sabato 6 febbraio 2016

Giuseppe l'ebreo, abbandono in Dio e riconciliazione

 
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37. [2]Questa è la storia della discendenza di Giacobbe. Giuseppe all'età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Egli era giovane e stava con i figli di Bila e i figli di Zilpa, mogli di suo padre. Ora Giuseppe riferì al loro padre i pettegolezzi sul loro conto. [3]Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche. [4]I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non potevano parlargli amichevolmente.

Il passo biblico presenta i motivi a causa dei quali nasce un forte divisione nella famiglia di Giacobbe. Giuseppe è privilegiato dal padre e viene trattato da lui come un principino (tunica dalle lunghe maniche). La preferenza suscita la gelosia dei fratelli. Egli, che è ancora molto giovane ed inesperto, incapace di discernere i propri sentimenti e quelli degli altri, si adagia sulla sua situazione di privilegio. Anzi la aggrava comportandosi da spia. Si presenta piuttosto male. Appare egoista, accentrato su di sé, incapace di stringere relazioni positive con gli altri (tuttavia questo aspetto, per ora prevalente, non copre tutta la sua personalità). In fondo è la situazione normale dell’adolescente che ha bisogno in modo primario di scoprire se stesso e d’affermarsi e la situazione di chi stenta ad uscire dall’adolescenza. Può accampare a propria difesa, come attenuanti, la giovane età e il fatto di essere condizionato da una storia difficile che lo precede. É figlio di Rachele la donna privilegiata e preferita da Giacobbe.

Il racconto piuttosto drammatico della rivalità tra le due donne si trova in Genesi 29,15- 30,22 e 35,16-20 (nascita di Beniamino). Le due donne cercano di diventare ognuna la preferita di Giacobbe, usando il metodo di partorirgli dei figli, l'una più dell'altra. Lia cerca di conquistare finalmente l'amore di Giacobbe mettendosi almeno alla pari con la rivale, e Rachele, da lui già privilegiata, teme di perdere la posizione di vantaggio. La gara tra le due s'intensifica quando sono coinvolte le rispettive schiave (Zilpa per Lia; Bila per Rachele). Lia riesce ad a partorire più figli, in via naturale e legale (Figli naturali: Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Issacar e Zabulon con l'aiuto delle mandragore; legali: Gad e Aser); Rachele, dapprima è sterile, ma ottiene due figli legali (tramite Bila): Dan e Neftali. Infine Rachele diventa feconda e partorisce Giuseppe. La lotta tra le due si conclude in modo drammatico: Rachele muore nel partorire il secondo ed unico figlio naturale, Beniamino (35,16-20). La rivalità consegue questi risultati: otto figli contro quattro, a favore di Lia ma ella non riesce mai a diventare la più amata. Rachele conserva sempre il primato ma alla fine muore.
Questa vicenda che suscita compassione, sdegno e dolore non è soltanto una faccenda esotica e curiosa. Dio vi prende parte. Viene in soccorso della donna disprezzata, rendendola feconda (29,31; 30,17). Soltanto alla fine del racconto delle nascite si dice che Dio si ricordò anche di Rachele (30,27). In altre parole la preferenza eccessiva di Giacobbe per Rachele che causa un grande dolore a Lia, non è apprezzata da Dio. Il patriarca, inoltre, non fa nulla per ridurre la tensione tra le due. La poligamia è condannata per gli esiti che provoca.
Giuseppe sembra aver ereditato la tensione che ha preceduto la sua nascita. Mostra di preferire i figli legali delle due mogli di suo padre (Gad, Aser; Dan e Neftali). Con i fratelli maggiori, nati dalla rivale della madre (Ruben, Simeone, Levi e Giuda), ha delle relazioni negative; li spia per denigrarli agli occhi del padre. La lotta tra le madri si trasferisce sui figli. Giuseppe s'inserisce nella storia che lo ha preceduto e ne conferma la drammaticità. Prima è vittima e poi corresponsabile insieme.
Inoltre Giuseppe, per ingenuità ma anche per un sentimento egoistico, gode del vantaggio di essere un figlio privilegiato, accentua la rivalità dei fratelli col racconto dei suoi sogni.

Ora Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli, che lo odiarono ancor di più. [6]Disse dunque loro: «Ascoltate questo sogno che ho fatto. [7]Noi stavamo legando covoni in mezzo alla campagna, quand'ecco il mio covone si alzò e restò diritto e i vostri covoni vennero intorno e si prostrarono davanti al mio». [8] Gli dissero i suoi fratelli: «Vorrai forse regnare su di noi o ci vorrai dominare?». Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni e delle sue parole. 9]Egli fece ancora un altro sogno e lo narrò al padre e ai fratelli e disse: «Ho fatto ancora un sogno, sentite: il sole, la luna e undici stelle si prostravano davanti a me». [10]Lo narrò dunque al padre e ai fratelli e il padre lo rimproverò e gli disse: «Che sogno è questo che hai fatto! Dovremo forse venire io e tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci fino a terra davanti a te?».[11]I suoi fratelli perciò erano invidiosi di lui, ma suo padre tenne in mente la cosa.

Il primo sogno riguarda il rapporto tra lui e i fratelli, mentre il secondo include anche i genitori. Dopo il racconto del secondo sogno, Giacobbe rimprovera il figlio perché si sente coinvolto nell'umiliazione. Ha la stessa reazione dei figli. Tutti in famiglia detestano Giuseppe per la sua ambizione ma il padre lo rimprovera soltanto per ciò che riguarda i genitori. Egli, all'epoca dell'ostilità con il fratello Esaù, aveva avuto un sogno. Conosce la serietà dei sogni, e non dimentica questo fatto.
Assumere una posizione di potere viene presa immediatamente come qualcosa di negativo per chi lo detiene o per chi vi sta soggetto. Anche il questo caso Giuseppe sembra interpretarlo come uno spadroneggiare sugli altri e gli altri, a loro volta, come umiliante soggezione. Il potere, al contrario, può avere una funzione benefica. Giuseppe sperimenterà che la sua autorità gli verrà data perché sappia nutrire le persone a lui sottomesse. Dirigere gli altri può essere un servizio utile e necessario. La positività dipende dalle intenzioni per le quali si agisce e dalle modalità con cui è vissuto.

Conclusioni

1. Ogni convivenza umana è difficile e travagliata. Quasi impossibile non commettere errori (preferenze e antipatie spontanee; una parola di troppo; la trappola della maldicenza; i sospetti; i desideri positivi o negativi che contrastano con quelli degli altri). Quando mettiamo appunto la nostra situazione, c'è sempre un passato che ci impedisce di cominciare da zero. La nostra relazione con gli altri, sopratutto quelle continuative, non sono mai terse.
2. Giuseppe si doveva inserire in una vicenda torbida che lo aveva preceduto. Tutti noi nasciamo all'interno di una storia. La nostra personalità è condizionata, ad esempio, dal rapporto esistente allora tra i nostri genitori. Quando uno entra in una comunità, s'inserisce in una situazione determinata da eventi precedenti. Il racconto sembra accreditare la dottrina del peccato originale: c'è un fatto negativo che ci precede e che noi, per lo più, finiamo col consolidare, mentre dovremmo fare resistenza. La vicenda di Giuseppe c'insegna, tuttavia, che un percorso di salvezza si snoda all'interno queste contrarietà e limiti e che il positivo può prevalere ma occorre intervenire con consapevolezza.
3. Dal testo apprendiamo che un primo compito per vivere saggiamente è prestare attenzione ai nostri sentimenti e alle nostre passioni. Non bisogna vivere o reagire istintivamente. Dobbiamo allora imparare a plasmare e a contrastare le passioni.
a) Giacobbe avrebbe dovuto rendersi consapevole che la preferenza esclusiva per Rachele feriva profondamente Lia. Bastava aggiustare il tiro. Labano gli aveva dato in moglie la figlia Lia con un inganno ma ella restava comunque una moglie e una persona umana degna del massimo rispetto. Del resto Lia amava Giacobbe ed egli aveva dovuto farsi ferire dal suo amore.
b) Giuseppe non doveva approfittare della sua condizione di preferito e privilegiato e dare adito sempre di più alla gelosia e al risentimento dei fratelli. Perché spiarli e porli in cattiva luce? Non avevano nulla di buono? Perché rifiutare la loro compagnia?
c) Giacobbe non avrebbe dovuto abbandonare a se stessa la famiglia. Non interviene, non fa nulla per mediare; non svolge il suo dovere o servizio genitoriale. Lascia che nel campo dei rapporti familiari crescano le male erbe. Non le vede e, di conseguenza, non cerca di sradicarle.
d) Ruben, il primogenito, avrebbe dovuto intervenire presso il padre e presso i fratelli per mediare tra loro e Giuseppe; solo in seguito si renderà conto meglio delle sue responsabilità.
Non esiste vera spiritualità che non passi attraverso l'attenzione a se stessi, che non curi il dominio di sé. Questo esercizio non mira alla soppressione delle passioni (un obiettivo del resto impossibile e distruttivo nel suo intento) ma a vivere meglio le relazioni. La relazione corretta qualifica o deprime la nostra esistenza. Questo aspetto è molto importante. Nella fede non basta compiere azioni buone o pregare. Bisogna, mentre agiamo, fare attenzione a noi stessi e attingere dalla preghiera la forza per perseguire con pazienza il cambiamento di noi stessi. Nessuno deve disprezzarsi né giustificarsi. Nessuno deve ritenersi d'essere semplice né pretendere di vivere in un ambiente incontaminato. Quando si sta creando una relazione problematica, non si deve puntare l'indice contro gli altri ma partire sempre da noi. È probabile che l'atteggiamento del prossimo si modifichi in reazione con il nostro. Casi di tattica per ottenere buone relazioni (Abramo e Lot; Giacobbe ed Esaù).
4. L'elemento determinante è comunque un altro: il progetto segreto di Dio. Mediante un lungo percorso di vita, tutti dovranno conoscere meglio se stessi e correggersi: i fratelli, Giuseppe, Giacobbe. Dio entra in questa storia in modo molto discreto, mediante dei sogni. Ora sulle prime l'agire di Dio sembra ingiusto e controproducente; ingiusto perché sembra parteggiare in maniera eccessiva con uno dei contendenti, Giuseppe; controproducente perché la sua rivelazione scatena il contrario di un'opera di salvezza.

Aperture: la purezza del cuore

Vediamo come un autore di spiritualità presenti lo sforzo di pulizia interiore della quale abbiamo parlato: «La purezza di cuore consiste nel non conservare niente nel cuore che sia, o poco o tanto, contrario a Dio e all’azione della grazia... Immaginiamo un pozzo melmoso, dal quale si attinga continuamente acqua; da principio non viene su quasi altro che fango; ma poi, a forza di attingere, l'acqua del pozzo si depura e diventa più limpida; tanto che, dopo un certo tempo, si tira su un'acqua veramente pura e cristallina. Così, lavorando senza posa a purificare il nostro cuore, il fondo si rischiara a poco a poco e Dio vi manifesta la sua presenza con potenti e meravigliosi effetti che opera nell'anima, e che per mezzo di essa irradia a beneficio degli altri» (L. Lallemant, Dottrina spirituale, 3, I, 1-2, p. 147-148).

Cominciare da noi

Nei rapporti difficili dobbiamo in primo luogo cominciare da noi stessi. «L'origine di ogni turbamento, se cerchiamo con precisione, è nel fatto che non rimproveriamo noi stessi: per questo abbiamo tutto questo abbattimento, per questo non troviamo mai riposo... Ma si dirà: E se il fratello mi affligge e io faccio l'esame di coscienza e trovo che non gli ho offerto alcun pretesto, come posso rimproverare me stesso? Veramente, se uno si esamina con timor di Dio, trova che certamente ha dato motivo o con le sue azioni o con le parole o con il comportamento. E se pure vede, come dice, che in nessuna di queste cose ha dato assolutamente motivo per il presente, è probabile che un'altra volta lo abbia afflitto o per la stessa cosa o per un'altra, oppure che abbia afflitto un altro fratello e avesse un debito di pena per questo, o tante volte anche per un altro peccato; sicché, come ho detto, se ci si esamina con timor di Dio e si tocca la propria coscienza, si trova senz'altro che si è responsabili.
Talvolta poi uno si vede ben piazzato nella pace e nella tranquillità, ma quando un fratello gli dice una parola che lo rattrista, si turba e per questo crede di aver ragione ad affliggersi e dice contro di lui: Se non veniva a parlarmi e a turbarmi, non avrei peccato. Anche questa è un'impertinenza, anche questo è un ragionamento storto. È forse colui che gli ha detto quella parola che ha messo in lui la passione? La passione era già in lui, e quello non ha fatto altro che portargliela alla luce perché, se vuole, possa pentirsene. Egli è simile ad un pane di fior di farina, bello fuori ma dentro amuffito: quando uno lo spezza, allora si vede il suo marciume. Così anche lui se ne stava in pace, come credeva, ma dentro aveva la passione e non lo sapeva. Il fratello gli ha detto una sola parola e ha tirato fuori il marciume che era nascosto dentro. Se dunque vuole ricevere misericordia, si penta, si purifichi, faccia progressi e vedrà che deve piuttosto ringraziare quel fratello, che gli è stato causa di un tal vantaggio».

Giuseppe schiavo in Egitto

37. [12]I suoi fratelli andarono a pascolare il gregge del loro padre a Sichem. [13]Israele disse a Giuseppe: «Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro». Gli rispose: «Eccomi!». [14]Gli disse: «Và a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a riferirmi». Lo fece dunque partire dalla valle di Ebron ed egli arrivò a Sichem. [15]Mentr'egli andava errando per la campagna, lo trovò un uomo, che gli domandò: «Che cerchi?». [16]Rispose: «Cerco i miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare». [17]Quell'uomo disse: «Hanno tolto le tende di qui, infatti li ho sentiti dire: Andiamo a Dotan». Allora Giuseppe andò in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan.

Giuseppe, che finora era parso soltanto come un giovanotto viziato ed egocentrico, comincia a manifestare invece qualche qualità? Per quale motivo obbedisce al padre e si mostra interessato nei confronti dei fratelli? È orgoglioso perché il padre conferma nella sua tendenza a spiarli, qui camuffata come sollecitudine solidale (andare a vedere come stanno); oppure dal momento che Giacobbe è realmente preoccupato e, per avere notizie certe, ha soltanto questo mezzo, invia Giuseppe da loro, mentre questi comincia a condividere la preoccupazione paterna? Quale delle due ipotesi è più giusta?
Giacobbe a sua volta per quale scopo manda proprio Giuseppe? Lo fa soltanto per il motivo annunciato o perché ha cominciato a provare fastidio nei confronti del figlio che ha manifestato delle pretese irritanti? Giacobbe sa che i fratelli odiano Giuseppe e potrebbe bene immaginarsi che, ad una distanza notevole da casa, potrebbe subire qualche ritorsione.
Il testo non è chiaro. Del resto non è chiaro neppure il cuore dell'uomo. Nei rapporti familiari coesistono sentimenti retti e positivi con sentimenti opposti. Giacobbe, comunque, innesca per propria responsabilità, la tragedia che sta per incombere. Provoca con la sua iniziativa, poco avveduta, il dolore che lo tormenterà per gran parte della vita. Certamente non è in grado di prevedere che cosa avverrà ma potrebbe immaginare che sta per intraprendere un'azione rischiosa.
L'uomo dovrebbe scegliere soltanto il bene. Le nostre azioni invece sono sempre un misto di bene e di male. Cerchiamo il bene ma anche noi stessi. L'ambiguità subirà in seguito un discernimento tramite la sofferenza provocata. Tutte le nostre azioni provocano una conseguenza.

37.[18]Essi lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono di farlo morire. [19]Si dissero l'un l'altro: «Ecco, il sognatore arriva! [20]Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in qualche cisterna! Poi diremo: Una bestia feroce l'ha divorato! Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!».

Il sentimento di ostilità manifesta tutta la sua crudezza nell’intenzione omicida. Odiare è già uccidere: «[9]Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. [10]Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v'è in lui occasione di inciampo. [11]Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1Gv 2, 9-11)
«[7]Figlioli, nessuno v'inganni. Chi pratica la giustizia è giusto com'egli è giusto. [8]Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché il diavolo è peccatore fin dal principio. Ora il Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo. [9]Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio. [10]Da questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, né lo è chi non ama il suo fratello. [11]Poiché questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. [12]Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello. E per qual motivo l'uccise? Perché le opere sue erano malvagie, mentre quelle di suo fratello eran giuste. [13]Non vi meravigliate, fratelli, se il mondo vi odia. [14]Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. [15]Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna» (1Gv 3, 7-15).

Apertura: il rancore

Vi dico un esempio, perché capiate meglio. Chi accende un fuoco, dapprima ha solo un carboncino, che è la parola del fratello che lo ha rattristato; ecco, è appena un carboncino: che è mai la parola dcl tuo fratello ? Se la sopporti, spegni il carbone. Se invece continui a pensare: “Perché me l'ha detto? Posso ben rispondergli! Se non avesse voluto affliggermi, non l'avrebbe detto. Vedrai! Anch'io posso affliggerlo ”, ecco, hai messo un po' di legnetti o simile materiale, come chi accende il fuoco, e hai fatto fumo, che è il turbamento. Il turbamento è questo sommovimento e scontro di pensieri, che risveg1ia e rende aggressivo il cuore. Aggressività è l'impulso a rendere il contraccambio a chi ci ha rattristato, che diventa anche audacia.
Se avessi sopportato la piccola parola del tuo fratello, avresti potuto spegnere, come ho detto, anche quel piccolo carboncino, prima che nascesse il turbamento. Ma anche questo, se lo vuoi, puoi spegnerlo facilmente, appena inizia, col silenzio, con la preghiera, con una metania fatta di tutto cuore; se invece continui a far fumo irritando ed eccitando il tuo cuore a forza di pensare: “Perché me lo ha detto? Posso ben rispondergli!”, per lo scontro stesso, dicia mo cosí, e la collisione dei pensieri il cuore si logora e si surriscalda, e allora divampa la collera... È quella che chiamano irascibilità. Ma se lo vuoi puoi spegnere anch'essa, prima che diventi ira; ma se continui a turbare e a turbarti, ti vieni a trovare come chi ha messo legna al fuoco, e il fuoco divampa sempre piú, e cosí poi viene la brace, che è l'ira.
Si può rendere male per male non solo con le azioni, ma anche con le parole e l'atteggiamento. Talvolta si prende un atteggiamento o si fa un movimento o uno sguardo che turba il fratello: sì, si può ferire il fratello anche con uno sguardo o un movimento, ed è anche questo un rendere male per male. Un altro si studia di non rendere male per male né con l'azione né con la parola né con l'atteggiamento o il movimento, però ha in cuore una tristezza contro il suo fratello e si affligge contro di lui. Guardate che differenza di stati d'animo. Un'altro non ha neppure qualche tristezza contro il proprio fratello, ma se sente dire che qualcuno lo ha afflitto o ha mormorato contro di lui o lo ha offeso, si rallegra all'udirlo, e anche costui si trova a rendere male per male nel suo cuore. Un altro invece non solo non ha nessuna cattiveria e non gode a sentire che chi lo ha afflitto è stato offeso, ma si affligge addirittura se quello viene afflitto: però non prova piacere se egli riceve del bene, e si affligge se lo vede onorato o contento: ed è anche questa una sorta di rancore, più leggera, sì, ma lo è pur sempre. Invece bisogna gioire per la contentezza del proprio fratello e fare di tutto per servirlo e preparare ogni cosa per dargli onore e soddisfazione (Doroteo di Gaza).

 37.[21]Ma Ruben sentì e volle salvarlo dalle loro mani, dicendo: «Non togliamogli la vita». [22]Poi disse loro: «Non versate il sangue, gettatelo in questa cisterna che è nel deserto, ma non colpitelo con la vostra mano»; egli intendeva salvarlo dalle loro mani e ricondurlo a suo padre. [23]Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica dalle lunghe maniche ch'egli indossava, [24]poi lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz'acqua. [25]Poi sedettero per prendere cibo. Quando ecco, alzando gli occhi, videro arrivare una carovana di Ismaeliti provenienti da Galaad, con i cammelli carichi di resina, di balsamo e di laudano, che andavano a portare in Egitto. [26]Allora Giuda disse ai fratelli: «Che guadagno c'è ad uccidere il nostro fratello e a nasconderne il sangue? [27]Su, vendiamolo agli Ismaeliti e la nostra mano non sia contro di lui, perché è nostro fratello e nostra carne». I suoi fratelli lo ascoltarono. [28]Passarono alcuni mercanti madianiti; essi tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d'argento vendettero Giuseppe agli Ismaeliti. Così Giuseppe fu condotto in Egitto.

La vista del fratello suscita subito e soltanto sentimenti d'ostilità. Giuseppe viene identificato in modo esclusivo per l'elemento che ha portato al colmo il contrasto tra loro: è il sognatore. Egli non è più una persona con pregi e difetti, non è più il fratello, non è più il figlio del loro padre ma diventa soltanto colui che li ha umiliati o potrebbe umiliarli. Egli viene identificato come male; come fosse un elemento di pura malvagità. Il male deve essere eliminato. Dopo l'identificazione si procede subito all'eliminazione. Nei riguardi delle persone è necessario fare discernimento. Nessuno va identificato con la sua azione malvagia; l'uomo è sempre distinto e più grande del suo male.
Il testo mette in luce una reazione psicologica molto frequente, soprattutto quando tra persone o gruppi di persone si stabilisce l'ostilità. Il risultato di questa proiezione trasforma l'offeso in offensore e lo rende peggiore del primo. In questo momento il giovane fratello forse è un egoista presuntuoso ma loro sono avviati all'omicidio. Tante volte la reazione è più dura dell'azione e la persona che ha subito un torto diventa peggiore di quella che ha dato origine all'ostilità.
I fratelli passano a compiere un delitto perché ne parlano tra loro. Preso singolarmente, nessuno avrebbe osato tanto ma insieme diventano capaci di fare il male. Ognuno si carica dell'ostilità dell'altro e il parlare comune sembra giustificare tutti. Tutti pensano così e fanno così. Ci si influenza a vicenda ed è molto difficile sottrarsi da questo molto di vedere comune a tutti o a tanti. Il consenso acceca e attenua la percezione della colpa.
All'interno del gruppo dei fratelli, non c'è vera compattezza. Ruben e Giuda si dissociano per motivazioni di coscienza e di umanità. Rappresentano quelle persone che, nei momenti in cui nella massa prevale l'oscuramento o l'affievolimento della coscienza, essi avvertono ancora in modo distinto il richiamo del bene. La loro presa di posizione è piuttosto fievole. Non illuminano tutta la realtà dei fatti ma almeno impediscono il peggio. Essi sono da ammirare e da rimproverare. Avrebbero dovuto smascherare l'odio che attanagliava il cuore dei loro fratelli, calmarli, farli ragionare, cercare una riconciliazione. Ruben, di fronte all'esplosione di violenza, avrebbe dovuto rendersi conto di quanto odio albergava nel cuore dei figli di Giacobbe; usare la sua autorità per farli riflettere. Si limita a trattenerli dal peggio non usando parole di chiarezza ma servendosi di uno stratagemma che fallirà. Giuda, a sua volta, condivide il risentimento degli altri e solo, inseguito, arriva ad una certo ripensamento. Questi due, Ruben e Giuda, sono meglio degli altri ma non sono un'alternativa reale e totale. Alla tenebra si può opporre in modo valido soltanto la luce non la penombra. La reazione dei fratelli alle loro proposte è positiva. Si comportano in modo malvagio ma non sono dei malvagi. Il suggerimento di Ruben e poi quello di Giuda raggiunge subito un effetto su di loro e contengono subito il loro odio. Questo dimostra che in loro la voce della coscienza non si è affievolita del tutto. Non dobbiamo mai pensare che il malvagio sia soltanto malvagità o che, in lui, non possa esservi ancora un vertice della sua anima capace di ricevere la luce. Proprio la reazione positiva dei fratelli mette in luce la debolezza della testimonianza di Ruben e di Giuda. Forse se avessero osato di più, avrebbero ottenuto di più. Probabilmente il loro problema non stava nella mancanza di coraggio ma nell'incapacità di essere totalmente diversi dagli altri. Anche loro, per un verso così ragionevoli, erano oscurati dal risentimento. Erano divisi in se stessi: odiavano il delitto ma non amavano il loro fratello. Vivevano in una sorta di ambiguità. Pur opponendosi al male, non erano né limpidi né liberi dal male. Forse proprio la loro apparente onestà faceva da schermo che impediva loro una percezione di se stessi più autentica e più profonda. Calare Giuseppe in una cisterna era un atto di crudeltà; era un dare la morte senza uccidere in modo diretto. Commettono un possibile omicidio, evitando di dover sentirsi degli omicidi. Si sentono ancora buoni, perché non fanno il peggio. Avrebbero dovuto osservare da quale radice spuntava la loro azione. Non basta mai l'atto in se stesso a definire un comportamento. Spesso con nostro sentimento, con il desidero e il proposito andiamo ben oltre le nostre azioni. Questa riserva che può sfociare in altri atti maligni, è più pericolosa dei nostri comportamenti concreti.
Giuseppe è rinchiuso nella cisterna mentre loro si mettono a mangiare. Rappresenta l'egoismo di tanti che riescono a banchettare perché sono in grado di essere sordi al grido del fratello che hanno oppresso.
«[19]C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. [20]Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, [21]bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. [22]Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo (Lc 16,19-22)».
«Le vostre mani grondano sangue.
[16]Lavatevi, purificatevi,
togliete il male delle vostre azioni
dalla mia vista.
Cessate di fare il male,
[17]imparate a fare il bene,
ricercate la giustizia,
soccorrete l'oppresso,
rendete giustizia all'orfano,
difendete la causa della vedova».
[18]«Su, venite e discutiamo»
dice il Signore.
«Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto,
diventeranno bianchi come neve.
Se fossero rossi come porpora,
diventeranno come lana.
[19]Se sarete docili e ascolterete,
mangerete i frutti della terra.
[20]Ma se vi ostinate e vi ribellate,
sarete divorati dalla spada,
perché la bocca del Signore ha parlato» (Is 1,15-20)».

37. [29]Quando Ruben ritornò alla cisterna, ecco Giuseppe non c'era più. Allora si stracciò le vesti, [30 ]tornò dai suoi fratelli e disse: «Il ragazzo non c'è più, dove andrò io?». [31]Presero allora la tunica di Giuseppe, scannarono un capro e intinsero la tunica nel sangue. [32]Poi mandarono al padre la tunica dalle lunghe maniche e gliela fecero pervenire con queste parole: «L'abbiamo trovata; riscontra se è o no la tunica di tuo figlio». [33]Egli la riconobbe e disse: «E' la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l'ha divorato. Giuseppe è stato sbranato». [34]Giacobbe si stracciò le vesti, si pose un cilicio attorno ai fianchi e fece lutto sul figlio per molti giorni. [35]Tutti i suoi figli e le sue figlie vennero a consolarlo, ma egli non volle essere consolato dicendo: «No, io voglio scendere in lutto dal figlio mio nella tomba». E il padre suo lo pianse. [36]Intanto i Madianiti lo vendettero in Egitto a Potifar, consigliere del faraone e comandante delle guardie.

Solo ora Ruben riconosce l'atrocità dell'avvenimento ma lascia che i fatti si svolgano secondo il loro corso. Poteva costringere i fratelli a riconoscere tutta la gravità del fatto? Poteva fare qualcosa per recuperare Giuseppe, insieme agli altri? In realtà non vogliono fare nulla per correggere il loro misfatto. Da atto libero, ora si trasforma in una fatalità: è successo e non possiamo fare più niente. Non ci sono né responsabilità né colpevoli. Dopo il peccato rimane una pesantezza: il confronto con se stessi, il confronto con gli altri, l'esposizione alla verità. L'unica cosa che fanno è cercare di occultare i fatti. Credono che il mascheramento del crimine sia un annullamento di esso. Il delitto grava con la sua pesantezza a motivo della loro mancanza di pentimento. Dio li dovrà, gradatamente, liberare dal loro peso grazie alla sua misericordia. Dovranno però considerare i fatti, quali sono, nella loro nuda verità. Dovranno ritenersi colpevoli e pensare di meritare, di per sé, una punizione.
Giacobbe, a sua volta, è concentrato soltanto sull'assenza di Giuseppe. Tolto lui, non esiste più nulla. Da una parte partecipa al dolore normale di qualsiasi padre o genitore in lutto che avverte la morte del figlio come un vuoto irreparabile; dall'altra ancora una volta egli accentua la sua preferenza su questo, ormai perduto, a danno di tutti gli altri. I fratelli non possono consolarlo perché non possono essergli davvero vicini. Una solidarietà fittizia non tocca il cuore dell'altro. Nell'ambito della relazione, la parola deve essere vera per essere efficace. La falsificazione non costruisce.
(cap. 38 Giuda e Tamar)

39 [1]Giuseppe era stato condotto in Egitto e Potifar, consigliere del faraone e comandante delle guardie, un Egiziano, lo acquistò da quegli Ismaeliti che l'avevano condotto laggiù. [2]Allora il Signore fu con Giuseppe: a lui tutto riusciva bene e rimase nella casa dell'Egiziano, suo padrone. [3]Il suo padrone si accorse che il Signore era con lui e che quanto egli intraprendeva il Signore faceva riuscire nelle sue mani. [4]Così Giuseppe trovò grazia agli occhi di lui e divenne suo servitore personale; anzi quegli lo nominò suo maggiordomo e gli diede in mano tutti i suoi averi. [5]Da quando egli lo aveva fatto suo maggiordomo e incaricato di tutti i suoi averi, il Signore benedisse la casa dell'Egiziano per causa di Giuseppe e la benedizione del Signore fu su quanto aveva, in casa e nella campagna. [6]Così egli lasciò tutti i suoi averi nelle mani di Giuseppe e non gli domandava conto di nulla, se non del cibo che mangiava. Ora Giuseppe era bello di forma e avvenente di aspetto.

Il racconto non dice nulla dei sentimenti di Giuseppe nel momento in cui sperimenta l'ostilità dei fratelli. Non parla né del suo dolore, né delle sue suppliche. Le suppliche inascoltate di Giuseppe rimarranno incise nella coscienza dei fratello e li tormenteranno a lungo.
Il narratore porta subito l’attenzione su ciò che è più importante: il Signore era con il povero schiavo. Per la prima volta in questa narrazione si nomina il Signore. Si nomina ora perché Egli viene in soccorso di una persona afflitta e umiliata. Questo è il luogo proprio di Dio. Qui ora si manifesta come in seguito si mostrerà al popolo ebreo schiavo di Faraone. Dio non poteva stare nel cumulo degli intrighi della famiglia di Giacobbe e neppure nei sogni del giovane, male interpretati. Questi sogni dovevano essere interpretati in modo corretto dalla parte di Dio. Il giovane doveva essere il nutritore dei fratelli, non il loro dominatore.
Ora che Giuseppe è annientato può diventare il luogo della presenza divina. Il giovane non è più lui: non è più il centro dell'affetto del padre; non porta una tunica da principe ma una veste da schiavo. Ha perso famiglia, patria e il contesto religioso in cui esprimeva la sua fede. Non si dice che Giuseppe abbia invocato Dio ma che Egli è venuto presso di Lui. Il vuoto attira la sua presenza e la sua grazia come si trattasse di una legge fisica.
Il Signore è presente in maniera silenziosa. Compare soltanto nell'abilità e nella benedizione che comunica al suo eletto. Il compito di Dio sembra quello di rafforzare l'uomo retto. Giuseppe che ha perduto tutto, non ha perduto se stesso. Anzi nella sventura si recupera, si guadagna ed ora finalmente potrebbe indossare una veste da nobile. Dio diventa la ricchezza di Giuseppe: Egli è Padre e fratello. Finché Giuseppe rimane con Lui, possiede tutto nell'ora e nel luogo in cui ha perso tutto. Affiora la profezia del Vangelo: la ricchezza costituita dall'accettare di essere un rifiuto da parte degli altri o di proporsi di mettersi a disposizione altrui come se noi non fossimo un nulla o non avessimo nulla da salvaguardare per noi.  Giuseppe diventa una benedizione per l'egiziano. Per mezzo suo Dio benedice altri, anche un pagano. Il giusto possiede questa forza d'irraggiamento di bene. Dove c'è lui, appare l'ordine e la giustizia che crea ordine e benessere. Giuseppe manifesta quello che è il compito del popolo di Dio: essere una porzione eletta a servizio di tutti gli altri. San Paolo dirà che il coniuge cristiano santifica la controparte pagana (1 Cor 7,14). La Chiesa benedice il mondo. Il resto dell'Israele fedele a Dio comunica la sua santità a tutta la massa (Rm 11,16). Alla fine Dio benedirà tutta l'umanità grazie a Gesù (Gal 3,14)(Cf. 39,5).

39. [7]Dopo questi fatti, la moglie del padrone gettò gli occhi su Giuseppe e gli disse: «Unisciti a me!». [8]Ma egli rifiutò e disse alla moglie del suo padrone: «Vedi, il mio signore non mi domanda conto di quanto è nella sua casa e mi ha dato in mano tutti i suoi averi. [9]Lui stesso non conta più di me in questa casa; non mi ha proibito nulla, se non te, perché sei sua moglie. E come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?». [10]E, benché ogni giorno essa ne parlasse a Giuseppe, egli non acconsentì di unirsi, di darsi a lei. [11]Ora un giorno egli entrò in casa per fare il suo lavoro, mentre non c'era nessuno dei domestici. [12]Essa lo afferrò per la veste, dicendo: «Unisciti a me!». Ma egli le lasciò tra le mani la veste, fuggì e uscì. [13]Allora essa, vedendo ch'egli le aveva lasciato tra le mani la veste ed era fuggito fuori, [14]chiamò i suoi domestici e disse loro: «Guardate, ci ha condotto in casa un Ebreo per scherzare con noi! Mi si è accostato per unirsi a me, ma io ho gridato a gran voce. [15]Egli, appena ha sentito che alzavo la voce e chiamavo, ha lasciato la veste accanto a me, è fuggito ed è uscito». [16]Ed essa pose accanto a sé la veste di lui finché il padrone venne a casa. [17]Allora gli disse le stesse cose: «Quel servo ebreo, che tu ci hai condotto in casa, mi si è accostato per scherzare con me. [18]Ma appena io ho gridato e ho chiamato, ha abbandonato la veste presso di me ed è fuggito fuori». [19]Quando il padrone udì le parole di sua moglie che gli parlava: «Proprio così mi ha fatto il tuo servo!», si accese d'ira.[20]Il padrone di Giuseppe lo prese e lo mise nella prigione, dove erano detenuti i carcerati del re.

Si manifesta, ora, la maturità di Giuseppe e affiora il suo profonda sentimento religioso. L'atteggiamento di cui da prova nell'occasione della tentazione, manifesta che egli aveva coltivato se stesso, con grande diligenza. La sua religiosità è quella più autentica: vivere secondo la volontà di Dio.
La legge di Mosè, che proibisce l'adulterio, non era ancora stata promulgata ma è convinzione diffusa ovunque e consolidata, che il tradimento dell'affetto del coniuge è una colpa grave. L'ebreo Giuseppe che proviene dai Patriarchi e la moglie di Potifar, che è pagana, aderiscono alla medesima convinzione morale (è quanto appare nel discorso che lo schiavo rivolge alla sua padrona). San Paolo parla di una Legge che è scritta nel cuore. Parla della coscienza che approva il comportamento o lo condanna (Rm 2,14-16).
Il testo parla di una tentazione che si prolunga. Più volte Giuseppe riceve dalla donna l’invito, quasi l'ingiunzione di avere una relazione con lei. È una donna innamorata e molto insistente. Il particolare rivela la determinazione morale del giovane.
La donna, infine, trasforma il suo attaccamento amoroso in avversione. In questo modo appare evidente che l'amare è qualcosa di diverso dal sentire una semplice attrazione. L'amore è vero se rispetta le convinzioni dell'altro. Ella avrebbe dovuto, se l'avesse amato veramente, ammirare la virtù del giovane e domandargli perdono. In un modo del tutto insensato, la donna non pensa alle conseguenze possibili del suo folle desiderio: che sarebbe accaduto se il marito se ne fosse accorto? Quali conseguenze avrebbe dovuto affrontare? Non si accorgeva che esponeva al pericolo il giovane che diceva d'amare? Il rispetto delle regole che derivano dalla coscienza morale, vale già di per se stesso, a prescindere da tutte le altre considerazioni d'opportunità, tuttavia, appartiene anche alla considerazione del valore etico di un'azione, l'esame di tutti i fatti circostanziati che appartengono al caso. L'amore vero non è soltanto sentimento o passione ma è anche atto di intelligenza e di volontà. Bisogna saper valutare ed essere capaci di stare alla determinazione stabilita a mente fredda: intelligenza, volontà, affetto. L'amore è una decisione della volontà e un modo di vivere piuttosto che un abbandono irriflesso alle pulsioni della psiche. Nulla come l'impulso sessuale mette a prova il valore morale della persona. Esso è travolgente perché spinge a modificare il giudizio della mente. Per queste sue caratteristiche di irrazionalità e di forza può essere risanante o devastante. Per valutarlo non basta considerare il sentimento da solo ma osservare che cosa esso provoca nella vita altrui. Ad ogni caso non è mai accettabile un sentimento che travolga le regole morali autentiche.
Ritorniamo alle considerazione iniziale: la vera religiosità consiste nell'esame di sé e nella riformulazione delle passioni. Abbiamo visto i danni provocati nella famiglia di Giacobbe dai sentimenti lasciati allo sbando. L'uomo religioso deve avere cura di sé. Vivere secondo la volontà di Dio anche se questo implica un esercizio doloroso di auto dominio. Nella fede cristiana la capacità del dominio di sé è un frutto primario dello Spirito. L'uomo è troppo debole rispetto alla forza delle passioni. Esse si dominano non soltanto mediante atti di volontà, ma mediante la spinta d'un amore più grande. Soltanto l'Amore consente di relativizzare altri amori.
Lo schiavo ebreo che sembrava aver trovato una sistemazione assai decorosa precipita di nuovo in una situazione d'umiliazione. Questa volta cade mentre è del tutto innocente. Soffre a causa della giustizia, per la sua fedeltà. Dio non sembra proteggere affatto il suo servo. Questo accadrà molte volte lungo la storia, fino a raggiungere il suo culmine in Gesù. Davide verrà perseguitato da Saul; Tobia riceverò lo scherno della moglie; Giobbe subirà dolorosi rovesci.
Giuseppe rappresenta il saggio che rimane se stesso in qualsiasi situazione, nel benessere e nella sventura. È immagine del vero credente che cerca Dio in modo gratuito, senza attendere ricompensa e senza ribellarsi. È immagine del giusto che confida nella giustizia di Dio e che spera nella sua liberazione che otterrà a suo tempo, quando Dio lo vorrà.

Apertura: il bene dell’autodominio

 [11]Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all'anima. [12]La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio (1 Pt 2, 11-12).
 [1]Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; [2]pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. [3]Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! [4]Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria.[5]Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, [6]cose tutte che attirano l'ira di Dio su coloro che disobbediscono. [7]Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. [8]Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca (Colossesi, 3, 1-8).

Capitolo 40 [1]Dopo queste cose il coppiere del re d'Egitto e il panettiere offesero il loro padrone, il re d'Egitto. [2]Il faraone si adirò contro i suoi due eunuchi, contro il capo dei coppieri e contro il capo dei panettieri, [3]e li fece mettere in carcere nella casa del comandante delle guardie, nella prigione dove Giuseppe era detenuto. [4]Il comandante delle guardie assegnò loro Giuseppe, perché li servisse. Così essi restarono nel carcere per un certo tempo. [5]Ora, in una medesima notte, il coppiere e il panettiere del re d'Egitto, che erano detenuti nella prigione, ebbero tutti e due un sogno, ciascuno il suo sogno, che aveva un significato particolare. [6]Alla mattina Giuseppe venne da loro e vide che erano afflitti. [7]Allora interrogò gli eunuchi del faraone che erano con lui in carcere nella casa del suo padrone e disse: «Perché quest'oggi avete la faccia così triste?». [8]Gli dissero: «Abbiamo fatto un sogno e non c'è chi lo interpreti».

Giuseppe disse loro: «Non è forse Dio che ha in suo potere le interpretazioni? Raccontatemi dunque». [9]Allora il capo dei coppieri raccontò il suo sogno a Giuseppe e gli disse: «Nel mio sogno, ecco mi stava davanti una vite, [10]sulla quale erano tre tralci; non appena essa cominciò a germogliare, apparvero i fiori e i suoi grappoli maturarono gli acini. [11]Io avevo in mano il calice del faraone; presi gli acini, li spremetti nella coppa del faraone e diedi la coppa in mano al faraone». [12]Giuseppe gli disse: «Eccone la spiegazione: i tre tralci sono tre giorni. [13]Fra tre giorni il faraone solleverà la tua testa e ti restituirà nella tua carica e tu porgerai il calice al faraone, secondo la consuetudine di prima, quando eri suo coppiere. [14]Ma se, quando sarai felice, ti vorrai ricordare che io sono stato con te, fammi questo favore: parla di me al faraone e fammi uscire da questa casa. [15]Perché io sono stato portato via ingiustamente dal paese degli Ebrei e anche qui non ho fatto nulla perché mi mettessero in questo sotterraneo». [16]Allora il capo dei panettieri, vedendo che aveva dato un'interpretazione favorevole, disse a Giuseppe: «Quanto a me, nel mio sogno mi stavano sulla testa tre canestri di pane bianco [17]e nel canestro che stava di sopra era ogni sorta di cibi per il faraone, quali si preparano dai panettieri. Ma gli uccelli li mangiavano dal canestro che avevo sulla testa». [18]Giuseppe rispose e disse: «Questa è la spiegazione: i tre canestri sono tre giorni. [19]Fra tre giorni il faraone solleverà la tua testa e ti impiccherà ad un palo e gli uccelli ti mangeranno la carne addosso». [20]Appunto al terzo giorno - era il giorno natalizio del faraone - egli fece un banchetto a tutti i suoi ministri e allora sollevò la testa del capo dei coppieri e la testa del capo dei panettieri in mezzo ai suoi ministri. [21]Restituì il capo dei coppieri al suo ufficio di coppiere, perché porgesse la coppa al faraone, [22]e invece impiccò il capo dei panettieri, secondo l'interpretazione che Giuseppe aveva loro data. [23]Ma il capo dei coppieri non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò.

Il testo lascia capire che Dio, apparentemente assente e dimentico del suo servo, in realtà accompagna Giuseppe nella sua afflizione. Lo si nota da subito, prima che questi riceva il dono dell'interpretazione. Il comandante apprezza la personalità e lo stile di vita del prigioniero al punto da affidargli i prigionieri illustri. Giuseppe a sua volta esercita bene il suo servizio. Anche in carcere sembra integrato in modo perfetto nella società egiziana. Non mostra risentimento verso la popolazione o lo stato in cui è stato costretto ad inserirsi. Il giusto mantiene rapporti leali con il popolo con il quale vive. Serve le istituzioni di cui fa parte anche se queste mostrano delle crepe vistose. Non è preso dall'odio o dalla rivalsa. L'atteggiamento di Giuseppe ricorda quello che dovranno avere gli esiliati, secondo il consiglio di Geremia. I cristiani stessi, pur dovendosi considerare estranei e alternativi alla società in cui vivono, dovranno rispettare le istituzioni a cui partecipano, rappresentando esse la volontà di Dio, sia pure provvisoria. La globale accettazione dell'ordine esistente non implica una accettazione delle ingiustizie presenti e delle malvagità che lo percorrono. Il cristiano deve dissociarsi dai disordini presenti nella società ed opporsi al male che perdura nella storia.
Per la prima volta ascoltiamo il parere di Giuseppe sulla sua situazione: è convinto di essere vittima di due ingiustizie. Per la prima volta lo sentiamo chiedere aiuto ad altri. Questi cenni ci lasciano comprendere il suo stato d'animo. Egli chiede con grande cortesia, senza presunzione ed insistenza. Sarà solidale con lui l'uomo a cui si affida? Tuttavia più che su questa persona, egli confida in Dio con il quale mantiene fedeltà. Il dono d'interpretare i sogni è un dono di Dio. Questo carisma diventa per lui un segno certo della sua presenza e della sua assistenza. Giuseppe non ha il sentimento o un linguaggio da disperato. Dio è con Lui; è un Dio che ama la giustizia. Non conosce i modi nè i tempi ma è sicuro della fedeltà del suo Dio.
L'interpretazione dei sogni, il poter prevedere, attesta che la vita di ogni persona appartiene a Dio. Aspetto assai rilevante per la spiritualità cristiana.

Apertura. Stare sottomessi alle istutuzioni confidando in Dio

[13]State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, [14]sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. [15]Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all'ignoranza degli stolti. [16]Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio. [17]Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re. [18]Domestici, state soggetti con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli difficili. [19]E' una grazia per chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente; [20]che gloria sarebbe infatti sopportare il castigo se avete mancato? Ma se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. [21]A questo infatti siete stati chiamati, poichè anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: [22]egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca, [23]oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia (1 Pt 2,13-23).

41. [1]Al termine di due anni, il faraone sognò di trovarsi presso il Nilo. [2]Ed ecco salirono dal Nilo sette vacche, belle di aspetto e grasse e si misero a pascolare tra i giunchi. [3]Ed ecco, dopo quelle, sette altre vacche salirono dal Nilo, brutte di aspetto e magre, e si fermarono accanto alle prime vacche sulla riva del Nilo. [4]Ma le vacche brutte di aspetto e magre divorarono le sette vacche belle di aspetto e grasse. E il faraone si svegliò. [5]Poi si addormentò e sognò una seconda volta: ecco sette spighe spuntavano da un unico stelo, grosse e belle. [6]Ma ecco sette spighe vuote e arse dal vento d'oriente spuntavano dopo quelle. [7]Le spighe vuote inghiottirono le sette spighe grosse e piene. Poi il faraone si svegliò: era stato un sogno. [8]Alla mattina il suo spirito ne era turbato, perciò convocò tutti gli indovini e tutti i saggi dell'Egitto. Il faraone raccontò loro il sogno, ma nessuno lo sapeva interpretare al faraone. [9]Allora il capo dei coppieri parlò al faraone: «Io devo ricordare oggi le mie colpe. [10]Il faraone si era adirato contro i suoi servi e li aveva messi in carcere nella casa del capo delle guardie, me e il capo dei panettieri. [11]Noi facemmo un sogno nella stessa notte, io e lui; ma avemmo ciascuno un sogno con un significato particolare. [12]Ora era là con noi un giovane ebreo, schiavo del capo delle guardie; noi gli raccontammo i nostri sogni ed egli ce li interpretò, dando a ciascuno spiegazione del suo sogno. [13]Proprio come ci aveva interpretato, così avvenne: io fui restituito alla mia carica e l'altro fu impiccato». [14]Allora il faraone convocò Giuseppe. Lo fecero uscire in fretta dal sotterraneo ed egli si rase, si cambiò gli abiti e si presentò al faraone. [15]Il faraone disse a Giuseppe: «Ho fatto un sogno e nessuno lo sa interpretare; ora io ho sentito dire di te che ti basta ascoltare un sogno per interpretarlo subito». [16]Giuseppe rispose al faraone: «Non io, ma Dio darà la risposta per la salute del faraone!». [17]Allora il faraone disse a Giuseppe: «Nel mio sogno io mi trovavo sulla riva del Nilo. [18]Quand'ecco salirono dal Nilo sette vacche grasse e belle di forma e si misero a pascolare tra i giunchi. [19]Ed ecco sette altre vacche salirono dopo quelle, deboli, brutte di forma e magre: non ne vidi mai di così brutte in tutto il paese d'Egitto. [20]Le vacche magre e brutte divorarono le prime sette vacche, quelle grasse. [21]Queste entrarono nel loro corpo, ma non si capiva che vi fossero entrate, perché il loro aspetto era brutto come prima. E mi svegliai. [22]Poi vidi nel sogno che sette spighe spuntavano da un solo stelo, piene e belle. [23]Ma ecco sette spighe secche, vuote e arse dal vento d'oriente, spuntavano dopo quelle. [24]Le spighe vuote inghiottirono le sette spighe belle. Ora io l'ho detto agli indovini, ma nessuno mi dà la spiegazione». [25]Allora Giuseppe disse al faraone: «Il sogno del faraone è uno solo: quello che Dio sta per fare, lo ha indicato al faraone. [26]Le sette vacche belle sono sette anni e le sette spighe belle sono sette anni: è un solo sogno. [27]E le sette vacche magre e brutte, che salgono dopo quelle, sono sette anni e le sette spighe vuote, arse dal vento d'oriente, sono sette anni: vi saranno sette anni di carestia. [28]E' appunto ciò che ho detto al faraone: quanto Dio sta per fare, l'ha manifestato al faraone. [29]Ecco stanno per venire sette anni, in cui sarà grande abbondanza in tutto il paese d'Egitto. [30]Poi a questi succederanno sette anni di carestia; si dimenticherà tutta quella abbondanza nel paese d'Egitto e la carestia consumerà il paese. [31]Si dimenticherà che vi era stata l'abbondanza nel paese a causa della carestia venuta in seguito, perché sarà molto dura. [32]Quanto al fatto che il sogno del faraone si è ripetuto due volte, significa che la cosa è decisa da Dio e che Dio si affretta ad eseguirla. [33]Ora il faraone pensi a trovare un uomo intelligente e saggio e lo metta a capo del paese d'Egitto. [34]Il faraone inoltre proceda ad istituire funzionari sul paese, per prelevare un quinto sui prodotti del paese d'Egitto durante i sette anni di abbondanza. [35]Essi raccoglieranno tutti i viveri di queste annate buone che stanno per venire, ammasseranno il grano sotto l'autorità del faraone e lo terranno in deposito nelle città. [36]Questi viveri serviranno al paese di riserva per i sette anni di carestia che verranno nel paese d'Egitto; così il paese non sarà distrutto dalla carestia».

Giuseppe viene dimenticato per due anni in prigione. Il coppiere riconosce di aver commesso questo peccato. Tale comportamento mette in evidenza lo spontaneo egoismo con il quale moti si relazionano con gli altri. Passato il momento del bisogno, cessa il sentimento di solidarietà che era sorto. Dalla mancanza d'attenzione del servo di Faraone, dobbiamo imparare, al contrario, la serietà con cui dobbiamo vivere l'impegno contratto con le persone. Dobbiamo mantenere le promesse e non deludere. Nessuno deve trovarci indifferenti o scostanti negli impegni presi. Non dobbiamo mai sbarazzarci del prossimo.
L'interpretazione dei sogni attesta l'assoluta sovranità di Dio: egli decide le sorti del mondo e la modalità d'esistenza delle singole persone. Alla mentalità di Faraone e dei suoi ministri che attribuiscono tutto all'uomo, alle sue qualità e competenze, Giuseppe oppone una mentalità di fede che, invece, attribuisce tutto a Dio. Dio determina l'abbondanza e la carestia; provvede perché si corra ai ripari; concede il dono dell'interpretazione dei sogni.
Nonostante la sua autorevolezza divina, Dio non compare mai in primo piano. Non si impone e neppure viene annullata la responsabilità né la libertà, l'autonomia dell'uomo. Dio attiva la storia da protagonista sconosciuto ma poi tutti devono fare qualcosa. Il Signore decide con la massima libertà ma, nello stesso tempo, provoca l'agire degli uomini. Egli non distrugge la nostra libertà ma la crea e la sollecita. Il mondo è nelle sue mani ma viene dato realmente all'uomo perché lo amministri. La storia sarebbe ben diversa se Dio non fosse il protagonista ma anche se l'uomo declinasse le sue responsabilità o compisse scelte meno sagge di quelle necessarie.
Non viene mai data una spiegazione circa le motivazioni dell'agire di Dio. Perché quest'alternanza di abbondanza e carestia. Che cosa spinge il Signore a operare in questo modo? Alla fine delle vicende tutti i fatti acquistano senso ma non sempre un evento sembra sensato all'inizio del processo o nel corso del suo svolgimento. C'è una grande storia (decisioni reali, carestie, migrazioni di popoli) che coinvolge storie minori (la promozione di Gesù, l'incontro con i fratelli...). Non è necessario pensare che Dio attivi la grande storia per realizzare quella individuale. Di fatto, sebbene l'una sembri estranea all'altra, esse costituiscono come tessere di un unico disegno che è completo soltanto se vengono combinate insieme. C'è la storia dei potenti e quella dei poveri. Dio non abbandona a se stesse né l'una, né l'altra. Il Padre di Gesù non è semplice l'ordinatore del cosmo o il Signore che guida o giudica i potenti, ma è Colui che conta i capelli del nostro capo e conosce il momento della caduta a terra di ogni passerotto. Noi abbiamo saputo che Dio fa così ma ci vene spiegato il senso di ogni evento. La Scrittura ci invita non a cercare di capire ma ad imparare l'affidamento a Dio.

Apertura: Abbandono in Dio

Il monaco che con sincerità si accinge a servire Dio deve, secondo la Sapienza, preparare la sua anima alle tentazioni per non rimanere mai meravigliato o turbato da quanto può accadere, credendo che nulla accade senza la provvidenza di Dio. E poiché è provvidenza di Dio, ciò che accade è certamente bene e a vantaggio dell'anima , perché tutto quello che Dio fa con noi, lo fa per il nostro meglio e perché ci ama e ci protegge. E, come ha detto l'Apostolo, in ogni cosa dobbiamo rendere grazie alla sua bontà e non abbatterci o scoraggiarci mai per quanto ci accade, ma accettare gli avvenimenti senza turbarci, con umiltà e speranza in Dio, convinti, come ho detto, che tutto quel che Dio fa con noi, lo fa per la sua bontà e perché ci ama e ci fa del bene. Anzi, non è possibile che le cose vadano bene altrimenti che per questa misericordia di Dio.
Se uno ha un amico ed è sicuro di esserne amato, anche se riceve da lui un dolore, per quanto molesto esso sia, sa che egli lo ha fatto perché lo ama e non pensa mai che il suo amico voglia fargli del male: quanto piú di Dio, che ci ha creato e ci ha portato dal non essere all'essere e per noi si è fatto uomo ed è morto per noi, dobbiamo sapere che fa per bontà e per amore tutto quello che fa per noi! Riguardo all'amico, poi, si può pensare: “Fa cosí perché mi ama e vuole proteggermi, ma non capisce proprio bene come occuparsi delle cose mie, e per questo, come pare, mi danneggia, pur non volendolo”. Ma di Dio questo non possiamo dirlo, perché è lui la fonte della sapienza, conosce tutto quello che è a no stro vantaggio e in quella direzione governa le nostre cose, fino alle piú insignificanti. Ancora, dell'amico si può dire: “Mi ama e mi protegge, ma non ha potere di aiutarmi in quelle situazioni in cui crederebbe di giovarmi”. Ma di Dio non possiamo dire nemmeno questo: tutto per lui è possibile, e niente è impossibile al suo cospetto. Sicché, dunque, di Dio sappiamo che ama e protegge la propria creatura, ed è lui la fonte della sapienza, sa come governare le cose nostre e niente gli è impossibile, ma tutto è sottomesso alla sua volontà; dobbiamo anche sapere che tutte le cose che fa, le fa per nostro giovamento, e dobbiamo accettarle con rendimento di grazie, come abbiamo detto prima, da quel Padrone benefico e buono che egli è, anche se ci affliggono: esse infatti avvengono tutte per giusto giudizio e Dio, misericordioso com'è, non di sprezza neppure l'afflizione che ci capita.
Ma spesso si dubita fra sé e si dice: “E se nelle avversità uno pecca per afflizione, come può pensare che sia per suo giovamento?”. Non pecchiamo nelle avversità se non perché siamo insofferenti e non vogliamo sopportare una piccola afflizione o soffrire qualcosa contro la nostra volontà, perché Dio non permette che ci accada nessuna avversità che superi le nostre forze, come ha detto l'Apostolo: Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre possibilità.
Ci sono alcuni che devono tuffarsi in mare per necessità e, se conoscono l'arte del tuffo, quando l'onda viene verso di loro, si curvano sotto di essa e si lasciano andare giú finché passa, e cosí poi continuano a nuotare senza alcun danno. Se invece voglio no opporsi all'onda, essa li respinge fuori e li scaglia lontano un bel pezzo. Come poi vogliono tuffarsi di nuovo, viene loro addosso un'altra onda, e se si oppongono ancora, li respinge e li butta fuori un'altra volta, e non ottengono altro che essere battuti senza concludere nulla. Se invece, come ho detto, si curvano sotto l'onda e si umiliano sotto di essa, passa oltre senza far loro alcun male e continuano a nuotare quanto vogliono e a svolgere la loro attività. Cosí è anche per le tentazioni: se uno sopporta la tentazione con pazienza ed umiltà, essa gli passa oltre senza nuocergli; ma se continua ad affliggersi, a turbarsi, a incolpare tutti, si tormenta, rende piú pesante, a proprio danno, la tentazione e non ne riceve giovamento, anzi, viene anche danneggiato (Doroteo di Gaza).

Elevazione di Giuseppe

41. [37]La cosa piacque al faraone e a tutti i suoi ministri. [38]Il faraone disse ai ministri: «Potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo spirito di Dio?». [39]Poi il faraone disse a Giuseppe: «Dal momento che Dio ti ha manifestato tutto questo, nessuno è intelligente e saggio come te. [40]Tu stesso sarai il mio maggiordomo e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo: solo per il trono io sarò più grande di te».[41]Il faraone disse a Giuseppe: «Ecco, io ti metto a capo di tutto il paese d'Egitto». [42]Il faraone si tolse di mano l'anello e lo pose sulla mano di Giuseppe; lo rivestì di abiti di lino finissimo e gli pose al collo un monile d'oro. [43]Poi lo fece montare sul suo secondo carro e davanti a lui si gridava: «Abrech». E così lo si stabilì su tutto il paese d'Egitto. [44]Poi il faraone disse a Giuseppe: «Sono il faraone, ma senza il tuo permesso nessuno potrà alzare la mano o il piede in tutto il paese d'Egitto». [45]E il faraone chiamò Giuseppe Zafnat-Paneach e gli diede in moglie Asenat, figlia di Potifera, sacerdote di On. Giuseppe uscì per tutto il paese d'Egitto. [46]Giuseppe aveva trent'anni quando si presentò al faraone re d'Egitto. Poi Giuseppe si allontanò dal faraone e percorse tutto il paese d'Egitto. [47]Durante i sette anni di abbondanza la terra produsse a profusione. [48]Egli raccolse tutti i viveri dei sette anni, nei quali vi era stata l'abbondanza nel paese d'Egitto, e ripose i viveri nelle città, cioè in ogni città ripose i viveri della campagna circostante. [49]Giuseppe ammassò il grano come la sabbia del mare, in grandissima quantità, così che non se ne fece più il computo, perché era incalcolabile.

Finalmente il progetto di Dio comincia a rendersi manifesto. Egli non ha dimenticato il suo servo fedele. Giuseppe è passato attraverso molte prove interiori ed esteriori. Nelle prove esteriori ha verificato i danni della gelosia e del rancore ma anche i danni dell'arroganza e dell'attaccamento ai privilegi. Ha imparato la maturità dal distacco dalla propria famiglia (dal padre in modo particolare) e dalla propria cultura. Ha dovuto radicare in se stesso i valori che un tempo erano sostenuti anche dall'ambiente che lo circondava. Ha vissuto schiavitù e prigionia; l'incertezza che deriva dalla approvazione degli altri e dal successo se il valore non è radicato nella convinzione e nella prassi della persona. Solo l'uomo che vale per se tesso, per ciò che è veramente, ha un vero futuro. Giuseppe è maturato attraverso le responsabilità ricevute e accolte con grande serietà. Per quanto riguarda le prove interiori, è stato capace di attraversare la sofferenza senza rimanere schiacciato dagli eventi. Egli riconosce la presenza di Dio; sperimenta la sua assistenza. Gli rimane fedele, rifiutando il peccato. Attende con estrema fiducia il dispiegarsi dell'opera di Dio nella propria vita.
Ora avviene il rovesciamento dei ruoli a favore dei poveri annunciato di frequenza nella Bibbia: il Signore solleva il povero dalla sua estrema umiliazione e lo innalza collocandolo alla pari con i principi. Giuseppe è doppiamente povero, come uomo umiliato e come persona aperta a Dio nella in tutta la vita, soprattutto nella prova.
Osserviamo la prefigurazione di Cristo nella figura di Giuseppe. Il riconoscimento del valore del giovane ebreo da parte del Faraone, s'accompagna al rilevamento e al riconoscimento dell'opera di Dio in lui. Questi tratti del giusto preannunciano tratti della figura di Gesù. I contemporanei di Gesù dovevano riconoscere in Lui la presenza di Dio. Il Vangelo di Giovanni insiste su questo aspetto: nella persona di Gesù s'incontra Dio e nella gloria dell'opera di Gesù si può vedere la gloria stessa di Dio. Dio Padre riconosce il suo Figlio Gesù come il faraone riconosce Giuseppe.
Il riconoscimento del Faraone ricorda il doppio riconoscimento ricevuto da Gesù da parte di Dio. Come sappiamo, Dio ha riconosciuto il Figlio all'inizio della sua missione, in occasione del Battesimo. Lo ha presentato agli uomini come il suo Prediletto, nel quale poneva tutta la sua compiacenza. Con queste parole ha autorizzato Gesù a svolgere la sua missione. Egli agiva in nome del Padre, imitava sempre l'opera del Padre, desiderava esclusivamente compiere il suo volere. In lui gli uomini incontravano Dio stesso.
Il secondo riconoscimento ancora più importante Gesù lo ricevette dopo la sua morte e sepoltura quando il Padre lo fece risorgere da morte e lo collocò alla sua destra. La risurrezione di Gesù fu un risarcimento per le sofferenze e l'umiliazione subita ma anche un'elevazione in autorità. Il Padre ha consegnato il potere nelle sue mani. In Lui Dio continua ad operare ed Egli agisce con l'autorità di Dio. Egli regna attendendo di porre sotto il dominio suo e di Dio tutti i nemici della nostra umanità: il peccato e la morte. Alla fine, adempiuta la sua missione, Egli consegnerà al Padre il regno ricevuto e si sottometterà a Lui e noi ci sottometteremo a Dio insieme a Lui. Ciò che è decisivo in Giuseppe e in Cristo è la loro totale dedizione ai fratelli. La premura con cui il viceré percorre l'Egitto per provvedere alle necessità future del popolo, ci ricordano la premura di Gesù verso i poveri e i sofferenti, ma sopratutto la sua solidarietà verso la Chiesa.
Giuseppe costituisce un esempio anche per ognuno di noi. Noi tutti abbiamo ricevuto un dono da parte di Dio e siamo diventati partecipi del potere regale di Gesù. Dobbiamo fare in modo che Dio apprezzi la nostra dedizione agli altri e alla sua Chiesa. L'abbondanza della grazia che supera i nostri meriti non ci deve rendere passivi. Dio ricolma chi "ha", ossia chi è ricco di carità. Toglie a chi non ha nessuna azione d'amore.

Apetura. L’elevazione dell’umile e del sofferente

«[2]Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, [3]sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. [4]E la pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla. [9]Il fratello di umili condizioni si rallegri della sua elevazione [10]e il ricco della sua umiliazione, perché passerà come fiore d'erba. [11]Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l'erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco appassirà nelle sue imprese» (Gc 1,2-4; 9-10).
«[1]Se c'è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c'è conforto derivante dalla carità, se c'è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, [2]rendete piena la mia gioia con l'unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. [3]Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, [4]senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri.
[5]Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, [6]il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; [7]ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, [8]umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. [9]Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; [10]perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; [11]e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,1-11).

41. [50]Intanto nacquero a Giuseppe due figli, prima che venisse l'anno della carestia; glieli partorì Asenat, figlia di Potifera, sacerdote di On. [51]Giuseppe chiamò il primogenito Manasse, «perché - disse - Dio mi ha fatto dimenticare ogni affanno e tutta la casa di mio padre». [52]E il secondo lo chiamò Efraim, «perché - disse - Dio mi ha reso fecondo nel paese della mia afflizione».

Il matrimonio e la generazione di due figli, mostra come Giuseppe si sia ben inserito nella società egiziana. Non rimane estraneo od ostile alla cultura del paese che l'ha ospitato, in parte accolto e in parte bistrattato. Qui si ripete quanto aveva già operato nel periodo in cui s'era messo a servizio di Potifar. Procura il bene a coloro con i quali condivide l'esistenza. Più che estranei gli egiziani sono per lui dei fratelli. Anche se idolatri, sono oggetto della benevolenza di Dio il quale vuole manifestarsi a loro per mezzo di lui. Egli diventa una benedizione: gli anni dell'abbondanza sono  ricchi in modo del tutto straordinario ed eccezionale. Dio arricchisce il dono di chi si spende con generosità. Tuttavia pur vivendo in Egitto e collaborando con gli egiziani, Giuseppe rimane ebreo. Vive con loro ma non si fonde con loro. Lo dimostra il modo con cui accoglie i figli e impone loro i nomi. Vede in loro due doni particolari di Dio e rivelano chi è lui per Dio, davanti ai suoi occhi. Giuseppe è colui che è stato confortato da Dio e colui che Egli ha reso fecondo. Tutto il segreto della vita di Giuseppe sta nella sua relazione con Dio, è questa relazione la cosa più rilevante della sua esistenza. La stessa cosa vale per noi: qualunque sia la vita che conduciamo e le sofferenze che incontriamo, qualunque sia il nostro compito, se rimaniamo amici di Dio, sperimenteremo di ricevere consolazione e fecondità. Non solo gli altri a definirci e a costituire la nostra identità; non siamo in balia di alcun evento o di qualche macchinazione; non siamo qui per caso dentro una esistenza che procede in modo insensato. Non siamo neppure noi stessi a definirci in base alle nostre qualità e alle nostre azioni, nè di quelle belle, né di quelle brutte. Siamo definiti dall'amore di Dio che usa verso di noi fedeltà gratuita ad un progetto che ci precede. Tuttavia perché questo progetto non vada perduto, dobbiamo corrispondere alla sua grazia e avere fiducia nella sua promessa. L'esempio capitale resta sempre Abramo che, in terra straniera, crede alla promessa di Dio e si sente certo che Dio è capace di dare vita anche ai morti. Il progetto di Dio verso di noi è quello di renderci partecipi della gloria del suo Unigenito e di accompagnarci in ogni circostanza in modo che nulla, ma proprio nulla possa impedire all'amore di Dio di raggiungerci e di realizzare quanto ha prospettato per noi.

41. [53]Poi finirono i sette anni di abbondanza nel paese d'Egitto [54]e cominciarono i sette anni di carestia, come aveva detto Giuseppe. Ci fu carestia in tutti i paesi, ma in tutto l'Egitto c'era il pane. [55]Poi tutto il paese d'Egitto cominciò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Allora il faraone disse a tutti gli Egiziani: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà». [56]La carestia dominava su tutta la terra. Allora Giuseppe aprì tutti i depositi in cui vi era grano e vendette il grano agli Egiziani, mentre la carestia si aggravava in Egitto. [57]E da tutti i paesi venivano in Egitto per acquistare grano da Giuseppe, perché la carestia infieriva su tutta la terra.

L'Egitto diventa il luogo in cui Dio manifesta la sua provvidenza per tutti gli uomini in modo assolutamente discreto. Giuseppe diventa lo strumento della sua azione nel mondo. Dio in ogni epoca suscita la presenza e l'azione di uomini che sono a sevizio del suo progetto. Gli uomini provvidenziali per essere davvero tali devono agire a favore di tutti, in spirito di servizio, senza approfittare della loro posizione per dominare e senza usare alcuna violenza. Dio si manifesta buono e misericordioso verso tutti gli uomini. Il servizio di Giuseppe prefigura quello di Gesù. Come Faraone invia a Giuseppe per ricevere soccorso, così ora Gesù è Colui al quale il Padre invita ad andare per incontrare il suo amore e superare la carestia. Gesù è l'intercessore a favore di tutti gli uomini. Essi ricevono però senza spendere. L'unica condizione è la fiducia che Dio opere attraverso di lui.

Apertura: operare per il bene della società

«[4]«Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalemme a Babilonia: [5]Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; [6]prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie; costoro abbiano figlie e figli. Moltiplicatevi lì e non diminuite. [7]Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere.
[8]Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Non vi traggano in errore i profeti che sono in mezzo a voi e i vostri indovini; non date retta ai sogni, che essi sognano. [9]Poiché con inganno parlano come profeti a voi in mio nome; io non li ho inviati. Oracolo del Signore. [10]Pertanto dice il Signore: Solamente quando saranno compiuti, riguardo a Babilonia, settanta anni, vi visiterò e realizzerò per voi la mia buona promessa di ricondurvi in questo luogo. [11]Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo - dice il Signore - progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza. [12]Voi mi invocherete e ricorrerete a me e io vi esaudirò; [13]mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; [14]mi lascerò trovare da voi - dice il Signore - cambierò in meglio la vostra sorte e vi radunerò da tutte le nazioni e da tutti i luoghi dove vi ho disperso - dice il Signore - vi ricondurrò nel luogo da dove vi ho fatto condurre in esilio» (Geremia 29, 4-14).

[11]Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all'anima. [12]La vostra condotta tra i pagani sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio. [13]State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, [14]sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. [15]Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all'ignoranza degli stolti. [16]Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio.
[17]Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re (1 Pt 2, 12-17).

42. [1]Ora Giacobbe seppe che in Egitto c'era il grano; perciò disse ai figli: «Perché state a guardarvi l'un l'altro?». [2]E continuò: «Ecco, ho sentito dire che vi è il grano in Egitto. Andate laggiù e compratene per noi, perché possiamo conservarci in vita e non morire». [3]Allora i dieci fratelli di Giuseppe scesero per acquistare il frumento in Egitto. [4]Ma quanto a Beniamino, fratello di Giuseppe, Giacobbe non lo mandò con i fratelli perché diceva: «Non gli succeda qualche disgrazia!». [5]Arrivarono dunque i figli d'Israele per acquistare il grano, in mezzo ad altri che pure erano venuti, perché nel paese di Canaan c'era la carestia.

Spesso il disagio disarma e rende le persone fiacche e prive d'iniziativa. I dieci fratelli sembrano frastornati e bloccati, privi di speranza e d'iniziativa, incapaci di provvedere a loro stessi e alle loro famiglie. Giacobbe incarna la figura del saggio che nelle situazioni difficile si mostra capace di rianimare gli altri e di suggerire prospettive di speranza. Egli indica soluzioni ovvie e alla portata ma talora siamo così confusi da non vedere ciò che è più ovvio e così scoraggiati da non saper muoverci verso di esso. Non dobbiamo lasciarci dominare totalmente dagli aspetti negativi dell'esistenza (cf il salmo 26 che percorre le vicende di Davide perseguitato da Saul), nè lasciarci irretire dai fatti che ci sconvolgono.

[6]Ora Giuseppe aveva autorità sul paese e vendeva il grano a tutto il popolo del paese. Perciò i fratelli di Giuseppe vennero da lui e gli si prostrarono davanti con la faccia a terra. [7]Giuseppe vide i suoi fratelli e li riconobbe, ma fece l'estraneo verso di loro, parlò duramente e disse: «Di dove siete venuti?». Risposero: «Dal paese di Canaan per comperare viveri». [8]Giuseppe riconobbe dunque i fratelli, mentre essi non lo riconobbero. [9]Si ricordò allora Giuseppe dei sogni che aveva avuti a loro riguardo e disse loro: «Voi siete spie! Voi siete venuti a vedere i punti scoperti del paese». [10]Gli risposero: «No, signore mio; i tuoi servi sono venuti per acquistare viveri. [11]Noi siamo tutti figli di un solo uomo. Noi siamo sinceri. I tuoi servi non sono spie!». [12]Ma egli disse loro: «No, voi siete venuti a vedere i punti scoperti del paese!».

[13]Allora essi dissero: «Dodici sono i tuoi servi, siamo fratelli, figli di un solo uomo, nel paese di Canaan; ecco il più giovane è ora presso nostro padre e uno non c'è più». [14]Giuseppe disse loro: «Le cose stanno come vi ho detto: voi siete spie. [15]In questo modo sarete messi alla prova: per la vita del faraone, non uscirete di qui se non quando vi avrà raggiunto il vostro fratello più giovane. [16]Mandate uno di voi a prendere il vostro fratello; voi rimarrete prigionieri. Siano così messe alla prova le vostre parole, per sapere se la verità è dalla vostra parte. Se no, per la vita del faraone, voi siete spie!». [17]E li tenne in carcere per tre giorni. [18]Al terzo giorno Giuseppe disse loro: «Fate questo e avrete salva la vita; io temo Dio! [19]Se voi siete sinceri, uno dei vostri fratelli resti prigioniero nel vostro carcere e voi andate a portare il grano per la fame delle vostre case. [20]Poi mi condurrete qui il vostro fratello più giovane. Allora le vostre parole si dimostreranno vere e non morirete».

Essi annuirono. [21]Allora si dissero l'un l'altro: «Certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello, perché abbiamo visto la sua angoscia quando ci supplicava e non lo abbiamo ascoltato. Per questo ci è venuta addosso quest'angoscia». [22]Ruben prese a dir loro: «Non ve lo avevo detto io: Non peccate contro il ragazzo? Ma non mi avete dato ascolto. Ecco ora ci si domanda conto del suo sangue». [23]Non sapevano che Giuseppe li capiva, perché tra lui e loro vi era l'interprete. [24]Allora egli si allontanò da loro e pianse. Poi tornò e parlò con essi. Scelse tra di loro Simeone e lo fece incatenare sotto i loro occhi.

Arriva il momento dell'incontro fatidico. Inconsapevoli della trama segreta alla quali essi stanno dando ad effetto, si prostrano di fronte a Giuseppe. Il sogno si realizza ma soltanto a livello formale. La loro genuflessione è ancora un gesto privo del vero contenuto che dovrebbe avere. Il resto del racconto darà pieno senso a ciò che essi fanno in modo spontaneo ed inconsapevole. La prima reazione di Giuseppe è piuttosto negativa. Sembra che il risentimento sia la nota dominante. Non si fa riconoscere da loro e li minaccia. Sotto la sua autorità possono soccombere. Nel momento in cui i fratelli si prostrano, Giuseppe si ricorda del sogno. Ma qual'era il suo vero significato? O meglio qual'era il motivo più vero per il quale Dio glielo aveva mandato? Il sogno non segna un destino, una costrizione ma apre una direzione, una possibilità di scelta. Può concludersi in un semplice atto di giustizia da parte di Giuseppe o di vendetta. Se egli si limitasse a compiere un atto di giustizia, commetterebbe un errore? La vicenda continua perché Giuseppe agisce oltre la giustizia. Se si svelasse e li accusasse, farebbe qualcosa di giusto e di ovvio ma chiuderebbe una prospettiva di grazia molto più ampia.
Subito Giuseppe sembra far prevalere il risentimento. La pena è tuttavia assai lieve tre giornate di carcerazione che saranno state comunque piuttosto angosciate. La durezza del viceré li scuote in profondità e fa riemergere i loro ricordi, i rimorsi della coscienza. Dopo tre giorni, il vicerè ha un ripensamento: rimarrà in carcere uno solo dei fratelli mentre tutti gli altri potranno ripartire. Egli, piuttosto di condannarli, dopo tanto tempo, prima di tutto vuole metterli alla prova. Vuole verificare se sono persone dure come erano un tempo o se sono cambiati. Vuole verificare se, nei confronti di Beniamino, il più giovane, il preferito dal padre Giacobbe, tengono lo stesso sentimento di gelosia che avevano manifestato nei suoi confronti. Giuseppe si ammorbidisce; dal sentimento di durezza, passa ad uno di maggio pietà e di maggior giustizia. Probabilmente il ricordo del padre, il dolore che questi potrebbe provare nel non rivedere più i figli, il timore che tutti gli altri membri della famiglia potessero patire la fame se privi delle scorte di grano (cf. 42,19), induce il vicerè a cambiare il suo atteggiamento. Tuttavia il testo non mette in risalto i ragionamenti umanitari di G ma riporta soltanto la sua dichiarazione con il quale, parlando di sé, attesta di essere un uomo religioso (v. 18: Io temo Dio!). In altre parole se egli diventa più misericordioso e più saggio nelle sue decisioni, questo deriva dalla sua profonda relazione con Dio. In questi tre giorni, qualcosa è avvenuto nel suo animo. Dio ha parlato alla sua mente e al suo cuore. G testimonia ciò che dovrebbe una persona religiosa autentica. Chi teme Dio è un uomo di misericordia e di compassione; è un uomo che non confonde la giustizia con la vendetta. Non è un uomo che pensa esclusivamente a se stesso ma che è realmente interessato al bene degli altri. Io temo Dio! Questa è l'essenza del vicerè, come del resto è l'essenza dell'uomo saggio. Egli vuole evitare di comportarsi verso i dieci fratelli come loro si sono comportati verso di lui. Egli aveva rivolto loro suppliche angosciate alle quali non avevano dato ascolto; ora invece ha pietà e ascolta le loro parole angosciose.

 [21]Allora si dissero l'un l'altro: «Certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello, perché abbiamo visto la sua angoscia quando ci supplicava e non lo abbiamo ascoltato. Per questo ci è venuta addosso quest'angoscia». [22]Ruben prese a dir loro: «Non ve lo avevo detto io: Non peccate contro il ragazzo? Ma non mi avete dato ascolto. Ecco ora ci si domanda conto del suo sangue».

[23]Non sapevano che Giuseppe li capiva, perché tra lui e loro vi era l'interprete. [24]Allora egli si allontanò da loro e pianse. Poi tornò e parlò con essi. Scelse tra di loro Simeone e lo fece incatenare sotto i loro occhi.

Giuseppe modifica la sua prima decisione per riguardo della famiglia del padre; in essa c'è anche Beniamino. Non è mai giusto giudicare e colpire in massa senza fare alcuna distinzione tra le persone: alcune sono più colpevoli, altre meno. Altre non hanno nessuna colpa. Anche Dio distingue. Ad esempio nella preghiera di intercessione di Abramo; nel rimprovero del Signore nei confronti di Giona che vorrebbe lo sterminio di massa dei Niniviti. Accade allora che pochi possano salvare molti.
L'accusa di essere delle spie, la severità imprevista del vicerè, la carcerazione improvvisa scuotono la coscienza dei fratelli che avevano cercato di rimuovere il loro delitto. Pensano di essere innocenti nell'accusa che ora li colpiscono ma non pensano di essere innocenti in tutto. La paura smuove le memorie sepolte. Ricordano non soltanto il fatto di aver imprigionato il fratello in modo ingiusto ma anche la loro indifferenza di fronte alle sue suppliche; più che indifferenza, si tratta di vera crudeltà. La cattiveria aveva soffocato ogni sentimento umano. Il dolore inflitto a G s'era tramutato in un dolore interiore. Alle altre pene erano riusciti a sfuggire, apparentemente erano giudicati innocenti, ma non era sfuggiti al rimprovero della loro coscienza. Nel salmo 37, i rimproveri della coscienza sono visti come frecce acuminate che colpiscono il peccatore. Era necessario per ritrovare una normalità di vita, che essi facessero riaffiorare il loro passato iniquo. Era necessario che si riconoscessero colpevoli. Non avrebbero più dovuto resistere alla verità con se stessi. A compiere questo primo passo (l'altro passo consisteva nel chiedere perdono a G), sopratutto nel superamento del loro stile scorretto di vita, non ce la fanno da soli. Sono scossi dagli avvenimenti dolorosi imprevisti. Per ogni uomo che si è imposto la menzogna, certi eventi della vita diventano i castighi, o meglio gli atti pedagogici di Dio, le sue correzioni, attraverso le quali, e soltanto attraverso le quali, le persone ritrovano se stesse. Forse non sarebbero stati i rimproveri della coscienza a provocare in loro il pentimento. In ogni modo quest'ultimo, per quanto profondo e sincero, non sarebbe bastato a creare la riconciliazione. A consolidare la voce della coscienza, s'aggiungono le parole di Ruben, il quale, senza esitazione, denomina peccato la loro azione. Non ricorre ad attenuanti, non sviluppa un processo psicologico. Neppure presume di stabilire un livello di colpevolezza o di stabilire la misura della pena. Dichiara soltanto che il peccato è peccato. Questo rimane sempre il compito della Chiesa: essa deve annunciare che il male è peccato, senza mezzi termini; a rischio di suscitare la repulsione degli uditori e la loro risposta stizzita. G ascolta e scoppia in pianto. Egli è un uomo sensibile e misericordioso. La confessione dei fratelli lo disarma. Ogni confessione disarma i nostri accusatori. Tuttavia egli non si svela perché deve avviare una verifica su di loro. La strada della riconciliazione non si muove nell'improvvisazione. Ci sono modalità da seguire, attese, esercizio di pazienza. Siamo soltanto all'inizio e non è possibile pretendere una conclusione buonista.

Ritorno dei figli di Giacobbe in Canaan [25]Quindi Giuseppe diede ordine che si riempissero di grano i loro sacchi e si rimettesse il denaro di ciascuno nel suo sacco e si dessero loro provviste per il viaggio. E così venne loro fatto. [26]Essi caricarono il grano sugli asini e partirono di là. [27]Ora in un luogo dove passavano la notte uno di essi aprì il sacco per dare il foraggio all'asino e vide il proprio denaro alla bocca del sacco. [28]Disse ai fratelli: «Mi è stato restituito il denaro: eccolo qui nel mio sacco!». Allora si sentirono mancare il cuore e tremarono, dicendosi l'un l'altro: «Che è mai questo che Dio ci ha fatto?».

Giuseppe continua a comportarsi con i fratelli con due sentimenti ed atteggiamenti molto diversificati, con benevolenza e diffidenza. Non si vendica di loro perché anzi li benefica ma non si fida del tutto e continua a metterli alla prova. Restituendo il denaro, concede un beneficio a loro e a tutta la famiglia ma li mette alla prova. Nel ritrovare il denaro, che di per sé è un fatto di buon auspicio, si lasciano prendere dalla paura. Temono un trabocchetto perpetrato dal vicerè, anzi da Dio stesso. I fratelli suscitano nel lettore un sorriso di ironia. Giuseppe e noi che leggiamo il racconto sappiamo già come stanno le cose. Non è in corso nessuna vendetta. La loro preoccupazione è fuori luogo. Chi è in cattiva coscienza, tuttavia, è anche facile al sospetto. Riaffiora di nuovo il problema dei fratelli: sono ancora sotto il peso della loro cattiva azione. Il passato non passa. Sanno che Dio potrebbe punirli. Dopo aver sorriso di loro, però, è anche opportuno che ci mettiamo al loro posto. Anche noi stiamo vivendo una storia di vita il cui significato ci sfugge. A nostra volta possiamo dare una cattiva interpretazione ai fatti che ci accadono. Non siamo subito pronti a dubitare dell'amore di Dio? Non temiamo anche noi la sua disapprovazione e la sua correzione? Non siamo forse propensi a preoccuparci in modo eccessivo di quanto ci capita? Spesso veniamo presi da sfiducia e cominciamo a lamentarci; forse ad inveire perfino contro Dio nel nostro cuore. Dovremmo imparare a nutrire maggio fiducia e a restarcene più calmi. Dovremo purificare la nostra coscienza. La cattiva coscienza può distruggere. Il testo mostra come nessuno sia pienamente padrone del proprio cuore. Nessuno è del tutto padrone di se stesso. Le nostre paure irrazionali vengono a pesare e a determinare la nostra vita. Per questo nella Bibbia troviamo un invito alla fiducia: Dio è più grande del nostro cuore (1 GV). Troviamo l'invocazione: liberami dall'angoscia. Concedimi di continuare ad avere fiducia in Dio anche quando mi sento peccatore.

[29]Arrivati da Giacobbe loro padre, nel paese di Canaan, gli riferirono tutte le cose che erano loro capitate: [30]«Quell'uomo che è il signore del paese ci ha parlato duramente e ci ha messi in carcere come spie del paese. [31]Allora gli abbiamo detto: Noi siamo sinceri; non siamo spie! [32]Noi siamo dodici fratelli, figli di nostro padre: uno non c'è più e il più giovane è ora presso nostro padre nel paese di Canaan. [33]Ma l'uomo, signore del paese, ci ha risposto: In questo modo io saprò se voi siete sinceri: lasciate qui con me uno dei vostri fratelli, prendete il grano necessario alle vostre case e andate. [34]Poi conducetemi il vostro fratello più giovane; così saprò che non siete spie, ma che siete sinceri; io vi renderò vostro fratello e voi potrete percorrere il paese in lungo e in largo».[35]Mentre vuotavano i sacchi, ciascuno si accorse di avere la sua borsa di denaro nel proprio sacco. Quando essi e il loro padre videro le borse di denaro, furono presi dal timore. [36]E il padre loro Giacobbe disse: «Voi mi avete privato dei figli! Giuseppe non c'è più, Simeone non c'è più e Beniamino me lo volete prendere. Su di me tutto questo ricade!».[37]Allora Ruben disse al padre: «Farai morire i miei due figli, se non te lo ricondurrò. Affidalo a me e io te lo restituirò». [38]Ma egli rispose: «Il mio figlio non verrà laggiù con voi, perché suo fratello è morto ed egli è rimasto solo. Se gli capitasse una disgrazia durante il viaggio che volete fare, voi fareste scendere con dolore la mia canizie negli inferi».

Della spedizione in Egitto, i figli di Giacobbe considerano e comunicano soltanto gli elementi negativi e preoccupanti. In realtà avrebbero potuto scoprire indizi di speranza: il vicerè li aveva scarcerati; aveva dato loro la possibilità di difendersi abbastanza agevolmente. La futura missione in Egitto aveva prospettive incoraggianti. Quando siamo nel dolore, non riusciamo a scorgere il bene. Quando ci troviamo in una grave difficoltà, non scorgiamo gli elementi di superamento e di uscita da essa. Troviamo sempre più realistico il pessimismo. La convinzione che ci sia un Dio buono che si prende cura di noi, riesce ad illuminare soltanto un breve tratto della nostra coscienza mentre essa potrebbe darci un nuovo orientamento sicuro, rischiarante ed illuminante. Se avessimo più fiducia nel Signore, vivremo meglio, con minore angoscia.
Giacobbe, a sua volta, continua il suo solito atteggiamento. Di fronte alle richieste dei figli, continua a mostrarsi attaccato a qualcuno in particolare, un questo caso a Beniamino, come prima lo era stato nei confronti di Giuseppe. Questi due figli valgono come tutta la famiglia. Egli insinua, poi, che i figli siano responsabili dell'assenza degli altri due (Giuseppe e Simeone), ma nella perdita include già anche il terzo. Già prevede che dovrà acconsentire ed è certo che la vicenda andrà a male. Giacobbe non è cambiato molto né per l'età, né per i casi della vita. Emerge invece Ruben che si mostra molto coscienzioso. Egli s'impegna molto per salvare Simeone e tutto il resto della famiglia. I suoi figli per lui non valgono in modo assoluto. Egli privilegia l'interesse di tutti a suo interesse particolare.
La necessità incombe. Tutti, i figli e il padre, cercano di rimandare la questione spinosa che li sta tormentando. ma alla fine devono affrontarla. Giacobbe rompe il silenzio sempre però cercando di evitare il nodo doloroso. Spesso sono le necessità della vita che ci costringono a maturare. In ogni caso si può sempre cercare di sfuggirvi ma sarebbe da irresponsabili. In ogni modo alla realtà della situazione si deve accompagnare sempre il nostro senso morale di responsabilità. I fatti non sono delle fatalità ma si trasformano a seconda del nostro impegno.
Giacobbe prende l'iniziativa del viaggio e Giuda rilancia invece la questione connessa, sempre taciuta e rinviata. Il testo fa capire che il problema avrebbe dovuto essere stato affrontato molto prima. Erano ormai agli sgoccioli per quanto riguarda la misura dei viveri. Questi uomini biblici si comportano come noi che siamo tentati sempre a non vedere o a rimandare il problema che ci inquieta. La sapienza della vita e il senso di responsabilità nei confronti degli altri dovrebbe indurci ad essere più tempestivi. Quante volte lasciamo incancrenire le situazioni! Facciamo spallucce, inventiamo scuse, aspettiamo che siano altri ad intervenire.
Inoltre bisogna osservare come siano tutti poco interessati alla liberazione di Simeone, che intanto continuava a languire in carcere.

43. [1]La carestia continuava a gravare sul paese. [2]Quando ebbero finito di consumare il grano che avevano portato dall'Egitto, il padre disse loro: «Tornate là e acquistate per noi un pò di viveri». [3]Ma Giuda gli disse: «Quell'uomo ci ha dichiarato severamente: Non verrete alla mia presenza, se non avrete con voi il vostro fratello! [4]Se tu sei disposto a lasciar partire con noi nostro fratello, andremo laggiù e ti compreremo il grano. [5]Ma se tu non lo lasci partire, noi non ci andremo, perché quell'uomo ci ha detto: Non verrete alla mia presenza, se non avrete con voi il vostro fratello!». [6]Israele disse: «Perché mi avete fatto questo male, cioè far sapere a quell'uomo che avevate ancora un fratello?». [7]Risposero: «Quell'uomo ci ha interrogati con insistenza intorno a noi e alla nostra parentela: E' ancora vivo vostro padre? Avete qualche fratello? e noi abbiamo risposto secondo queste domande. Potevamo sapere ch'egli avrebbe detto: Conducete qui vostro fratello?».

I rimproveri inutili di Giacobbe verso i figli, rivelano i pensieri che il patriarca aveva alimentato a lungo dentro di sé, senza mai parlarne con loro. In realtà si mostra molto ingiusto. I figli non avevano potuto agire diversamente. Se ne avesse parlato prima, avrebbero potuto chiarirsi in tempo. Spesso i silenzi nelle comunità o nelle famiglie creano false situazioni di pace. Sempre meglio esprimere i dubbi o ciò che ci affligge sia pure nel rispetto, nella calma, pronti a ricrederci se c'eravamo sbagliati, pronti a chiedere scusa. Un silenzio che conserva mille sospetti mentre cova sentimenti di rancore appare molto peggiore di una discussione difficile e che si svolge sul filo dell'incomprensione. Soltanto nel caso di vera impossibilità di dialogo appare più opportuno il silenzio.

[8]Giuda disse a Israele suo padre: «Lascia venire il giovane con me; partiremo subito per vivere e non morire, noi, tu e i nostri bambini. [9]Io mi rendo garante di lui: dalle mie mani lo reclamerai. Se non te lo ricondurrò, se non te lo riporterò, io sarò colpevole contro di te per tutta la vita. [10]Se non avessimo indugiato, ora saremmo gia di ritorno per la seconda volta». [11]Israele loro padre rispose: «Se è così, fate pure: mettete nei vostri bagagli i prodotti più scelti del paese e portateli in dono a quell'uomo: un pò di balsamo, un pò di miele, resina e laudano, pistacchi e mandorle. [12]Prendete con voi doppio denaro, il denaro cioè che è stato rimesso nella bocca dei vostri sacchi lo porterete indietro: forse si tratta di un errore. [13]Prendete anche vostro fratello, partite e tornate da quell'uomo. [14]Dio onnipotente vi faccia trovare misericordia presso quell'uomo, così che vi rilasci l'altro fratello e Beniamino. Quanto a me, una volta che non avrò più i miei figli, non li avrò più...!».

Giuda si mostra molto responsabile. Possiamo elogiarlo come avevamo fatto con Ruben.
Di fronte alle parole ragionevoli e pazienti del figlio, Giacobbe cede. Anzi riaffiora la sua grande astuzia o padronanza di sé nelle situazioni. Egli sa come affrontare i dissidi con le persone più potenti. Si è esercitato ben presto con Esaù e con Labano. Ricorre al metodo del dono prezioso. Il vicerè dovrebbe rabbonirsi. C'è astuzia ma anche intelligenza autentica. I fatti e i gesti parlano più delle parole. Quando parlare non è più possibile, si può ovviare con i gesti. Il nostro stile di vita parla più di qualsiasi discorso.
Alla tattica, Giacobbe accompagna l'invocazione. Non si tratta di una semplice aggiunta di prammatica. Il testo mostra la religiosità autentica del patriarca, che è solito ad abbandonare a Dio il corso della sua esistenza. Prima si augura o meglio invoca secondo il suo desiderio ma si rassegna a ciò che accadrà. Tuttavia nella aspettativa del patriarca sembra prevalere il pessimismo.  Purtroppo l’esperienza del dolore lo ha segnato in profondità più delle altre esperienza positive vissute. Spesso anche noi siamo troppo rassegnati. Tendiamo a ricordare le sofferenze più dei doni ricevuti. Col pessimismo restringiamo l'orizzonte della nostra vita. Non ci aspettiamo molto dalla grazia di Dio.

[15]Presero dunque i nostri uomini questo dono e il doppio del denaro e anche Beniamino, partirono, scesero in Egitto e si presentarono a Giuseppe. [16]Quando Giuseppe ebbe visto Beniamino con loro, disse al suo maggiordomo: «Conduci questi uomini in casa, macella quello che occorre e prepara, perché questi uomini mangeranno con me a mezzogiorno». [17]Il maggiordomo fece come Giuseppe aveva ordinato e introdusse quegli uomini nella casa di Giuseppe. [18]Ma quegli uomini si spaventarono, perché venivano condotti in casa di Giuseppe, e dissero: «A causa del denaro, rimesso nei nostri sacchi l'altra volta, ci si vuol condurre là: per assalirci, piombarci addosso e prenderci come schiavi con i nostri asini».

Giuseppe continua ad essere ambiguo: da una parte mostra molta attenzione verso i fratelli, è realmente felice di vederli e di stare con loro, dall'alta si mostra distaccato e diffidente. Ci sono motivi psicologici e morali, come apparirà più chiaro nel proseguo del racconto. Psicologici: una riconciliazione, soprattutto quando parte da separazioni drammatiche, richiede tempo per effettuarsi realmente. Se si realizzasse in breve tempo, potrebbe risultare poco profonda, col rischio di scarsa durata. Quanto ai motivi morali, g vuole verificare se i fratelli sono realmente cambiati e se è possibile una vera riconciliazione con loro. Una riconciliazione è qualcosa di diverso dal perdono. Da quanto appare dal racconto, g li ha già perdonati. Lo vediamo dal fatto che non li ha trattati con astio. Se fosse stato dominato dal desiderio di vendetta, l'avrebbe già attuata, ne aveva già avuto l'occasione nel viaggio precedente. Una riconciliazione è una cosa diversa dal perdono. Questo si concede a persone che poi rimangono tra loro sostanzialmente estranee. La riconciliazione si attua tra persone che continuano a conservare una relazione tra loro. Questa può essere stipulata ma anche rinnovata; può migliorare e diventare sempre più profonda. Presuppone il perdono ma anche molto di più. La distinzione tra riconciliazione e perdono può essere meno drastica di quanto ho detto ma g intende raggiungere un obiettivo migliore della semplice mancanza di ostilità. La riconciliazione richiede una certa strategia. G deve saper come e quando intervenire ma la sua arte consiste nel preparare i fratelli ad essa. Non ci dobbiamo preoccupare soltanto del nostro stato d'animo ma di coltivare in qualche modo anche quello dell'avversario. Gesù dichiara: se tuo fratello ha qualcosa contro di te. Non è importante in modo esclusivo la nostra onestà e purezza. La riconciliazione richiede davvero porre al primo posto l'amore del prossimo e la comunione con lui. 

[19]Allora si avvicinarono al maggiordomo della casa di Giuseppe e parlarono con lui all'ingresso della casa; [20]dissero: «Mio signore, noi siamo venuti gia un'altra volta per comperare viveri. [21]Quando fummo arrivati ad un luogo per passarvi la notte, aprimmo i sacchi ed ecco il denaro di ciascuno si trovava alla bocca del suo sacco: proprio il nostro denaro con il suo peso esatto. Allora noi l'abbiamo portato indietro [22]e, per acquistare i viveri, abbiamo portato con noi altroettu denaro. Non sappiamo chi abbia messo nei sacchi il nostro denaro!». [23]Ma quegli disse: «State in pace, non temete! Il vostro Dio e il Dio dei padri vostri vi ha messo un tesoro nei sacchi; il vostro denaro è pervenuto a me». E portò loro Simeone.

 [24]Quell'uomo fece entrare gli uomini nella casa di Giuseppe, diede loro acqua, perché si lavassero i piedi e diede il foraggio ai loro asini. [25]Essi prepararono il dono nell'attesa che Giuseppe arrivasse a mezzogiorno, perché avevano saputo che avrebbero preso cibo in quel luogo. [26]Quando Giuseppe arrivò a casa, gli presentarono il dono, che avevano con sé, e si prostrarono davanti a lui con la faccia a terra. [27]Egli domandò loro come stavano e disse: «Sta bene il vostro vecchio padre, di cui mi avete parlato? Vive ancora?». [28]Risposero: «Il tuo servo, nostro padre, sta bene, è ancora vivo» e si inginocchiarono prostrandosi. [29]Egli alzò gli occhi e guardò Beniamino, suo fratello, il figlio di sua madre, e disse: «E' questo il vostro fratello più giovane, di cui mi avete parlato?» e aggiunse: «Dio ti conceda grazia, figlio mio!». [30]Giuseppe uscì in fretta, perché si era commosso nell'intimo alla presenza di suo fratello e sentiva nil bisogno di piangere; entrò nella sua camera e pianse. [31]Poi si lavò la faccia, uscì e, facendosi forza, ordinò: «Servite il pasto».

Il colloquio tra i fratelli e il maggiordomo serve ad introdurrebbe una dimensione religiosa. L'intervento del maggiordomo non è del tutto chiaro. Vuole dire forse che Dio ha mandato il denaro nei sacchi? O pensa che Dio può servirsi di modalità più normali, servendosi dell'iniziativa di altri. Ha saputo che è stato il vicerè stesso a fare questo per ispirazione divina? L'aspetto più rilevante sta nel fatto che si parli di Dio e lo di consideri come il protagonista discreto della storia. L'osservazione viene messa in bocca ad un pagano. Veniamo riconfermati così che Dio non è estraneo alla vita di questo israeliti. Egli sta provvedendo a loro ed usa nei loro confronti delle delicatezze inaspettate. Questo fatto presenta un valore particolare se teniamo conto che i fratelli erano persone colpevoli. Dio li sta aiutando non soltanto economicamente, lasciandoli in vita ma anche moralmente. Li sta preparando all'incontro riconciliatore con il loro fratello. L'interessamento di g circa la salute del padre e il pianto davanti a Beniamino mostrano come la Bibbia confermi la importanza dei sentimenti umani positivi e il valore che viene attribuito alla famiglia. L'essere stato strappato dal padre e dal fratello è stato per g un trauma insanabile. Per quanto egli si possa considerare una persona di successo, non riesce a colmare il vuoto. Questo ci dovrebbe rendere attenti a non fare nulla per dividere i legami familiari, anzi a fare quanto ci è possibile per salvaguardarli.

[32]Fu servito per lui a parte, per loro a parte e per i commensali egiziani a parte, perché gli Egiziani non possono prender cibo con gli Ebrei: ciò sarebbe per loro un abominio. [33]Presero posto davanti a lui dal primogenito al più giovane, ciascuno in ordine di età ed essi si guardavano con meraviglia l'un l'altro. [34]Egli fece portare loro porzioni prese dalla propria mensa, ma la porzione di Beniamino era cinque volte più abbondante di quella di tutti gli altri. E con lui bevvero fino all'allegria.

Giuseppe mangia con loro ma è separato da loro. Ci sono anche difficoltà di carattere culturale. Non solo i figli di Giacobbe ma anche l'umanità è divisa. Gli uomini hanno creato di continuo barriere tra di loro. Non hanno saputo mangiare allo stesso tavolo, in vera fraternità. Dopo la Pasqua di Gesù, Paolo cercherà in tutti i modi di integrare tra loro cristiani ebrei e cristiani pagani. La chiesa è un raduno di popoli. Il testo ci chiama anche a dare attenzione ai segni che poniamo. I gesti parlano più delle parole.

Capitolo 44 [1]Diede poi questo ordine al maggiordomo della sua casa: «Riempi i sacchi di quegli uomini di tanti viveri quanti ne possono contenere e metti il denaro di ciascuno alla bocca del suo sacco. [2]Insieme metterai la mia coppa, la coppa d'argento, alla bocca del sacco del più giovane, con il denaro del suo grano». Quegli fece secondo l'ordine di Giuseppe. [3]Al mattino, fattosi chiaro, quegli uomini furono fatti partire con i loro asini. [4]Erano appena usciti dalla città e ancora non si erano allontanati, quando Giuseppe disse al maggiordomo della sua casa: «Su, insegui quegli uomini, raggiungili e dì loro: Perché avete reso male per bene? [5]Non è forse questa la coppa in cui beve il mio signore e per mezzo della quale egli suole trarre i presagi? Avete fatto male a fare così». [6]Egli li raggiunse e ripeté loro queste parole. [7]Quelli gli dissero: «Perché il mio signore dice queste cose? Lungi dai tuoi servi il fare una tale cosa! [8]Ecco, il denaro che abbiamo trovato alla bocca dei nostri sacchi te lo abbiamo riportato dal paese di Canaan e come potremmo rubare argento od oro dalla casa del tuo padrone? [9]Quello dei tuoi servi, presso il quale si troverà, sarà messo a morte e anche noi diventeremo schiavi del mio signore». [10]Rispose: «Ebbene, come avete detto, così sarà: colui, presso il quale si troverà, sarà mio schiavo e voi sarete innocenti». [11]Ciascuno si affrettò a scaricare a terra il suo sacco e lo aprì. [12]Quegli li frugò dal maggiore al più piccolo, e la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino. [13]Allora essi si stracciarono le vesti, ricaricarono ciascuno il proprio asino e tornarono in città. [14]Giuda e i suoi fratelli vennero nella casa di Giuseppe, che si trovava ancora là, e si gettarono a terra davanti a lui. [15]Giuseppe disse loro: «Che azione avete commessa? Non sapete che un uomo come me è capace di indovinare?». [16]Giuda disse: «Che diremo al mio signore? Come parlare? Come giustificarci? Dio ha scoperto la colpa dei tuoi servi... Eccoci schiavi del mio signore, noi e colui che è stato trovato in possesso della coppa». [17]Ma egli rispose: «Lungi da me il far questo! L'uomo trovato in possesso della coppa, lui sarà mio schiavo: quanto a voi, tornate in pace da vostro padre».

Il discorso decisivo di Giuda:

 [18]Allora Giuda gli si fece innanzi e disse: «Mio signore, sia permesso al tuo servo di far sentire una parola agli orecchi del mio signore; non si accenda la tua ira contro il tuo servo, perché il faraone è come te! [19]Il mio signore aveva interrogato i suoi servi: Avete un padre o un fratello? [20]E noi avevamo risposto al mio signore: Abbiamo un padre vecchio e un figlio ancor giovane natogli in vecchiaia, suo fratello è morto ed egli è rimasto il solo dei figli di sua madre e suo padre lo ama. [21]Tu avevi detto ai tuoi servi: Conducetelo qui da me, perché lo possa vedere con i miei occhi. [22]Noi avevamo risposto al mio signore: Il giovinetto non può abbandonare suo padre: se lascerà suo padre, questi morirà. [23]Ma tu avevi soggiunto ai tuoi servi: Se il vostro fratello minore non verrà qui con voi, non potrete più venire alla mia presenza. [24]Quando dunque eravamo ritornati dal tuo servo, mio padre, gli riferimmo le parole del mio signore. [25]E nostro padre disse: Tornate ad acquistare per noi un pò di viveri. [26]E noi rispondemmo: Non possiamo ritornare laggiù: se c'è con noi il nostro fratello minore, andremo; altrimenti, non possiamo essere ammessi alla presenza di quell'uomo senza avere con noi il nostro fratello minore. [27]Allora il tuo servo, mio padre, ci disse: Voi sapete che due figli mi aveva procreato mia moglie. [28]Uno partì da me e dissi: certo è stato sbranato! Da allora non l'ho più visto. [29]Se ora mi porterete via anche questo e gli capitasse una disgrazia, voi fareste scendere con dolore la mia canizie nella tomba. [30]Ora, quando io arriverò dal tuo servo, mio padre, e il giovinetto non sarà con noi, mentre la vita dell'uno è legata alla vita dell'altro, [31]appena egli avrà visto che il giovinetto non è con noi, morirà e i tuoi servi avranno fatto scendere con dolore negli inferi la canizie del tuo servo, nostro padre. [32]Ma il tuo servo si è reso garante del giovinetto presso mio padre: Se non te lo ricondurrò, sarò colpevole verso mio padre per tutta la vita. [33]Ora, lascia che il tuo servo rimanga invece del giovinetto come schiavo del mio signore e il giovinetto torni lassù con i suoi fratelli! [34]Perché, come potrei tornare da mio padre senz'avere con me il giovinetto? Ch'io non veda il male che colpirebbe mio padre!».

Siamo al momento culminante del racconto, non soltanto perché ora Giuseppe si rivela agli astanti ma soprattutto perché, tramite le sue parole, viene svelato ai fratelli ma anche ai futuri lettori, il significato della vicenda.

45. [1]Allora Giuseppe non potè più contenersi dinanzi ai circostanti e gridò: «Fate uscire tutti dalla mia presenza!». Così non restò nessuno presso di lui, mentre Giuseppe si faceva conoscere ai suoi fratelli. [2]Ma diede in un grido di pianto e tutti gli Egiziani lo sentirono e la cosa fu risaputa nella casa del faraone. [3]Giuseppe disse ai fratelli: «Io sono Giuseppe! Vive ancora mio padre?». Ma i suoi fratelli non potevano rispondergli, perché atterriti dalla sua presenza. [4]Allora Giuseppe disse ai fratelli: «Avvicinatevi a me!». Si avvicinarono e disse loro: «Io sono Giuseppe, il vostro fratello, che voi avete venduto per l'Egitto. [5]Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. [6]Perché gia da due anni vi è la carestia nel paese e ancora per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. [7]Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente. [8]Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio ed Egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d'Egitto.

[9]Affrettatevi a salire da mio padre e ditegli: Dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l'Egitto. Vieni quaggiù presso di me e non tardare. [10]Abiterai nel paese di Gosen e starai vicino a me tu, i tuoi figli e i figli dei tuoi figli, i tuoi greggi e i tuoi armenti e tutti i tuoi averi. [11]Là io ti darò sostentamento, poiché la carestia durerà ancora cinque anni, e non cadrai nell'indigenza tu, la tua famiglia e quanto possiedi. [12]Ed ecco, i vostri occhi lo vedono e lo vedono gli occhi di mio fratello Beniamino: è la mia bocca che vi parla! [13]Riferite a mio padre tutta la gloria che io ho in Egitto e quanto avete visto; affrettatevi a condurre quaggiù mio padre». [14]Allora egli si gettò al collo di Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva stretto al suo collo. [15]Poi baciò tutti i fratelli e pianse stringendoli a sé. Dopo, i suoi fratelli si misero a conversare con lui.

Non appena si rivela ai fratelli, costoro sono in preda al terrore. Subito percepiscono che l’identificazione affermata non può non essere vera. Il vicerè non sta mettendo. Li conosce troppo bene. Giuseppe per aiutarli a superare lo sbigottimento parla subito del misfatto ma anche mostra di essere già molto lontano dalla sventura subita. Egli deve rievocarla proprio per rassicurarli riguardo ad essa. Come dire: so che siete stati voi a vendermi come schiavo; ho visto che questo crimine vi ha pesato per tutta la vita; ho visto che siete cambiati. Beniamino non l’avete trattato come avete trattato me. Non ho alcuna intenzione di vendicarmi. Detto questo, però, siamo solo all’inizio del discorso e al suo aspetto più superficiale ed immediato. Giuseppe volge l’attenzione sopra un altro elemento molto più significativo, ossia sul progetto di Dio. Questo aspetto è ben più importante di tutto il resto. Dio diventa tramite tra lui e i fratelli. Giuseppe li perdona perché si rende conto che deve servire ad una intenzione divina. Dio ha già perdonato loro perché vuole mantenerli in vita, perché se ne prende cura. (Per i fratelli, espiare il loro misfatto non consiste nel pagare per il male commesso ma hanno già espiato nel processo di cambiare se stessi). Giuseppe diventa servo dei fratelli perché si sente in primo luogo servo di Dio. Condivide la misericordia di Dio e la attua a favore degli altri, nella misura in cui Dio stesso vuole renderlo protagonista. La vicenda presenta due forme di lettura, una umana e storica, e un’altra più spirituale. La seconda lettura è invisibile ma non falsa; è perfettamente credibile. Giuseppe dapprima dice: sono arrivato in Egitto per causa vostra ma poi soggiunge per ben tre volte Dio mi ha mandato quaggiù, mi ha stabilito sovrano su queste terra. Egli riconosce il livello storico ma vi aggiunge il significato spirituale. Vale a dire: Dio ha rispettato la vostra intenzione ma l’ha corretta aggiungendovene un’altra. Dio trasforma il male in bene. L’agire del Signore non giustifica il comportamento umano ma lo raddrizza, evitando la catastrofe (Cf 50, 20-21). Non bisogna pensare in questo modo: Dio ha suggerito ai fratelli di compiere il misfatto per poi rimediare in quel modo. Egli non li tratta come burattini. Il Signore non vuole il male e non è mai una causa diretta di esso. Egli piuttosto fa di tutto per impedire che il male rimanga soltanto male.
Nel caso di Giuseppe, vediamo una storia a lieto fine. Non è difficile accettare tutta la trafila sostenuta dal personaggio. Spesso però non accade così. Ci sono persone tradite che finiscono male e non diventano mai dei vicerè. L’esperienza ci presenta situazioni di dolore che sembrano non avere alcun significato e rimangono prive di utilità. Dobbiamo ricorrere al altre vicende, specialmente quella di Gesù. Gesù, che in vari tratti sembra prefigurato nelle vicende del patriarca, è andato ben oltre lui.
Dal punto di vista cristiano, possiamo considerare come lo stesso procedimento si attui nella passione di Gesù. I protagonisti sono più d’uno: il principe delle tenebre, gli uomini che odiano Gesù e l’agire di Dio che dona un significato positivo straordinario al crimine commesso. Lo stesso evento è definibile come ora delle tenebre, ora degli uomini, ora di Dio.
Gesù ha ottenuto la piena glorificazione soltanto dopo la sua morte, nella resurrezione. Tuttavia la sua gloria è apparsa anche prima, nel corso della sua vita terrena. Anche Giuseppe ha sperimentato segni della vicinanza di Dio già nel corso della sua vita, quando era nella sofferenza ma questi segni non dobbiamo vederli solo nei momenti di successo. È stato glorioso, ad esempio, nel conservare la speranza, la rettitudine morale, il ricordo di Dio. Quando il cristiano si rivela glorioso? Non è necessario il successo umano e neppure bisogna aspettare la vita oltre la morte. La gloria consiste nel saper partecipare alla carità di Gesù, soprattutto nella sofferenza.

Apertura: l’abbandono in Dio

«1. Non c’è forse un'altra convinzione che più questa conferisca ad ottenere la pace del cuore, e la tranquillità propria della vita del Cristiano.
2. Essa racchiude un'intera confidenza in Dio, ed una confidenza in Lui solo…; racchiude una fede la più viva, la quale fa tenere per certo, che tutte le vicende piccole e grandi del mondo pendono ugualmente nella mano del Padre celeste, e nulla fanno se non come Egli dispone al conseguimento degli altissimi suoi fini; fede in una infinita bontà, misericordia, e generosità di esso Padre celeste, che dispone tutto per il bene di coloro che confidano in Lui. I suoi doni, le sue finezze, le sue sollecitudini, le sue grazie sono in proporzione della confidenza che in Lui hanno i suoi bene amati figliuoli.
3. Non v'ha nessun'altra convinzione che più di questa abbia raccomandata colle parole e coll'esempio il divino Maestro. Ecco il discorso fatto a' suoi discepoli per confortarli nelle persecuzioni, a cui sarebbero soggiaciuti da parte degli uomini: «Dico poi a voi amici miei, non vogliate lasciarvi atterrire da quelli che uccidono il corpo, ma che dopo di ciò non hanno altro che fare. Vi mostrerò bene io ciò che voi altri dobbiate temere; temete quello, che, dopo avere ucciso, ha potere di mandare al fuoco. Così dico io a voi, questo temete. Non si vendono cinque passeri per due minuti, ed uno solo di essi non è dimenticato davanti a Dio? Ma anche i capelli stessi del vostro capo sono tutti quanti numerati. Non vogliate temere; voi valete più che molti passeri.  Perciò dico io a voi, non vogliate essere solleciti della vostra vita, che cosa mangerete, né del vostro corpo, che cosa vestirete; la vita vale più dell'esca, e il corpo vale più del vestimento.» (Lc 12, 4-7, 22-34).
6. Il discepolo di Gesù impara in secondo luogo, che quanto è ragionevole abbandonarsi in tutto nelle mani della divina bontà, almeno altrettanto è stolto confidare in se stesso; perché l'uomo è debolissimo, e non può alterare né pure in una minima parte il corso che Iddio ha stabilito a tutte le cose dell'universo: la sua prosperità, la sua esistenza dipende tutta nelle mani di Dio, e non può sottrarle da queste mani qualunque cosa egli faccia.
 11. Impara in quinto luogo, che non gli è già vietato di fare tutte quelle azioni colle quali naturalmente si soddisfano i bisogni della vita; è la sollecitudine, è l'ansietà che a lui vien proibita, la quale lo rende inquieto per il desiderio di ciò che gli manca, e in tal modo toglie a lui la pace del cuore, e la tranquillità propria di quelli che in Dio si riposano.
14. In sesto luogo, giacché la perfezione della vita cristiana è il fermo proposito di non voler altro in tutte le azioni della vita se non quello che è più caro a Dio e di sua maggior volontà
16. Da questa massima ne viene la stabilità del perfetto Cristiano. Il Cristiano non ama le mutazioni: in qualunque condizione si trovi, per quanto umile, per quanto spregevole ella sia e priva di tutto ciò che amano gli uomini, egli vi si rimane contento, lieto, e non ammette pensiero di mutazione, se non gli è noto che ciò sia il voler divino. È proprio della gente del mondo il non esser mai contenta dello stato ove si trova: gli uomini del mondo si fanno una continua guerra per occupare i posti migliori; la perfezione del Cristiano richiede all'opposto, che di qualunque posto egli sia contento, ch'egli non si dia altra cura se non quella di esercitare i doveri che sono annessi allo stato; tutto al mondo per lui è il medesimo, purché sia caro al suo Dio, che ritrova in ogni condizione (A. Rosmini, Massime di vita cristiana, 5).



APPENDICE

L’uomo carnale e l’uomo spirituale
101. San Paolo parla dell'uomo carnale e dell'uomo spirituale usando i termini dell'uomo esteriore e dell'uomo inferiore, dell'uomo vecchio e dell'uomo nuovo, dell'uomo terrestre e dell'uomo celeste (cf. Rom 7,22; E/4,22; I Cor 15,47). L'uomo esteriore, vecchio e terrestre è l'uomo carnale e il peccatore, nel quale l'anima e il corpo, tutte le potenze dell'anima e tutte le membra con tutti i sensi, come gli ingranaggi di un orologio rotto, girano obliquamente, e nel quale la concupiscenza è l'impulso principale e il primo mobile che spinge tutte le facoltà spirituali e corporee e da loro i movimenti sregolati della superbia, dell'avarizia, dell'impudicizia e degli altri vizi. Al contrario, l'uomo interiore, nuovo e celeste è l'uomo spirituale e il giusto, la cui anima è rivestita di grazia, ornata di carità e ripiena di Spirito Santo, che funge da principio di tutte le sue operazioni, e conduce l'intelletto a formare i pensieri, la volontà a concepire gli affetti, gli occhi a guardare, le mani a toccare e tutte le altre potenze ad agire in modo santo e sul modello di Nostro Signore.
103. Le azioni della vita spirituale sono: amare Dio più di noi stessi, preferire le cose interiori alle esteriori, le celesti alle terrestri, le eterne alle temporali; tenere il corpo sottomesso, […] rifiutargli molte cose che desidera e dargli molte altre che rifiuta; disprezzare le ricchezze, considerarle come impedimenti alla salvezza se non si fa grande attenzione; non preoccuparsi degli onori e delle lodi degli uomini, ma affidarsi all'obbrobrio della croce. Al contrario le azioni della vita carnale consistono nell'avere più amore per se stessi che per Dio, blandire la carne, cercare in tutto i propri interessi, amare i beni, ambire alle cariche, desiderare l'approvazione, elemosinare il favore degli uomini, fuggire le sofferenze.
Le azioni della vita spirituale sono quelle che l'anima compie seguendo gli impulsi e le inclinazioni che lo Spirito Santo le dona e non secondo le impressioni e i movimenti ai quali le passioni e i sentimenti della carne la spingono. Io amo un uomo che mi vuole bene e me lo dimostra: questa azione, a ben considerarla, non è un'azione della vita spirituale, perché i cani e i gatti fanno altrettanto; ma se io amo un uomo che mi odia, che parla male di me, che mi perseguita, questa è un'azione della vita spirituale, in quanto è amare secondo lo Spirito Santo, che ne è il principio, e secondo l'amore personale di Dio che ci ha amato fino a donare il proprio Figlio, mentre eravamo suoi nemici, e poi, dopo che avevamo crocifisso e fatto morire questo amato Figlio, ci ha donato il suo Santo Spirito, e ha continuato a far splendere tutti i giorni il sole sui malvagi come sui buoni (cfr. Mt 5,45). Sono triste, e per questo mi abbandono alla malinconia, non voglio parlare o, se parlo, sono parole d'impazienza, dure, aspre, amare; le gazze e i pappagalli tacciono allo stesso modo quando non sono contenti e il tempo scuro e piovigginoso mette di cattivo umore le scimmie. Ma se in questa insoddisfazione e in questo tedio faccio degli sforzi su me stesso, se parlo e cerco di atteggiare le mie parole e il mio viso alla dolcezza, alla mansuetudine e alla carità, questo è comportarsi e parlare da uomo spirituale. Sono disprezzato e ne sono contrariato... Ma se sopporto gli insulti al mio onore con pazienza e umiltà; se accetto il disprezzo, guardando alla causa prima da cui proviene, che è Dio; se rifletto che Egli me lo invia per la sua gloria e per la mia salvezza, e che sarà per me una sorgente feconda di beni eterni, se me ne servo bene, questo è vivere da uomo spirituale. (103-104)
105. Per essere uomo spirituale non è sufficiente compiere una o due azioni; così come per essere uomo carnale, non è sufficiente lasciarsi trascinare una o due volte dagli impulsi della concupiscenza, ma occorre un seguito, una continuità di queste azioni per giorni, mesi e anni.
Non si dirà mai che un uomo che vive nel secolo sia spirituale se la mattina prega o ascolta la Messa, o ha compiuto un digiuno comandato dalla Chiesa, o dato l'elemosina, ma poi occupa il resto della giornata in occupazioni temporali e con uno spirito che è sensibile soltanto alla terra; invece sarà stimato come tale da tutti e ne porterà degnamente il nome, se si dedicherà abitualmente all'esercizio delle buone opere e compirà le azioni della sua condizione a motivo della virtù e con lo spirito di Dio. Così come non è considerato soldato chi porta soltanto una spada quando va nei campi, o mercante chi ha comperato la stoffa per farsi un vestito o venduto il suo cavallo, ma chi fa professione aperta di vita militare o di commercio e si dedica completamente a questa occupazione.
107. Il secondo aspetto che dobbiamo notare è che per essere spirituali non è necessario vivere come i puri spiriti e separati dalla materia senza essere mai toccati dalle passioni, né dagli affetti della carne, ma soltanto non arrenderci e non consentirvi. Spiritu ambulate, ci dice san Paolo, et desiderio carnis non perficietis (Gal 5,7); camminate nella via della salvezza, secondo le mozioni dello Spirito Santo, vivete come uomini spirituali, e non accondiscendete ai desideri della carne. Non dice: «ne sarete dispensati», come se foste senza corpo, ma: «non obbedite ad essi». Un uomo può essere tormentato per giorni da pensieri malvagi, da fantasie obbrobriose, da sensazioni del corpo molto sensuali; può essere tentato dalla vanità, dall'invidia, dall'impazienza, dalla collera; può avere oscurità nell'intelletto, aridità nella volontà e tristezze nell'anima; può essere disturbato da distrazioni nelle preghiere, sperimentare grandi difficoltà nel dominare le passioni e nel praticare la virtù, ma, nonostante questo, essere assai spirituale, perché non è il sentire le impressioni della carne, ne di tutto ciò che è malvagio, che fa l'uomo carnale, ma il consentirvi; e per essere spirituali non è necessario essere liberati da tutti questi assalti e da tutte queste miserie, ma vincerle. Avendo dimostrato a sufficienza, con quanto detto, in cosa consista la vita spirituale, non ci resta che abbracciare questa vita eccellente e divina, e cercare, con tutti i mezzi, di diventare uomini spirituali. Spiritu ambulate (Gal 5,16), ci esorta san Paolo, camminate nello spirito, vivete come uomini spirituali. E ancora: fratelli noi non siamo debitori alla nostra carne per acconsentire alle sue bramosie e accordarle tutto ciò che ci chiede; poiché se vivete in questo modo, siate certi di morire; ma se resistete ai suoi desideri e la mortificate con uno spirito generoso, vivrete (Rom 8,12).
Certamente la vita del cristiano deve essere necessariamente una vita dello spirito, perché è un abbozzo e un inizio di quella che egli condurrà un giorno in cielo; poiché è, a giudizio unanime, una vita di grazia, così come l'altra è una vita di gloria, e la grazia è una gloria iniziata, così come la gloria è una grazia compiuta. La vita che il cristiano vivrà in cielo, sarà una vita perfettamente spirituale, perché non solo la sua anima sarà animata e guidata in tutte le sue azioni dallo Spirito Santo, ma anche il suo corpo, che per questo san Paolo chiama spirituale. Allo stesso modo, dunque, la vita che il cristiano vive sulla terra deve manifestare questa nobile qualità e portarne il glorioso sigillo. Dice san Paolo ai Romani: Non secundum carnem ambulanus, sed secundum spiritum (Rom 8,4), e ancora: Vos in carne non estis, sed in spiritu (Rom 8,9); noi cristiani non ci dobbiamo comportare secondo gli impulsi della carne, ma secondo quelli dello Spirito e il nostro proposito è quello di vivere come uomini spirituali e non come persone sensuali.
112. Se vuoi conoscere ciò che occorre per essere un uomo spirituale, esamina con cura quello che ami e quello che temi; considera gli oggetti delle tue gioie e delle tue tristezze; verifica se ami cose proibite, o se, amando ciò che è lecito, lo ami in modo corretto, o per passione, o in modo eccessivo, o per qualche intenzione subdola; se non temi troppo il disprezzo e le umiliazioni; se non hai una paura eccessiva della povertà, della fame, della sete, del caldo, del freddo, dei disagi e dei dolori; se l'adempimento dei tuoi desideri, se l'amore, la stima e le lodi degli uomini non ti arrecano troppa gioia e compiacimento; o se il loro opposto non ti toglie il coraggio e ti opprime di tristezza. In terzo luogo, affermo che Gesù Cristo è il grande prototipo e il perfetto modello degli uomini veramente spirituali, che non sono e non possono esserlo se non modellandosi su di lui, assumendo i suoi lineamenti, accogliendo il suo spirito e imitando le sue virtù. Tutto il segreto della vita spirituale è contenuto in queste parole misteriose, Verbum caro factum est, il Verbo si è fatto carne e la divinità si è unita personalmente all'umanità, che per questa unione ineffabile è diventata perfettamente spirituale e infinitamente santa.
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