venerdì 5 maggio 2017

Misericordia e verità


Oggi, giustamente, si parla molto della misericordia di Dio. Come se ne parlava ai primordi della Chiesa? Vorrei riprendere alcuni insegnamenti impartiti da san Cipriano martire, ai suoi fedeli di Cartagine, subito dopo la persecuzione di Decio (nel 250). Il vescovo si preoccupò molto dei «lapsi», cioè dei cristiani che avevano apostatato ma anche di una certa prassi penitenziale che si stava attuando nella sua Chiesa. 
tulipani all'eremo di Camaldoli
L’esercizio della misericordia viene paragonata da Cipriano all’arte medica. Il medico, che esita a toccare la parte interna della ferita, è un incapace. Non deve lasciarsi turbare dalle grida del malato ma fare ciò che deve fare; il malato, quando avrà riacquistato la salute, in seguito lo ringrazierà (De lapsis 14). Il vero misericordioso, quindi, non deve nascondere la gravità del peccato ma praticare le terapie adeguate. Anche se la verità facesse male, non dovrebbe essere taciuta. 
Che cosa stava succedendo invece? «Contro la potenza del Vangelo, per la sfrontatezza di certuni si concede senza ritegno la comunione a persone presuntuose; è una pace falsa e ingannatrice, pericolosa per chi la concede e svantaggiosa per chi la riceve» (15). Il vescovo disapprova alcuni ministri troppo indulgenti ma anche dei peccatori troppo arroganti. I primi sono dei medici incompetenti: «Non chiedono la vera medicina della penitenza» poiché «è stato tolto il pentimento dal cuore, è stato cancellato il ricordo del gravissimo e dolorosissimo crimine. Si nascondono le ferite, si copre con un finto dolore la ferita mortale, profondamente infissa nel cuore» (15). 
Cipriano ricorda la necessità che il penitente si proponga di praticare il Vangelo: «Non può riunirsi alla Chiesa, chi si separa dal Vangelo (… nec Ecclesiae jungitur qui ab Evangelio separatur)» (16). Quindi, egli avverte, «non bisogna disperare della misericordia del Signore, ma nemmeno pretendere il suo perdono. .. per una profonda ferita la cura deve essere lunga e attenta; la penitenza non deve essere inferiore al delitto» (35). Una clemenza eccessiva «non giova in nulla ma anche danneggia coloro che sono caduti. Presumere dell’indulgenza, dopo aver disprezzato il Signore, significa provocare la sua collera» (18). 
Riguardo al peccatore presuntuoso, osserva: «Avanza a testa alta e non la piega, anche se è caduto… addirittura quel sacrilego si adira con i sacerdoti perché non riceve subito il corpo del Signore. O pazzo furioso! Ti adiri con colui che si sforza di allontanare da te la collera del Signore; minacci colui che invoca per te la misericordia del Signore, che vede la tua ferita, di cui non ti rendi conto, che versa per te lacrime che tu forse non versi» (22). 
A suo parere, i lapsi avrebbero dovuto  essere esclusi dalla comunione fino al termine della vita. Fu troppo severo? In realtà, a mio parere, si accomunò alla decisione di S. Paolo nei confronti dell'incestuoso di Corinto (1 Cor 5,4-5); in questi casi la Chiesa non condanna ma si ritira, rimettendo tutto a Dio (che può indurre al pentimento e riportare alla grazia senza la pratica dei sacramenti). Tuttavia, allo scoppio della persecuzione di Valeriano, Cipriano concesse la comunione ai lapsi nell'intento di renderli più forti, convinto che «a chi lo ha commosso di più con il suo rimorso, il Signore fornisce anche le armi con le quali il vinto possa armarsi di nuovo… il pentito diventerà più forte per il nuovo duello, grazie al dolore» e, oltre a questo «renderà felice la Chiesa che prima aveva rattristato» (36).