giovedì 11 dicembre 2025

SERVIZIO FRATERNO

1. L’accettazione dell’altro come creazione originale di Dio

«Poi sorse fra loro una disputa su chi di loro fosse il maggiore» (Lc 9,46). Sappiamo bene chi semina questa disputa fra le comunità cristiane. Ma forse non teniamo abbastanza presente che nessuna comunità cristiana può formarsi senza che, prima o dopo, questa disputa nasca in essa. Appena degli uomini si mettono insieme, ecco che incominciano a osservarsi gli uni gli altri, a giudicarsi, a classificarsi secondo un determinato ordine. E con ciò, già sul nascere di una comunità, inizia una terribile, invisibile, spesso inconscia lotta di vita e di morte. «Nacque fra loro una disputa», è quanto basta per distruggere una comunità. Perciò per ogni comunità è di importanza vitale guardare in faccia, fin dal primo momento, questo pericoloso nemico ed estirparlo subito. Non si può perdere tempo, poiché sin dal primo momento dell'incontro con l'altro l'uomo cerca la sua posizione di combattimento, dove può resistere all'altro. Ci sono uomini forti e uomini deboli; se lui non è forte, ebbene, si arroga il diritto del debole e lo adduce in campo contro i forti. Ci sono uomini dotati e uomini meno dotati, uomini semplici e uomini dal carattere difficile, uomini pii e meno pii, uomini socievoli e misantropi. Forse che il meno dotato deve prendere posizione quanto quello dotato?

Il difficile di carattere quanto il semplice? E se non sono dotato, forse, però, sono pio; se non sono pio, forse non voglio nemmeno esserlo; non può l'uomo socievole al momento, conquistare tutti per sé ed esporre alle critiche quello meno socievole? ed il misantropo divenire il nemico invincibile ed infine vincitore dell'uomo socievole? quale uomo non troverebbe con sicuro istinto il luogo in cui può resistere e difendersi? e non cederebbe mai e poi mai ad un altro; chi non difenderebbe la sua posizione con tutto il suo istinto di autoaffermazione? Tutto ciò può accadere tra le persone più colte o anche tra le più pie; ma l'importante è che una comunità cristiana sappia che certamente in un qualche angolino «sorge fra loro la disputa su chi è il maggiore fra loro». È la lotta dell'uomo naturale per l'autogiustificazione. Egli trova se stesso solo nel confronto con gli altri, nel giudizio, nella critica del prossimo. Autogiustificazione e critica vanno sempre insieme, come giustificazione per grazia e servizio sono sempre uniti. La maniera più efficace per lottare contro i nostri cattivi pensieri spesso è di metterli radicalmente a tacere. Com'è certo che lo spirito di autogiustificazione può solo essere superato dallo spirito di grazia, tuttavia i singoli pensieri pronti a criticare vengono limitati e soffocati col non concedere loro mai il diritto di farsi largo, tranne nella confessione del peccato, della quale dovremo ancora parlare.

Chi sa dominare la propria lingua, sa anche dominare il proprio corpo (Giac. 3,3 ss.). Sarà quindi una regola fondamentale di ogni vita comunitaria proibire al singolo di parlare del fratello in assenza di lui. È ben chiaro che con ciò non si intende proibire la parola personale intesa a richiamare il fratello, e di questo si parlerà ancora. Ma non è permesso parlare dietro le sue spalle, anche quando le nostre parole possono assumere l'apparenza di benevolenza e di aiuto, perché, proprio così travestite, si infiltrerà sempre di nuovo lo spirito di odio per il fratello con l'intento di fare del male. Non è qui il momento di parlare delle singole limitazioni da applicare a questa regola; la decisione deve essere presa di volta in volta. Si tratta di cosa chiara e biblica. «Tu siedi e parli contro il tuo fratello, tu diffami il figlio di tua madre... Ma io ti riprenderò e ti metterò tutto davanti agli occhi» (Salmo 50,20 ss.). «Non parlate gli uni contro gli altri, fratelli. Chi parla contro un fratello o giudica suo fratello, parla contro la legge e giudica la legge. Ora se tu giudichi la legge, non sei un osservatore della legge, ma un giudice. Uno soltanto è il legislatore e il giudice, Colui che può salvare e perdere; ma tu chi sei che giudichi il tuo prossimo?» (Giac. 4,11 s.). «Nessuna cattiva parola esca dalla vostra bocca; ma se ne avete una buona che edifichi, secondo il bisogno, ditela, affinchè conferisca grazia a chi l'ascolta» (Ef 4,29).

Lì dove sin dall'inizio sarà mantenuta questa disciplina della lingua, ogni singolo farà una scoperta impareggiabile: cesserà di osservare continuamente l'altro, di giudicarlo, di condannarlo, di assegnargli il suo preciso posto dove lo si può dominare e così violentarlo. Sarà ora in grado di lasciar libero completamente il fratello, come Dio glielo ha messo accanto. Lo sguardo gli si allargherà e guardando i fratelli, con sua somma meraviglia, riconoscerà per la prima volta la gloria e la grandezza del Dio creatore. Dio non ha fatto l'altro come lo avrei fatto io; non me lo ha dato come fratello, perché io lo domini, ma perché in lui io trovi il mio Creatore. Nella sua libertà di creatura il mio prossimo diviene per me motivo di gioia, mentre prima mi dava solo fastidio e pena. Dio non vuole che io modelli il prossimo secondo Pimmagine che pare buona a me, cioè secondo la mia propria immagine; ma nella sua libertà di fronte a me ha fatto il mio prossimo a Sua immagine.

Non posso mai sapere in precedenza quale debba essere l'immagine di Dio nel prossimo; sempre di nuovo questa assumerà una forma diversa e nuova, che dipende dalla libera creazione di Dio. A me può anche sembrare strana, indegna di Dio. Ma Dio crea l'altro a immagine e somiglianzà del suo Figliolo, del Crocifisso: anche questa immagine a me era pur parsa strana, indegna di Dio, prima che l'avessi compresa. 

2. Vivere similmente nella grazia del perdono di Cristo

E allora forza e debolezza, saggezza e stoltezza, dotato o non dotato, pio o meno pio, tutta la diversità dei mèmbri nella comunità non sarà più ragione di dissenso, giudizio, condanna, cioè di autogiustifi-cazione, ma sarà causa di allegrezza e di servizio reciproco. Anche così ogni membro della comunità ha il suo posto ben preciso; non più quello in cui potrà affermarsi con maggior successo, ma quello in cui potrà meglio servire. In una comunità cristiana Punica cosa che importa è che ognuno sia anello indispensabile di una catena. Solo lì dove anche l'ele-mento più piccolo è ben saldo, la catena non si spezzerà. Una comunità che permette che in essa vi siano mèmbri inutilizzati, ne sarà distrutta. Sarà perciò bene che ogni singolo riceva anche un compito preciso a servizio della comunità, perché in momenti di dubbio sappia che anche lui non è inutile o inutilizzabile. Ogni comunità cristiana deve sapere che non solo i deboli hanno bisogno dei forti, ma che anche i forti non possono fare a meno dei deboli. L'esclusione dei deboli è la morte della comunità. Nella comunità non dovrà regnare l'autogiustificazione e con ciò violentamento, ma giustificazione per grazia e perciò servizio. Chi nella sua vita ha provato una volta la misericordia di Dio, non desidera altro che servire. Non lo attira più l'alto trono di giudice; egli vuole vivere in basso, con i miseri e gli umili, perché Dio lo ha trovato lì in basso. «Non abbiate l'animo alle cose alte, ma lasciatevi attirare dalle umili» (Rom. 12,16).

Chi vuol imparare a servire, deve prima imparare a tenere se stesso in poco conto. «Nessuno abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere» (Rom. 12,3). «Conoscere bene se stessi e imparare a tenersi in poco conto è il massimo compito e quello più utile. Non mettere in luce se stessi, ma avere sempre una buona opinione degli altri, questo è vera sapienza e perfezione» (Thomas a Kempis),

«Non vi stimate saggi da voi stessi» (Rom. 12, 16). Solo chi vive del perdono dei suoi peccati in Gesù Cristo può provare la giusta umiltà, sapere che egli con la sua sapienza era giunto completamente alla sua fine quando Cristo gli perdonò, si ricorderà della sapienza dei primi uomini che volevano conoscere che cosa è bene e che cosa è male e in questa sapienza perirono. Ma il primo uomo che nacque su questa terra fu Caino, il fratricida: ecco il frutto della sapienza dell'uomo! Poiché il cristiano non può ritenere se stesso saggio, non terrà più in gran conto neppure i suoi piani e le sue intenzioni, saprà che è un bene se la sua volontà viene spezzata nell'incontro con il prossimo. Sarà pronto a ritenere la volontà del prossimo più importante e urgente della propria. Che importa se il proprio piano sarà contrastato? Non è meglio servire il prossimo che spuntarla con la propria volontà?

Ma non solo la volontà, anche l'onore del prossimo è più importante del mio: «Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» (Gv. 5,44). Il desiderare di essere onorati impedisce la fede. Chi cerca il proprio onore non può più cercare Dio e il prossimo. Che male c'è se sono trattato ingiustamente? Non mi sono, forse, meritato un castigo ben maggiore da parte di Dio, se Dio non mi trattasse secondo la sua misericordia? Non mi viene reso anche nel-l'ingiustizia mille volte ciò che mi merito? Non sarà utile e bene per la mia umiltà che io impari a sopportare in silenzio e con pazienza mali così minimi? «Lo spirito paziente vai meglio dello spirito altero» (Eccl. 7,8). Chi vive della giustificazione per grazia accetta anche offese e ingiustizie senza protestare, ma anzi vede in esse la mano del Signore che punisce e fa grazia, insieme. Non è buon segno se non si vogliono più sentire e sopportare queste cose senza richiamarsi subito al fatto che anche l'apostolo Paolo, per es., si è fatto forte del suo diritto di cittadino romano, e che Gesù, a colui che lo percosse, disse: «Perché mi percuoti?» (Gv. 18,23). In ogni modo nessuno di noi agirà veramente come Gesù e Paolo, se non avendo prima imparato, come questi, a tacere di fronte a offese e scherni. Il peccato della ipersensibilità e permalosità, che tanto facilmente fiorisce nella comunità, ci fa vedere sempre di nuovo quanto diffuso sia un errato concetto dell'onore, cioè quanta mancanza di fede regna ancora nella comunità.

Ed infine deve essere detta ancora un'ultima cosa: non ritenere se stessi saggi, tenersi dalla parte degli umili, senz'altro — senza voler dire grandi parole, ma parlando in piena sobrietà —, significa ritenere se stesso il più grande dei peccatori. Questo risveglia tutte le forze di opposizione dell'uomo naturale, ma anche del cristiano consapevole di sé. Pare una esagerazione, quasi una mancanza di sincerità. Eppure l'apostolo Paolo ha detto di sé che egli è il primo tra i peccatori (1 Tim. 1,15), e questo proprio quando parla del suo servizio di apostolo.

Non può essere vera coscienza dei propri peccati, senza che conduca in questo abisso. Se i miei peccati, in qualche modo, confrontati con quelli degli altri, mi paiono minori, meno gravi, vuoi dire che non riconosco ancora veramente il mio peccato. Necessariamente il mio peccato è il più grave ed il più riprovevole. Per il peccato degli altri l'amore cristiano trova tante giustificazioni; solo per il mio non ci sono scuse. Perciò esso è il più grave. Deve trovare il fondo di questa umiliazione chi vuoi servire il fratello nella comunità.

Come, infatti, potrei servire umilmente, senza ipocrisia, colui il cui peccato in realtà mi pare veramente più grave del mio? Non devo sentirmi superiore a lui, posso avere ancora una speranza per lui? Sarebbe un servizio ipocrita. «Non credere di essere progredito un passo nella tua opera di santificazione se non senti profondamente di essere peggiore di tutti gli altri» (Thomas da Kempis).

3. Ascoltare il fratello come ascoltiamo la Parola di Dio

Come si effettua, ora, un servizio fraterno nella comunità? Oggi tendiamo a rispondere subito che l'unico vero servizio al prossimo è il servizio reso

on la Parola di Dio. È vero che nessun altro servizio può essere considerato di pari importanza, e che, anzi, ogni altro servizio deve sempre essere improntato a questo. Cionostante una comunità cristiana non è formata solo da predicatori della Parola. Si potrebbe abusarne terribilmente se si volessero trascurare alcune altre cose.

Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l'amore di Dio incomincia con l'ascoltare la sua Parola, così l'inizio dell'amore per il fratello sta nell'imparare ad ascoltarlo. È per amore che Dio non solo ci da la sua Parola, ma ci porge pure il suo orecchio. Altrettanto è opera di Dio se siamo capaci di ascoltare il fratello. I cristiani, e specialmente i predicatori, credono spesso di dover sempre 'offrire' qualcosa all'altro, quando si trovano con lui; e lo ritengono come loro unico compito. Dimenticano che ascoltare può essere un servizio ben più grande che parlare. Molti uomini cercano un orecchio che sia pronto ad ascoltarli, ma non lo trovano tra i cristiani, perché questi parlano pure lì dove dovrebbero ascoltare. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non saprà neppure più ascoltare Dio; anche di fronte a Dio sarà sempre lui a parlare. Qui ha inizio la morte della vita spirituale, ed infine non restano altro che le chiacchiere spirituali, la condiscendenza fratesca che soffoca in tante belle parole pie. Chi non sa ascoltare a lungo e con pazienza parlerà senza toccare veramente l'altro ed infine non se ne accorgerà nemmeno più. Chi crede che il suo tempo è troppo prezioso per essere perso ad ascoltare il prossimo, non avrà mai veramente tempo per Dio e per il fratello, ma sempre e solo per se stesso, per le sue proprie parole e per i suoi progetti.

La cura d'anime dei fratelli si distingue dalla predicazione essenzialmente per il fatto che al compito di annunziare la Parola si aggiunge quello di ascoltare. Si può anche ascoltare a mezzo orecchio, convinti di sapere già quello che l'altro ha da dirci. È un modo di ascoltare impaziente e distratto, che disprezza il fratello e aspetta solo di poter finalmente prendere la parola e liberarsi dell'altro. Questo non è compiere la propria missione, e certamente anche qui nel nostro atteggiamento verso il fratello si rispecchia il nostro rapporto con Dio. Se noi non riusciamo più a porgere il nostro orecchio al fratello in cose piccole, non c'è da meravigliarsi se non siamo più capaci di dedicarci al massimo tra i servizi consistenti nell’ascoltare, affidatici da Dio, cioè quello di ascoltare la confessione del fratello. Il mondo pagano sa, oggi, che spesso si può aiutare un altro solo ascoltandolo seriamente; avendo riconosciuto questo, vi ha impostato una propria cura d'anime laica, alla quale accorrono numerosi gli uomini, anche i cristiani. Ma i cristiani hanno dimenticato che il compito dell'ascoltare è stato loro affidato da Colui il quale è l'uditore per eccellenza, alla cui opera essi sono chiamati a collaborare. Dobbiamo ascoltare con l'orecchio di Dio, affinchè ci sia dato di parlare con la Parola di Dio.

4. Ognuno porti il peso dell'altro

II secondo servizio che, in una comunità cristiana, l'uno deve rendere all’altro, è l'aiuto concreto e attivo. Si pensa in primo luogo a piccoli e semplici servizi materiali. In ogni vita comunitaria se ne trovano un'infinità. Nessuno è troppo alto per un piccolo servizio al prossimo. La preoccupazione per la perdita di tempo che spesso un tale servizio materiale comporta, è segno di una eccessiva importanza attribuita al proprio tempo e lavoro. Dobbiamo essere pronti a lasciarci interrompere da Dio. Dio contrasterà sempre di nuovo, anzi, ogni giorno, le nostre vie e i nostri piani, mandandoci persone con le loro richieste e necessità. Possiamo passare oltre senza badare a loro, preoccupati come siamo dell'importanza della nostra giornata, così come il sacerdote passò oltre senza curarsi dell'uomo caduto in mano ai predoni — forse egli era addirittura immerso nella lettura di un passo biblico'. — E così noi passiamo oltre senza vedere il segno della croce nella nostra vita, il quale vorrebbe indicarci il vero valore delle vie di Dio e non delle nostre.

È un dato di fatto piuttosto strano che proprio cristiani e teologi spesso ritengono il loro lavoro così importante e urgente che si irritano per una interruzione. Credono di servire Dio in questo modo e disprezzano invece la via di Dio «tortuosa, eppure diritta», come canta Gottfried Arnold. Non vogliono saperne di un'interruzione del cammino degli uomini. Eppure fa parte della disciplina dell'umiltà non risparmiare la propria mano dove essa può rendere un servizio, e non voler decidere del proprio tempo ma lasciare che lo riempia il Signore. Nel convento il giuramento di obbedienza fatto all'abate toglie al monaco il diritto di disporre del proprio tempo. Nella vita comunitaria evangelica al posto di questo voto subentra il servizio reso liberamente al fratello. Solo lì dove le mani non si sentono superiori all'opera di amore e di misericordia nel quotidiano servizio fraterno, la bocca può annunziare, piena di letizia e in maniera credibile, la Parola dell'amore e della misericordia divina.

In terzo luogo parliamo del servizio inteso a sostenere il prossimo. «Portare i pesi gli uni degli altri» (Gal. 6,2). La legge di Cristo è una legge del 'portare'. Portare vuoi dire sopportare, soffrire insieme. Il fratello è un peso per il cristiano, soprattutto per il cristiano. Per il pagano l'altro non diviene nemmeno un peso, egli infatti evita di lasciarsi aggravare da qualcuno, mentre il cristiano deve portare il peso del fratello. Deve sopportare il fratello. Solo se è un peso, l'altro è veramente un fratello e non un oggetto da dominare. Il peso degli uomini per Dio stesso è stato così grave che Egli ha dovuto piegarsi sotto questo peso e lasciarsi crocifiggere. Dio ha veramente sopportato gli uomini nel corpo di Cristo. Ma così li ha portati come una madre porta il figlioletto, come un pastore porta l'agnello perduto. Dio accettò gli uomini ed essi lo oppressero fino a terra, ma Dio restò con loro ed essi con Dio. Nel sopportare gli uomini Dio ha mantenuto la comunione con loro. È la legge di Cristo che si è compiuta sulla croce. Ed i cristiani partecipano a questa legge. Essi devono sopportare il fratello; ma quello che è più importante, essi sono anche in grado di portare il fratello, sotto la legge che è compiuta in Cristo. La Scrittura parla assai spesso di 'portare'. Essa esprime con questa parola tutta l'opera di Gesù Cristo: «Erano le nostre malattie che Egli portava; erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato... Il castigo è stato su lui, per cui abbiamo pace» (Is. 53,4 s.). Perciò essa può dire che tutta la vita dei cristiani è un portare la croce. Qui si realizza la comunione del corpo di Cristo. È la comunione della croce nella quale uno deve sentire il peso dell'altro. Se non lo sentisse non ci sarebbe comunione cristiana. Se si rifiuta di portarla, rinnega la legge di Cristo.

In primo luogo è la libertà dell'altro, di cui prima abbiamo parlato, ad essere un peso per il cristiano. Va contro la sua presunzione, eppure egli deve ammetterla. Potrebbe liberarsi di questo peso, togliendo la libertà all'altro, violentandolo, imponendogli la propria immagine. Se invece lascia che Dio gli dia l'impronta della sua immagine, gli concede la sua libertà e porta lui stesso il peso di questa libertà del-l'altra creatura. Della libertà dell'altro fa parte tutto ciò che intendiamo quando diciamo: essere, individualità, carattere; ne fanno parte anche le debolezze e stranezze, che mettono così gravemente alla prova la nostra pazienza, ne fa parte tutto ciò che produce la quantità di attriti, contrasti e scontri tra me e l'altro. Portare il peso del prossimo vuoi dire sopportare la realtà di creatura dell'altro, accettarla e, sopportandola, goderne.

Ciò diviene particolarmente difficile là dove forti e deboli sono uniti nella fede in una comunità. Il debole non giudichi il forte, il forte non disprezzi il debole. Il debole si guardi dall'orgoglio, il forte dalla indifferenza. Nessuno difenda i propri diritti. Se il forte cade, il debole si guardi dal provarne piacere; se il debole cade, il forte lo aiuti gentilmente a rimettersi in piedi. L'uno ha bisogno di tanta pazienza quanta l'altro. «Guai a colui che è solo e cade senza avere un altro che lo rialzi» (Eccl. 4,10).

A questa sopportazione reciproca nella libertà allude certo anche la Bibbia quando raccomanda: «Sopportandovi gli uni gli altri» (Col. 3,13). «Vi esorto a condurvi con ogni umiltà e mansuetudine, con longanimità, sopportandovi gli uni gli altri con amore» (Ef. 4,2). Alla libertà dell'altro si aggiunge, il suo abuso nel peccato, che per il cristiano diviene un peso quando si tratta di un fratello. È ancora più diffìcile sopportare il peccato dell'altro che non la sua libertà, perché nel peccato si infrange la comunione con Dio e con i fratelli. Qui il cristiano soffre la frattura della comunione creata in Gesù Cristo con l'altro. Ma proprio nel saper sopportare questo peso si manifesta veramente la immensa grazia divina. Non disprezzare il peccatore, ma saperlo portare, vuoi dire non doverlo considerare perduto, poterlo accettare, potergli conservare la comunione mediante il perdono. «Fratelli, quand'anche uno sia stato colto in qualche fallo, rialzatelo con spirito di mansuetudine» (Gal. 6,1). Come Cristo ha portato noi quando eravamo peccatori e ci ha accettati così, noi, nella comunione con Lui, possiamo portare i peccatori e riceverli nella comunione con Gesù Cristo mediante il perdono dei peccati. Noi possiamo portare i peccati del fratello, non occorre che giudichiamo. Questa è una grazia concessa al cristiano; infatti, quale peccato è commesso nella comunità senza che egli debba esaminare se stesso ed accusarsi per la sua propria infedeltà nella preghiera e nell'intercessione, per la sua mancanza di servizio fraterno, di ammonimento fraterno e di consolazione, per il suo proprio peccato, per la sua indisciplinatezza spirituale, con la quale ha danneggiato se stesso, la comunità e i fratelli? Poiché ogni peccato del singolo pesa su tutta la comunità e la accusa, perciò la comunità canta inni di grazia, in tutto il dolore che prova per il peccato del fratello e sotto tutto il peso che per questo ricade su di essa, perché essa è ritenuta degna di prendere su di sé il peccato e di perdonare. «Ecco, così li porti tutti, ed essi ti portano a loro volta, ed ogni cosa, buona e cattiva, è in comune» (Lutero).

5. Testimoniare con la vita l'uno all'altro la consolazione e il giudizio di Dio

II servizio del perdono viene reso giornalmente dall'uno all'altro. Avviene senza parole, nell'intercessione reciproca; e ogni membro della comunità che non si stanca di rendere questo servizio, può star sicuro che questo servizio viene reso dai fratelli anche a lui. Chi sostiene l'altro, sa di essere sostenuto, e solo in questa forza può portare anche lui. Lì dove si rende il servizio di ascoltare, di aiutare concretamente, di portare fedelmente, può anche essere reso il servizio massimo, cioè quello della Parola.

Si tratta qui della parola da uomo a uomo, libera, non legata a ministero, tempo e luogo. Si tratta della situazione unica nel mondo, in cui un uomo testimonia all'altro con parole umane tutta la consolazione di Dio, i suoi ammonimenti, la sua bontà e la sua severità. Questa parola è circondata da un'infìnità di pericoli. Se prima non si è ascoltato bene, come si potrebbe trovare la parola adatta all'altro? Se è in contrasto con l'aiuto concreto, come potrebbe essere parola credibile e verace? Se non nasce dalla prontezza a portare l'altro, ma da impazienza e da spirito di violentamento, come potrebbe essere parola liberatrice e salutare? E al contrario, proprio lì dove realmente si ascolta, si serve, si porta, facilmente si tace. La profonda diffidenza di fronte a tutto ciò che è solo parola, spesso soffoca la parola che dovremmo rivolgere al fratello. Che cosa può fare una debole parola umana per il prossimo? Dovremmo aumentare ancora il numero di parole vuote? O dobbiamo, come i routiniers spirituali, parlare con parole che passano accanto al reale bisogno dell'altro? Che cosa v'è di più pericoloso che pronunciare la Parola di Dio più del necessario? e chi, d'altro canto, si assume la responsabilità di aver taciuto dove dovrebbe aver parlato? Quanto più semplice è annunziare la parola ordinata dal pulpito che dire questa parola completamente libera, tra la responsabilità di tacere e quella di parlare.

Alla paura della propria responsabilità di fronte alla Parola si aggiunge la paura del prossimo. Quanto costa, talora, pronunciare il nome di Gesù Cristo anche solo di fronte ad un fratello! Anche qui un sentimento giusto è misto ad uno errato. Chi ha il diritto di penetrare nell'intimo del prossimo? Chi ha il diritto di chiedergli ragione, di colpirlo, di abbordarlo riguardo alle cose ultime? Non sarebbe certo segno di avvedutezza cristiana affermare semplicemente che ognuno ha questo diritto, anzi, questo dovere. Potrebbe di nuovo prender piede lo spirito di violentamento nella forma peggiore. L'altro, infatti, ha il suo proprio diritto, la sua responsabilità ed anche il suo dovere di difendersi di fronte ad intrusioni illecite. L'altro ha il suo proprio segreto, che non può essere violato senza grave danno, segreto che non può rivelare senza distruggere se stesso. Non è un segreto di ciò che sa e sente, ma il segreto della sua libertà, della sua redenzione, del suo essere. Eppure questo sentimento così giusto si trova in prossimità alquanto pericolosa delle parole di Caino: «Sono io forse il guardiano di mio fratello?» (Gen. 4,9). Il rispetto della libertà del prossimo, che apparentemente ha una ragione spirituale, può sottostare alla maledizione di Dio; «Io domanderò conto del suo sangue alla tua mano» (Ez. 3,18). Lì dove cristiani vivono insieme, prima o dopo necessariamente avverrà che uno annunci all'altro la Parola e la volontà di Dio. È impensabile che non si parli una volta, in conversazione fraterna di quelle cose che per ognuno sono di vitale importanza. Non è cristiano se uno coscientemente nega all'altro il servizio decisivo. Se non riusciamo a pronunciare la Parola, dobbiamo esaminare noi stessi se non vediamo nel nostro fratello solo la sua dignità umana, che non osiamo violare, e così dimentichiamo la cosa più importante, e cioè che anche lui, per quanto anziano, altolocato, importante, possa essere, è, un uomo come noi, che, peccatore, invoca la grazia divina, che ha le sue pene come noi, che ha bisogno di aiuto, consolazione e perdono come noi.

La base, sulla quale i cristiani poggiano per entrare in vero colloquio gli uni con gli altri, è che sanno l'uno dell'ahro di essere pure peccatori, perduti e abbandonati, nonostante tutti gli onori umani, se non trovano aiuto. Con questo non si disprezza l'altro, non lo si disonora; anzi, gli si rende l'unico vero onore che l'uomo possiede, cioè che come peccatore è partecipe della grazia e della gloria di Dio, che è figlio di Dio. Questa conoscenza da alla parola del fratello la necessaria libertà e sincerità. Ci rivolgiamo la parola richiamandoci ali'aiuto di cui abbiamo bisogno ambedue. Ci esortiamo reciprocamente a seguire la strada indicata da Cristo. Ci ammoniamo a non cedere alla disobbedienza che è la nostra rovina. Siamo miti e siamo duri l'uno verso l'altro, perché conosciamo la bontà e la severità di Dio. Perché dovremmo temere l'un l'altro, se ambedue non abbiamo da temere che Dio? Perché dovremmo pensare che il fratello non ci capirebbe, dal momento che noi abbiamo pur compreso molto bene quando un uomo qualunque, forse con parole assai infelici, ci ha annunziato la consolazione o l'ammonimento di Dio? O crediamo che possa essere! anche un solo uomo, che non abbia bisogno di consolazione e di ammonimento? Perché Dio, se così fosse, ci avrebbe donato la comunione con fratelli?

Quanto più impariamo a lasciarci dire dall'altro la Parola, ad accettare umilmente anche un duro ammonimento e rimprovero, tanto più liberi ed obiettivi saremo nel dire una parola noi.

Chi rifiuta per sé, per troppa vanità o sensibilità, una seria parola del fratello, non potrà neppure annunziare, in tutta umiltà, la Parola all'altro, perché teme che sia rifiutata e si sentirebbe offeso da questo. L'ipersensibile diventerà sempre un adulatore, e con ciò ben presto anche dispregiatore e calunniatore del fratello. L'umile, invece, si attiene allo stesso tempo alla verità e all'amore. Si attiene alla Parola di Dio e da questa si lascia condurre verso il fratello. Non cercando ne temendo nulla per sé, può aiutare il prossimo mediante la Parola.

Indispensabile, perché ordinato dalla Parola divina, è l'ammonimento lì dove il fratello cade in aperto peccato. L’esercizio della disciplina nella comunità incomincia nella cerchia più ristretta. Dove il rinnegamento della Parola di Dio nell'insegnamento o nella vita mette in pericolo la vita del gruppo comunitario e con ciò tutta la comunità, lì è necessario osar dire la parola che ammonisce e castiga. Nulla può esservi di più crudele di quella bontà che lascia l'altro nel suo peccato. Nulla può esservi di più misericordioso del duro rimprovero che richiama il fratello dalla via del peccato. È un servizio di misericordia, un'ultima offerta di sincera comunione, se lasciamo che la Parola di Dio rimanga lì, sola, tra noi, a giudicare e aiutare. Non siamo noi, allora, a giudicare; Dio solo giudica e il giudizio di Dio è di aiuto e salutare.

Possiamo servire il fratello fino in fondo solo non sollevandoci mai sopra di lui; lo serviremo ancora, quando gli diciamo la Parola di Dio che giudica e separa, quando, obbedendo a Dio, interromperemo la comunione con lui. Sappiamo pure che non è il nostro amore umano che ci permette di restare fedeli all'altro, è l'amore di Dio che raggiunge l'uomo solo attraverso il giudizio. La Parola di Dio stesso serve l'uomo giudicandolo. Chi accetta il servizio reso dal giudizio divino, ha trovato aiuto.

6. L'autorità come servizio fedele a Cristo

Qui è il punto dove si manifestano i limiti di ogni azione umana per il fratello. «Nessuno può in alcun modo redimere il fratello, ne dare a Dio il prezzo del riscatto d'esso. Il riscatto dell'anima dell’uomo è troppo caro e non sarà mai sufficiente» (Salmo 49,8). Questa rinuncia ad ogni possibilità propria è appunto la premessa e la conferma dell'aiuto liberatore, che solo la Parola di Dio può dare al fratello. Non è in mano nostra la vita del fratello, non possiamo tenere unito ciò che vuole spezzarsi, non possiamo tenere in vita ciò che vuole morire. Ma Dio congiunge ciò che sta per spezzarsi, crea comunione dove regna la separazione, dona grazia mediante il giudizio. Egli ha messo la sua parola sulla nostra bocca. Vuole che venga annunziata da noi. Se impediamo la sua Parola, il sangue del fratello peccatore ricadrà su di noi. Se annunziamo la sua parola, Dio salverà per nostro mezzo il fratello. «Chi converte un peccatore dall'errore della sua vita, salverà l'anima di lui dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Giac. 5,20).

«Chiunque fra voi vorrà essere primo, sarà serve di tutti» (Afe. 10,43). Gesù ha legato ogni autorita nella comunità al servizio. Vera autorità c'è solo lì dove si compie il servizio dell'ascoltare, aiutare, portare ed annunziare la Parola.

Ogni culto per una persona che si estende a particolari qualità, a eccezionali capacità, forze, talenti di un altro — anche se si tratta chiaramente di qualità spirituali — è un sentimento terreno e non trova posto nella comunità cristiana, anzi la avvelena.

Se oggi si sente tanto spesso la necessità di 'figure episcopali', di 'personalità sacerdotali', di persone che abbiano vera autorità lo si deve soprattutto al fatte che si prova il bisogno di ammirare un uomo, di imporre un'autorità umana visibile, perché la vera autorità derivante dal servizio sembra troppo umile. E questo è segno di malattia spirituale. Nulla si oppone più nettamente a questo bisogno del Nuovo Testamento stesso, lì dove descrive la figura del vescovo (1 Tim. 3,1 ss.). Non vi appaiono per nulla entusiasmanti capacità umane, brillanti qualità di una personalità spirituale. Vescovo è l'uomo semplice e fedele nella sua vita e nella sua fede, che compie onestamente il suo servizio nella comunità. La sua autorità dipende dal modo di servire. Nell'uomo stesso non vi è nulla di ammirevole. La smania di autorità fittizia, in fondo, non cerca che di erigere nella Chiesa una qualche immediatezza, un legame umano. La vera autorità è consapevole che ogni immediatezza proprio nel campo dell'autorità è un male, che essa può affermarsi solo nel servizio di colui che, unico, ha autorità. La vera autorità sa di essere legata, nel senso più stretto, alla Parola di Gesù: «Uno solo è il vostro maestro, e voi siete tutti fratelli» (Mt. 23,8). La comunità non ha bisogno di personalità brillanti, ma di fedeli servitori di Gesù e dei fratelli. E realmente essa non manca delle prime, ma di questi ultimi. La comunità concederà la sua fiducia solo ai semplici servitori della Parola di Gesù, perché sa che da questi sarà guidata non in base a sapienza ed orgoglio, ma secondo la Parola del buon Pastore. La questione spirituale della fiducia, strettamente connessa con quella dell'autorità, si decide in base alla fedeltà con cui uno serve Gesù Cristo, e mai in base alle qualità eccezionali di cui dispone. Autorità nella cura d'anime può averla solo il servitore di Gesù, che non cerca la sua propria autorità, ma che pone se stesso sotto l'autorità della Parola ed è un fratello tra fratelli.

Da Bonhoeffer, VITA IN COMUNE


mercoledì 10 dicembre 2025

MEDITAZIONE

Come un teologo riformato suggerisce la lectio divina

La meditazione ci mette soli davanti alla Parola

Tre sono le cose per le quali il cristiano ha bisogno di un periodo stabilito di solitudine con se stesso durante la giornata: la meditazione della Parola; la preghiera; l'intercessione. Egli deve trovarle tutte e tre nel periodo quotidiano di meditazione. Ci si può domandare perché dovrebbe essere necessaria un'ora stabilita, dato che troviamo tutti i suddetti momenti nel culto comune. Potremo dare una risposta in questo senso: il periodo di meditazione serve alla riflessione personale sulla Scrittura, alla preghiera personale, ed all'intercessione personale; a nessun altro scopo.

Non v'è luogo per esperimenti spirituali. Ma per queste tre cose dobbiamo avere il tempo necessario, perché è Dio stesso che ce lo ordina. Anche se la meditazione non avesse per noi nessun altro senso che quello di rendere a Dio un servizio da Lui richiesto sarebbe già sufficiente.

Il momento della meditazione non ci fa precipitare nel vuoto e nell'abisso della solitudine, ma ci mette soli di fronte alla Parola. Con ciò essa ci da un fondamento sicuro col quale poggiare e dove trovare indicazioni per il cammino che dobbiamo percorrere.

Mentre nel culto in comune leggiamo un testo seguito, nella nostra meditazione della Scrittura ci atteniamo a un breve testo espressamente scelto, che può anche restare lo stesso per tutta la settimana. Se mediante la lettura in comune della Bibbia venivamo portati a conoscere piuttosto l'ampiezza e la vastità di tutta la Scrittura nel suo insieme, qui invece veniamo condotti nella incommensurabile profondità di ogni singola frase e parola. Ambedue le cose sono egualmente necessarie. «Affinché siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi qual sia la larghezza, l'altezza e la profondità dell'amore di Cristo» (Ef 3,18).

Nella meditazione leggiamo il testo, basandoci sulla promessa che esso ha qualcosa di assolutamente personale da dirci per la giornata che abbiamo davanti a noi; che non si tratta solo della Parola di Dio rivolta a tutta la comunità, ma anche della Parola di Dio rivolta a me personalmente. Ci esponiamo alla singola parola e proposizione finché ne siamo afferrati personalmente. Non facciamo, così, nulla di diverso da ciò che fa ogni giorno, il cristiano più semplice, meno istruito.

Leggiamo la Parola di Dio come Parola di Dio per noi. Non chiediamo, dunque che cosa questo passo ha da dire ad altri; per noi predicatori ciò significa che, leggendo, non ci dobbiamo chiedere come predicheremo su questo testo e come lo potremmo spiegare, ma che cosa ha da dire proprio a noi personalmente. È logico che prima dobbiamo averne compreso il contenuto; ma in questo momento non ci troviamo di fronte ad un'esegesi del testo, né alla preparazione di un sermone, ne di uno studio biblico qualsiasi, ma attendiamo la Parola di Dio rivolta a noi. E non è mai un'attesa vana, ma l’attesa che si fonda su una precisa promessa. Spesso siamo così oppressi e sopraffatti da altri pensieri e immagini e preoccupazioni che passa parecchio tempo prima che Dio riesca a spazzare via tutto e a penetrare nel nostro intimo. Ma è sicuro che questo accadrà, quant'è certo che Dio stesso è venuto da noi in terra e vi tornerà. Appunto per ciò incominceremo la nostra meditazione con la preghiera che il Signore ci mandi il suo Spirito Santo nella sua Parola e ci riveli la sua Parola e ci illumini.

Non è necessario che riusciamo a riflettere su tutto il passo fino in fondo. Spesso ci soffermeremo su una sola frase o addirittura su una parola, che ci afferra e mette in questione il nostro modo di essere e non ci lascia più liberi. Non bastano, talora, parole come 'padre', 'amore', 'misericordia', 'croce', 'santificazione', 'risurrezione' per riempire completamente il tempo dedicato alla meditazione?

Non è necessario che nella meditazione ci sforziamo di pensare e pregare con parole chiaramente formulate. Il pensiero e la parola silenziosi che nascono dall'ascolto possono, spesso, essere anche più ricchi.

Non è necessario che nella meditazione scopriamo idee nuove. Questo ci distrae solo e soddisfa la nostra vanità. È più che sufficiente che la parola che leggiamo penetri in noi così come la leggiamo e comprendiamo e prenda dimora in noi. Come «Maria conservava in sé» (Lc. 2,19) le parole dei pastori, come conserviamo spesso la parola di un uomo per parecchio tempo, ed essa si fissa in noi, opera, ci fa riflettere, ci preoccupa o ci allieta, senza che possiamo farci nulla, così la Parola di Dio, nella meditazione, vuole penetrare nel nostro animo e dimorare in noi, ci vuole muovere, vuole operare in noi, così che tutto il giorno non riusciamo a disfarcene, ed opererà in noi spesso in modo tale che non ce ne accorgiamo nemmeno.

Soprattutto non è necessario che, durante la meditazione, facciamo qualche scoperta inattesa e straordinaria. Può anche accadere, ma se non è così non è affatto segno di un periodo di meditazione sprecato. Non solo in principio, ma sempre di nuovo passeremo periodi di grande vuoto interiore e di apparente indifferenza, di incapacità di intendere e di avversione per la meditazione. Non dobbiamo fermarci su queste esperienze, e soprattutto non dobbiamo lasciarci indurre a non mantenere tanto più fedelmente e pazientemente i nostri periodi di meditazione. Perciò non è bene che prendiamo troppo sul serio le numerose brutte esperienze che facciamo con noi stessi nella meditazione. Per una via traversa apparentemente pia potrebbero introdursi di nuovo di nascosto la nostra vanità e le nostre pretese di fronte a Dio, come se fosse nostro diritto fare esperienze solo edificanti ed allietanti, come se l'esperimentare la nostra povertà interiore non fosse degno di noi. Ma un simile atteggiamento non ci fa progredire. Impazienza e rimproveri mossi a noi stessi promuovono solo la nostra vanità e ci fanno invischiare sempre più nella rete dell'autoosservazione. Per pensieri egocentrici non dev'esserci posto nella meditazione, come non può es-sercene nella vita del cristiano in genere.

Dobbiamo rivolgere la nostra attenzione esclusivamente alla Parola e affidarci esclusivamente alla sua opera. Non potrebbe darsi che Dio stesso ci mandi questo periodo di vuoto e deserto inferiore, perché fossimo pronti ad attenderci di nuovo tutto da Lui? «Cercate Dio, non un piacere» - questa è la regola fondamentale per ogni meditazione. Se cerchi solo Dio, troverai gioia - ecco la promessa data ad ogni meditazione.

L'intercessione come servizio alla comunità

La lettura della Parola ci spinge alla preghiera. Abbiamo già detto che la via più sicura per giungere alla preghiera è di lasciarci guidare dal passo biblico, pregare fermandosi su quanto si è letto. Così non cadiamo nel nostro stesso vuoto. Pregare non significa altro che essere pronti a far propria la Parola, ad applicarla alla mia situazione, ai miei compiti particolari, alle mie decisioni; ai miei peccati, alle mie tentazioni. Ciò che non può entrare a far parte della preghiera della comunità, può essere esposto qui, nel silenzio, davanti a Dio. Basandoci sul passo biblico, chiediamo chiarezza per la nostra giornata, preghiamo di essere preservati dalla tentazione, di progredire nella santificazione, di rimanere fedeli al nostro lavoro e di ricevere le forze necessario per compierlo; lo chiediamo nella certezza di essere esauditi, perché la nostra preghiera sorge dalla Parola e dalla promessa di Dio. La parola di Dio è stata compiuta in Gesù Cristo, perciò ogni preghiera che noi rivolgiamo a Dio richiamandoci a questa Parola è sicuramente esaudita in Gesù Cristo. Una particolare difficoltà alla nostra meditazione sta nel fatto che i nostri pensieri si lasciano facilmente distrarre e vagano per proprio conto, soffermandosi su qualche altra persona o qualche avvenimento della nostra vita. Per quanto ne siamo sempre di nuovo rattristati e ce ne vergognamo, pure non dobbiamo lasciarci prendere dallo scoraggiamento o dal timore o addirittura pensare che noi non siamo fatti per tali periodi di meditazione. Qualche volta può essere di aiuto non cercare disperatamente di scacciare i pensieri e di concentrarci, ma di includere semplicemente nella nostra preghiera la persona o l'avvenimento che ci è venuto in mente e distrae sempre di nuovo il nostro pensiero; così torneremo pazientemente al punto di partenza della nostra meditazione.

Come facciamo seguire la nostra preghiera personale alla lettura della Parola, così è bene fare per l'intercessione. Non è possibile, in un culto in comune, ricordare tutte le persone che ci sono affidate e intercedere per loro, o comunque non nella forma dovuta. Ogni cristiano ha la propria cerchia di persone che gli hanno chiesto di intercedere per loro o per le quali si sente chiamato, per determinate ragioni, a intercedere. In primo luogo saranno coloro insieme ai quali vive ogni giorno. E qui ci troviamo ad un punto in cui sentiamo battere il cuore di ogni convivenza cristiana. Una comunità cristiana vive dell'intercessione reciproca dei mèmbri o perisce. Non posso giudicare o odiare un fratello per il quale prego, per quanta difficoltà io possa avere ad accettare il suo modo di essere o di agire. Il suo volto, che forse mi era estraneo o mi riusciva insopportabile, nell'intercessione, si trasforma nel volto del fratello per il quale Cristo è morto, nel volto del peccatore perdonato. Questa è una scoperta veramente meravigliosa per il cristiano che incomincia a intercedere. Non esiste antipatia, non esiste tensione e dissidio personale che, da parte nostra, non possa essere superato nell'intercessione. L'intercessione è il bagno di purificazione a cui il singolo ed il gruppo devono sottoporsi giornalmente. Può esserci un'aspra lotta con il fratello, nella nostra intercessione, ma rimane la promessa che vinceremo. Come? Intercedere non significa altro che presentare il fratello a Dio, vederlo nella luce della croce di Gesù come povero uomo e peccatore bisognoso di grazia. Con ciò viene a cadere tutto quello che me lo rende antipatico; lo vedo in tutta la sua miseria e pena; nel suo travaglio e peccato che mi si mostrano così grandi e così opprimenti come se fossero i miei; ed allora non posso fare a meno di supplicare: «Signore, opera tu stesso, tu solo in lui, secondo la tua severità e la tua bontà». Intercedere significa: concedere al fratello lo stesso diritto che è stato concesso a noi, cioè di porsi davanti a Cristo ed essere partecipe della sua misericordia.

Da ciò risulta chiaro che anche l'intercessione è un servizio che ci viene chiesto da Dio e dal fratello, ogni giorno. Chi si rifiuta di intercedere per il prossimo, gli rifiuta il suo servizio cristiano. È pure chiaro che l'intercessione non è preghiera generica, indistinta e confusa, ma una richiesta molto concreta. Si tratta di persone ben precise, e di difficoltà precise, perciò anche di richieste precise. Quanto più chiara è la mia preghiera di intercessione, tanto più certo ne è l'esaudimento.

Ed infine non possiamo nemmeno rifiutarci di riconoscere che il servizio di intercessione richiede tempo, da parte di ogni cristiano e, più ancora, da parte di ogni pastore, a cui è affidata tutta una comunità. L'intercessione sola, se fatta bene, riempirebbe tutto il tempo che vogliamo dedicare alla meditazione. Così si dimostra che l'intercessione è un dono della grazia divina a ogni comunità cristiana e a ogni cristiano. Poiché con essa ci viene offerto un dono incommensurabile, lo accetteremo anche con gioia. Proprio il tempo che dedicheremo all'intercessione sarà per noi, ogni giorno, fonte di sempre nuova allegrezza nel Signore e nella comunità cristiana.

Dato che meditazione, preghiera e intercessione sono un servizio dovuto a Dio, e dato che in questo servizio troviamo la grazia di Dio, dobbiamo esercitarci a trovare per questo servizio un'ora fissa durante la giornata, come per ogni altro servizio che rendiamo. Non si tratta di «legalismo», ma di disciplina e di fedeltà. Per lo più l'ora della mattina sarà l'ora migliore. Anche di fronte ad altri abbiamo il diritto di prenderci quest'ora e possiamo procurarci questo periodo di silenzio indisturbato, anche a dispetto di tutte le difficoltà che ci vengono dall'esterno. Per un pastore questo è un ordine inderogabile da cui dipenderà tutto il suo modo di dedicarsi al suo ministero.

Chi sarà fedele nelle cose grandi, se non ha imparato ad esserlo in quelle piccole?

II tempo della prova nel mondo non cristiano

Ogni giorno il cristiano, per molte ore, si trova solo in mezzo ad un mondo tutt'altro che cristiano. È il tempo della prova. È la prova di una buona meditazione e di una buona comunione cristiana. La comunità è servita a rendere ogni membro libero, forte e maggiorenne? O lo ha reso inesperto e incapace di agire da sé? Lo ha preso per la mano per un breve tratto, perché impari di nuovo a camminare da solo? o lo ha reso pauroso e indeciso? Ecco una delle prime e più difficili domande rivolte ad ogni gruppo comunitario cristiano. Qui si dimostrerà inoltre se la meditazione ha condotto il cristiano in un mondo irreale, dal quale si risveglia pieno di paura quando deve uscire nel mondo terreno per compiere il suo lavoro, o se lo ha condotto nel mondo reale di Dio, dal quale esce per andare, fortificato e purificato, incontro al nuovo giorno? Lo ha fatto vivere brevi momenti di ebbrezza spirituale, che svaniscono quando si trova di fronte alla realtà quotidiana; o gli ha radicato così profondamente nel cuore la Parola di Dio, che questa lo sostiene e fortifica per tutto il giorno e lo spinge ad un amore attivo, all'obbedienza, alla buona Opera? Solo la giornata ne deciderà.

La presenza invisibile della comunità cristiana è una realtà ed un aiuto per il singolo? L'intercessione degli altri mi sostiene durante la giornata? La Parola di Dio mi è vicina, mi consola, mi fortifica? Abuso delle ore in cui sono solo agendo contro gli interessi della comunità, contro la Parola e contro la preghiera? Il singolo deve sapere che anche il suo comportamento quand'è solo si riflette sulla comunità; quando è solo può distruggere e macchiare la comunità, e può fortificarla e santificarla. Ogni autodisciplina del cristiano è pure un servizio reso alla comunità. D'altra parte non esiste peccato, per quanto nascosto, commesso dal singolo nel pensiero, nella parola o nel-l'azione che non arrechi danno a tutta la comunità. Nel corpo penetra un germe patogeno, del quale ancora, forse, non si sa donde provenga, in quale membro si trovi, ma dal quale pure il corpo è già avvelenato. Ecco l’immagine della comunità cristiana. Poiché siamo membra di un corpo non solo quando vogliamo esserlo, ma in tutto il nostro essere, perciò ogni membro serve a tutto il corpo a salvezza o a perdizione. Non è una teoria, ma una realtà spirituale, che nella comunità cristiana viene spesso sperimentata in maniera impressionante, o come forza distruttrice o come forza vitale.

Chi, dopo la sua giornata lavorativa, torna nel gruppo comunitario, porta con sé la benedizione della solitudine, e lui stesso riceve a sua volta la benedizione della comunione. Beato chi è solo nella forza della comunione, beato chi mantiene la comunione nella forza della solitudine. La forza della solitudine e la forza della comunione è, però, solo la forza della Parola di Dio che vale per il singolo nella comunità. 

Da Bonhoeffer, Vita comune


Il grande valore della condivisione

 I tuoi beni sono proprietà di Dio

Lazzaro non ha subito alcuna ingiustizia da parte del ricco: il ricco non gli ha preso dei beni; solamente non gli ha dato parte dei propri. Se chi non ha dato parte dei suoi beni, ha come accusatore colui di cui non ha avuto misericordia, come potrà essere perdonato chi ha rubato anche i beni altrui, mentre da ogni parte sarà circondato da quelli che hanno ricevuto dei torti? In quel giorno non vi sarà bisogno di testimoni ne di accusatori, di dimostrazioni e di prove: ma le nostre azioni, una ad una, come le abbiamo compiute, appariranno davanti ai nostri occhi. 

«Ecco l'uomo e le sue opere», dice. Infatti è un furto anche i il non dare parte dei propri beni. Forse vi sembra stupefacente quanto affermo, ma non vi stupite: infatti, a partire dalle Scritture divine, vi offrirò una testimonianza, che dice come la rapina, la frode e il furto non consistono solo nel rubare i beni altrui, ma anche nel non dare agli altri parte dei propri beni. Di quale passo sto parlando? Rimproverando i giudei per mezzo del profeta, Dio dice: «La terra ha dato i suoi frutti e non avete offerto le decime: le cose tolte ai poveri sono nelle vostre case». Come a dire: «Poiché non avete fatto le solite offerte, avete rubato al povero». Dice questo per mostrare ai ricchi che appartengono ai poveri i beni che possiedono, sia che li abbiano ricevuti per eredità paterna, sia che li abbiano accumulati in un altro modo. E in un altro passo dice: «Non spogliare la vita del povero» (Sir 4,1). Chi spoglia, spoglia i beni altrui: infatti si parla di "spogliazione", quando ci impadroniamo dei beni di un altro. E da questo, perciò, impariamo che, se non facciamo l'elemosina, saremo puniti come i ladri. Infatti i beni sono del Signore, in qualunque modo li abbiamo accumulati: e se li daremo ai bisognosi, ne otterremo in gran quantità. Per questo Dio ti ha concesso di possedere più degli altri: non per sperperarlo nella lussuria, nell'ubriachezza, nelle gozzoviglie, nelle vesti lussuose e in altre mollezze, ma per dividerlo con i bisognosi. Infatti come un collettore di imposte, qualora spenda a suo piacimento il denaro che gli è affidato e tralasci di distribuirlo a chi gli è stato ordinato, ne paga le conseguenze e va incontro alla morte, così anche il ricco è una sorta di collettore che riceve delle ricchezze da spartire con i poveri e che ha il compito di distribuirle ai suoi compagni di servitù nel bisogno. Dunque, qualora spenda per sé più del necessario, nell'aldilà andrà incontro a una pena gravissima. Infatti i beni che possiede non appartengono a lui, ma ai suoi compagni di servitù.

5. Siamo pertanto parsimoniosi, come se le ricchezze non fossero nostre. Solo così diverranno nostre. Come saremo parsimoniosi? Quando non le impieghiamo per il superfluo e non solamente per le nostre necessità, ma quando le distribuiamo nelle mani dei poveri: se sei nel benessere e spendi più del necessario, dovrai render ragione delle sostanze che ti furono affidate. Questo accade anche nelle case della gente ricca. Molti infatti hanno affidato i loro affari ai loro servitori; tuttavìa, costoro custodiscono quanto è stato loro affidato e non ne abusano, ma lo distribuiscono a chi e quando il padrone glielo comanda. Fa' questo anche tu! Hai ricevuto, ti è stato affidato più degli altri, non per spenderlo da solo, ma per diventare un buon amministratore anche per gli altri. 

Non indagare sulla vita del richiedente

Chi è generoso non deve chieder conto della condotta, ma solamente migliorare la condizione di povertà e appagare il bisogno. Il povero ha una sola difesa: là sua povertà e la condizione di bisogno in cui si trova. Non chiedergli altro; ma, fosse pure l'uomo più malvagio al mondo, qualora manca del nutrimento necessario, liberiamolo dalla fame. Anche questo ha comandato di fare il Cristo, quando ha detto: «Siate simili al Padre vostro che è nei deli, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45). L'uomo misericordioso è un porto per chi è nel bisogno: il porto accoglie e libera dal pericolo tutti i naufraghi; siano essi malvagi, buoni o siano come siano quelli che si trovano in pericolo, il porto li mette al riparo all'intemo della sua insenatura. Anche tu, dunque, quando vedi in terra un uomo che ha sofferto il naufragio della povertà, non giudicare, non chieder conto della sua condotta, ma liberalo dalla sventura! Perché procurarti delle noie con le tue stesse mani? Dio ti ha liberato da ogni preoccupazione superflua e da ogni vana ricerca. Quanto a lungo e quanto a sproposito avrebbero discusso molti, se Dio avesse comandato loro di esaminare con attenzione la vita, la condotta e le azioni di ciascuno, prima di dargli l'elemosina!

Ebbene, siamo liberi da tutte queste difficoltà. Perché allora andarsele a cercare? Una cosa è giudicare, un'altra è fare l'elemosina. Si chiama elemosina proprio perché la diamo anche a chi non la merita. Anche Paolo esorta a farlo, dicendo: «Non stancatevi di fare il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede» (Gal 6,9). Se ci mettiamo ad esaminare puntigliosamente gli immeritevoli, forse non ce ne capiterà mai uno che la meriti; al contrario, se diamo anche agli immeritevoli, sicuramente verrà incontro alle nostre mani chi la merita e chi è in grado di compensare l'indegnità di quegli altri. Come accadde al beato Abramo, che senza esaminare i passanti, una volta ebbe la possibilità di ospitare anche gli angeli. Imitiamolo anche noi e, con lui, il suo discendente Giobbe. Infatti quest'ultimo ha emulato con grande zelo la generosità del suo antenato e, per questo motivo, diceva: «La mia porta era aperta a ogni viandante» (Gb 31,32). Non era aperta ad uno e chiusa ad un altro, ma aperta indistintamente a tutti.

6. Comportiamoci anche noi allo stesso modo, vi scongiuro, senza investigare oltre il dovuto. Infatti l'unico merito del povero è il suo bisogno: e se qualcuno ci viene incontro con questo, non esigiamo nulla di più. Infatti non facciamo l'elemosina al comportamento, ma all'uomo; ne proviamo compassione per la sua virtù, ma per la sua sventura, affinchè anche noi possiamo ottenere dal Signore grande misericordia e noi, che non la meritiamo,possiamo godere della sua filantropia. 

Se infatti ci mettessimo a esaminare i meriti dei nostri compagni di servitù e a fare mille investigazioni, Dio farà lo stesso anche con noi: e noi, che con insistenza chiediamo conto delle azioni dei nostri compagni di servitù, verremo privati della filantropia che viene dall'alto. Egli dice: «Con il giudizio con cui giudicate sarete giudicati (Mt 7,2). 

Giovanni Crisostomo, Discorsi sul povero Lazzaro, 2, 4-6)


lunedì 8 dicembre 2025

Accoglienza reciproca nella Chiesa

Pieve di Romena
in Casentino (Ar)
Lettera ai romani 

Capitolo 14

Paolo, dopo aver parlato del rapporto tra i cristiani con le autorità, tratta ora una seconda questione specifica che gli stava molto a cuore: spegnere la discordia tra i credenti che provenivano dall’ebraismo (giudeo-cristiani) e i credenti che provenivano dal paganesimo (etno-cristiani). Gli ebrei erano abituati a rispettare rigorose norme di carattere alimentare. La Legge, di per sé, proibiva soltanto l’astensione dagli animali definiti impuri ma alcune correnti giudaiche avevano esteso questa proibizione fino a proibire il consumo di tutte le carni (Cf Dn 1,8-16). Inoltre avevano stabilito altre pratiche ed osservanze in certe scadenze del calendario (14,5). 

I giudeo-cristiani, anche dopo il Battesimo, continuavano a seguire tali pratiche. Questo comportamento suscitava un certo disappunto da parte degli etnocristani. Forse alcuni di loro, per evitare tensioni, trasgredivano delle norme alle quali, però, si sentivano obbligati in coscienza. Diventavano allora persone “deboli”, a rischio di peccare, rispetto agli altri che liberi da scrupoli, si sentivano “forti”. L’apostolo invita tutti all’accoglienza reciproca evitando atteggiamenti di disprezzo o di condanna gli uni contro gli altri (14,10-12). Devono imitare l’accoglienza verso tutti manifestata da Dio stesso (14,3). Tutti infatti adottano un loro particolare stile di vita animati dal desiderio di essere fedeli al Signore Gesù, il quale ha il potere di rendere ogni credente capace di fedeltà secondo la sua particolare convinzione (14,4). Tutti appartengono a lui durante questa vita ed anche oltre la morte (14,8). Bisogna evitare che, proprio all’interno della comunità, qualcuno cada in peccato trascinato da altri a trasgredire ai dettami di coscienza (14,15). Ogni credente è prezioso agli occhi del Signore il quale ha donato la sua vita per tutti (14,15). A suo parere, non esiste una differenza religiosa tra i cibi e nessun alimento è impuro (14,14). Il Regno di Dio introdotto da Gesù è interessato a far acquisire beni spirituali molto più rilevanti (14,17) ma, proprio la novità creata dal Signore esige un profondo rispetto reciproco fondato sulla carità (14,21). Bisogna imparare a ridimensionare le proprie convinzioni, non vincolanti, quando questo è necessario per favorire la comunione. 

1Accogliete chi è debole nella fede, senza discuterne le opinioni. 2Uno crede di poter mangiare di tutto; l’altro, che invece è debole, mangia solo legumi. 3Colui che mangia, non disprezzi chi non mangia; colui che non mangia, non giudichi chi mangia: infatti Dio ha accolto anche lui. 

«Considerate la prudenza di Paolo e vedete come qui egli dimostra la sua consueta saggezza in ciò che dice delle due categorie di fedeli: esprime loro un rimprovero moderato. Non osa dire (agli ex-pagani) che rimproveravano gli altri: fai male [a deridere gli ebrei]. Non vuole neppure che i Giudei persistano nelle loro osservanze. Non dice loro: fate bene [a conservare le pratiche legali], per non consolidarli ancora di più. I più deboli sono sempre quelli che richiedono più cure. Pertanto, rivolgendosi subito ai più forti [etno-cristiani], dice loro: [c’è] chi è ancora debole nella fede. Denominare qualcuno così è mostrare che è malato. Accoglietelo con carità: questo invito dimostra ancora una volta che ha bisogno di molte cure e che la malattia è grave. 

I più progrediti deridevano quelli che chiamavano uomini di poca fede, cristiani sospetti che continuavano a “giudaizzare”. Questi ultimi [i giudeo-cristiani] giudicavano i loro accusatori; li rimproveravano di infrangere la legge per soddisfare la loro gola (il che era vero per un buon numero di gentili). Per questo l'apostolo aggiunge: Dio ha preso al suo servizio [anche chi era pagano]. Perché allora lo rimproveri di non sottostare alla legge? Dio ha accolto anche lui, cioè gli ha comunicato la sua grazia ineffabile e lo ha assolto da ogni accusa» (CLR 25,1). 

4Chi sei tu, che giudichi un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone. Ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di tenerlo in piedi. 

«Quando dice starà in piedi, l'apostolo lo mostra vacillante, bisognoso di attenzione, di grande cura. Viene invocato Dio stesso per guarirlo: Egli è onnipotente per renderlo saldo. Questo è il linguaggio che usiamo quando i malati sono quasi nella disperazione. Per evitare la disperazione, chiama questo malato un servo: Chi sei tu, per giudicare il servo altrui? Un nuovo rimprovero indiretto! Non è perché la sua condotta non sia degna di giudizio che ti proibisco di giudicarlo, ma perché è il servo di un altro; il che significa che non è tuo, ma di Dio. Se rimane saldo o se cade: sia l'uno che l'altro di questi due stati, in entrambi i casi, è affare del Signore perché è lui che soffre la perdita quando il servo cade, e, quando rimane saldo, il guadagno è del Signore. Non potrebbe rimproverare più fortemente questo zelo indiscreto. Dice: Dio che subisce la perdita, soffre senza lamentarsi. Quale zelo intempestivo, quale eccesso di ansia non mostri, nel tormentare, nell'inquietare chi non fa come te?» (CLR 25,2)

5C’è chi distingue giorno da giorno, chi invece li giudica tutti uguali; ciascuno però sia fermo nella propria convinzione. 6Chi si preoccupa dei giorni, lo fa per il Signore; chi mangia di tutto, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; chi non mangia di tutto, non mangia per il Signore e rende grazie a Dio.

«Non si tratta qui di decisioni [etiche] capitali: ciò che bisogna sapere, infatti, è se l'uno o l'altro si comporta in vista di Dio, se, da entrambe le parti, si finisce per rendere grazie a Dio. Ebbene! Entrambi benedicono Dio. Pertanto, poiché da entrambe le parti Dio è benedetto, non c'è molta differenza» (CLR 25,2). 

7Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, 8perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. 9Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi. 

«Non siamo liberi; abbiamo un Signore che desidera la nostra vita, non la nostra morte. Egli si interessa della nostra morte e della nostra vita più di noi. Con ciò dimostra infatti di prendersi cura di noi più di quanto noi ci prendiamo cura di noi stessi, di considerare la nostra vita un tesoro per lui e la nostra morte una perdita. È sufficiente, per dimostrare che Dio si prende cura di noi, dire che viviamo per lui e che moriamo per lui. Fornisce poi un'altra prova, un segno lampante della provvidenza di Dio. Qual è questo segno? Per questo stesso motivo Gesù Cristo morì e risuscitò: per avere dominio sui morti e sui vivi. Siate dunque convinti che egli è sempre preoccupato per la nostra salvezza e per la nostra perfezione. Se infatti la sua provvidenza non si fosse preoccupata così tanto di noi, che necessità avrebbe avuto di incarnarsi tra noi? Lo zelo di farci sue membra lo portò ad assumere la forma di schiavo, fino alla morte. Dopo tali prove, ci avrebbe disprezzato? No, no; non avrebbe voluto perdere ciò che gli era costato così caro» (CLR 25,2). 

10Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E tu, perché disprezzi il tuo fratello? Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio, 11perché sta scritto: Io vivo, dice il Signore: ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio. 12Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio. 13D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello.

«L'apostolo continua con tono più mite: tu perché condanni il tuo fratello? Il titolo di fratello che usa pone fine alla lite. Poi ricorda il terribile giorno del giudizio» (CLR 25,3). 

14Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è impuro in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come impuro, per lui è impuro. 15Ora se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Non mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto! 16Non divenga motivo di rimprovero il bene di cui godete! 

«Nulla è impuro, dice l'apostolo, se non per chi pensa che sia impuro. Perché allora non correggere il fratello, affinché si ricreda dal pensare che qualcosa è impura? Temo, dice l'apostolo, di contristarlo. Perciò aggiunge: se, mangiando qualcosa, contristi il tuo fratello, da allora in poi non cammini secondo la carità. Vedete come l'apostolo concilia i cuori? Mostra al debole cristiano di avere così tanta considerazione per lui che, per non rattristarlo, non osa nemmeno prescrivergli ciò che sarebbe tuttavia molto necessario, preferendo attirarlo con una condiscendenza piena di carità. Avendogli tolto la paura, non gli fa violenza, ma gli lascia il pieno controllo della sua condotta. Infatti, il vantaggio di far rinunciare a qualcuno un tipo di cibo non vale lo svantaggio di rattristare il fratello. Vedete fino a che punto spinge lo zelo della carità? Per questo aggiunge queste parole: Non distruggere con il tuo cibo colui per il quale Gesù Cristo è morto. Non stimi abbastanza tuo fratello da acquistare, anche a prezzo dell'astinenza, la salvezza della sua anima? Cristo ha fatto il sacrificio più grande, e tu non farai il minimo? Eppure lui è il Signore, e tu sei un fratello» (CLR 26,1). 

17Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: 18chi si fa servitore di Cristo in queste cose è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. 19Cerchiamo dunque ciò che porta alla pace e alla edificazione vicendevole. 20Non distruggere l’opera di Dio per una questione di cibo!

«Come nuova ragione per porre fine ai timidi scrupoli dell'uno, allo spirito contenzioso dell'altro, dice: il regno di Dio non consiste nel mangiare e nel bere. È per questo che possiamo essere giustificati? Quali sono dunque i titoli che ci danno accesso al cielo? Giustizia, pace, gioia, pratica della virtù, concordia fraterna, che sono ostacolati da tali dispute; la gioia dell'armonia che è rovinata da tali rimproveri. Queste riflessioni l'apostolo le ha rivolte non a una sola delle due parti, ma a entrambe contemporaneamente, perché c'è l'opportunità di farle comprendere a entrambi. Le vostre lotte, le vostre dispute, i problemi che causate, le divisioni che provocate nella Chiesa, i vostri insulti al vostro fratello, il vostro odio contro di lui, eccitano maldicenze dall'esterno, così che non solo, con ciò, non correggete nulla, ma producete un effetto completamente contrario. Il vostro bene è la carità, l'amore fraterno, l'unione, la concordia, la pace, una vita dolce e clemente» (CLR 26,1).

Tutte le cose sono pure; ma è male per un uomo mangiare dando scandalo. 21Perciò è bene non mangiare carne né bere vino né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi. 22La convinzione che tu hai, conservala per te stesso davanti a Dio. Beato chi non condanna se stesso a causa di ciò che approva. 23Ma chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce secondo coscienza; tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza è peccato.

«Per evitare che le concessioni fatte rafforzassero il più debole nei suoi errori, l'apostolo si rivolge a lui e lo rimprovera: tutti i cibi siano puri, ma un uomo fa male a mangiarli, quando lo fa con una cattiva coscienza. Quindi se hai costretto tuo fratello con la forza e lui ha mangiato, non ci sarebbe alcun profitto; non è il cibo che contamina, ma l'intenzione di chi mangia. Se, quindi, non correggi questa intenzione, tutti i tuoi sforzi sono vani e hai solo fatto del male; perché c'è una grande differenza tra credere semplicemente che un cibo sia impuro e mangiarlo quando si crede che lo sia. Quando, quindi, violi quest'anima debole, pecchi doppiamente: accresci il suo pregiudizio combattendolo, la costringi a mangiare qualcosa che crede impuro. Pertanto, finché non hai operato la persuasione, non esercitare costrizione. L'apostolo è più esigente; non gli basta che ci asteniamo dalla costrizione, vuole anche che abbiamo condiscendenza verso il cristiano giudaizzante. Egli stesso, infatti, ha spesso dato l'esempio, come quando circoncise il suo discepolo, quando gli rasò i capelli, quando fece le oblazioni legali. Nulla può essere paragonato alla salvezza del vostro fratello. E questo è ciò che Cristo ci mostra a sufficienza, lui che è disceso dal cielo, che ha sofferto ogni cosa per noi. 

Non obiettarmi, dice l'apostolo, che il tuo fratello agisce senza ragione, ma che tu puoi correggerlo. La sua debolezza è una ragione sufficiente per venire in suo aiuto, soprattutto perché non ti reca alcun danno. La tua condiscendenza non sarà ipocrisia, ma un'indulgenza edificante e saggia. Se usi costrizione con lui, ti resiste, ti condanna e persiste nel suo pregiudizio e nel suo scrupolo; se, al contrario, ti trova indulgente, si affeziona a te; il tuo insegnamento non gli sembra sospetto e ti permette di seminare gradualmente i semi della verità in lui. [Al contrario] dal momento in cui ha concepito odio contro di te, tu stesso avrai chiuso ogni accesso alle tue parole nella sua anima. Perciò non costringerlo, ma per il suo bene astieniti; Non perché consideri impuro il cibo, ma perché saresti per lui motivo di scandalo; in questo modo aumenterai il suo affetto per te» (CLR 26,2). 

Capitolo 15

Nei primi versetti (1-13) riprende e conclude l’argomento sviluppato nel capitolo precedente. Ogni credente deve cercare di edificare il prossimo e evitare ogni motivo di scandalo. Si tratta di di imitare lo stile di vita di Gesù. In tutta la vita non curò mai il proprio interesse ma si spese per quello degli altri (15,3.7); non soltanto li beneficò ma accettò con pazienza i loro insulti. Lo attesta la Sacra Scrittura che offre sempre un insegnamento molto utile per consolidare la nostra speranza. I membri della comunità, provenienti da culture diverse, devono accogliersi imitando Gesù che si pone a servizio degli Ebrei per attuare la promessa di Dio ai Padri e che serve anche i pagani per manifestare la sua misericordia. 

L’apostolo ha esaurito tutte le sue istruzioni e comincia a congedarsi dalle comunità. Ora deve chiedere il loro aiuto e per questo riprende ad usare un linguaggio molto dimesso. Non è il loro fondatore e neppure una loro guida specifica. Si scusa di aver voluto impartire istruzioni, comunicando loro insegnamenti che già conoscevano. Detto questo, richiama ciò che più gli interessava. Ricorda che egli è un servitore di Cristo, accreditato da lui. Ha realizzato in modo magnifico l’incarico ricevuto. È come un sacerdote che offre a Dio non vittime sacrificali ma una miriadi di persone che si dedicano a Dio, così che la sua missione è un vero atto di culto. Questo è stato reso possibile per il fatto che Cristo stesso ha agito per mezzo di lui. 

Essere graditi al prossimoo

1Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. 2Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene, per edificarlo. 

«Vedete come li esalta con queste parole lusinghiere, in cui non solo li chiama forti, ma li mette anche sullo stesso piano di sé? E fa di più, li prende per l'idea di utilità, senza dire loro nulla di penoso. Voi siete forti, dice loro, e se usate condiscendenza non vi fate alcun male; ma l'infermo corre i rischi maggiori se non è sostenuto. Ora non parla di infermi, ma delle debolezze degli infermi, per suscitare la compassione dei fedeli. Siete diventati forti? Rendi la ricompensa a Dio che vi ha creati tali; sarete graditi a lui, se aiuterete gli ammalati a risorgere. Anche noi eravamo deboli, ma la grazia ci ha resi forti.

Questa condotta non si deve osservare solo nelle debolezze della fede, ma anche in ogni altra debolezza. Ad esempio, se un uomo è incline all'ira, o è incline a pronunciare parole violente, o ha qualche altro difetto, sopportatelo. Non cerchiamo la nostra soddisfazione personale. Ciascuno di voi si sforzi di soddisfare il prossimo in ciò che è buono e può edificarlo. Sei forte Lascia che l'infermo senta la tua forza; fagli sapere per esperienza qual è la tua forza, pensa a soddisfarlo» (CLR 27,2). 

3Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma, come sta scritto: Gli insulti di chi ti insulta ricadano su di me. 

«Di nuovo ricorre a Cristo. Questo è ciò che l'apostolo non manca mai di fare. Quando parla dell'elemosina, indica Cristo, dicendo: Voi conoscete la bontà del nostro Signore Gesù Cristo, che, essendo ricco, si è fatto povero per noi (2 Cor 8,9); per persuadere alla carità, si affida di nuovo a Cristo, dicendo: Come Cristo ci ha amati ( Ef 5,25); e quando consiglia di sopportare la vergogna e affrontare i pericoli, ricorre di nuovo a Cristo, dicendo: il quale, invece della vita felice, che avrebbe potuto godere, sopportò la croce e disprezzò la vergogna (Eb 12,2). Ecco l'apostolo propone Gesù Cristo come esempio, chiedendo [al forte] di portare le infermità altrui, e cita un oracolo dei profeti: Come sta scritto: Gli oltraggi fatti a voi sono ricaduti su di me. Ma ora, che cosa significano queste parole: Non cercò di piacere a se stesso? Non avrebbe potuto sopportare i rimproveri, non avrebbe potuto soffrire ciò che ha sopportato, se avesse voluto pensare solo ai propri interessi. Ma non volle. Pensando solo a noi, non pensò più a se stesso» (CLR 27,2). 

4Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza. 

L'apostolo rafforza poi i fedeli contro le tentazioni che dovranno subire, dicendo: Tutto ciò che è stato scritto è stato scritto per nostra istruzione, affinché conserviamo la speranza mediante la pazienza e la consolazione che ci danno le Scritture, cioè affinché non cadiamo. In effetti, i conflitti sono di mille tipi, interiori ed esteriori, e l'apostolo vuole che noi, rafforzati e confortati dalle Scritture, mostriamo la nostra pazienza; che la perseveranza nella pazienza sia per noi perseveranza nella fede. Esse si generano a vicenda, la speranza produce pazienza, la pazienza produce speranza, ed entrambe nascono dalle Scritture (CLR 27,2). 

5E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù, 6perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo.

«L'apostolo qui trasforma di nuovo le sue esortazioni in preghiere. È nella natura della carità avere per gli altri gli stessi sentimenti che si hanno per sé (CLR 27,2). Poi, per dimostrare che non raccomanda un amore qualsiasi, aggiunge: sull’esempio di Cristo Gesù. Questa è l'abitudine costante di Paolo; perché non c'è un altro amore oltre a questo. Qual è il frutto della concordia? Con un solo animo e una voce sola rendere gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Non dice soltanto: Con una sola bocca, ma prescrive la comunione delle anime. Vedete come cementa ulteriormente l'unione di tutto il corpo della Chiesa e come conclude glorificando Dio? (Cf CLR 27,3)

7Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. 

«Cediamo dunque a questo desiderio di Cristo, uniamoci strettamente gli uni agli altri. Se qualcuno vuole separarsi da voi, non separatevi, non pronunciate queste fredde parole: chi mi ama, io amo; se il mio occhio destro non mi amasse, lo caverei: queste sono parole di Satana, degne dei pubblicani, e che ispirano l'odio dei pagani. Siete chiamati a una vita superiore, siete iscritti in cielo, siete soggetti a leggi più nobili. Non fate dunque tali discorsi. Chi non vuole amarvi, circondatelo di un affetto più vivo, per attirarlo a voi; è uno dei vostri membri. Quando uno dei nostri membri viene separato dal resto del nostro corpo, facciamo di tutto per riunirlo, allora lo circondiamo di più cura e attenzione. Maggiore sarà la vostra ricompensa se attirerete a voi colui che non vi amerà. Se il Signore ci comanda di invitare alla nostra mensa coloro che non possono ricambiare, e questo affinché la nostra ricompensa sia accresciuta, quanto più dovremmo comportarci allo stesso modo nell'amicizia. Perché colui che ami, e che ti ama, ti ha pagato ciò che ti è dovuto, mentre colui che ami e che non ti ama, ha sostituito Dio al suo posto come debitore verso di te. Colui che ti ama non ha bisogno di tutta la tua sollecitudine; al contrario, colui che non ti ama è colui che ha bisogno del tuo aiuto. 

Del resto, è impossibile che chi ama diventi così facilmente oggetto di odio; una bestia selvaggia risponde all'affetto che si ha per lei con affetto; questo è ciò che, dice il Signore, fanno i pagani e i pubblicani (Mt 5, 46-47). Praticate dunque questa carità; non stancatevi di ripetere: Quanto più mi odiate, tanto più vi amerò. Ecco una parola che placa tutte le liti, che ammorbidisce tutti i cuori. Questa malattia dell'odio è o un'infiammazione o un raffreddamento; in entrambi i casi il dolce calore della carità opera la cura» (CLR 27,3).

8Dico infatti che Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri; 9le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome. 10E ancora: Esultate, o nazioni, insieme al suo popolo. 11E di nuovo: Genti tutte, lodate il Signore; i popoli tutti lo esaltino. 12E a sua volta Isaia dice: Spunterà il rampollo di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni: in lui le nazioni spereranno. 

«Parla della sollecitudine di Cristo, per mostrare quanto Cristo abbia fatto per noi, senza pensare al proprio vantaggio. Dimostra che sono i Gentili i più debitori a Dio. Ora, se sono i più debitori, è giusto che sopportino le debolezze degli Ebrei. Mostra che le benedizioni concesse agli Ebrei, sono state elargite in virtù delle promesse fatte ai loro padri; quanto ai Gentili, devono queste benedizioni solo alla misericordia, alla bontà di Dio. Gesù Cristo divenne ministro del vangelo per i Giudei, per adempiere le promesse fatte ai loro padri. Alla sua venuta, il Figlio di Dio, cooperando con il Padre, fece sì che queste promesse si adempissero. Quanto ai pagani, devono glorificare Dio per la sua misericordia. Ciò significa: gli ebrei, benché indegni, hanno ricevuto gli effetti della promessa; ma voi, che non avevate ricevuto neppure una promessa, è per un puro effetto della bontà di Dio che siete stati salvati» (CLR 28,1)

13Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo. 

Prego «affinché la vostra speranza abbondi, cioè affinché troviate non solo consolazione nelle vostre tribolazioni, ma gioia nell'abbondanza della fede e della speranza. Perché con questo attirerete lo Spirito; con questo conserverete tutti i beni con il suo aiuto. Come il cibo sostiene la nostra vita e la vita distribuisce il cibo, così se abbiamo le cose giuste, avremo lo Spirito; e se abbiamo lo Spirito, avremo buone opere. E allo stesso modo, è vero anche il contrario: se non abbiamo le cose, anche lo Spirito ci sfugge. Se perdiamo il sostegno dello Spirito, inciampiamo subito nelle nostre opere: perché una volta che lo Spirito se ne va, arriva l'impuro» (CLR 28,2). 




domenica 7 dicembre 2025

Tre insegnamenti di Maria

Ci colpisce sempre il fatto che quel momento decisivo per il destino dell’umanità, il momento in cui Dio si fece uomo, è avvolto da un grande silenzio. L’incontro tra il messaggero divino e la Vergine Immacolata passa del tutto inosservato: nessuno sa, nessuno ne parla. E’ un avvenimento che, se accadesse ai nostri tempi, non lascerebbe traccia nei giornali e nelle riviste, perché è un mistero che accade nel silenzio. Ciò che è veramente grande passa inosservato. 

Maria, quel giorno in cui ricevette l’annuncio dell’Angelo, era tutta raccolta e al tempo stesso aperta all’ascolto di Dio. In lei non c’è ostacolo, non c’è schermo, non c’è nulla che la separi da Dio. Questo è il significato del suo essere senza peccato originale: la sua relazione con Dio è libera da qualsiasi pur minima incrinatura; non c’è separazione, non c’è ombra di egoismo, ma una perfetta sintonia: il suo piccolo cuore umano è perfettamente «centrato» nel grande cuore di Dio. La voce di Dio non si riconosce nel frastuono e nell’agitazione; il suo disegno sulla nostra vita personale e sociale non si percepisce rimanendo in superficie, ma scendendo ad un livello più profondo, dove le forze che agiscono non sono quelle economiche e politiche, ma quelle morali e spirituali. E’ lì che Maria ci invita a scendere e a sintonizzarci con l’azione di Dio.

C’è una seconda cosa, ancora più importante, che l’Immacolata ci dice : la salvezza del mondo non è opera dell’uomo – della scienza, della tecnica, dell’ideologia – ma viene dalla Grazia. Che significa questa parola? Grazia vuol dire l’Amore nella sua purezza e bellezza, è Dio stesso così come si è rivelato nella storia salvifica narrata nella Bibbia e compiutamente in Gesù Cristo. Maria è chiamata la «piena di grazia» (Lc 1,28) e con questa sua identità ci ricorda il primato di Dio nella nostra vita e nella storia del mondo, ci ricorda che la potenza d’amore di Dio è più forte del male, può colmare i vuoti che l’egoismo provoca nella storia delle persone, delle famiglie, delle nazioni e del mondo. Questi vuoti possono diventare degli inferni, dove la vita umana viene come tirata verso il basso e verso il nulla, perde di senso e di luce. I falsi rimedi che il mondo propone per riempire questi vuoti – emblematica è la droga – in realtà allargano la voragine. Per quanto l’uomo possa cadere in basso, non è mai troppo in basso per Dio, il quale è disceso fino agli inferi; per quanto il nostro cuore sia sviato, Dio è sempre «più grande del nostro cuore» (1 Gv 3,20). Il soffio mite della Grazia può disperdere le nubi più nere, può rendere la vita bella e ricca di significato anche nelle situazioni più disumane.

E da qui deriva la terza cosa che ci dice Maria Immacolata: ci parla della gioia, quella gioia autentica che si diffonde nel cuore liberato dal peccato. Il peccato porta con sé una tristezza negativa, che induce a chiudersi in se stessi. La Grazia porta la vera gioia, che non dipende dal possesso delle cose ma è radicata nell’intimo, nel profondo della persona, e che nulla e nessuno possono togliere. Il Cristianesimo è essenzialmente un «evangelo», una «lieta notizia», mentre alcuni pensano che sia un ostacolo alla gioia, perché vedono in esso un insieme di divieti e di regole. In realtà, il Cristianesimo è l’annuncio della vittoria della Grazia sul peccato, della vita sulla morte. E se comporta delle rinunce e una disciplina della mente, del cuore e del comportamento è proprio perché nell’uomo c’è la radice velenosa dell’egoismo, che fa male a se stessi e agli altri. Bisogna dunque imparare a dire no alla voce dell’egoismo e a dire sì a quella dell’amore autentico. La gioia di Maria è piena, perché nel suo cuore non c’è ombra di peccato. 

Benedetto XVI 

in Piazza di Spagna 8.12.2012



venerdì 5 dicembre 2025

La coscienza

 

Per quale motivo Dio ha stabilito nella mente di ciascuno di noi un giudice sempre vigilante e lucido? Sto parlando della coscienza. Infatti fra quelli umani non esiste, proprio no, un giudice così vigile come la nostra coscienza. Infatti i giudici esterni sono corrotti dal denaro, ammansiti dalle lusinghe, indotti a sentenze ingiuste dalla paura e molte altre cose danneggiano il loro corretto giudizio. Al contrario il tribunale della coscienza non sa tirarsi indietro davanti a niente : quand'anche tu le dia del denaro, la lusinghi, la minacci o le faccia qualunque altra cosa, formulerebbe la giusta sentenza contro i tuoi pensieri peccaminosi. 

Chi commette il peccato, poi, è il primo ad accusarsi, anche se nessuno lo accusa. Non una o due volte, ma spesso e per tutta la vita continua a farlo: anche col passare del tempo non dimenticherà mai i peccati commessi, ma nel commetterne uno nel concepirlo e dopo averlo compiuto, si alzerà come un accusatore implacabile, soprattutto dopo che abbiamo peccato. Infatti nell’atto del peccare non ce ne accorgiamo, come ubriacati dal piacere; invece, dopo che è bello e compiuto, calmato tutto il piacere, sovraggiunge il pungolo amaro del pentimento, l'esatto opposto di ciò che avviene alle partorienti. Nel loro caso infatti prima del parto, il travaglio è grande e insostenibile e le doglie le tormentano aspramente; ma, dopo il parto viene la quiete come se il dolore uscisse via con il bambino. Diversamente avviene con il peccato: finché stiamo partorendo e concepiamo delle decisioni corrotte, ci divertiamo e ci rallegriamo; dopo aver messo al mondo il nostro figlio deforme, il peccato, soffriamo alla vista della nostra prole, allora siamo straziati più duramente delle partorienti. Perciò vi supplico di non accogliere un desiderio cattivo, soprattutto dal principio: se lo accogliamo, bisogna soffocarne i semi. 

Se, tuttavia, fossimo stati negligenti a tal punto da tramutare il peccato in atto, non resta che ucciderlo con la confessione, le lacrime e accusando noi stessi. Niente infatti è così letale per il peccato quanto accusarsi e condannarsi da sé, con il pentimento e le lacrime. Hai condannato il tuo peccato? Liberati dal suo peso. E chi lo dice? Dio stesso che giudica. Parla tu per primo dei tuoi peccati per essere giustificato (Is 43,26). 

Per quale motivo, dimmi, ti vergogni e arrossisci di confessare i peccati ? Li dici forse a un uomo, perché te li rifacci? Li confessi forse a un tuo compagno di servitù perché li renda pubblici? Al Signore, al difensore, all'amico degli uomini, al medico mostri le ferite. Ne è forse all'oscuro, se tu non glieli dici, lui che li conosce prima che tu li commetta? Allora perché non li confessi? […] Egli vuole che tu li confessi, non per punirti ma perdonarti; non per conoscere il tuo peccato ma perché tu apprenda che grande debito ti condona. Vuole che tu apprenda la grandezza della Grazia, perché non smetta mai di ringraziarlo, perché tu diventi meno incline al peccato, più ben disposto alla virtù. Se non confessassi la grandezza del debito, non riconosceresti l'abbondanza della grazia. Dice: Non ti costringo ad andare nel mezzo del teatro e non ti circondo con molti testimoni. A me soltanto, in privato, confessa i tuoi peccati, perché possa curarti la piaga e liberarti dal dolore. Per questo motivo ha posto in noi la coscienza, che ci vuol bene più di un padre. Infatti un padre, che ha rimproverato il figlio una, due, tre o anche dieci volte, se vede che è incorreggibile, smette, lo ripudia, e lo disereda ma non così la coscienza. Anche se fai finta di non sentirla una, due, tre o migliaia di volte, parlerà ancora e non smetterà fino al tuo ultimo respiro. E a casa, per strada, a tavola, nella piazza, in viaggio spesso che nei nostri stessi sogni, ci metterà dinanzi alle immagini e alle visioni dei nostri peccati. 115

5. Osserva la sapienza di Dio. Non ha reso l'accusa della coscienza incessante (infatti non potremmo portare il peso di un rimprovero continuo), né così debole da stancarsi dopo il primo o il secondo ammonimento. Se infatti ci punzecchiasse ogni giorno e in ogni istante, saremmo soffocati dallo scoramento; e se desistesse dal rimprovero, dopo avercelo ricordato una o due volte, non ne avremmo molto beneficio. Perciò ha reso questo rimprovero continuo, ma non ininterrotto: continuo perché non cadiamo nell'indolenza, ma perché, ammoniti fino alla fine, siamo sempre vigilanti; non ininterrotto o in rapida sequenza perché non affondiamo, ma, godendo di quiete e di conforto, possiamo respirare. Infatti come non provare mai alcun dolore per i nostri peccati è letale e genera in noi la massima insensibilità, così è nocivo soffrire ininterrottamente ed eccessivamente.

Infatti uno scoraggiamento eccessivo spesso è in grado di farci uscire di senno, di sommergere l'anima e di renderla del tutto incapace di bene. Per questo motivo ha disposto anche che l'accusa della coscienza ci piombasse addosso ad intervalli, poiché è molto severa e suole pungere il peccatore più acutamente di qualsiasi pungolo. Non solo quando pecchiamo noi, ma anche quando altri commettano il nostro stesso peccato, si risveglia impetuosa e ci grida contro con tutto il suo vigore. E infatti il fornicatore, l'adultero e il ladro, non solo quando sono accusati, ma anche quando vengono a sapere che altri sono accusati dello stesso delitto, credono di essere frustati, ricordando il loro peccato attraverso le punizioni degli altri. Un altro è citato in giudizio, ma è percosso anche chi non è imputato, se ha commesso lo stesso delitto. Allo stesso modo riguardo alle opere buone, quando altri sono lodati e incoronati, anche gli altri che le abbiano compiute gioiscono e si compiacciono, come se fossero lodati non meno di quegli altri.

Che cosa potrebbe essere più miserevole del peccatore che, mentre altri sono accusati, si nasconde? E, d'altronde, cos'è più beato del virtuoso che, mentre altri sono lodati, gioisce e si rallegra, perché attraverso l'encomio di quegli altri si ricorda delle sue opere buone? Questo è opera della sapienza di Dio e segno della sua grandissima provvidenza. Infatti il rimprovero della coscienza è come un'ancora sacra, che non ci lascia affondare fino in fondo nell'abisso del peccato. Non solo al momento stesso dei peccati, ma anche dopo una lunga serie di anni riesce spesso a rammentarci i vecchi peccati: anche questo dimostrerò con chiarezza proprio grazie alle Scritture.

7. Sapendo tutte queste cose, dopo aver commesso qualcosa di male, non aspettiamo disgrazie e difficoltà, né pericoli e catene, ma ogni ora e ogni giorno risvegliamo in noi questo tribunale; da soli decretiamo la nostra condanna e cerchiamo in ogni modo di renderci giusti dinanzi a Dio; e, proprio noi, non ci mettiamo a discutere della resurrezione e del giudizio, non tolleriamo che altri ne parlino, ma in ogni modo chiudiamo loro la bocca con le nostre parole. Infatti se di là non subissimo i castighi per le nostre trasgressioni, Dio non avrebbe stabilito qui un tale tribunale. Ma anche questa è una prova del suo amore per gli uomini. Infatti dal momento che di là ci chiederà conto delle nostre trasgressioni, ha stabilito qui un giudice incorruttibile, per strapparci da quel giudizio futuro, giudicandoci qui per i nostri peccati e rendendoci migliori.

È ciò che dice anche Paolo: «Se infatti ci giudicassimo da noi stessi, non saremmo giudicati dal Signore» (1 Cor 11,31). Perciò, per non esser puniti allora, per non subire le pene, ciascuno penetri nella sua coscienza e, dopo aver dispiegato la sua vita e percorso con precisione tutte le trasgressioni, condanni l'anima che le ha compiute, punisca i suoi pensieri, affligga e tormenti la sua mente, esiga da sé stesso il giusto castigo dei suoi peccati attraverso la condanna, la conversione accurata, le lacrime, attraverso la confessione, il digiuno e l'elemosina, la continenza e l'amore, affinché in ogni modo possiamo ottenere la remissione dei peccati in questa vita e andare nell'altra con grande confidenza. Voglia il cielo che tutti noi la conseguiamo, per la grazia e la bontà di nostro Signore Gesù Cristo, con il quale sia gloria al Padre, insieme allo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.


Giovanni Crisostomo, Discorsi sul povero Lazzaro, 4, 4-7



giovedì 4 dicembre 2025

I laici e la bibbia

 

Invito ai laici a leggere la Bibbia

Da Giovanni Crisostomo, Discorsi sul povero Lazzaro, 3, 1-3



Necessità di conoscere la Bibbia

1. […] E di questo sempre vi supplico e non smetterò mai di supplicarvi: non fate attenzione solo qui a ciò che dico, ma, anche a casa, dedicatevi continuamente alla lettura delle Scritture divine. Non ho mai trascurato di fare questa raccomandazione anche a chi ho frequentato di persona. Che non mi si dicano queste parole insignificanti e degne di una grave condanna: «Sono inchiodato al tribunale. Mi occupo degli affari della città. Svolgo una professione. Ho moglie. Devo pensare ai figli. Ho una casa da dirigere. Sono un laico: leggere la Scrittura non spetta a me, ma a quelli che hanno rinunciato al mondo, hanno occupato le cime dei monti e conducono sempre questa vita. Che dici mai, o uomo? Meditare le Scritture non fa per te, perché hai già innumerevoli altre preoccupazioni? Ma conviene più a te che a quelli. Infatti quelli non hanno bisogno del soccorso delle Scritture divine quanto chi è in mezzo a molti affanni […]. Quelli riposano lontano dalla battaglia: perciò non ricevono molte ferite. Tu invece sei ininterrottamente in prima linea e incassi colpi senza sosta: perciò ti occorrono più medicine. E infatti tua moglie ti esaspera, tuo figlio ti addolora, un domestico ti irrita, un tuo avversario trama contro di te, l'amico ti invidia, un vicino ti offende, un commilitone ti fa lo sgambetto, spesso anche un giudice ti minaccia, la povertà ti angustia, la perdita dei tuoi beni ti affanna, la prosperità ti inorgoglisce, la disgrazia ti deprime.

Continuamente e inevitabilmente siamo assediati e colpiti ovunque da ira, preoccupazioni, affanno, tristezza, vanità, disperazione. Pertanto abbiamo sempre bisogno dell'armatura delle Scritture. «Sappi che cammini in mezzo ai lacci - dice -, e ti muovi sull'orlo dellnoe mura cittadine» (Sir 9,20). Infatti anche i desideri della carne lacerano con maggior violenza chi vive nel mondo […]. 

Gli strumenti del cristiano 

2. E molte altre cose simili assediano il nostro cuore. Abbiamo bisogno delle divine medicine per curare le ferite ricevute e immunizzarci da quelle non ancora ricevute e che riceveremo, per estinguere da lontano e respingere le frecce del diavolo con la lettura costante delle Scritture divine. Infatti non ci si può salvare, proprio no, se non si trae un costante beneficio dalla lettura spirituale. Ma dobbiamo esser veramente contenti se, traendo continuo benefìcio da questa cura, potremo infine salvarci. Ma qualora siamo colpiti ogni giorno, ma non ci sottoponiamo a nessuna terapia, quale speranza di salvezza abbiamo?

 Non vedi come i fabbri, gli orafi, gli argentieri e tutti gli artigiani, abbiano tutti gli utensili necessari al loro mestiere e, qualora siano in ristrettezze fino alla fame o la povertà li tormenti, preferiscono sopportare qualsiasi cosa anziché nutrirsi con la vendita degli attrezzi? Per esempio, molti spesso preferiscono indebitarsi per sostentare la famiglia e i figli piuttosto che vendere il più piccolo dei loro utensili. E a ragione. Sanno infatti che, una volta che li hanno venduti, tutta la loro abilità nel mestiere è vana e ogni possibilità di guadagno svanita. Al contrario, se li conservano e continuano ad esercitare il loro mestiere, col tempo possono pagare il debito contratto; se li vendessero prima ad altri, non potrebbero in alcun modo escogitare un rimedio per la fame e la povertà. Perciò conviene anche a noi stare con questa disposizione d'animo. Infatti come per quelli sono ferri del mestiere il martello, l'incudine, le tenaglie, così per noi sono i libri degli apostoli, dei profeti e tutta la Scrittura ispirata da Dio e utile per insegnare (2 Tm 3,16). E come quelli modellano con quegli strumenti qualsiasi oggetto che abbiano cominciato a fare, anche noi forgiamo con quei libri la nostra anima, ne correggiamo le storture, la rinnoviamo se è invecchiata. Certo quelli mostrano la loro perizia solo fino alla forma che danno agli oggetti: infatti non potrebbero in alcun modo trasformare la materia degli oggetti, ne rendere l'argento oro, ma danno loro soltanto forma e proporzione. Non così tu, perché puoi qualcosa di più e puoi trasformare in oro un vaso di legno. Ne è testimone Paolo che dice: «In una casa grande però non vi sono soltanto vasi d'oro e d'argento, ma anche di legno e di coccia. Chi si manterrà puro astenendosi da tali cose, sarà un vaso nobile, santificato, utile al padrone, pronto per ogni opera buona» (2 Tm 2,20-21).

Pertanto non trascuriamo il possesso dei libri per non ricevere ferite mortali, non sotterriamo l'oro, accumuliamo un tesoro di libri spirituali. Infatti l'oro più abbonda e più tende insidie al suo proprietario; invece una raccolta di libri è di grande utilità al suo possessore. E ancora, ovunque siano state riposte le armi di una reggia, anche se nessuno ìe impugna, sono in grado di offrire una buona difesa a quelli che stanno dentro al punto che ne ladri, ne scassinatori, ne altri malintenzionati osano aggredire la casa; allo stesso modo, ovunque siano i libri spirituali, viene scacciata ogni opera diabolica e ne viene una grande esortazione alla virtù a quelli che vi abitano. Infatti la sola vista dei libri ci rende di per sé più zelanti contro il peccato. E se violassimo qualche divieto e ci rendessimo impuri, ritornati a casa, alla vista dei libri, la coscienza ci accuserebbe con maggior veemenza e diverremmo meno inclini a ricadere nello stessa peccato. Se invece persistiamo nella santità, riceviamo da essa un'utilità maggiore. Appena si tocca il libro del Vangelo, si modella subito la propria mente e ci si allontana dai pensieri mondani alla sua sola vista. Se ti accosti alla lettura con attenzione l'anima, come iniziata ai sacri penetrali, è purificata e diviene migliore, perché Dio conversa con lei attraverso quei libri. 

Comprendere il senso

«E se non comprendiamo il senso?», dicono. A parte il fatto che, anche se non comprendi il senso, dalla sola lettura ne verrebbe una considerevole santificazione; comunque è impossibile non comprendere nulla. Per questo motivo, infatti, la grazia dello Spirito ha provveduto che pubblicani, pescatori, fabbricanti di tende, pastori, caprai, ignoranti e analfabeti abbiano composto questi libri, affinchè nessuno potesse ricorrere alla scusa della sua ignoranza, affinchè ogni parola fosse accessibile a tutti, affinchè anche l'operaio, il servo, la vedova e gli uomini meno istruiti potessero trarre beneficio dal suo ascolto. Infatti quelli che fin dal principio sono stati ritenuti degni della grazia dello Spirito non hanno composto tutti questi libri per la vanagloria, come i pagani, ma per la salvezza dei loro ascoltatori.

3. Infatti i filosofi, i retori e gli scrittori pagani, poiché non cercavano l'interesse comune, ma ambivano solamente ad essere ammirati, se anche dissero qualcosa di buono, lo nascoseroin mezzo alla solita oscurità, come in mezzo alle tenebre. Invece gli apostoli e i profeti fecero esattamente il contrario: esposero con chiara evidenza il loro insegnamento a tutti, in quanto erano i maestri comuni del mondo, perché ciascuno potesse comprendere, con una semplice lettura, tutto ciò che dicono. E, predicendo questo, il profeta diceva: «Tutti saranno ammaestrati da Dio e non si diranno più l'un l'altro: riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (Ger 31,34). E anche Paolo dice: «Anch'io, o fratelli, venni tra voi ad annunciarvi la testimonianza di Dio non con sublimità di parola o di sapienza» (1 Cor 2,1). E più avanti: «La mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza umana, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (1 Cor 2,6). E ancora dice: «Parliamo, sì, di sapienza, che non è di questo mondo, ne dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla» (1 Cor 2,1). A chi non è chiaro quanto è scritto nel Vangelo? Chi, dopo aver ascoltato beati i miti, beati i misericordiosi, beati i puri di cuore (Mt 5,5-8) e altre cose simili, avrà bisogno di un maestro che gli spieghi il senso di queste parole? E non sono ovvii e chiari anche al più sprovveduto i segni, i miracoli e i racconti? Sono tutte scuse per nascondere la pigrizia.

Non comprendi il senso? Ma come potresti mai comprenderlo, se non vuoi nemmeno leggerlo? Prendi il libro fra le mani; leggi il racconto per intero e, tenendo ciò che è semplice da comprendere, ritorna spesso su ciò che è poco chiaro o oscuro. E qualora non ne potessi afferrare il senso nemmeno con unalettura assidua, va' da uno più sapiente, da un maestro, rendilo partecipe delle cose lette, mostra un grande zelo. Se Dio vede così tanto impegno, non disprezzera la tua vigilanza e la tua sollecitudine, ma anche se nessun uomo ti insegna ciò che cerchi, tutto si rivelerà da sé. Ricordati dell'eunuco della regina d'Etiopia, che, per quanto barbaro, oppresso da molte incombenze e invischiato in numerosi affari, continuò a leggere, anche senza capire, seduto sul suo carro. E se per strada diede prova di un grande zelo, immagina come passasse il tempo a casa; se non tollerò di trascorrere il tempo del viaggio senza leggere, a maggior ragione non poteva farlo quando era a casa.

Se non smise di leggere anche se non capiva, a maggior ragione non poteva farlo quando capiva. Infatti che non comprendesse ciò che leggeva è chiaro dalle parole che gli rivolse Filippo: «Capisci quello che stai leggendo?» (At 8,30). Ed egli, a queste parole, non arrossì di vergogna ma ammise la propria ignoranza e disse: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?» (At 8,31). Proprio perché leggeva, senza aver mai avuto una guida, fu subito preso per mano. Dio vide il suo impegno, ne approvò lo zelo e, subito, gli mandò un maestro. «Ma adesso non c'è Filippo?». No, ma lo Spirito che ha mosso Filippo si! Non disprezziamo la nostra salvezza, carissimi: tutte queste cose sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi (1 Cor 10,11).

Grande sicurezza per non peccare è la lettura delle Scritture. Grande precipizio e baratro profondo è l'ignoranza delle Scritture. Tradimento grave della nostra salvezza è il non conoscere le leggi divine. Questo infatti generò le eresie, introdusse la vita corrotta e stravolse tutto da capo a piedi. E impossibile, infatti, sì impossibile, dedicarsi con assiduita e attenzione alla lettura e non trame alcun benefìcio. Ad esempio, non vedi quanta utilità ci ha arrecato una sola parabola? Come ha reso migliore il nostro cuore? Perché so bene che molti sono andati via portando con sé un guadagno permanente grazie all'ascolto; se poi alcuni non hanno raccolto così tanto frutto, sicuramente sono divenuti migliori il giorno in cui hanno ascoltato. Non è poco trascorrere anche un solo giorno nella compunzione dei peccati e meditare sulla filosofia del cielo e concedere al cuore un po' di quiete dagli affanni del mondo. Se lo facciamo ogni volta che ci riuniamo, senza mancare mai, l'assiduità dell'ascolto produrrà in noi qualcosa di grande, nobile e buono.