio dell'anima per camminare, con pianta della mente,  sulla terra santa dove si vede Dio. Conservando questa speranza, fratelli, voi che accompagnate le spoglie di Giuseppe nella terra della benedizione, richiamate l'esortazione dell'apostolo Paolo: "Non piangete come gli altri che non hanno speranza" (1 Ts 4,2). Parlate a quel popolo, raccontate le meraviglie compiute. Rivelate il prodigio incredibile: condensato come un mare, un popolo innumerevole, tutti un solo corpo, come erano soliti, dilagavano come un flusso d'acqua in processione. Riferite come il santo Davide dopo averlo diviso in molte maniere in molti modi in varie schiere, cantava inni presso la tende in varie lingue e nella stessa lingua. Raccontate come fiumi di fuoco da ogni lato, le persone che portavano lampade, formavano un torrente continuo, finché l'occhio era in grado di scorgere. Riferite dello zelo manifestato da tutto il popolo, e che egli condivide la stessa tenda degli apostoli. Strappavano il velo che copriva il suo volto perché quale reliquia proteggesse i fedeli. Riferite inoltre come l'imperatore sconvolto dal dolore, si sia alzato dal trono e come tutta la città abbia accompagnato il santo in processione. Consolatevi a vicenda con queste notizie. Salomone offre un ottimo suggerimento come cura per il lutto. Ordina che nella sofferenza venga offerto del vino, rivolgendosi a noi, operai della vigna. Offrite allora il vostro vino agli afflitti, non quello che induce l'ebbrezza, insidia la mente e corrompe il corpo ma quello che infonde gioia al cuore. Ce lo ha indicato il profeta stesso dicendo: "Il vino rallegra il cuore dell'uomo". Servendovi del migliore vino temperato, con generosità riempite i calici di discorsi spirituali, affinché nuovamente il dolore si tramuti in gioia ed allegria, per la grazia dell'unigenito Figlio di Dio, per mezzo del quale sia resa gloria a Dio e Padre per i secoli dei secoli. Amen.  

trad vincenzo bonato non ancora rivista

lunedì 1 aprile 2013

FLACILLA (Gregorio di Nissa)


Aelia Flacilla, imperatrice,
moglie di Teodosio
La morte di santa Aelia Flacilla
Discorso commemorativo di Gregorio di Nissa

Il messaggio della risurrezione nella cultura del tardo impero





[L'imperatore Teodosio] il fedele e saggio amministratore - prendo spunto da un passo del divino Vangelo - stabilito dal Signore sopra la sua casa, per dare, nel tempo opportuno, in cibo adeguato ai suoi sottoposti, giustamente, tempo fa, aveva imposto il silenzio. Rendendosi conto della gravità del dolore aveva deciso che il lutto venisse onorato con un silenzio composto. Non capisco bene, allora, perché in seguito abbia voluto che [un rappresentante della] Chiesa tenesse un discorso [funebre] in questa riunione che si sta svolgendo ora, annullando la decisione precedente con la quale aveva vietato ogni discorso. Più volte ho provato grande ammirazione per la saggezza del nostro sovrano e lo avevo apprezzato ancora di più proprio per quella decisione presa, con la quale imponeva di restare silenziosi di fronte a tale sventura. Il silenzio infatti mi sembra una medicina naturale e opportuna per l'afflitto; il passare del tempo lenisce la ferita dell'anima e il silenzio cura l'abbattimento del cuore. Se qualcuno si mette a parlare finché l'animo è ancora  sconvolto, inasprisce la sofferenza e il ricordo dei mali patiti, rende pungenti i pensieri, come fossero delle spine. Se non oso troppo a correggere il nostro sovrano, forse sarebbe opportuno restare ancora zitti, proprio per evitare che il parlare [dei fatti tristi], acutizzando il dolore, provochi turbamento in chi ascolta. La disgrazia è troppo recente perché l'animo possa essersi [almeno un po'] calmato. Il dolore ha colpito soltanto da poco tempo e forse rimarrà sempre vivo finché durerà la vita. Il nostro cuore è ancora scosso; come un mare sconvolto dalla burrasca della sventura, è agitato in profondità. I sentimenti sono pesanti, poiché brucia il ricordo del male sofferto. Se ho l'animo turbato dal dolore, appesantito dal cumulo di sofferenza, come potrò sviluppare un discorso in modo corretto?  Tuttavia dovendo obbedire a chi mi ha chiesto di parlare, non so  quali parole usare. Non so come decifrare bene l'intenzione del sovrano. Forse sta cercando di adattarsi al suo dolore? Forse cerca solidarietà nella Chiesa, [spera] nella compassione ravvivata dalle mie parole, rivolte a persone capaci di compassione? Se sta pensando così, a mio parere, fa bene. Infatti se accettiamo volentieri il benessere offerto dalla fortuna, dobbiamo imparare ad accogliere in modo aperto anche la sventura. Lo consiglia anche l'Ecclesiaste: «C'è un tempo per ridere e un tempo per piangere» (3,4). Impariamo da questa osservazione come sia necessario rassegnarci al lutto che ci ha colpiti. Gli eventi si svolgono nella loro successione e noi dobbiamo godere nella gioia ed essere pronti a passare dal gaudio alla tristezza; conviene adattarsi passando dal benessere al pianto. Il riso rivela all'esterno il sentimento di gioia mentre il peso che opprime il cuore si manifesta nel lamento e il pianto diventa come il sangue per le ferite dell'anima. Nel libro dei Proverbi di Salomone leggiamo: «Il cuore lieto fa brillare il volto mentre l'anima che è nel lutto lo rabbuia» (Sir 7,4). Allora bisogna anche che il nostro discorso si adatti ai sentimenti del cuore.
3. Forse sarebbe stato opportuno riprendere le parole con le quali il grande Geremia pianse la sventura di Israele. Quelle espressioni, più di altre che ci vengono tramandate dall'antichità, create in tempi funesti, sarebbero le più opportune per piangere sul nostro presente. Le vicende capitate a Giobbe furono dure da sopportare. Tuttavia ci è possibile paragonare le sventure innumerevoli che hanno coinvolto una sola famiglia con il male di cui ora soffriamo? Elenchiamo pure tante sventure gravi che coinvolgono intere comunità, come terremoti, guerre, inondazioni, forti sismi ma queste sono  poco in confronto del male che ci è capitato. Perché? Chiaramente una tragedia come una guerra non coinvolge mai il mondo intero e se in un luogo si combatte, in un altro si gode della pace. Dobbiamo fare altri esempi? Un incendio provocato da un fulmine, un'esondazione, uno sprofondamento del terreno. La sofferenza che ci è capitata invece tocca chiaramente tutto il mondo. Non c'è popolo o città che non sia in lutto. Si potrebbe fare nostro l'invito rivolto da Nabucodonosor ai suoi sudditi: «Mi rivolgo a voi, popolo, tribù e lingue». Permettetemi allora di aggregarmi al messaggio dell'assiro per annunciare una disgrazia ancora più rilevante e dire come se gridassi nel corso di un dramma teatrale: Città, popoli e nazioni, intero mondo, navi che percorrete il mare e quanti vivete sulla terra, tutti voi che componete il regno sottomesso allo scettro dell'imperatore, uomini di ogni luogo, esprimete il vostro lamento, Effondete concordi un pianto comune a tutti poiché dobbiamo lamentare una disgrazia che ha danneggiato tutti.
L'imperatore Teodosio, il marito di Flacilla
Elogio di santa Flacilla

4. Siete disposti a sentire, per quanto lo possa fare, il racconto della sventura che è sopravvenuta? Nella nostra generazione la natura umana ha compiuto azioni tali da superare se stessa, ha oltrepassato le misure ordinarie. Meglio, il Signore della natura [infondendo] un'anima umana in un corpo femminile, unendo tra loro la virtù del corpo con quella dell'anima, ha manifestato una meraviglia incredibile ai nostri contemporanei e ha offerto un esempio di virtù quasi insuperabile da qualsiasi altro. Le virtù che possono abitare in un'anima sono apparse tutte in un'unica persona concreta. Affinché poi tutti potessero cogliere questa grande novità, ha innalzato [questa donna] al trono più elevato della regalità. Ad imitazione del sole, ella, dall'altezza della sua dignità, illumina tutto il mondo con i raggi delle sue virtù. Per decreto divino, l'ha unita come sposa, in comunione di vita e di regno, al reggitore di tutto il nostro mondo, per rendere più felice, realmente, ogni suddito per mezzo suo. Come dice la Scrittura, «diventò una collaboratrice per operare ogni bene». Quando si doveva beneficare qualcuno, o collaborò con il marito per conseguire questo risultato oppure lo precedette. Entrambi erano pronti in modo uguale alla solidarietà. Confermano il mio dire un insieme innumerevole di fatti del passato e altri episodi che vengono narrati attualmente da chi dichiara il vero.
5. Se richiedevi un gesto di pietà, eccoli entrambi darsi da fare per compierlo. Se richiedevi un atto d'umanità, di giustizia o qualcos'altro ambito dagli uomini virtuosi, gareggiavano entrambi per essere i primi nel compiere benefici e nessuno dei due risultava inferiore all'altro. Erano un dono l'uno per l'altro. La consorte, come premio della sua rettitudine, aveva il signore dell'impero ma egli considerava poca cosa detenere il dominio della terra e del mare rispetto alla fortuna di avere costei come moglie. Si scambiamo gesti di simpatia, l'uno guardava l'altra con affetto e veniva guardato dall'altra e viceversa. Non è possibile descrivere a parole come egli sia e quale lei sia stata. Chi potrebbe manifestare una bellezza  che  è superiore ad ogni cosa che appare? Ma forse [questa bellezza] sarebbe stata possibile osservarla nei loro discendenti. Lei non ha lasciato, riprodotto dall'arte, qualcosa che realmente le assomigli; qualsiasi ritratto o scultura è ben distante dal mostrare qual era.
6. Finora ho riferito quanto si dice e che cosa si affermerà nel seguito del discorso? Di nuovo devo riprendere a gridare [per il dolore]. Perdonatemi se eccedo nell'effondere il mio sentire! O Tracia, un nome da brivido! Terra sfortunata, abitata da un popolo che si è distinto per le sventure subite! Un tempo sei stata devastata dal fuoco nemico delle incursioni dei barbari ed ora subisci la peggiore sventura che ci poteva capitare. Presso di te il bene viene annientato perché gli invidiosi si rivoltano contro l'impero, qui da te naufraga il mondo stesso, e qui, andando a sbattere contro uno scoglio nella violenza della tempesta, sprofondiamo nell'abisso del dolore! Non è forse rovinosa quella partenza che non prevede più alcun ritorno? Acque amare: chi attinge alle vostre fonti, non possa mai dissetarsi! O regione che vide verificarsi tale disgrazia ai ricevuto il nome di luogo tenebroso proprio in seguito alla sventura! Ho saputo che nel dialetto locale viene denominata Skotumin, tenebrosa. Presso di te si è spenta la lampada, si è attenuato ogni splendore, i raggi delle virtù si sono affievoliti, l'ornamento del regno è svanito, è venuto meno il governo della giustizia e il simbolo, anzi l'archetipo della solidarietà! è scomparso il modello della fedeltà coniugale, la donazione pura della continenza, la maestà che si rendeva accessibile, la mitezza che suscitava rispetto, l'umiltà elevata, la riservatezza che non impediva la confidenza, l'equilibrio formata da un insieme di qualità! è scomparso lo zelo della fede, la colonna della Chiesa, l'ornamento degli altari, la ricchezza dei poveri, la mano destra pronta a donare, il porto di tutti i miseri. Piangano le vergini, si lamentino le vedove, s'addolorino gli orfani, riconoscano quanto hanno ricevuto da lei ora che non possono più ricevere nulla. Non è preferibile che rivolga l'invito a dolersi a più persone, di ogni tipo? Si lamenti tutta la generazione attuale ed innalzi un lamento profondo proveniente dal centro del cuore. Si addolorino i sacerdoti poiché l'invidia li ha privati del loro ornamento. Esagero se ripeto le parole del profeta quando dichiara: Ci hai abbandonato, Signore, per sempre e perché divampa la tua ira sul gregge del tuo pascolo?  (Sal 73,1) Per quali colpi riceviamo tali punizioni? Forse perché l'empietà si è diffusa in seguito alle molteplici eresie, dobbiamo subire questo giudizio di condanna? Osservate quanti mali ci hanno colpito in breve tempo. Non ci eravamo ancora riavuti dalla disgrazia precedente [ossia della morte di Pulcheria, figlia di Flacilla e di Teodosio], ancora non avevamo asciugato le lacrime, ed ecco precipitati in un altro dolore. C'eravamo addolorati per il fiore appena apparso [Pulcheria] ed ora [dobbiamo soffrire] per il taglio del ramo dal quale il fiore è spuntato [Flacilla]. Allora avevamo pianto la bellezza in fiore, ora piangiamo colei che l'aveva fatto germogliare. Allora eravamo afflitti per il venir meno di un bene nel quale avevamo sperato, ora per il bene che avevamo già sperimentato. Forse pensate, frenelli, che il dolore mi faccia dire cose insensate? La creazione stessa, come insegna l'apostolo geme insieme a noi.
moneta romana con il ritratto di Flacilla

Il ricordo delle esequie

Vi ricorderò ora gli avvenimenti [vissuti] e sono certo che approverete ciò che vi dirò. Quando l'imperatrice fu accompagnato in città [a Costantinopoli], coperta da un vero purpureo e dorato, (veniva portata in una lettiga), tutte le persone di ogni tipo ed età, affluirono in città, e così ogni piazza risultò troppo angusto per accogliere un tale moltitudine. Tutti seguivano a piedi il feretro in processione, anche coloro che appartenevamo alle classi più alte. Ricorderete come il sole nascose i suoi raggi dietro le nubi per non vedere, con la sua luce pura, la regina entrare nell'urbe in quella maniera, non portata sopra un carro, o sopra un carro dorato, come avviene ad una persona regale, accompagnata da scorta, ma nascosta in un loculo, con il volto coperto da un velo ferale. Era uno spettacolo tale da suscitare orrore e compassione, da far sgorgare il pianto alle persone che le andavano incontro. Chi tra quanti erano radunati, straniero che fosse o abitante la città, mentre entrava, l'accoglieva non con acclamazioni ma con lamenti. Anche il cielo s'oscurò in segno di lutto, facendo scendere l'oscurità come un manto funebre. Perfino le nubi, facendo quanto era loro possibile, si misero a piangere, spargendo per il dolore gocce sottili a guisa di lacrime. Sto dicendo delle vere sciocchezze, cose che non dovrei neppure menzionare? Se la natura ha agito in questo modo per segnalare la gravità del lutto, non ha lo ha fatto da sé ma per comando del Signore della creazione il quale, tramite tali eventi, intendeva onorare la morte di quella donna santa. «Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli» (Sal 115,14). Io stesso, in quella circostanza, do osservato un altro evento ancora più straordinario da riferire. Ho visto due piogge, l'una che scendeva dal cielo, l'altra formata dalle lacrime che scorrevano a terra, ma questa che scendeva dagli occhi non era inferiore all'altra che cadeva dalle nubi. Tra le miriadi delle persone presenti, non c'era occhio che non bagnasse la terra con gocce di lacrime.


Il messaggio della vita eterna e la miseria della vita terrena


Forse non sono riuscito a cogliere l'intento del sovrano, e siamo sprofondati in tristi ricordi più del dovuto. Egli desiderava  curare o alleviare [il dolore] con l'ascoltarmi, mentre io ho fatto l'opposto. Ho agito come un medico, che ricevendo un ferito, trascura la cura e in aggiunta bistratta il malato, amministrando dei farmaci eccitanti. Allora mi servirò d'un discorso lenitivo, versandolo come olio sulla piaga sanguinante. Nel Vangelo vediamo curare con una miscela di olio e vino inacidito. Mi adatto ai vostri desideri e prendo dalla Scrittura il vaso dell'olio e, per quanto ne sarò capace, cambierò il mio discorso, e cercherò di consolarvi invece di rattristarvi. Nessuno, però, ora dubiti di quanto dirò, per quanto gli possa sembrare incredibile. Il bene [che attendiamo nei cieli], fratelli, è sicuro e non viene meno. Anzi il mio parlare è inferiore alla verità. Non soltanto il bene più grande è sicuro ma si trova situato nelle altezze.
Cerchi l'imperatrice? Abita nelle stanze regali. Speri di vedere questo [spettacolo] con i tuoi occhi? Non è possibile darsi da fare per vedere la regina in questo modo. La scorta che l'attornia è davvero terribile. Non parlo di soldati cinti di spade di ferro ma di custodi armati di spade di fuoco, del tutto sottratti alla vista degli uomini. Abitano in un regno ineffabile e li vedrai quando  abbandonerai il tuo corpo. Non è passibile penetrare negli aditi del Regno prima di deporre il velo della carne. Preferiresti al contrario godere della vita conservando la tua carne? Fatti istruire, allora dal divino apostolo, da colui che ha sperimentato i misteri ineffabili del paradiso. Che cosa dichiara riferendosi a questa vita, parlando forse a nome di tutti i mortali: «Sono un uomo misero! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm 7,24). Perché parla in questo modo? Perché dichiara che sia preferibile dissolversi ed essere con Cristo? (Fil 1,23). Che cosa dichiara il grande Davide, che godeva di un grande potere, e poteva soddisfare ogni piacere? Non si sentiva alle strette in questa vita? Non considera la nostra esistenza una prigione? Egli grida al Signore: «Libera dal carcere la mia vita» (Sal 141,8). Non si rattrista vedendo che la sua vita continuava a prolungarsi? «Me infelice perché la mia permanenza si è protratta!» (Sal 29,5). I santi non sapevano discernere il bene da ciò che è deteriore? Proprio per questo auguravano all'anima di poter uscire dal corpo.
Dimmi tu, che cosa trovi di straordinario in questo mondo? Osserva che cosa avvenga nel corso dell'esistenza. Non ti ripeto ciò che ha detto il profeta: «Ogni carne è come l'erba» (Is 40,2). Usando quell'immagine sembra voler migliorare la miseria del nostro vivere. Forse, parlando di erba, rende migliore la nostra reale situazione. Perché? L'erba non presenta alcun aspetto spiacevole. La nostra carne invece produce un cattivo odore e trasforma in corruzione tutto ciò che lascia di sé. Lungo tutto il corso della vita deve sottostare all'attività del ventre: si potrebbe pensare ad una attività più umiliante di questa? Non avete visto con quale insistenza questo esattore - sto parlando del ventre - ogni giorno continui ad imporre le sue richieste alle quali non è possibile sottrarsi? Quand'anche ingoiassimo più del dovuto, non riuscimmo mai ad anticipare il pagamento del nostro debito. In modo simile a quei poveri animali che ruotano attorno ad una macina con gli occhi bendati, anche noi dobbiamo girare attorno alla macina della vita. Ripetiamo inesorabilmente gli stessi gesti per poi riprendere a ripercorrerne il percorso obbligato. Ti espongo le tappe di questo movimento ciclico: fame, sazietà, sonno, risveglio, svuotamento, riempimento. Di continuo passiamo da questa a quell'altra azione, e da quella a questa, per poi riprendere la prima, né mai possiamo arrestare il movimento ed uscire da questo ciclo; sempre restiamo vincolati alla macina. Salomone ha paragonato bene questa vita ad un sacco forato e ad una casa estranea. Davvero abitiamo in una casa  che non è nostra; non siamo noi a decidere [sulla nostra vita] e non cominciamo ad esistere quando desideriamo farlo. Nasciamo senza averlo chiesto e moriamo senza poter deciderne il momento. Potrai convincerti più ancora della verità dell'immagine del sacco, se pensi alle passioni che non sono mai in grado di colmarlo. Osserva come gli uomini cerchino d'ingozzarsi di onori, di poteri, di posizioni prestigiose e di altre cose del genere. Tuttavia ciò che hanno agguantato scivola e non rimane presso chi l'ha ghermito. Ciò nonostante sempre si danno da fare per acquisire gloria, potere e fama. Il sacco delle loro bramosie non si riempie mai. Pensiamo all'amore per il denaro: non è un sacco forato? Se gli si riversasse tanto denaro quanto un mare intero, potrebbe forse colmarsi?

Dov'è stanno allora il danno e lo svantaggio se la beata [Flacilla] si è liberata dai mali della vita, se ha scrollato via da sé la sporcizia del corpo come fosse fango ed è passata con l'anima pura alla vita immacolata? [Se si è trasferita] là dove non c'è alcun inganno, dove non si crede alla calunnia, la menzogna non ha spazio, non ci si compromette con la menzogna, [là dove] piacere e dolore, paura e tracotanza, miseria e ricchezza, schiavitù e signoria, e tutte altre contrapposizioni di questa esistenza non possono assolutamente aver luogo in quella vita. In quella vita non esistono, come insegna il profeta, dolore, tristezza e lamento. Che cosa troviamo al loro posto? La libertà dalle passioni, la beatitudine, l'estraneità dal male, la familiarità con gli angeli, la contemplazione dell'invisibile, la comunione con Dio, la gioia che non ha fine. Non è sensato piangere sull'imperatrice se si pensa ai cambiamenti di cui ha goduto. Ha lasciato il regno terreno, ma ha ottenuto quello celeste; ha deposto una corona di pietre preziose, ma si è cinto di una corona di gloria. Si è tolta una veste di porpora ma si è rivestita di Cristo. Questo è il vero manto regale e l'abito più splendido. Ho saputo che il color porpora si ottiene dal sangue di certe conchiglie di mare ma la porpora celeste riceve splendore dal sangue di Cristo. Hai compreso la diversa qualità dei due tipi di vesti?


Le opere di carità della santa

Hai bisogno di ricevere una conferma del fatto che si trovi in questa situazione? Leggi il Vangelo: «Venite, benedetti del Padre mio (è la frase che il Giudice rivolge agli uomini collocati alla sua destra), ricevete in eredità il regno preparato per voi» (Mt 25,34). Se l'erano preparato compiendo delle opere. Quali? Avevo fame, avevo sete, ero straniero, nudo, infermo, carcerato. Quanto avete fatto per ognuno di questi piccoli, l'avete fatto a me. Se si diventa partecipi del regno per aver compito queste azioni, contate, se vi è possibile farlo, quante persone da lei sono state rivestite! Quanti han ricevuto alimenti dalla sua mano! Quanti carcerati non soltanto sono stati da lei visitati ma hanno ricevuto la totale assoluzione! Se col visitare il carcerato si ottiene il regno, liberare in modo totale dalla pena certamente merita maggior onore, se vi può essere qualcosa di più grande del regno. Tuttavia non dobbiamo celebrarla soltanto per queste opere. Ha compito anche azioni buone che non erano state comandate. Quante persone, per mezzo di lei, hanno conosciuto la grazia della risurrezione, mi riferisco ad uomini che, condannati a morte dalla legge, dopo aver subito la condanna a morte, di nuovo furono riportati in vita grazie al suo intervento! Lo riferiscono testimoni oculari. Hai visto presso l'altare un giovane che disperava della sua salvezza. Hai visto una donna che s'addolorava per la condanna inflitta al fratello, di colui che annunciava i beni alla Chiesa: grazie all'intervento dell'imperatrice la sua terribile condanna a morte si è trasformata in sentenza di vita. Possiamo parlare soltanto di questi fatti? Possiamo dimenticare la sua umiltà? La Scrittura considera questa virtù come la migliore di tutte. Reggeva con il suo grande Re un impero così esteso; tutte le autorità le erano sottoposte, tutti i popoli le erano soggetti, terra e male le offrivano i propri beni. Ciò nonostante non s'insuperbì, non si attaccò ai beni che erano attorno a lei; per questo diventa erede dei beni promessi dalle beatitudini ed acquista la vera sublimità attraverso un'umiltà passeggera.

Aggiungerò un argomento che segnala il suo amore per il marito. Era necessario che, una volta sciolto il matrimonio terreno, dividere i beni terreni dei quali abbondava. Come stabilì la divisione? Aveva tre figli (questi sono i beni migliori); i maschi li affidò al padre affinché fossero i custodi dell'impero mentre decise che soltanto la figlia rappresentasse la sua parte. Osservate quale candore, quale equità, quale generosità mostrò. Nella divisione di beni così preziosi, assegnò al marito la parte più grande!
Aggiungo soltanto un altro elemento e così avrò completato il mio discorso. Tutti i fedeli detestano gli idoli ma ella ha avuto un merito molto particolare: l'essersi opposta all'eresia di Ario, considerandolo una forma d'idolatria. Gli ariani che considerano la divinità una creatura, venerano anche loro la materia al pari degli idolatri. Così pensava in modo giusto e pio. Chi venera una creatura, anche se lo fa dandogli il nome di Cristo, è un vero idolatra che attribuisce il nome di Cristo ad un idolo. Per questo, dopo aver appreso che Dio non è né d' ieri né di oggi,  adora e glorifica l'unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. In questa fede ha vissuto, in questa è cresciuta e in questa ha esalato il ultimo respiro. Con questa è stata accolta nel seno di Abramo, padre della fede, presso la sorgente del paradiso (che offre agli infedeli neppure una goccia), all'ombra dell'albero della vita pianto lungo i corsi delle acque; che anche noi possiamo parteciparvi in Cristo Gesù Signore nostro: al quale sia gloria nei secoli. Amen.

trad. Vincenzo Bonato