giovedì 25 dicembre 2025

La virtù della conversione

 

Molto si parla - forse anche troppo - della conversione del peccatore. Meno della conversione del giusto. Non basta affermare genericamente che siamo tutti peccatori e, quindi, tutti bisognosi di conversione. Ci sono modalità diverse di conversione ed è bene, a volte, esemplificarle. Nelle nostre comunità ci sono certamente anche uomini giusti, onesti, sinceri e praticanti. Che significa per loro convertirsi? Non può certo trattarsi di un semplice passaggio dalla disonestà all'onestà, ne da una pratica religiosa meno fervente a una pratica più fervente e generosa. La conversione del giusto - ed è la Parola di Dio a dircelo - è un passaggio da un modo di pensare la propria giustizia a un altro. Ciò significa un modo nuovo di pensare Dio, se stessi e gli uomini. 

E una conversione che va alla radice. Non si arresta al piano morale: più praticanti, più generosi, più onesti. È una conversione profonda che raggiunge le relazioni, non soltanto le prestazioni. Un esempio. Passare dall'egoismo alla generosità è certamente un cammino di conversione, sempre importante, mai concluso. Tuttavia non è ancora l'essenza della conversione evangelica. Ne basta aumentare la generosità perché lo diventi. Occorre cambiare le relazioni. Si può dare, anche molto, ma sempre in un'ottica vecchia, al di qua della novità evangelica. Personalmente mi pare di vedere nel mondo cristiano molta generosità nell'aiutare, ma molto meno coraggio nel cambiare le relazioni. Questi cristiani sono pronti a dare molto, ma pensano: «Io sono il padrone e tu no!», «io sono cittadino e tu no!».

Per cambiare le relazioni non basta la bontà. Occorre una rigenerazione profonda della propria mentalità. È a questa conversione che il cristiano è chiamato.

Il figlio maggiore, che compare nella seconda parte della parabola del padre e dei due figli (Le 15,11-32), rappresenta molto bene la figura di un giusto fedele e praticante: «Ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando». Ma è un figlio "giusto" che rifiuta di partecipare alla gioia del padre per il ritorno del figlio minore. Il comportamento del padre gli sembra ingiusto, addirittura un torto fatto alla sua obbedienza e al suo lavoro di figlio fedele, quasi che al padre queste cose non interessassero. La gioiosa accoglienza riservata al fratello gli da l'amara sensazione che la sua fedeltà sia del tutto sprecata. Se il peccatore è trattato in quel modo, a che serve essere giusto? Chiuso nello spazio ristretto del suo modo di intendere la giustizia, questo figlio maggiore non capisce il padre, ne che il figlio ritornato è un suo fratello. La parabola indugia sul dialogo tra il padre e il figlio maggiore. È un tratto letterario che, forse, manifesta una convinzione: la conversione del giusto è, a volte, più difficile di quella del peccatore.

La nota essenziale del Dio evangelico, il tratto che maggiormente lo caratterizza, è la gratuità dell’amore. Un messaggio consolante. E tuttavia è forse la cosa a cui l'uomo comune— l'uomo giusto — oppone maggiore resistenza. Perché? Probabilmente per la sua stessa novità. C'è nell'uomo una sorta di inerzia che è difficile smuovere. La novità non si fa subito strada, ne subito riesce a collocarsi al centro, relegando sullo sfondo i vecchi schemi. E questo succede soprattutto quando la novità è teologica, cioè radicale, tale da capovolgere il modo di guardare Dio, il mondo e se stessi. 

Il Vangelo conosce la sorprendente scoperta del peccatore che incontra un perdono impensato. Ma conosce anche la sorprendente scoperta del giusto che incontra un Dio che lo porta al di là delle strettoie della propria giustizia, per introdurlo nell'orizzonte ampio della bontà gratuita. Una struttura di rapporti, nella quale persino a Dio è proibito amare gratuitamente; è una gabbia in cui il giusto alle volte è tentato di rinchiudersi; ma in tal modo si chiude alla gioia profonda di condividere la gioia di Dio: quella di essere gratuitamente amato e di amare gratuitamente.

Raccontando nella lettera ai Filippesi la sua conversione, Paolo ricorre a un'espressione davvero molto bella: «Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro alla meta» (3,13-14). Protendersi verso il nuovo che Cristo dischiude, non più rivolti all'indietro, questa è stata la conversione di Paolo. Non dice che ha lasciato le cose di prima perché deluso, avendone compreso il vuoto e l'inconsistenza. Le cose di prima sono rimaste quelle che erano: hanno perso valore perché Paolo si è imbattuto in qualcosa di più grande. Il cambiamento è teologico, non morale. Anzi, la profondità del cambiamento sta proprio nel fatto di non aver lasciato una vita non religiosa, non praticante, non giusta, ma nel fatto che gli si è dischiuso un modo nuovo di rapportarsi con Dio e di intendere la propria giustizia. Non più una giustizia conquistata, ma accolta. Qui sta il capovolgimento che anche il giusto - a volte soprattutto il giusto - è chiamato a compiere. Non basta raccomandargli di osservare con più attenzione i comandamenti, ne basta raccomandargli di essere più generoso, di fare opere di bene. Bisogna aiutarlo ad affidarsi totalmente alla gratuita bontà del Signore, e da questa angolatura osservare con occhi nuovi i propri rapporti con il prossimo e con le cose.

Anche Nicodemo è un uomo giusto, e il suo modo di vedere Gesù è benevolo, ma innocuo. Lo riconosce Messia - e allo stesso modo i cristiani non esiterebbero a riconoscerlo Figlio di Dio - ma si tratta di un riconoscimento di superfìcie, anche se sincero: quale Messia? quale Figlio? Si può confessare Gesù dimenticando la novità di cui è portatore: un modo nuovo, ripetiamolo, di guardare Dio e gli uomini, tutti gli uomini.

Nicodemo è un giusto, che però deve essere «generato di nuovo e dall’alto». L'evangelista Giovanni non ricorre al verbo «convertirsi», ma al verbo «essere generato», sempre nella forma passiva. La generazione dice anzitutto la gratuità. Nessuno genera se stesso. Nel regno di Dio, come nella vita, si entra attraverso la grazia dell'amore, come un neonato, non per forza propria. La metafora della rinascita suggerisce, inoltre, la novità di ciò che avviene. Non è un passaggio dal vecchio al nuovo, ma l'apparizione di qualcosa che è totalmente nuovo. La grande rivelazione da comprendere e alla quale aderire è l'Unigenito innalzato e donato, che svela l'immenso amore di Dio per il mondo e per ogni uomo.

La Parola di Dio ci porta sempre alla stessa conclusione: è la gratuità lo spazio in cui si incontra il vero Dio, e al tempo stesso è la ragione che fa di ogni uomo, chiunque esso sia, un fratello. 



mercoledì 24 dicembre 2025

La virtù della giustizia

 


Come Dio guarda l'uomo

Nella Bibbia la nozione di giustizia è vasta e complessa. Non riguarda soltanto un certo modo di rispettare i diritti di ciascuno, ma costituisce una vera «visione del mondo». Su questa prima affermazione globale si può dire che tutti gli studiosi della Bibbia siano sostanzialmente d'accordo. La giustizia non è anzitutto da intendersi in senso giuridico, ma come giusta relazione tra Dio e l'uomo (e l'uomo e Dio) e come giusta relazione tra il singolo e la comunità. Non c'è nella Bibbia una nozione astratta di giustizia. La sedaqah (giustizia) è un concetto sempre concreto e relazionale. Giusto è colui che rispetta i diritti che altri hanno nei suoi confronti in forza di un rapporto. La concreta determinazione della giustizia (o meglio delle forme della giustizia) dipende dalla natura di questo rapporto. 

La giustizia di Dio è la sua fedeltà al patto stabilito con il suo popolo e con l'umanità. L'iniziativa è tutta di Dio. Dio è fedele al suo patto, perché fedele a se stesso, fedele alla sua Parola liberamente e gratuitamente data, e fedele alle sue promesse. Non si tratta di una sorta di contratto bilaterale alla pari. Il giusto comportamento di Dio nei confronti del popolo precede la risposta giusta del popolo. Precede ed è eccedente

Il comportamento di Dio è giusto, non perché conforme a una norma astratta del dovuto e della parità. Dio è fedele a se stesso. La norma è lui stesso. La giustizia dell'uomo, invece, sta nella sua conformità al comportamento di Dio. L'uomo deve muoversi nella giustizia che Dio ha concretamente mostrato al suo popolo. Giusto è l'uomo che guarda il mondo, il popolo e se stesso con il medesimo sguardo di Dio. «La pratica della giustizia da parte degli uomini trova la sua norma nel giusto comportamento di Dio».

E proprio perché, come detto, la giustizia di Dio è «eccedente», ben oltre la parità tra il dare e l'avere, così anche la giustizia dell'uomo va ben oltre quanto è richiesto per puro dovere. 

Questo vale non solo per quanto riguarda il dovere verso Dio, ma anche per quanto riguarda il rapporto verso l'uomo. La giustizia biblica non si identifica con la stretta parità tra il dare e il ricevere. Questo è un tratto già presente nella sedaqah anticotestamentaria, non soltanto nella concezione evangelica della giustizia. L'immagine più adatta per esprimere la sedaqah, non è il rapporto di un padrone e il suo servo. La sedaqah supera una semplice rivendicazione del salario. La giustizia biblica non si identifica mai del tutto con il nudo concetto di giustizia distributiva.

Mi sembra già possibile trarre una prima conclusione. La giustizia biblica è complessa non soltanto per i molti significati che via via può assumere nei vari casi in cui si esprime, ma anche - e soprattutto - per la profondità e l'ampiezza del suo significato base, mai del tutto assente. Anche quando la giustizia non esprime direttamente il rapporto tra Dio e l'uomo e l'uomo e Dio, ma si declina in rapporti più corti, come tra uomo e uomo o uomo e comunità, il modello è sempre (almeno implicitamente) come Dio guarda l'uomo.

Due esemplificazioni

Una prima esemplificazione - che riprendo dall'antica saggezza di Israele - non esita quasi a confondere la giustizia nei rapporti sociali con la solidarietà. La ragione è che il modello di ogni giustizia è sempre, sia pure sullo sfondo, il modo di comportarsi di Dio. Il libro dei Proverbi condanna l'ingiustizia in tutte le sue forme: la frode, l'usura, soprattutto il sopruso nei confronti dei piccoli e dei deboli: «Non spostare i confini della vedova e non entrare nei campi degli orfani, perché il loro difensore è potente e difenderà contro di tè la loro causa» (23,10-11). Il medesimo libro è poi particolarmente attento a smascherare l'ingiustizia nei processi. È il caso della falsa testimonianza dei giudici corrotti che accettano regali: «L'empio accetta un dono di nascosto per deviare le vie della giustizia» (17,23). L'uomo saggio da voce a chi non ha voce e fa sua la causa dei deboli: «Apri la tua bocca per chi è muto, per la causa di tutti i derelitti! Apri la tua bocca, giudica con giustizia, rendi giustizia all'infelice e al povero» (31,8-9).

Una seconda esemplificazione intende mostrare che la giustizia - persino nei rapporti tra creditori e debitori - va ben oltre il nostro concetto di giustizia. Si legge nel libro del Deuteronomio (24,10-13); «Se fai un prestito qualsiasi al tuo prossimo, non entrerai in casa sua per prenderti il suo pegno; rimarrai fuori e l'uomo al quale hai fatto il prestito ti porterà fuori il pegno. Ma se è un uomo povero, non dormirai col suo pegno: devi restituirgli il pegno al tramonto del sole, dormirà nel suo mantello e ti benedirà e ciò sarà per tè una giustizia al cospetto del Signore tuo Dio».

La giustizia non è senza solidarietà. Non è un'attitudine passiva di imparzialità, quanto piuttosto un appassionato impegno per l'uomo.

Amos, il profeta della giustizia

Tutti i profeti hanno rigorosamente trattato il tema della giustizia e dell'ingiustizia, mostrando che la scelta dell’una o dell'altra coinvolge due opposte visioni della vita, due modi opposti di vedere Dio e l'uomo. La giustizia non è una virtù "isolabile" dal complessivo (e ordinario) modo di pensare Dio, l'uomo e il mondo.

Già il profeta Amos, il primo dei profeti scrittori, denuncia con particolare forza e acutezza l'ingiustizia in tutte le sue forme. Non potendo qui parlare di tutti i profeti, scelgo appunto Amos come esempio particolarmente adatto al nostro tema. Lo sguardo del profeta segue due direzioni: Israele e le nazioni. Ciò è comune a tutti i profeti e molto significativo. E significativo che lo sguardo del profeta non si chiuda su Israele: Dio si interessa anche agli altri popoli. Però il profeta non condanna le nazioni perché non praticano la religione di Israele, né anzitutto perché combattono Israele, ma più semplicemente perché commettono delitti contro l'uomo. Per esempio: «Hanno deportato popolazioni intere per consegnarle a Edom» (1,6); «Hanno deportato popolazioni intere [...] senza ricordare l'alleanza fraterna» (1,9); «Hanno sventrato le donne incinte di Galaad per allargare il loro confine» (1,13). Come si vede, il profeta non mira a convenire i popoli alla religione di Israele ma all'uomo. Prendere come unità di misura l'uomo, come fa Amos, significa fare un discorso religioso e insieme laico, disinteressato e universale. 

Certo più interessante per noi è il discorso di Amos nei confronti di Israele. Sedaqah e mispat (diritto) sono due parole chiave della predicazione di Amos. La prima giustizia, ovviamente, è verso Dio: di qui quella verso gli uomini. Se si turba il primo rapporto, si turba anche il secondo. A una falsa concezione di Dio corrisponde un falso rapporto con gli uomini. Le varie forme di ingiustizia e oppressione si riassumono per Amos in una parola: violenza. Una violenza diffusa, penetrata dovunque, eretta a sistema, giustificata. Amos può parlare di «regno di violenza» (6,3).

L'oracolo contro Israele che si legge in 2,6-8 è estremamente interessante. La serie delle denunce si apre descrivendo l'ingiustizia e l'avidità nei rapporti economico-sociali e nell'amministrazione della giustizia: «Hanno venduto il giusto per alcune monete d'argento e il povero per un paio di sandali». Poi si denuncia la perdita del senso morale: figlio e padre frequentano la stessa donna profanando il nome del Signore. Infine, si stigmatizza una pratica cultuale falsa e idolatra: bevono il vino dei multati nella casa del loro Dio. La traiettoria è quanto mai interessante; dall'ingiustizia all'idolatria, dall'oppressione dell'uomo al disonore di Dio. È anche interessante notare che i verbi che il profeta usa per esprimere le forme concrete dell'ingiustizia sono quantomai indicativi: vendere, smerciare, vendere all'asta, acquistare, falsificare, rimpicciolire, maggiorare; opprimere, maltrattare, essere avido, calpestare, accumulare. L'ingiustizia viene perpetrata nei palazzi, nelle case lussuose, nei tribunali, nei santuari, nella piazza del mercato, nella pubblica via.

A questo punto possiamo riassumere in un quadro sintetico la situazione sociale che il profeta descrive. Il primo urto è contro un benessere sfacciato e mal distribuito, che porta a una vita lussuosa, incurante della miseria che sta accanto. Più m profondità, il profeta scorge che questo benessere è frutto di ingiustizia e genera ingiustizia, e rende ciechi: la rovina è imminente e nessuno se ne accorge. Il tutto è poi accompagnato da un culto falso: parole e sacrifici, riti, ma non vita e giustizia. In questa situazione il profeta è colui che si assume il compito di smascherare l'ingiustizia dietro il benessere, la falsità dietro il culto, ed è colui che - nella generale sonnolenza - getta un grido di allarme per la rovina imminente.


Il fondamento dei diritti dell'uomo

Sin qui ci siamo per lo più occupati di alcuni testi biblici nei quali compare esplicitamente il vocabolo giustizia. Ma ci sono altri testi di riferimento che - quantunque senza la presenza del termine - sono molto utili per il nostro discorso. Per non dilungarmi mi accontento di pochi semplici appunti.

Un primo testo degno di osservazione è Lv 25, in cui si proclamano le modalità del giubileo. E indubbio che l'istituto del giubileo esprime il desiderio di creare le condizioni per una giusta convivenza. A questo scopo vengono proclamate tre libertà: la libertà delle persone oppresse, a cui vengono condonati i debiti; la libertà delle proprietà, che tornano agli antichi proprietari; la libertà della terra, che è lasciata riposare. Ma qual è la radice di queste tre libertà? Da dove vengono dedotte? Certo, si sa che la terra ha bisogno ogni tanto di riposo; si sa che si deve impedire la formazione del latifondo ecc. Però la Bibbia va, a modo suo, subito alla radice; tutto questo va fatto «perché la terra è mia» (Lv 25,23). È un'affermazione del primato di Dio. E proprio perché la terra è di Dio, nessuno può vantarne la proprietà a suo esclusivo vantaggio, nessuno può accumulare rubando spazio agli altri, nessuno può mancare di rispetto alla terra. Con questo il Levitico già mostra all'evidenza che il riconoscimento del primato di Dio comporta e si concretizza nella giustizia tra gli uomini.

Ma c'è di più. La Bibbia è in grado di offrirci anche altri fondamenti, ancor più generali e profondi, per riconoscere e difendere i diritti dell'uomo.

Israele non deduce i diritti dell'uomo riflettendo sull'uomo (o riflettendo soltanto e principalmente sull'uomo), ma riflettendo su Dio e la sua azione salvifica. Il fondamento non è qualcosa che l'uomo ha in sé, visibile per se stesso. Naturalmente anche questo punto di partenza è possibile, probabilmente doveroso. Ma ciò che è tipicamente biblico è diverso: la dignità dell'uomo è colta nell'atteggiamento di Dio verso l'uomo. Un atteggiamento che non soltanto fonda la dignità dell'uomo e la riconosce, ma interviene attivamente per difenderla. Di qui scaturisce non solo il riconoscimento del valore dell'uomo, ma l'esigenza di un movimento di solidarietà verso l'uomo. 

Per la Bibbia i diritti dell'uomo sussistono soltanto dentro un movimento di attiva solidarietà.

L'uomo biblico ha dunque scoperto la propria dignità sperimentando la vicinanza di Dio, non tanto sperimentando la propria superiorità sulla creazione (cfr. Sai 8). La dignità dell'uomo è riflessa, ricevuta. La dignità dell'uomo è coram Deo. Questo non significa impoverire l'uomo, ma, al contrario, collocare la sua dignità in qualcosa di assoluto, in qualcosa di cui non si può disporre.

Soggetto di dignità e diritti è l'uomo in quanto voluto, creato, amato e difeso da Dio. Nel produrre questa dignità sono in azione sia il Dio creatore sia il Dio salvatore.

L'esperienza del Dio salvatore e del Dio creatore costituiscono per Israele il luogo ermeneutico (accanto alle sollecitazioni della storia, ovviamente) dell'individuazione dei diritti.

Dall'esperienza del Dio salvatore discende un movimento di solidarietà attiva, l'esigenza/dovere di prendersi a carico i diritti di ogni uomo, del debole, dell'indifeso. Dal Dio creatore discende l'universalità di questi diritti e del movimento di solidarietà di cui necessitano; ma perché quest'universalità sia davvero tale, sottratta a ogni possibile esclusione, occorre l'approfondimento del Dio misericordioso, tipico questo del Nuovo Testamento. Dall'universalità del Dio creatore potrebbero infatti pur sempre rimanere esclusi i peccatori.


La verità imprigionata nell 'ingiustizia

Passando al Nuovo Testamento mi sembra opportuno partire da una grandiosa pagina di Paolo (Rm 1,18-32). E una pagina che riprende una profonda convinzione biblica, specialmente dei profeti, che noi però non abbiamo ancora esplicitamente osservato.

Lo sguardo di Paolo è rivolto alla totalità del mondo e della storia umana. Si parla infatti di «uomini» (1,18), senza specificare di quali popoli e di quali religioni. E si parla di «fin dalla creazione». Il panorama è dunque il più ampio possibile. Ovviamente è chiaro che un discorso come questo, che riguarda in generale l'umanità, non riguarda le singole persone. Ed è anche chiaro che si parla di una situazione di fatto, non certo di una necessità teologica o altro.

Paolo non vuole dire che l'umanità sia priva di valori positivi. Il suo scopo, però, è qui di individuare il germe della distruzione, della confusione e della disgregazione che appunto caratterizza la storia umana. Questo germe è l'idolatria, che è contro l'uomo, non soltanto contro Dio. L'idolatria disgrega. Per Paolo perdere il contatto con Dio equivale a perdere ogni corretto rapporto con se stessi, con gli altri con il mondo.

Ma si tratta di un'idolatria descritta come un tener costretta e soffocata la verità nell'ingiustizia (1,18). Il verbo è al presente: non solo una situazione passata, ma una situazione attuale. E si parla di ingiustizia, non semplicemente di falsità. Avesse scritto che la verità è soffocata dalla falsità, sarebbe stato più ovvio. Ma per Paolo la verità non è soffocata da una falsità in generale, ma da una falsità interessata. E l'ingiustizia che impedisce alla verità - pur presente in qualche modo - di affacciarsi e di esprimersi. Le storture che Paolo elenca (l,26ss) riguardano tutte le relazioni personali, impersonali e comunitarie, compreso l'accecamento dello spirito, privo di ogni capacità di discernimento: ciò che è male lo si ritiene bene.

Si tratta di un quadro dai toni molto forti, non c'è dubbio. Naturalmente Paolo è anche convinto che il mondo poteva essere diverso, ma è l'uomo che lo ha reso tale. Una situazione di fatto che risale all'inizio, ma pur sempre una situazione storica, procurata, causata dall'uomo, non una necessità teologica o antropologica.

In una situazione idolatra, come questa, non può che manifestarsi «l'ira di Dio», cioè il castigo. Ma il castigo discende da Dio in quanto Egli permette che l'uomo peccatore si procuri da sé la propria rovina. Il testo dice per tre volte «li abbandonò». L'uomo vuole essere lasciato a se stesso, e Dio lo lascia. E questo il modo divino di essere giudice. Potremmo dire che l'ira di Dio così intesa è una sorta di legge di creazione. Se l'uomo si sottrae alle strutture che gli danno stabilità, dirczione e senso, si sfascia, come qualsiasi altra costruzione intelligente. E la legge delle cose. Se un palazzo non si sottomette alle strutture che lo sorreggono, crolla. Così l'uomo: imprigionando la verità nell'ingiustizia, peggio confondendo l'ingiustizia con la verità - una forma questa di idolatria sottile e devastante - smarrisce se stesso e le sue relazioni. Certo Dio ama le sue creature, ma non al punto da impedire l'esercizio della loro libertà. Quello che fa crollare il mondo dell'uomo - questo crollo è, appunto, l'ira di Dio -non sono violenze che incombono dall'esterno, come spesso nel linguaggio apocalittico e, qualche volta, anche nel linguaggio profetico. È un cancro che corrode dall'interno. L'ingiustizia - soprattutto l'ingiustizia giustificata - porta con sé la propria condanna, stravolgendo alla radice le fondamenta della convivenza.


Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia

Mt 6,25-34 è una pagina sapienziale, persino ovvia. È un passo che si trova nel discorso della montagna, dove si parla della giustizia del discepolo, che non solo si distingue da quella dei pagani, ma anche da quella degli scribi e dei farisei (5,20). E dunque un passo che intende illustrare l'originalità cristiana. E tuttavia è una pagina di stampo sapienziale, una proposta, oserei dire, di sano umanesimo.

Il verbo «affannarsi» è il verbo principale che attraversa tutto il passo. Affannarsi (merimnan) non è semplicemente lavorare, ne essere previdente, ne affaticarsi. Significa essere nel-l'ansia, nel? angoscia, perennemente col fiato sospeso. Un modo di vivere che rivela un rapporto sbagliato con le cose, con la vita e con Dio.

Ma ci sono anche altri verbi significativi. Parlando della ricerca deviata dei pagani, Matteo utilizza il verbo epizetén, desiderare con bramosia. E parlando degli uccelli e dei fiori - che vanno guardati con attenzione (emblépein) - annota che, al contrario degli uomini, non «tesoreggiano» e non «ammassano» (6,26). Questi verbi dicono molto bene il motivo che rende deviata la ricerca: non per l'oggetto (il cibo, il vestito, la vita: beni essenziali), ma per la modalità con cui vengono cercati: l'ansia, la bramosia, rammassare.

Il cibo e i vestiti indicano bisogni fondamentali. L'errore non sta nel cercarli, quasi fossero cose secondarie, irrilevanti, per le quali non vale la pena di perdere tempo e fatica. L'errore non sta nel cercare questi beni, ma nel sopravvalutarli, quasi fossero capaci di risolvere il problema di fondo che - lo si voglia o no - è quello di trovare sicurezza e serenità in una vita che sembra tutto vanificare («tarme e ruggine distruggono»). Per liberare l'uomo dall'ansia e dall'angoscia per il cibo e il vestito e per l'accumulo, Gesù non fa leva soprattutto sul disincanto di queste cose, ma sulla fiducia nel Padre.

A questo punto del discorso si inserisce l'imperativo «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno poste davanti» (6,33). Che cosa significa «il regno di Dio e la sua giustizia?». Non è una domanda facile, ma è essenziale, perché è proprio la scelta prioritaria del Regno e della sua giustizia che determina la qualità, la misura e le forme dell'uso del mondo, che non è certo una rinuncia alle cose, ma un modo diverso di guardarle e di goderne. 

Il Regno non è Dio in se stesso, un Dio fermo, ma Dio in relazione con l'uomo: l'amore di Dio è a favore dell'uomo, Dio che ama l'uomo: come Dio guarda l'uomo, ogni uomo. Tutte queste espressioni si sforzano di farci comprendere il tratto più essenziale del Regno. E la sua giustizia è il modo giusto con cui Dio si comporta verso l'uomo: un comportamento che l'uomo deve, a sua volta, far proprio ed estendere agli altri. La «giustizia» nella Bibbia, e particolarmente in Matteo, ha sempre due facce: dono di Dio e compito dell'uomo, amore che discende da Dio e fraternità.

La tesi, che mi pare utile indicare subito, è che il primato del Regno non soltanto lascia spazio ad altre cose, ma è la condizione perché queste possano essere alla portata dell'uomo, di ogni uomo. Il primato del Regno crea lo spazio per il buon vivere dell'uomo nel mondo, per il buon uso dei beni. È l'idolatria che mortifica e divide. Il vero sbaglio - si badi bene - non sta nel fatto di aver bisogno di cibo, del vestito e di serenità di fronte al domani, ma nell'illusione di garantirsi tutto questo accumulando, anche invadendo lo spazio degli altri. Il primato del Regno e della sua giustizia, invece, libera l'uomo dall'ansia dell'accumulo, una libertà necessaria perché resti per tutti lo spazio per vivere.

Il primato di Dio è umanesimo. Se Gesù dice di porre il Regno al primo posto, non è per salvare il Regno, ma per salvare lo spazio della vita dell'uomo, della vita mondana in tutte le sue relazioni e le sue potenzialità, compreso il godimento delle cose stesse, per tutti.


Beati gli affamati e assetati di giustizia

Introdurre in un discorso sulla giustizia le beatitudini evangeliche può sembrare a molti eccessivo. E invece no. La visione che sottosta alle beatitudini è altissima, ma anche profondamente umana. Può bastarci qualche cenno.

Si può leggere la beatitudine della giustizia (Mt 5,6) come rivolta a tutti gli affamati e assetati della terra, invitandoli a trasformare la loro sete in fame e sete di giustizia. E difatti Gesù non si rivolge in primo luogo ai ricchi e ai saggi, perché diano le briciole del loro superfluo agli affamati. Si rivolge direttamente agli affamati (ad ascoltarlo sono infatti le folle di malati e di bisognosi: Mt 4,23), perché trovino la forza di rizzarsi in piedi e farsi protagonisti del loro cammino. Ma se in primo luogo la beatitudine della giustizia è rivolta agli affamati è altrettanto vero che essa è rivolta anche ai sazi, impegnandoli in un discorso che richiede profonda conversione.

L'uomo delle beatitudini vive proteso in un'appassionata ricerca della volontà di Dio. La «giustizia» è la volontà di Dio, li suo disegno di salvezza, proprio quel disegno che Gesù ha solennemente dichiarato al battesimo di essere venuto a compiere; «È bene che venga compiuta ogni giustizia» (Mt 3,15). Le metafore della fame e della sete significano, poi, la totalità della ricerca di questa giustizia: una ricerca appassionata che afferra l'uomo dalla testa ai piedi, dal mattino alla sera. L'assetato desidera l'acqua con tutto se stesso, un desiderio che ridimensiona ogni altro desiderio. Così l'affamato. Beato è chi impegna tutto se stesso nella ricerca della giustizia di Dio e pone questa ricerca al di sopra di ogni altra, come abbiamo già visto.

Una breve conclusione

Possiamo arrestarci qui. Certamente esistono altre pagine neotestamentarie che toccano il nostro argomento. Ma la loro lettura non farebbe che confermare sostanzialmente quanto già abbiamo acquisito.

Mi permetto, tuttavia, di ribadire due acquisizioni che la nostra lettura della Scrittura ha continuamente incontrato in merito a questa virtù. La prima è che la giustizia è una relazione che non vive da sola, ma sempre all'interno di una visione globale dell'uomo, della società e del mondo. E la seconda è l'importanza - e la Bibbia non esita a parlare di necessità! – che assume per la comprensione della giustizia il riconoscimento del primato di Dio. Anche se va detto - con altrettanta forza che una scorretta concezione del primato di Dio porterebbe a conseguenze non meno disastrose della sua negazione.



martedì 23 dicembre 2025

La virtù dell'ospitalità

Camaldoli, Foresteria
 Elia e la vedova, povera

«II profeta Elia si alzò e andò a Zarepta. Entrato in città, ecco una vedova raccoglieva la legna. La chiamò e le disse: "Prendimi un po' d'acqua in un vaso perché io possa bere". Mentre quella andava a prenderla le gridò: "Prendimi anche un pezzo di pane". Quella rispose: "Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po' di olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio, la mangiamo e poi moriremo". Elia le disse: "Non temere: va', fa' come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per tè e per tuo figlio, poiché dice il Signore: la farina della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non si svuoterà, finché il Signore non farà piovere sulla terra". Quella andò e fece come aveva detto Elia: mangiarono il profeta, la vedova e il figlio di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l'orcio dell'olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia» ( 1Re 17,10-16).

«Il profeta Elia si alzò e andò a Zarepta», queste le prime parole. Ma occorre sottolineare che se Elia si alzò è unicamente perché il Signore glielo aveva detto: «Ecco, io ho dato ordine a una vedova di là, per il tuo cibo» (17,9). Con questa premessa comprendiamo l'annotazione che conclude il racconto: tutto è accaduto «secondo la parola che il Signore aveva pronunciato». L'autore sacro vuoi farci capire - e questa è la sua prima lezione - che protagonista dell'episodio non è Elia, ne la vedova, ma la Parola del Signore. Tutto avviene in obbedienza a questa Parola, una Parola che realizza ciò che promette, una Parola che salva: «La farina della giara non venne meno e l'orcio dell'olio non diminuì». Elia e la donna sono presentati come due esempi di obbedienza. Ed è perché obbediente per primo alla Parola, che il profeta diventa, a sua volta, portatore di questa Parola, il suo tramite: tutto avvenne «secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia».

C'è una seconda premessa da ricuperare: se Elia si reca a Zarepta di Sidone, una città straniera, è perché è in fuga, minacciato dal re: «Nasconditi presso il torrente Cherit», si legge in 17,3. La minaccia è la sorte di tutti i profeti che hanno l'ardire di opporsi alle menzogne dei potenti. Fuggiasco e minacciato dagli uomini, ma protetto dal Signore, questa è la seconda lezione: «I corvi gli portavano pane al mattino e carne alla sera, e beveva al torrente» (17,6). Aiutato da Dio, dunque, ma il nostro racconto aggiunge qualcosa di più: mostra che l'aiuto del Signore passa attraverso gli uomini. L'ospitalità di Dio si serve della generosa ospitalità di una vedova. L'accoglienza del fratello è la trasparenza visibile dell'accoglienza di Dio che ne detta le qualità, la misura e l'universalità. Una generosità, quella della vedova, che Dio ricompensa: «Quella andò e fece come aveva detto Elia: mangiarono il profeta, la vedova e il figlio di lei per diversi giorni». La vedova aiuta il profeta e questi aiuta la vedova. Chi dona al Signore, riceve. L'ospitalità aiuta gli uomini a vivere meglio nel mondo.

La vedova di Zarepta ha avuto l'onore di essere ricordata dallo stesso Gesù, nella sinagoga di Nazaret: «C'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il ciclo fu chiuso per tré anni e sei mesi e ci fu una carestia in tutto il paese, ma a nessuna di esse fu mandato Elia se non a una vedova in Zarepta di Sidone» (Lc 4,25-26). Si arguisce facilmente da queste parole che Gesù ha colto nell'episodio un terzo aspetto: un'altra lezione: Dio non aiuta soltanto il suo popolo, ma anche gli stranieri, perché il suo amore è universale e non fa differenze; la fede, l'obbedienza e la generosità le puoi trovare anche là dove non pensi, anche fuori del tuo popolo, della tua Chiesa e del tuo gruppo.


Marta e Maria

Mentre era in viaggio verso Gerusalemme, «Gesù entrò in un villaggio e una donna di nome Marta lo ospitò nella sua casa» (Lc 10,3 8). All'inizio del medesimo viaggio Gesù aveva chiesto ospitalità in un villaggio di Samaritani, ma fu respinto (9,52-53). Ora invece una donna lo ospita in casa, come più avanti - alla fine del medesimo viaggio - lo ospiterà il pubblicano Zaccheo (19,1-10). Anche nel Nuovo Testamento l'ospitalità è uno dei doveri più espressivi della fraternità cristiana. Ma si tratta di un'ospitalità che richiede una disponibilità particolare.

Marta non è la figura dell'amore per il prossimo, e Maria non è la figura dell'amore per il Signore. Nel nostro passo non c'è alcuna traccia di divaricazione tra il Signore e il prossimo. Entrambe le sorelle sono di fronte al medesimo ospite, che è al tempo stesso - come l'immagine dell'ospite dice con chiarezza - il Signore e il prossimo. È questo il punto di forza dell'episodio. Non ci sono due modi di ospitare e amare, ma uno solo, che si tratti del Signore o del prossimo. Perciò l'episodio deve essere letto simultaneamente in due modi: come accogliere e servire il Signore, come accogliere e servire il prossimo.

La tensione - che dunque non è tra il Signore e il prossimo - non è però neppure semplicemente tra l’ascolto e il servizio, la contemplazione e l'azione. È piuttosto tra l'ascolto e il servizio che distrae, lo stare con l'ospite e il troppo affaccendarsi che impedisce di fargli compagnia, tra il secondario e l'essenziale. Sono appunto questi i rimproveri di Gesù a Marta.

Marta è tanto occupata che non è più attenta: così indica il verbo greco perispào, «essere distratto, rivolto altrove». E tanto l'affaccendarsi per l'ospite che non c'è più spazio per intrattenerlo.

Marta è «affannata» (10,41) e «agitata». Luca utilizza qui il medesimo verbo (merimnan) adoperato altrove per dire che non bisogna agitarsi per il cibo, il vestito e ii domani (12,22-32). Affannarsi è l’atteggiamento dei pagani. Anche l'agitarsi per Dio o per il prossimo può diventare "pagano".

La ragione di tanta agitazione - che distrae dall'ospite che pure si vorrebbe accogliere - sono le «troppe cose» (10,41). Il troppo è sempre a scapito dell'essenziale. Le troppe cose impediscono non soltanto l'ascolto, ma anche il vero servizio. Fare molto è segno di amore, ma può anche far morire l'amore. L'ospitalità ha bisogno di compagnia, non soltanto di cose.

Un po' di vocabolario e qualche conclusione

II Vangelo presenta Gesù come predicatore itinerante («Non ha dove posare il capo»: Lc 9,58) e più volte si parla di lui come ospite: non solo nella casa di Marta e Maria, ma anche di Zaccheo e di Levi.

Sono note poi alcune sue parole. Per esempio: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato... Chi avrà dato anche solo un bicchiere d'acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo... non perderà la sua ricompensa» (Mt 10,40-42). E ancora: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Me 9,37). Qui c'è già tutta la teologia dell'accoglienza.

Il verbo privilegiato per esprimere questa accoglienza è déchomai (e i suoi numerosi composti) che significa «accogliere», ma anche «sentire» e «capire», per esempio, le parole dell'ospite, i suoi desideri e i suoi bisogni. Sempre dice la compiacenza e la gentilezza. I composti sottolineano poi l'amicizia, la stima verso l'ospite, anche se sconosciuto. E suggeriscono anche di accogliere qualcuno facendolo entrare nella comunità e nel proprio paese.

Nell'epistolario neotestamentario numerosi sono gli inviti a essere ospitali. Il dovere di essere ospitali rientra nei doveri cristiani comuni, dal vescovo (ITm 3,2; Tt 1,8) alla vedova (1Tm 5,10). Nella lettera ai Romani la virtù dell'ospitalità si trova accanto alla perseveranza nella preghiera e alla sollecitudine per i fratelli. E la lettera agli Ebrei pone l'uno accanto all'altra l'amore fraterno e l'ospitalità, «praticando la quale alcuni hanno accolto degli angeli senza saperlo» ( 13,2 ). E infine l'Anziano, che scrive la Terza lettera di Giovanni, insiste perché il presbitero Gaio si comporti fedelmente nei suoi doveri verso i fratelli, anche stranieri (3Gv 5).

Ma voglio concludere con l'affermazione di Gesù più ricca e paradossale: «Ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25,35).

Al tempo di Gesù forestiero poteva essere lo sconosciuto di passaggio, che chiedeva ospitalità per una notte ed era spontaneo giudicarlo con diffidenza perché non si sapeva chi egli fosse e se ne ignoravano abitudini e intenzioni. Più frequentemente era l'immigrato, che cerca lavoro e migliori condizioni di vita. Per indicare l'ospitalità Gesù ricorre qui a un verbo (sunago) il cui significato base è «raccogliere, riunire cose sparse». Di qui il senso di raccogliere chi è sperduto, ospitarlo nella stessa casa, unirlo ai gruppi dei fratelli. Questo verbo così ricco di significato è ricordato in Mt 25 tre volte. Non dice solo l'aiuto, ma proprio l'accoglienza. E difatti Gesù fa rientrare il forestiero nel numero dei suoi «piccoli fratelli». Forestiero per gli altri, ma non per lui. E si comprende che l'ospitalità è più ampia del semplice aiuto, perché significa aprirsi alla persona e non soltanto ai suoi bisogni. Significa aprire la casa e non soltanto dare un aiuto. E c'è di più: il forestiero da ospitare è nel contempo il prossimo da trattare come te stesso e il Signore da servire con tutto il cuore. Perciò deve essere accolto come si riceve il Signore, cioè con riguardo, con delicatezza, e persino umilmente. 

Una semplice annotazione

Una delle caratteristiche della nostra civiltà è l'anonimato e, forse, anche la diffidenza e la paura di chi è forestiero. E c'è molta solitudine. In questo contesto l'ospitalità acquista ancora tutto il suo valore e la sua urgenza, anche se è vero che deve esprimersi in forme nuove, diverse da quella del tempo di Gesù. Deve dare, per esempio, un'anima e un po' di cuore alle strutture sociali, deve creare famiglie aperte ali'accoglienza dell'anziano e del malato, deve creare luoghi di accoglienza per l'immigrato e il forestiero; deve creare esempi di comunità cristiane pluraliste e accoglienti.


La virtù della carità

Donzellino Verona
La prassi di Gesù

Nel Nuovo Testamento si incontra una varietà di forme caritative. E questo è vero. Tuttavia altrettanto numerosi e fondamentali sono i tratti comuni. Il primo di questi è la costante memoria di Gesù di Nazaret. Per comprendere la carità e le sue forme i primi cristiani hanno subito guardato alle concrete e storiche modalità dell'esistenza di Gesù. Che cosa sia carità, i primi cristiani non l'hanno dedotto da concezioni già note, ma dalla singolarità dell'evento di Gesù.

Parlando di Gesù il Vangelo non si stanca mai di evidenziare la sua incondizionata accoglienza dei poveri, dei peccatori, degli stranieri, degli ammalati, del disprezzato «popolo della terra», della folla anonima che l'evangelista Matteo (4,24) descrive molto significativamente in questo modo: «La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed egli li guariva». Questa carità di Gesù è testimoniata da tutte le fonti, ed è certamente un tratto storico tra i più sicuri.

La prassi di carità di Gesù non si ferma alle cose e ai bisogni, ma raggiunge le persone. Per questo si può parlare di «accoglienza». I suoi gesti esprimono predilezione e amicizia, come riconoscono i suoi stessi avversari: «Ecco un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori» (Le 7,34). La carità di Gesù non soltanto aiuta e soccorre, ma fa spazio dentro di sé, solidarizza con gli uomini e si fa carico di loro. Fa festa con loro. Oltre che di accoglienza, si può parlare di «condivisione».

L'accoglienza di Gesù verso i poveri, gli stranieri, gli ammalati, i peccatori scaturisce da un'esperienza religiosa singolare, da una precisa idea di Dio. Ciò risulta particolarmente dalle parabole della misericordia (Le 15), dove Gesù fa la teologia della sua prassi di accoglienza. Nell'accoglienza di Gesù è in gioco l'idea di Dio, e la differenza di comportamento tra lui e gli scribi e i farisei che lo criticano, non è semplicemente pastorale, ma teologica. Per Gesù Dio è il Padre che non cessa di amare il figlio lontano e al suo ritorno lo accoglie prontamente. Dio è il pastore che va in cerca di chi si è smarrito. Con la sua accoglienza Gesù intende svelare questo volto del Padre, esserne la trascrizione storica e visibile: Dio ama ogni uomo, senza differenze, e dunque accogliere ogni uomo è la cosa più importante da fare.

La carità di Gesù raggiunge il cuore dell'esistenza, non solo alcuni momenti di essa. Dice un modo di esistere, un modo di pensare e gestire l'intera vita, non solo un modo di fare. Ciò appare dalla categoria evangelica di «servizio», sotto la quale Gesù riassume la sua intera vita, dall'inizio alla croce: «II Figlio dell'uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la vita in riscatto per le moltitudini» (Me 10,45).

Gesù ha guardato il mondo a partire dagli ultimi: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli: sì, o Padre, perché così è piaciuto a Tè» (Mt 11,25-26). L'espressione «sapienti e intelligenti» designa le élites religiose di Israele, rabbini e farisei, che restavano ciechi di fronte alla chiarezza delle parole di Gesù e irritati di fronte alla sua predicazione a favore dei poveri (se ne scandalizzavano). Di conseguenza, «piccolo» non si oppone ad «adulto» (e quindi non designa i bambini), ma si oppone a «sapiente» e «intelligente».

«Piccoli» sono gli uomini senza cultura, senza competenza religiosa, senza abilità dialettica, senza la parola facile. Concretamente, al tempo di Gesù erano i così detti «uomini della terra», i poveri contadini della Galilea, che i dottori della legge e i farisei tenevano in nessun conto. Nella teologia di Gesù, i piccoli sono invece al centro dell'attenzione del Padre. Perciò vedere il mondo dalla loro parte significa vederlo dall'angolatura giusta. Partire dagli ultimi è dunque un criterio indispensabile, se si vuole vedere il mondo come lo vede Dio. Va perciò capovolta l'abitudine di guardare il mondo a partire dai primi: lo si vede inevitabilmente deformato!

Accade non raramente che chi si preoccupa degli emarginati si trovi, a sua volta, emarginato, nella misura in cui la sua scelta di solidarietà non resta gesto isolato, ma si fa proposta di nuova esistenza, progetto che allarma il sistema consolidato, sociale e religioso, che se ne sente minacciato. Gesti isolati e clamorosi sono per lo più accettati da tutti, perché non intaccano il modo di pensare ne il sistema di vita: non così quando ci si incontra con un progetto che è, nel contempo, denuncia delle vere cause dell'emarginazione e proposta di nuovi valori, diciamo di nuova cultura. Qui sorge l'incomprensione, l'isolamento, perfino la condanna. La stessa comunità cristiana non sempre riesce a capire, resta sostanzialmente indifferente e a volte non accoglie ma giudica. E un'esperienza che Gesù ha vissuto.

Possiamo trarre una conclusione. La carità di Gesù è una realtà piena, che afferra l'uomo interamente nella sua persona e nei suoi gesti: è servizio, accoglienza, condivisione, universalità. Questa carità è - anche oggi, come sempre - proclamata, ma spesso retoricamente. Quando la si incontra concretamente disturba, nei suoi confronti si diventa subito critici e guardinghi. La pastorale - quella vera, quella che si vede e si fa, non che semplicemente si dice - è il test della verità della propria teologia. E da quale pastorale che si mostra quale teologia!

il primo e il secondo

Con il termine carità si intende, anzitutto, l'amore di Dio per noi, poi il nostro amore per Dio, infine l'amore tra noi. Le tre direzioni dell'amore sono strettamente congiunte. L'amore di Dio per noi è la ragione, il modello e la misura di ogni altro possibile amore. Certo, l'amore dell'uomo per Dio è la prima e più alta tensione del cuore umano. Tuttavia qui noi vogliamo dare una particolare attenzione all'amore tra noi. Lo fanno anche i testi del Nuovo Testamento.

Nella versione di Marco, Gesù risponde allo scriba affermando che l'amore a Dio e al prossimo insieme - non l'uno senza l'altro - costituiscono il comandamento più importante di tutti (12,30-31): opinione che lo stesso scriba condivide, ribadendo che si tratta del comandamento che «sta al di sopra (perissóteros) di tutti gli olocausti e i sacrifici» (12,33).

Nella versione di Matteo, Gesù spiega ancora meglio come si debba intendere la centralità dell'amore a Dio e al prossimo: «A questi due comandamenti è sospesa tutta la Legge e i Profeti» (22,40). Il verbo che l'evangelista adopera (kremannumi: essere sospeso) evoca l'immagine di una catena che pende sorretta dal gancio: se si staccasse dal gancio, si affloscerebbe. Così va pensato il rapporto tra il duplice comandamento e i molti precetti: il comandamento dell'amore non li riassume, ne li abolisce, ne li sostituisce, ne li sminuisce nella loro importanza. Semplicemente - e più profondamente - li sorregge, dando loro consistenza, senso e direzione.

Ma dopo aver visto che insieme - mai l'una senza l'altra! -le due direzioni dell'amore costituiscono il centro della Legge, occorre osservarle più da vicino nel loro reciproco e interno rapporto: una tensione complessa e sottile che dice al tempo stesso la somiglianzà e la differenza, l'unità e la distinzione. Le due direzioni dell'amore sono strettamente congiunte, inseparabili, ma non sovrapponibili. Infatti, si parla pur sempre di un «primo» e di un «secondo», e di una diversa misura: «con tutte le forze» l'amore verso Dio, «come te stesso» l'amore verso il prossimo. Dunque la compattezza che caratterizza il duplice comandamento nei confronti degli altri precetti, non sopprime la sua interna articolazione. Non si può esaltare l'amore per il prossimo al punto da far scomparire la sua differenza con l'amore per Dio: anche nell’amore Dio resta Dio e il prossimo resta il prossimo.

Diversa la misura dell'amore per Dio e dell'amore per il prossimo, ma non la natura profonda. L'uomo non possiede due modi per amare, ma uno. Il verbo agapan è il medesimo, sia che si tratti dell'amore per Dio sia che si tratti dell'amore per il prossimo. Agapan non è riducibile all'obbedienza (se si tratta di Dio) ne al servizio (se si tratta del prossimo). Esprime in ogni caso slancio, sentimento, dedizione, legame: amore, appunto.

LA CARITÀ DEI PRIMI CRISTIANI

La comunità di Gerusalemme

La prassi di Gesù continua - secondo il racconto degli Atti - nella prassi dei primi cristiani. Descrivendo la prima comunità, Luca due volte precisa che i cristiani «avevano tutto in comune» (2,44 ; 4,3 2 ) e che «vendevano le loro proprietà» (2,45;4,34-35). I beni messi in comune venivano poi distribuiti «a ciascuno secondo le sue necessità» (4,35).

La motivazione che spinge questi primi cristiani a mettere in comune i loro beni non è una preoccupazione ascetica, ne una visione pessimistica del mondo, ne una mistica della povertà, ma la fede nell'unico Padre, la comune appartenenza al Signore, la convinzione di essere figli dello stesso Dio. Ciò che spinge i primi cristiani è, dunque, una teologia. Non a caso i passi parlano di «credenti» (At 4,32) e suppongono un diretto riferimento al dono dello Spirito e alla conversione. Si tratta di una fraternità che l'uomo non scopre guardando in se stesso, ne semplicemente guardando l'altro. È una parentela che ha la sua radice in alto, in un dono che solo l'evento di Gesù è riuscito pienamente a svelare. La responsabilità verso l'altro va collocata nell'orizzonte del dono, di un dono che precede sia chi da sia chi riceve.

L'ideale perseguito non era, dunque, la povertà, ma la condivisione, cosicché «nessuno fosse tra loro bisognoso» (At 4,34). Luca dice che «erano un cuor solo e un'anima sola» (At 4,32), espressione, questa, fondamentale per capire le due facce inseparabili della solidarietà cristiana, che è insieme intcriore ed esteriore, coinvolge l'anima e il corpo. La sua radice è nel cuore dell'uomo. «Cuore e anima» dice la totalità e designa il centro della persona. Potremmo parafrasare così: tutta la persona - a partire dal suo centro e dalle sue radici - deve protendersi nella fraternità.

La prassi caritativa della prima comunità cristiana si è dapprima manifestata in forme spontanee: ciascuno distribuiva i suoi beni al fratello che ne aveva bisogno. Ma ben presto si è solidificata in forme organizzative e istituzionali. In At 6 si parla, infatti, di una distribuzione quotidiana per le vedove.

Questa attenzione ai fratelli bisognosi non era un gesto isolato, ma rientrava in una solidarietà più generale: scaturiva dalla decisione di vivere da fratelli. L'attenzione ai poveri era parte di una solidarietà che abbracciava l'intera esistenza; descritta ampiamente nei primi capitoli degli Atti, non era una prerogativa di Gerusalemme, ma una costante di tutte le comunità. Infatti le giovani comunità del mondo pagano si ricorderanno dei poveri di Gerusalemme (At 11,29-30) e Paolo dirà ai presbiteri di Efeso (At 20,35): «In ogni occasione vi ho mostrato che, così lavorando occorre prendersi cura dei deboli e ricordarsi della parola di Gesù che disse: "È più bello dare che ricevere ».

Più grande è la carità

Nelle sue lettere Paolo ricorda frequentemente il tema della carità. Capiva che le sue comunità ne avevano bisogno. Egli è un grande missionario e sa che l'amore evangelico è per sua natura universale. Tuttavia - e può sorprendere - la sua attenzione è prevalentemente diretta all'amore intracomunitario, tra fratelli nella fede (Gal 6,10). 

Il testo paolino che maggiormente si presta al nostro scopo è senza dubbio l'inno della carità che si legge nella Prima lettera ai Corinti. Inserito tra una discussione sui carismi (e. 12) e un richiamo ad alcune norme per l'ordinato svolgimento dell'assemblea della Parola (e. 14), l'inno alla carità (e. 13) mostra subito le sue intenzioni: rivolgersi ai membri della comunità per ricondurli ali'essenza della vita cristiana, a ciò che veramente conta, e incamminarli sulla strada della vera ricerca di Dio: «Vi mostrerò una strada migliore di tutte» (12,31).

L'inno alla carità si divide in tre strofe. Nella prima (13,1-3) Paolo dice ciò che si può essere, si può avere e si può fare, senza tuttavia contare nulla. Allude a tre figure di cristiani: chi possiede il dono delle lingue, e tuttavia non comunica nulla; chi conosce, profetizza e fa miracoli e tuttavia non è nulla; chi è tutto generosità, generosità senza limiti, e tuttavia non è niente. Queste tre figure di cristiano non concludono nulla, perché manca loro la carità. Ma che cos'è allora la carità?

Nella seconda strofa (13,4-7) entra in scena l'uomo della carità o, meglio, la stessa carità personificata. Per delinearne la figura, Paolo utilizza soltanto verbi, non aggettivi. Il suo interesse non è l'essenza della carità, ma le sue manifestazioni che ne testimoniano la presenza e ne delineano il volto. Sono tutti verbi attivi, che tuttavia non si preoccupano di che cosa fare e a chi farlo, bensì di come porsi di fronte ali'altro. Sono tutti verbi che esprimono relazione. La carità non si identifica con le azioni che si compiono, ma è qualcosa che le precede, le suscita e le accompagna. La carità sembra qualificare la persona che agisce più che la sua azione. Tra le due strofe la contrapposizione è nettissima. Ma non si tratta, come spesso si dice, delia contrapposizione che corre tra l'eccezionalità e la quotidianità, tra il clamore e la semplicità, ancor meno tra il dire e il fare. È più profonda, più alla radice: è tra l'agire, l'avere, il dare da una parte, e un modo di relazionarsi dall'altra.

Anche la terza strofa (13,8-13) è attraversata da una opposizione, che però ci pone su un'altra dimensione: tra la ricerca di ciò che passa (le manifestazioni dello Spirito che i Corinti tanto cercavano) e di ciò che rimane; tra il cristiano bambino (quello che si affida a certi carismi) e il cristiano adulto e maturo; tra rincontro confuso, imperfetto con Dio (cercato nei prodigi e in tutto ciò che appare straordinario) e il vero incontro che in qualche modo già anticipa la «visione» di Dio. Una comunità matura non si lascia distrarre da altre cose, ma punta diritta alla carità, precisamente alla carità così semplice, così quotidiana, descritta nella seconda strofa. 

Per Paolo le manifestazioni dello Spirito, di fronte alle quali i Corinti tanto si esaltavano, non sono delle vere irruzioni dell'eterno nell'oggi. L'eterno è apparso sulla croce e continua ad apparire nella predicazione della croce. I doni dello Spirito, che tanto piacevano ai Corinti, sono delle manifestazioni transitorie. Tutte passeranno con questo mondo. Paolo oppone ciò che passa a ciò che resta: la fede, la speranza, la carità. Ma l'epifania più profonda di Dio, esperienza che meglio anticipa già oggi il futuro, è quella dell'amore. Si può anche andare oltre: la carità non soltanto segna la differenza tra ciò che passerà con questo mondo e ciò che invece rimarrà anche nell'altro mondo, ma segna anche la differenza - già ora - tra un modo confuso e infantile di cercare Dio e un modo adulto e fermo di cercarlo. Il cammino della maturità cristiana punta in direzione della carità.

Nessuno ha mai visto Dio

Un passo particolarmente importante per comprendere la carità cristiana si trova nella Prima lettera di Giovanni (4,7-16). Si tratta di un passo certamente complesso: è attraversato da intrecci molteplici, sottili e non sempre facilmente afferrabili. Ma per il nostro scopo basta accennare sinteticamente a quattro motivi. Il primo è la ripetuta sovrapposizione tra l'amarsi scambievolmente e il rimanere in Dio. Se cade il primo scompare completamente anche il secondo. L'amore reciproco è la verità del rimanere in Dio. Il secondo motivo, anch'esso ribadito lungo tutto il passo, è il legame - e anche qui si potrebbe parlare di sovrapposizione - tra l'amore fraterno e la conoscenza di Dio. Dio è amore ed è unicamente nella serietà e nella concretezza della fraternità che si fa esperienza di lui. E una regola che non ammette eccezioni: «Chi non ama non ha conosciuto Dio» (4,8). Il terzo motivo è il forte radicamento dell'esperienza cristiana, di ogni esperienza cristiana, nell'evento di Gesù. È qui che si è manifestato l'amore, l'amore nella sua piena trasparenza e nella sua efficacia. È soltanto guardando Gesù Cristo, icona dell'amore di Dio per noi, che comprendiamo la ragione, la natura e lo spessore dell'amore tra noi. Il quarto motivo, forse il più importante di tutti, è la ferma risposta che viene data a ogni pretesa di vedere Dio: «Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo reciprocamente, Dio rimane in noi» (4,12). Il verbo al tempo perfetto dice che la visione diretta di Dio non è data a nessuno, ne ieri ne oggi. L'unico spazio in cui fare esperienza di Dio è l'amore reciproco, la comunione tra noi: l'amore reciproco non è la visione, tuttavia è un'autentica e obiettiva esperienza di Dio, un'autentica e obiettiva comunione con Dio.

La comunità di Giacomo: fede e carità

Giacomo scrive la sua lettera nel tentativo di sottrarre le sue comunità al facile rischio di una fede ricca di parole e di dottrina, ma povera di gesti concreti, corporali, di carità. Egli avverte acutamente una situazione di pericolo, quella di un cristianesimo in cui va persa la serietà morale, a tutto vantaggio delle discussioni verbali e dei troppi documenti. Per questo egli ricorda subito che la religione «pura e senza macchia davanti a Dio» risulta di sentimento sociale e di distanza dal mondo: «Fare visita agli orfani e alle vedove nella loro afflizione, custodirsi puri dal mondo» (1,27). Orfani e vedove rappresentano l'essere indifeso e impotente: persone che soffrono per miseria e ingiusta oppressione. Giacomo è un uomo pratico e va dritto allo scopo; se incontrate un fratello o una sorella nudi e senza cibo, e qualcuno dicesse loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi, e non desse loro ciò che è necessario per il corpo, che cosa gioverebbe? Così anche la fede, se non ha le opere, è del tutto morta» (2,16-17). Un ricco che di fronte a un povero affamato e infreddolito, si limitasse a parole di augurio, compirebbe un gesto del tutto inutile e insincero. Così la fede senza le opere è inutile e insincera. Non semplicemente imperfetta, o manchevole, ma morta, inerte come un cadavere. Non si può neppure più parlare di fede. Non è un caso che tra le possibili opere che incarnano la fede, Giacomo abbia scelto un'opera di misericordia. Le opere della fede sono le opere dell'amore; in esse si realizza, cioè diventa vera, e non altrimenti. Una fede che non si esprime nelle opere di misericordia è illusione. Soltanto dalle opere si è certi della sua presenza. Giacomo sa benissimo che la fede è abbandono fiducioso in Dio e che deve farsi proclamazione pubblica, ma è convinto che fiducia e proclamazione siano soltanto un abbozzo: diventano fede vera, reale, quando si traducono in opere. «Mostrami la tua fede», egli dice non senza qualche ironia (2,18). Mostrami, cioè fai vedere, porta allo scoperto. La fede non è soltanto qualcosa da pensare, ne solo da dire e proclamare, ma da mostrare: deve diventare visibile.

Ancora più vivace, se possibile, il quadro che Giacomo traccia in 2,1-6. Un passo da leggere per intero. Entra nell'assemblea un ricco ben vestito e lo si invita a sedere, entra un povero col vestito logoro e lo si lascia in fondo, in piedi. Sembra una parabola. Le comunità di Giacomo .sono in maggioranza composte da poveri e umili. Ma non mancano alcuni ricchi e nobili. E si fanno distinzioni! Mettere al centro i ricchi trascurando i poveri significa porsi in netta antitesi con il comportamento di Dio e l’esempio di Gesù: «Dio non ha forse scelto i poveri secondo il mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del Regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero». Assumere comportamenti diversi nei confronti dei ricchi e dei poveri è una tentazione facile, se si pensa che non soltanto i ricchi, a volte, pretendono un trattamento privilegiato, ma sono gli stessi poveri spesso a concederlo spontaneamente. Mi sembra che questa seconda sia la prospettiva di Giacomo. Non si rivolge, infatti, al ricco perché non pretenda un'accoglienza diversa, ma si rivolge ali'assemblea perché non faccia discriminazioni. Che simili discriminazioni avvengano nei rapporti sociali è già cosa grave, ma che avvengano persino nella celebrazione liturgica è ancora peggio!

L'intento di Giacomo è di scuotere la coscienza degli ascoltatori, che forse vivono simili atteggiamenti senza darvi peso. E invece non sono cose da poco. Giacomo non esita a definire coloro che ragionano e si comportano in questo modo come «arbitri corrotti», «giudici dai giudizi perversi». Una tale comunità è del tutto mondana. Le discriminazioni sono il segno e il frutto di una mentalità malata. È dal modo concreto con cui si trattano i poveri e i ricchi, persino da atteggiamenti apparentemente insignificanti - come quando trattieni i primi sulla porta e fai accomodare i secondi in sala - che si comprende se sei evangelico o mondano.

VERITÀ E CARITÀ

Una preoccupazione e una convinzione

Non è raro oggi sentire e leggere, non senza qualche punta polemica, che «la prima carità è la verità». E questo è certamente giusto. Ma è anche altrettanto facile sentire e leggere che la carità è oggi l'unica parola che l'uomo è ancora disposto ad ascoltare, l'unica parola credibile e convincente. E anche questo è vero. Già la ragionevolezza di ambedue le affermazioni, che a prima vista sembrerebbero elidersi, suggerisce che il rapporto verità/carità è probabilmente circolare, e non si lascia catturare dentro categorie che dicono semplicemente il prima e il dopo. Ma anche ci avverte che occorre precisare quale verità e quale carità.

Chi sottolinea che «la prima carità è la verità», è probabilmente mosso dalla preoccupazione che il cristianesimo non si riduca a un semplice operare caritativo, a un fare generoso ma al tempo stesso confuso, quasi incurante della necessità di idee ferme su Dio, l'uomo e la morale. Chi invece sottolinea che la carità è l'unica cosa che conta, è probabilmente mosso dalla preoccupazione di superare un cristianesimo di idee, di verità astrattamente enunciate e proclamate, di molte parole, sottolineando che il grande male di oggi non è l'esagera2Ìone della carità, o la confusione della carità, ma l'indifferenza, una sorta di inerzia che solo la forza della carità sembra ancora in grado di smuovere. E importante capire che verità e amore in qualche modo si sovrappongono. All'uomo non basta essere amato, ne gli basta amare. Non ha bisogno solo di amore, ma di senso: un senso che si può trovare soltanto nell'amore di Dio, non semplicemente nell'amore dell'uomo. Per questo carità e verità sono inseparabili.

Per questo non si potrà mai mettere tra parentesi la Parola che racconta - che racconta l'evento di Gesù Cristo! - ne la questione della verità, neppure per far posto alla carità. Ma è anche chiaro che «dire la verità del Vangelo» non è semplicemente elencare con esattezza e completezza un blocco di conoscenze, anche se l'esattezza e la completezza sono essenziali. Il Vangelo mostra la sua verità proprio nella carità. La carità è il centro del Vangelo, non semplicemente una sua necessaria conseguenza pratica, ne semplicemente la prova che lo rende credibile. Dunque, la carità è il centro dell'annuncio ed è segno della sua credibilità: la carità è tutte e due le cose simultaneamente. Ed è il segno della credibilità del Vangelo non perché vi aggiunge qualcosa dall'esterno, ma perché lo lascia, per così dire, trasparire, visibilizzandolo, quasi facendolo toccare con mano. La carità è la lieta notizia. E questo un pensiero a cui siamo poco abituati.

Parola e pane

Alle folle che lo accerchiano da ogni parte Gesù dona la sua Parola, «spiegando loro le molte cose» (Me 6,34). E questo rimane ancora oggi il compito primario della Chiesa che, sull'esempio del suo Maestro, è chiamata a compiere l'annuncio del Vangelo come primo e fondamentale atto di carità verso l'uomo.

Ma poi Gesù, per le stesse folle, moltiplica i pani, ordinando ai suoi discepoli di distribuirli: «Date voi loro da mangiare». Così il compito della Chiesa è contemporaneamente il dono della Parola e del pane. Ma quale il rapporto tra i due doni? Un semplice accostamento dovuto al fatto che l'uomo ha bisogno sia di verità sia di amore, o qualcosa di più? In altre parole, il legame tra verità e carità avviene nell'uomo che di ambedue ha bisogno, o è già nell'origine, nella natura stessa del Vangelo, nella persona di Gesù, in Dio? Riferendosi al discorso del capitolo 6 di Giovanni, si può comprendere che «il pane della Parola di Dio e il pane della carità non sono pani diversi: sono la persona stessa di Gesù che si dona agli uomini». Anzitutto si può osservare che, mentre nel racconto di Marco Gesù prima dona la Parola e poi il pane, nel racconto di Giovanni, invece. Gesù prima sfama le folle e poi rivolge loro un discorso. Dunque non si può concludere: prima la Parola e poi, solo poi, la carità. Se mi è permesso, oserei dire che il rapporto Parola e carità non si riconduce a un prima e a un dopo. La Parola - così almeno nel passo giovanneo - spiega il gesto, non perché vi aggiunge qualcosa che non c'è, ma perché ne rivela il senso profondo, un senso che si coglie soltanto ponendo il gesto della carità in collegamento con l'evento e la persona di Gesù. E in questo spazio che si può giustamente parlare del primato della Parola. Se la Parola può rivendicare una priorità non è perché è qualcosa di più ampio della carità, ma perché è la "spiegazione" della carità.

Il primato dell’annuncio della verità non deve perciò intendersi come un primato che lascia sì spazio a una carità necessaria, doverosa, ma pur sempre aggiunta, una sorta di prolungamento dell'annuncio e dunque, alla fine, qualcosa di secondario. In realtà è il contrario: è proprio nel primato dell'annuncio che si fonda la centralità della carità.

Affermare il primato dell'annuncio significa, infatti, affermare il primato dell'evento di Gesù Cristo, non di altro. Nell'evento di Gesù la carità trova il suo insostituibile fondamento, che la trasfigura, dandole una forma e una forza capaci di "rinviare". Non riconoscendo il primato dell'evento di Gesù, o anche solo lasciandolo in ombra, la carità cristiana perderebbe ogni forza rinviante, e non sarebbe più la traccia dell'amore di Dio, e così perderebbe ogni possibilità di essere "Vangelo".

La carità del Crocifisso

II Vangelo della carità è soprattutto da leggere nella contemplazione della croce. La carità, che veramente può dirsi Vangelo, è la carità di Dio apparsa sulla croce, non la nostra. Di questa divina e sorprendente carità, l'esperienza cristiana è chiamata a farsi figura, traccia visibile, parola tra gli uomini, trasparenza. Quest'ultima metafora va compresa nel suo duplice significato di pienezza e di rinvio. La carità della comunità cristiana è Vangelo, unicamente se rinvia senza ombre, senza porsi in mezzo, all'amore di Dio apparso sulla croce di Cristo. Nessun nostro impegno basta a manifestare l'amore di Dio, che supera ogni attesa e ogni desiderio. E dunque necessario esplicitamente "rinviare". Come Gesù, in ogni suo gesto, è stato la trasparenza del Padre, allo stesso modo la Chiesa, nelle molteplici forme del suo servizio, deve rivelare il volto di Dio, non anzitutto se stessa.

Ma perché tutto questo sia vero, occorre che la comunità cristiana comprenda che sulla croce di Cristo non soltanto è apparsa la pienezza della carità, ma si è anche fatta chiara la via che occorre percorrere per manifestarla. La prima faccia della croce è la manifestazione dell'amore gratuito, donato e libero di Dio. Ma la seconda faccia è la sconfitta, o l'apparente inutilità, di questo stesso amore. La croce è l'icona di un amore donato, ma è anche l'icona di un amore tradito, inchiodato, rifiutato, non capito: «Ha salvato altri, non può salvare se stesso».

La carità è la «bellezza» che più di ogni altra cosa incanta l'uomo, la traccia più visibile e convincente di Dio. Ma al tem pò stesso è anche, o sembra, la realtà più fragile; affascinante ma improduttiva; troppo spesso nella storia appare meno torte della violenza, della stretta e inesorabile giustizia, dello stesso egoismo, persino della menzogna. Sono le due braccia della croce: la forza rivelatrice dell'amore e la sua sconfìtta che sembra inesorabilmente smentire la verità della sua rivelazione.

Non si comprende la carità senza la fede nella risurrezione. Ma c'è chi vorrebbe che la forza vittoriosa dell'amore apparisse prima della risurrezione. E qui trova spazio la più grande tentazione, di cui abbiamo già parlato: quella di ricorrere a vie diverse da quelle della croce per mostrare che la verità e la carità di Dio sono sempre vincenti. Ma in questo caso la verità e la carità non sono più rinvianti, non sono più trasparenti, e di conseguenza non sono più "Vangelo".

Letta alla luce del Vangelo e della croce resistenza di Gesù appare caratterizzata dal "dono totale di sé". Un'esistenza in dono, questa è l'identità di Gesù. Conducendo un'esistenza in dono, Gesù non soltanto ha amato gli uomini, ma ha rivelato il volto del Padre. Non soltanto ha amato gli uomini, ma ha loro rivelato la verità, che è appunto l'amore di Dio. Rivelare Dio e donarsi per gli uomini non sono state per Gesù due cose diverse, due compiti, ma una sola cosa, un solo compito. In Gesù la verità e la carità si sovrappongono.

Celebrando l'eucaristia - per esempio - la Chiesa rinnova la memoria della vita del Signore, una vita in dono, e qui trova la forza e la dirczione per entrare con tutta se stessa nella logica del dono. Ma il rapporto «memoria» e «carità» può anche essere, in un certo senso, correttamente rovesciato, intravedendo in tal modo che il nesso è ancora più intimo. E vivendo la logica del dono di sé che la Chiesa fa memoria del Signore. La nostra carità è la memoria, oggi, del Signore.

Se questo è vero, allora per verificare la propria fedeltà o, al contrario, per avvertire le proprie contraddizioni, la comunità cristiana deve misurarsi sul criterio "eucaristico" del dono di sé. E questo, infatti, il tratto che identifica sempre il Signore Gesù: il Crocifisso come il Signore risorto, il Gesù storico come il Cristo glorioso presente ora nella Chiesa con il suo Spirito.

Per "discernere" - come dice Paolo (ICor 11) - il Corpo del Signore non è sufficiente celebrare nel pane e nel vino la realtà della presenza del Signore, ma occorre celebrare un tipo di presenza, un'esistenza in dono. Dire che Dio è qui, in mezzo a noi, non è tutta la fede cristiana. La novità del Dio di Gesù Cristo è il dono di sé. Non comprende l'eucaristia, ne la novità cristiana, chi non comprende la carità.

LE NOTE DELLA CARITÀ

Pubblicità e trasparenza

La prima nota della vera carità è la trasparenza. Vangelo, infatti, è la carità di Dio, non la nostra. Il nostro amore è "Vangelo" a patto che lasci trasparire l'amore di Dio. Perché gli uomini - lo sappiano o no - cercano l'amore di Dio, non semplicemente il nostro. Il nostro è troppo piccolo, veramente poca cosa nei confronti dell'amore di Dio che si è manifestato sulla croce di Gesù. Anche il nostro amore verso i fratelli può però diventare grande - Vangelo, appunto -, ma solo se ci si mette da parte per attirare l'attenzione su Dio, non su noi stessi. È questa la trasparenza che trasforma la carità - la nostra carità - in Vangelo. La semplice solidarietà è nobilissima, ma non è ancora annuncio del Vangelo, non è ancora missione. Lo diventa quando si fa segno della carità di Dio.

L'evangelista Matteo conclude le beatitudini con una frase che chiarisce molto bene il discorso che stiamo facendo: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (5,16). Matteo teme che il cristiano si nasconda, perciò ricorda che la luce è fatta per farsi vedere: «Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio». La luce è fatta per brillare e, allo stesso modo, il Vangelo è fatto per essere annunciato pubblicamente. «Davanti agli uomini», dice la pubblicità e l'universalità. Ho usato il termine "Vangelo", ma in realtà Matteo dice «le vostre opere buone». Per l'evangelista le opere buone - che devono brillare - sono le opere della carità, come è chiarito nel grande affresco del giudizio: mi avete sfamato, vestito, visitato, accolto (25,31-46). Queste opere sono «nostre», ma devono farsi trasparenti tanto che chi le vede non rende gloria a noi, ma al Padre. È così che la carità - anche la più semplice e quotidiana carità - diventa annuncio del Vangelo.

Concretezza

Una seconda nota, necessaria per trasformare la nostra carità in Vangelo, cioè in uno specchio dell'amore di Dìo, è la concretezza. L'amore di Dio non sopporta di restare semplice intenzione, o parola, ma si fa sempre gesto e opera, storia, qualcosa che si tocca e si vede. Ma la concretezza della carità di Dio non si arresta qui. La carità di Dio raggiunge la persona nella sua singolarità, nel suo nucleo profondo, oltre i suoi bisogni. La concretezza dell’amore di Dio non è il semplice aiuto, ma l'accoglienza. La differenza è grande: l'aiuto raggiunge i bisogni dell'uomo, l'accoglienza raggiunge la persona. Così fu la carità di Gesù, specchio trasparente di quella di Dio. Al peccatore e all'ammalato Gesù non ha offerto soltanto il perdono o la salute, ma vicinanza. E difatti non ha guarito il lebbroso a distanza, ma lo ha toccato. E non soltanto ha perdonato i peccatori, ma ha mangiato con loro. Non ha mai offerto denaro, ma sempre ha offerto accoglienza. Se porgi un pezzo di pane, sulla porta di casa. a un povero che ha fame, lo hai forse aiutato, ma non l'hai accolto. Se invece lo fai entrare in casa, lo accogli. Di fronte al bisognoso non devi fermarti all'aiuto: devi farlo entrare nella tua vita, dargli spazio nella tua casa, nella tua comunità, nella tua mente. Questa è la differenza tra l'aiuto e l'amore. Solo il secondo è annuncio di Vangelo.

Gratuità

La terza nota della carità è la gratuità e l'eccedenza. Chi osserva il Crocifìsso assiste allo spettacolo di un amore tanto gratuito e sconfinato da apparire incredibile. La gratuità è al centro della croce ed è il segno più rivelatore dell'amore di Dio. Perciò la Chiesa e il cristiano, se vogliono ridisegnare la figura dell'amore di Dio apparso in Gesù, devono improntare alla gratuità tutte le loro forme di servizio all'uomo. La verità dell'impegno cristiano per l'uomo è la gratuità, e molti sono i modi che la manifestano: l'universalità, la predilezione per gli ultimi, il primato della verità in ogni situazione.

Ma ciò che maggiormente colpisce nella carità di Dio manifestatasi sulla croce è la sua eccedenza. La carità di Dio, che ha preso figura in Gesù Cristo, non è misurata sul bisogno dell'uomo, ma sulla ricchezza straordinaria della generosità di Dio. E molto più grande dei bisogni dell'uomo. Di qui il coraggio di saper offrire agli uomini un dono (e una notizia) che va oltre le loro richieste. È guardando Dio che la Chiesa apprende come servire l'uomo.

La gratuità della carità («come io ho amato voi») è il segreto della sua forza: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,3). L'amore gratuito è una categoria che come poche altre sa unire due cose che alle volte noi mettiamo in contrasto: l'identità e il dialogo. La carità è il cuore dello spettacolo della croce, e dunque è il cuore dell'identità cristiana. Ma la carità è anche un'esperienza che ogni uomo in qualche modo comprende, che ogni uomo in qualche modo può condividere, sia pure a livelli diversi. Posti di fronte all'amore, all'amore gratuito e universale, tutti gli uomini comprendono che esso è verità, la verità di Dio e dell'uomo. 

Voglio insistere. La categoria chiave, emergente da tutto quanto ho detto, è la gratuità. È questa una categoria teologica e antropologica insieme. Va proclamata, mostrata, attualizzata. E la sfida, è la misura. Non è soltanto categoria religiosa, profetica, personale: è l'architrave di ogni discorso sulle relazioni comunitarie, persino di ogni discorso sulla solidarietà sociale. Si intuisce che richiede un coraggioso capovolgimento culturale. Nessun timore: la gratuità non è mai a scapito della giustizia o della reciprocità nelle relazioni, ma è il fondamento che le sorregge. E la prima educazione alla gratuità è l'apertura alla gioiosa accoglienza della gratuità di Dio, paradossalmente più difficile dell'accettazione della sua giustizia. Soltanto chi ha incontrato un Dio che è gratuità, è in grado di aprirsi a sua volta alla gratuità verso i fratelli. Chi sbaglia la concezione di Dio, immaginando un Dio rinchiuso nelle strettoie della rigorosa giustizia del tanto/quanto, non sarà mai un uomo di gratuità, ma sempre soltanto un difensore della stretta giustizia. Questo uomo però non ha compreso il Vangelo. 

Maggioni


lunedì 22 dicembre 2025

La virtù della fede

il vocabolario della fede

L’Antico Testamento per indicare l'atteggiamento di fede usa termini ebraici che si rifanno prevalentemente a due radici: aman (da cui l’amen della liturgia) che evoca l'idea di «solidità», e batah che indica «fiducia». Questo secondo termine indica lo slancio della fede e mostra come la fede non sia qualcosa di passivo: in essa c'è speranza, desiderio e attesa.

Più significativa però è la prima radice: esprime la nozione di solidità, fermezza, cosa «provata», saggiata. Il paragone che ricorre più di frequente è la solidità della roccia (e quindi la solidità di chi è abbracciato alla roccia). Un'altra immagine biblica è quella del bambino tra le braccia del padre, al sicuro.

Aver la fede significa dunque «appoggiarsi a Dio» (Roccia e Padre) e - proprio per questo - sentirsi su un terreno solido, al sicuro, tranquilli.

La Bibbia dice spesso che Dio è «verità», che la sua Parola è vera e fedele, che il suo piano è fedele, proprio perché messo alla prova - resiste, sta saldo, non si sbriciola (come invece avviene alle promesse degli uomini ! ).

E l'uomo è vero, è fedele se sta con costanza appoggiato alla Parola di Dio, se attraverso le prove sta saldo, non si frantuma.

Viene in mente, a questo punto, ciò che si legge nel Vangelo di Matteo (7,24-27): «Chiunque perciò ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia. E cadde la pioggia, vennero i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. E chiunque ascolta da me queste parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo sciocco, il quale edificò la sua casa sulla sabbia. E cadde la pioggia, vennero i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa ed essa cadde. E grande fu la sua rovina».

Il vocabolo greco più frequente nel Nuovo Testamento è pistis (fede), nelle sue due accezioni di «credere» e «confidare». Però vi sono molti altri termini che in qualche modo sottolineano la fede: «ascoltare, accogliere, conoscere, vedere, rispondere, obbedire».

Anche per il Nuovo Testamento la fede è un atteggiamento fondamentale, ricchissimo: questa ricchezza spiega appunto la varietà del vocabolario. La fede esprime l’atteggiamento completo dell'uomo di fronte a Dio che si rivela salvatore.

La Bibbia applica al comportamento di Dio gli stessi termini che usa per indicare la fede dell'uomo: un modo chiaro per dirci che anche Dio è - in un certo senso - un «credente».

Ma che significa ciò di preciso? Dicendo che Dio «crede», la Bibbia non vuole semplicemente indicare che Dio è fedele (cioè mantiene le promesse); vuole invece attirare l’attenzione sul fatto che Dio decide un piano, si assume un impegno, si imbarca in una avventura, si fida dell'uomo e corre - perché no? - il suo «rischio».

L'uomo deve fidarsi di Dio, appoggiarsi a lui che è «Roccia» - dice la Bibbia -, ma anche Dio si fida dell'uomo.

Vengono in mente le parole di Cristo a Pietro: «Tu sei roccia e su questa roccia io edificherò la mia Chiesa, e le porte della morte non prevarranno contro di essa».

Questo parallelo tra la fede di Dio e la fede dell'uomo è significativo. Insegna che vi è una somiglianza (certo solo una somiglianza!) tra il comportamento di Dio e il comportamento dell'uomo; in ambedue i comportamenti vi e l’aspetto di decisione totale, di impegno, di legame definitivo.

Insegna che la fede dell'uomo è una partecipazione alla fede di Dio, un farla propria, un condividerla. Insegna che la fede dell'uomo è «risposta» a quella di Dio.


convertitevi e credete: il vangelo di marco

Nel Vangelo di Marco il tema della fede e dell'incredulità si consolida in figure ed episodi che - soprattutto se letti «narrativamente» - si rivelano significativi e ricchi di fascino, e anche attuali. Uno studio accurato di queste figure ed episodi mostra che la fede è un'adesione personale alla persona di Gesù, annunciata ora nella Chiesa e presente ora nella Chiesa; che è un itinerario che richiede continua conversione; che il suo centro è la croce/risurrezione, visto come luogo in cui si è svelato il vero volto di Dio e, insieme, la via dell'uomo. Due pertanto sono, simultaneamente, i contenuti della fede: Dio si è svelato nel Crocifisso, la via della croce è salvezza per l'uomo.

«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è giunto, convenitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15).

La costruzione di questo annuncio di Gesù non è casuale. Due verbi all'indicativo (il tempo è compiuto e il Regno è giunto) annunciano un fatto, e due verbi all'imperativo ne indicano le conseguenze. Questa struttura - prima l'indicativo e poi l'imperativo - è essenziale e costante. L'accento cade sull'indicativo, sull'evento, che precede la conversione e la fede e costituisce il nucleo dell'originalità cristiana. 

Si tratta di un evento che è «lieta notizia» (essenzialmente è l'amore di Dio nei nostri confronti, un amore che nella storia di Gesù si è rivelato sorprendente e inaspettato). Questa lieta notizia del Regno svela contemporaneamente il volto di Dio e dell'uomo: è insieme teologica e antropologica. Proprio perché l'evento rivela un volto sorprendente di Dio e dell’uomo, ne segue la necessità - da parte di chi lo accoglie - di un radicale cambiamento, che è insieme un capovolgimento (conversione), un credere vero l'annuncio dell'evento e un affidarsi a quello stesso evento.

«Convertitevi e credete»; può sembrare strano l'ordine dei termini, prima la conversione e poi la fede. Abitualmente invece è prima la fede e poi la conversione. Ma in realtà qui si intende - come si vedrà lungo il Vangelo - non tanto una conversione morale (come vivere) quanto una conversione teologica (chi è Dio e qual è la sua azione). In questo senso la conversione non è una condizione per la fede, ne semplicemente una conseguenza della fede: è la fede in atto.

Credere è affidarsi a che cosa? Il nostro passo dice: al Vangelo, parola che esprime chiaramente ciò che dobbiamo credere vero e ciò di cui dobbiamo fidarci, capovolgendo la vita («convertitevi»). Ma che significa di preciso la parola «Vangelo»? E un termine che Marco utilizza più volte: il confronto con i testi paralleli di Matteo e Luca mostra che si tratta di un vocabolo che egli predilige (1,1.15; 8,35; 10,29; 13,10; 14,9;

16,15). Quando Marco scriveva il suo racconto la parola «Vangelo» non indicava più soltanto l'annuncio del Regno fatto da Gesù (come in 1,15), ma indicava più ampiamente l'annuncio di Gesù ripetuto dalla Chiesa, attualizzato e diffuso a Roma e in tutto l'impero attraverso la predicazione. Il termine aveva assunto una chiara dimensione ecclesiale e missionaria. Inoltre si era anche precisato e approfondito nel suo contenuto: non più soltanto l'annuncio fatto da Gesù («il Regno è vicino»), ma l'avvenimento Gesù. Le comunità primitive hanno subito capito che la lieta notizia è Gesù stesso. Per questo non si sono limitate a ripetere la predicazione di Gesù, ma hanno considerato Gesù (persona e storia) l'oggetto del proprio annuncio. E certo in questo senso che Marco usa il termine «Vangelo», come appare dalla frase iniziale del suo racconto: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio». Per tener fede a questo titolo, Marco non soltanto riporta l'annuncio del Regno fatto da Gesù, ma racconta la vita di Gesù.

Al sommario della predicazione di Gesù (1,14-15) Marco ha fatto immediatamente seguire la chiamata dei primi discepoli. Probabilmente per più di un motivo: per mostrare che la parola del Regno è efficace e crea una comunità; per introdurre nella narrazione, fin dall'inizio, il secondo personaggio che gli sta a cuore, e cioè il discepolo; per illustrare, infine, la risposta di conversione e fede che il Regno esige. Convenirsi e credere significa fare ciò che hanno fatto i primi discepoli. E così appare con chiarezza che la fede è conversione, sequela, missione. La fede è un itinerario.


Miracoli e fede

Per Marco il miracolo è senza dubbio un segno per la fede. E difatti sono i miracoli che attirano l'attenzione su Gesù, così che le folle accorrono a lui. È il miracolo che suscita l'interrogativo fondamentale: «Che è questo?» (1,27). Gesù stesso rimprovera i compaesani per la loro incredulità di fronte alla sua sapienza e ai suoi miracoli (6,6).

E certo, dunque, che il miracolo inizia il processo della fede. E l'evangelista non trascura il fatto che, partendo dai miracoli, la folla ha intravisto in Gesù qualcosa di straordinario (un profeta) e i discepoli sono giunti a riconoscerne la messianicilà (8,27-29). Tuttavia, se è vero che il miracolo avvia il processo della fede, è altrettanto vero che non conduce necessariamente alla fede, non soltanto perché lascia posto all'incredulità, ma anche e soprattutto perché non è in grado di svelare interamente l'identità di Gesù. I miracoli avviano il processo della fede, ma non conducono alla fede piena.

Che i miracoli siano segni di potenza è ovvio, e che l'evangelista attribuisca importanza a essi è mostrato dal fatto che i racconti di miracoli occupano nel Vangelo un ampio spazio.

Ma sono anche circondati da debolezza. Questo perché i miracoli sono coinvolti nella dialettica tra potenza e debolezza che costituisce il centro e l'originalità della rivelazione di Gesù. I miracoli di Gesù non sono tali da impedire la discussione, né bastano a sconfìggere l'incredulità, che anzi — in un certo senso - sembra diventare di fronte a essi più decisa. Gesù delude la pretesa farisaica di un miracolo che provi la sua origine divina al di là di ogni dubbio (8,11-13). I miracoli sostengono la fede, ma non sono sufficienti a identificare la vera realtà di Gesù. Le folle vedono in lui qualcosa di eccezionale, ma non il Messia, e i discepoli scorgono in lui il Messia (8,27-29), ma non vedono in lui il Crocifisso. Proprio perché i miracoli non rivelano tutta l'identità di Gesù, una fede basata sui miracoli sarebbe del tutto insufficiente. Significativo è il fatto che i gesti di potenza diminuiscono e spariscono man mano che ci si avvicina alla croce. Marco è il Vangelo dei miracoli, segni di potenza, ma i miracoli muoiono sulla croce, ed è qui che vanno compresi. E dunque chiaro: il miracolo mostra la potenza di Gesù, ma vuole anche, paradossalmente e contemporaneamente, evidenziarne l'impotenza. 

In una prospettiva analoga va considerato anche il cosiddetto «segreto messianico». Gesù compie miracoli che lo rivelano Messia, ma stranamente non vuole che questo si sappia. C'è sempre, infatti, il rischio di intendere male la sua messianicità e di stravolgerne l'intenzione. Non bastano i miracoli. Sembra che Marco voglia dire: non concludete subito e in fretta chi è Gesù, ma aspettate di avere in mano tutti gli elementi necessari per capire chi egli sia: aspettate per questo la croce. Ai piedi della croce i miracoli di Gesù sono ricordati («ha salvato altri»), ma la debolezza che circonda il Crocifisso sembra svuotarli di ogni significato («non può salvare se stesso»). E invece per Marco sta proprio qui la vera identità della potenza di Gesù: una potenza per altri e non per sé, una potenza-dono, non una potenza-dominio.

Fede che sposta le montagne

Prima di rintracciare nel racconto di Marco la figura dell'incredulo (e le sue ragioni) - un tema molto importante che ci mostrerà in negativo la vera natura della fede evangelica -abbiamo qualche altro spunto da raccogliere.

Dopo aver calmato il mare in tempesta, Gesù rivolge ai discepoli una domanda che è un rimprovero: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?» (4,40).

Per Gesù la fede è sentirsi al sicuro anche quando il mare è in tempesta. Quella dei discepoli è una fede incerta, debole, come è provato dal fatto che non è ancora in grado di liberarli dalla paura. La paura è segno di mancanza di fede. La fede matura è la fiducia serena di chi si sente al sicuro, anche se le difficoltà sono grandi e il Signore sembra dormire.

Di fronte a coloro che giudicavano ormai inutile il suo intervento («Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il maestro?»), Gesù dice: «Non temere, continua solo ad avere fede» (5,36).

Fede è ritenere possibile anche ciò che all'uomo pare impossibile. Nessuna situazione è irrimediabile di fronte alla potenza di Dio.

Nel dialogo di Gesù con i discepoli (9,29), dopo la guarigione del ragazzo epilettico, cogliamo una relazione tra la fede e la preghiera. Fede è l'atteggiamento di chi, non confidando in se stesso, ricorre alla preghiera, consapevole che la salvezza è un puro dono.

La connessione tra la fede e la preghiera è poi particolarmente sviluppata nel dialogo di Gesù con i discepoli dopo il racconto del fico disseccato (11,20-24). La fede vera è tanto forte che può spostare le montagne. Deve essere, però, una fede che non esita («senza dubitare in cuor suo»). Il luogo in cui la fede si esprime in modo particolarmente chiaro, e se ne può sperimentare l'efficacia, è la preghiera: «Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto».

L'incredulo e le sue ragioni

La figura dell'incredulo è anzitutto rappresentata da «scribi e farisei», anche se - come si vedrà subito - non solo da loro, ma persino dagli stessi discepoli.

Farisei e scribi osservano e giudicano la prassi di Gesù e dei suoi discepoli, la valutano e la rifiutano. Gli episodi interessanti sono soprattutto tre: a) nel dibattito di 3,22-30 i miracoli di Gesù sono giudicati opera del demonio, compiuti a scopo di inganno; b) in 8,11-13 i farisei ritengono che i segni compiuti da Gesù non siano sufficienti a legittimare la sua pretesa: chiedono segni più convincenti; e) e in 15,31, ai piedi della croce, Gesù viene invitato a dare la dimostrazione della sua filiazione divina, e viene messa a confronto la sua precedente potenza nel compiere miracoli («ha salvato altri») e la presente debolezza («non può salvare se stesso»).

La lettura di questi episodi ci porta a importanti conclusioni: la prima è l'abilità del ragionamento dello scriba. Posto, da una parte, di fronte alla prassi di Gesù che non può negare e che dovrebbe logicamente portarlo a concludere che in lui è presente la potenza di Dio, e posto - dall'altra - di fronte al fatto che accettare Gesù significa rinunciare alle proprie convinzioni, lo scriba da la precedenza alle seconde. È la chiusura del cuore (3,5), l'incapacità di accettare la novità di Dio e, quindi, la conversione.

L'incredulità è l’atteggiamento di chi accetta Dio soltanto nella misura in cui la sua azione non sconvolge i propri criteri. D'altra parte una spiegazione per l'agire di Gesù deve essere data. Ed ecco la lucida e ingegnosa spiegazione che lo scriba offre: la cacciata dei demoni da parte di Gesù è una sceneggiata. I suoi esorcismi sono operazioni di magia destinate a sedurre le folle. Questo atteggiamento di rifiuto, abile al punto da volgere a proprio favore i segni di Dio, è il massimo dell'incredulità, perché è un rifiuto deciso, consapevole e giustificato: è la bestemmia contro lo Spirito.

La seconda osservazione ci porta a notare che in tutti e tre gli episodi la negazione è radicale e totale. Tuttavia le ragioni sono differenti. Nel primo la negazione nasce dallo scontro tra la prassi di Gesù (i segni compiuti) e l'ortodossia giudaica: i segni compiuti non sono a servizio di questa ortodossia, ma pretendono di superarla. Nel secondo la negazione nasce dallo scontro tra i segni offerti da Gesù e i segni di legittimazione pretesi o attesi: è vero che Gesù ha compiuto segni, ma non sono quelli codificati. Nel terzo episodio, infine, la negazione nasce da una sorta di contraddizione interna alla stessa vita di Gesù: una vita disseminata di segni di potenza ma anche, nel contempo, di debolezza. Quest'ultima ragione è certamente la più profonda, la più acuta, e giustamente coinvolge tutti nell'incredulità: le autorità, la folla dei passanti e i crocifìssi con Gesù. Nei primi due episodi la ragione della negazione è, per così dire, cercata in un confronto con qualcosa di esterno alla vita di Gesù: l'ortodossia giudaica e la pretesa di alcuni segni. Nell'ultimo, invece, la ragione della negazione è trovata nel cuore stesso della storia di Gesù.

Molto interessante è anche la ragione del rifiuto dei Nazaretani (6,1-6): qui viene colta la contraddizione tra la potenza e la sapienza di Gesù da una parte, e l'umiltà delle sue origini dal? altra. E ancora una contraddizione interna al mistero di Gesù, non però la croce, bensì l'incarnazione.

Gli ascoltatori di Gesù passano dallo stupore iniziale allo scandalo. Lo stupore è l'atteggiamento di partenza. L’atteggiamento di chi resta colpito e quindi costretto a interrogarsi, ma è un atteggiamento ancora neutrale: può sfociare sia nella fede sia nell'incredulità. La sapienza delle parole di Gesù e la potenza delle sue mani suscitano importanti interrogativi (che Marco intende porre a ogni lettore): qual è l'origine di questa sapienza e di questa potenza? Chi è quest'uomo? La risposta sembra ovvia: quest'uomo viene da Dio. Ma tale risposta ovvia è impedita da una constatazione che va in senso contrario: «Non è costui il carpentiere?». Di qui lo scandalo, parola che indica un ostacolo alla fede, qualcosa che impedisce ragionevolmente di credere. È lo scandalo della persona di Gesù, lo scandalo della sua incarnazione.

Ma non c'è solo l'incredulità dell'oppositore, bensì anche l'incredulità del discepolo, che può assumere forme diverse e che Marco puntualmente annota (6,52; 8,17-21; 16,11-14). L'episodio più interessante è lo scontro tra Gesù e Pietro avvenuto a Cesarea di Filippo (8,33). Nel dibattito (chi è Gesù?) intervengono in ordine crescente tutti i principali personaggi: la folla (v. 28), i discepoli (v. 29), Gesù stesso (v. 31), la voce celeste (9,7). E anche le risposte sono date in ordine crescente: un profeta, il Messia, il Figlio dell'uomo che deve soffrire, il Figlio unigenito. Al centro di queste varie risposte lo scontro è tra Gesù e Pietro, e oggetto dello scontro è la croce. E lo scontro tra la messianicità (di cui i discepoli sono ora convinti) e la via della croce (giudicata dai discepoli in contraddizione con la stessa messianicità). Pietro riconosce la messianicità di Gesù, ma proprio per questo si oppone alla croce, dal momento che egli ragiona come gli uomini. In che cosa consiste questo ragionamento umano? Il discepolo non parte dalla croce e quindi - come fanno scribi e farisei - rifiuta la messianicità (come appunto in 15,31). Il discepolo fa il ragionamento contrario: parte dalla messianicità di cui è convinto e si sforza di allontanare Gesù dalla croce. Ma, in un modo come nell’altro, è sempre la croce che viene negata. È la tentazione di Satana: separare il Messia dal Crocifisso.


La fede del Crocifisso e nel Crocifisso

A questo punto non ci resta che leggere il racconto della crocifissione: 15,21-47. Già nella sua composizione scenica il racconto mostra la profonda e totale solitudine del Cristo, solitudine che egli stesso esprime, e la esprime nella sua radice più profonda che è la solitudine di fronte a Dio: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Si osservi come Gesù è negato nella sua duplice identità: negato in quella logica di donazione (che qui viene capovolta, incompresa e ritorta contro di lui), che ha guidato tutta la sua vita, e negato nella sua origine, nella sua messianicità e filiazione, nella sua comunione con Dio.

Ma al centro del racconto, al di là di tutto questo, c'è Gesù e il Padre. Gesù si rivolge al Padre con una domanda. E il Padre tace. La voce che ha parlato al battesimo e alla trasfigurazione, qui tace. Ma osserviamo meglio la domanda di Gesù. Certo, esprime l'abbandono (dagli uomini e da Dio), ma anche la fiducia. E infatti l'inizio della preghiera del giusto abbandonato che muore affidandosi pienamente a Dio (Sai 22). Dunque, fiducia. Ma è la fiducia in una esperienza di totale abbandono. Questa è la fede di Gesù.

Di fronte a Gesù - se guardiamo ora la scena dal punto di vista degli astanti - si scontrano due tipi di fede: da una parte, la fede di chi pretende che il Messia scenda dalla croce; dall'altra, la fede di chi, come il centurione, riconosce la divinità di Gesù proprio sulla croce. Da una parte una fede che per credere deve eliminare la croce, dall'altra la fede del vero credente che scorge il Figlio di Dio sulla croce.

fede e storia

Nel primo capitolo degli Atti c'è un quadro che mostra gli apostoli con gli occhi fìssi al cielo, dove è appena asceso Gesù. Ad essi due messaggeri celesti dicono: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo» (1,10-11).

La prima parte della frase ha il tono del rimprovero: evidentemente star lì a guardare il cielo non è la posizione giusta per il vero credente cristiano. Nella seconda metà della frase si invita a guardare la terra, il mondo, con la consapevolezza che Gesù tornerà, e con la certezza in ogni caso che è proprio lì che lo si può incontrare. Ma allora, se si crede guardando la terra e amando la terra, non si dovrebbe parlare di una fede sempre a rischio? Le vicende che capitano sembrano alcune volte favorire la fede in Dio, ma altre a volte sembrano smentirla. Di solito cito un passo del libro dei Giudici dove si legge: «Se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo? Dove sono tutti i suoi prodigi che i nostri padri hanno narrato, dicendo: il Signore non ci ha fatto forse uscire dall'Egitto? Ma ora il Signore ci ha abbandonati e ci ha messi nelle mani di Madian» (6,13). In un altro testo l'uomo biblico si chiede: «II Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17,7).

È vero: lo sguardo verso la terra può complicare l’atto di fede. D'altra parte, però, è anche vero che non si può guardare Dio astrattamente, togliendo lo sguardo dalla terra e dalla storia in cui viviamo, per guardare altrove dove non vediamo.

Bisogna comprendere che la convinzione della presenza salvifica di Dio nella storia è un principio base della fede biblica, dal Primo al Secondo Testamento. Israele pone al centro della propria fede una storia di salvezza e ciò significa la persuasione che Dio agisce nel mondo storico in maniera e in forme umane, condividendo la relatività della storia stessa; e perciò l'uomo trova Dio e il suo dono di salvezza dentro la storia, non fuori di essa; la storia non è soltanto il luogo in cui inserirsi per servire Dio, ma ancora prima il luogo in cui inserirsi per incontrarlo e per conoscerlo: la storia è luogo di rivelazione. Questa convinzione si precisa ulteriormente nel Nuovo Testamento, la cui affermazione centrale è che il Figlio di Dio è entrato nella storia umana condividendo l'intera esperienza dell'uomo.

Da qui nasce la prima virtù del cristiano: la sincerità di fronte alla storia, il rifiuto di ogni manipolazione dei fatti. La prima struttura della fede biblica è l’ostinata fedeltà alla storia. Più che di un contenuto si tratta di un metodo.

Di qui l'ascolto attento e sincero della storia, sia quando presenta fatti che confermano l'esistenza di Dio, sia quando ne presenta altri che sembrano metterla in dubbio. La durezza di cuore di cui parla la Scrittura sta proprio nell'incapacità di aprirsi ai fatti concreti, comunque essi siano. Duri di cuore sono gli amici di Giobbe che rinnegano la sua innocenza, perché non vogliono rivedere il loro schema teologico: solo il peccatore può essere nel dolore e nella sofferenza perché Dio è giusto e castiga solo i colpevoli! Duri di cuore sono gli scribi che nel capitolo terzo di Marco accusano Gesù di scacciare i demoni in nome dello stesso demonio: un ragionamento capovolto e intelligente per evitare la conclusione che Gesù viene da Dio. Duri di cuore sono i farisei di fronte al cieco nato: non riescono ad accettare la sua guarigione in giorno di sabato, perché non vogliono riconoscere che Gesù ha potere anche sul sabato.

La storia pone spesso il credente di fronte ad avvenimenti che richiedono un profondo ripensamento della propria fede, addirittura del proprio modo di pensare Dio e il suo disegno

di salvezza. La fede cristiana attraversa le "crisi" che la storia propone, non le nega, non fìnge di non vederle. Non si salva la fede rinnegando i fatti che accadono, o distorcendo la loro lettura.

Va anche ricordato che - cosa già presente nella storia biblica - la storia di Dio utilizza i meccanismi dei processi storici normali, guidandoli ma non artificiosamente o miracolisticamente saltandoli. Normalmente Dio svela e realizza il suo disegno dentro lo Spessore di una storia per molti versi normale, fatta anche di incertezze, di lunghi tempi di maturazione e di sollecitudine culturale. Si possono concludere queste riflessioni affermando che la rivelazione avviene nella storia e tramite la storia.

Tuttavia questo non oscura, ma illumina il fatto che la Parola di Dio non è riducibile alla storia. Viene da Dio, non è un prodotto della storia stessa. Questa duplice convinzione - che Dio si rivela nella storia ma che la sua Parola non è dedotta dalla storia - costituisce una tensione che tutta la Scrittura gelosamente custodisce.

Proprio perché intessuta di luce e di ombre, la storia umana non è in grado di rivelare se stessa. Occorre una chiave per decifrarla, per leggerla nel suo significato profondo e per capirla nel suo movimento. Questa chiave - un'altra tesi basilare della fede biblica - è la Parola di Dio che sola riesce a illuminare il cammino dell'uomo. Questo vale non solo per la storia in generale, ma anche per la storia di Israele e per la storia della Chiesa. Per il credente cristiano la chiave necessaria per leggere la storia e per vederne il corso è la vicenda storica di Gesù. Non dunque una rivelazione nuova, data volta per volta, ma una memoria, data una volta per sempre. Ricordando la storia concreta di Gesù, il credente cristiano comprende che il disegno di Dio è sempre combattuto; che addirittura vi può essere un tempo in cui le forze del male sembrano prevalere (la croce); ma che l'ultima parola è sempre la risurrezione. Questo schema di lettura, che può sembrare troppo semplice, è in tà l'unico che mantiene viva la speranza in ogni situazione le, soprattutto, libera da una facile tentazione. Certo la storia di Gesù ci dice che nel mondo il bene e il male si scontra-sempre. All'uomo è concessa la libertà. Ma ci dice anche non sono i potenti a costruire la storia e che quindi non so-i loro piani che vanno inseguiti. Il cristiano deve vigilare Ito, per non essere omologato alla logica del momento. La memoria di Cristo deve essere sì attualizzata in ogni tempo, ma non cambiata nella sua profonda direzione. Non si comprende la storia, in ogni tempo e in ogni crisi, se si tradisce l'evento storico di Gesù, per assimilarlo ai ragionamenti degli uomini.

Storia e Parola, Parola e storia, sono due realtà inscindibili, due fedeltà: fedeltà alla Parola e fedeltà alla storia; ascolto la Parola e ascolto della storia. Occorre altrettanta sincerità una parte e dall'altra, perché la Parola mi aiuti a capire la ria e la storia mi aiuti a capire la Parola. Occorre disponila del cuore, intuizione, amore alla verità e al Signore. 

ragione e fede

Quest'ultima riflessione sulla fede si colloca in una prospettiva che vuole essere molto precisa, anche se limitata. È la prospettiva di un credente cristiano che si domanda se il suo atto di fede sia ragionevole, intellettualmente onesto, e si domanda se e come, nella sua vita di fede, ragione e fede interagiscono.

In questa prospettiva, ragione e fede sono considerate concretamente: la fede non è una qualsiasi fede, ma la fede nel Dio del Vangelo.

Il dialogo con i non credenti è importante: le ragioni del credente devono essere comprensibili anche al non credente e degne di rispetto anche per lui. E, viceversa, le convinzioni e le obiezioni del non credente devono essere comprese anche dal credente.

Ho detto che la fede non è un qualsiasi credere, in un qualsiasi Assoluto, ma un credere nel Dio del Vangelo. Ma anche la ragione non è una qualsiasi ragione, bensì la ragionevolezza credente.

La ragionevolezza della fede non è (almeno completamente) all'esterno della fede, ma all'interno. Sono ragioni che ti vengono incontro dal di dentro dell'esperienza di fede: come le ragioni che rendono ragionevole l'amore verso una persona, o le ragioni che mostrano la bellezza di un'opera d'arte. Per cogliere la ragionevolezza del credere è, anzitutto, importante precisare che cosa si crede.

Il giungere alla fede può avvenire per mille strade, le più diverse: il contesto in cui si nasce e si cresce, un incontro, una ricerca. Ma, in ogni caso, la fede è un dono. Anche se la fede giunge al termine di una lunga ricerca, si comprende ugualmente che essa è un dono. Non è mai la deduzione necessaria di una ricerca.

Il rapporto tra ragione e fede è un problema aperto, che deve essere mantenuto aperto. Ogni volta che si pensa di averlo teoreticamente e pacificamente risolto, toma a riproporsi. Questo perché ragione e fede non costituiscono una contrapposizione, ne un'alternativa, ma una tensione interiore all'intelligenza della fede: una tensione nativa, strutturale, che non si placa eliminando uno dei due poli, bensì mantenendo ferma la consapevolezza del nesso e della tensione.

La tensione è la condizione che sta al fondo di Ogni rapporto dell'uomo con il divino (e con la vita). Il suo rifiuto - alle volte forse motivato dalla fatica che la tensione inevitabilmente comporta - è alla base delle due posizioni contrapposte: sia quella che, per difendere la fede, diffida della ragione, sia quella che, per difendere la ragione, diffida della fede. In realtà non si deve diffidare ne dell'una ne dell'altra, e questa doppia fedeltà è feconda.

Il fatto che nella conoscenza dell'evento cristiano la ragione non conduca a una evidenza «costringente» non è il segno della sua debolezza, ne semplicemente il segno della trascendenza e della gratuità dell'evento cristiano, ma anche della struttura antropologica dell'uomo, oserei dire della sua grandezza, che trova il suo punto di forza nella libertà.

Nelle conoscenze che implicano la decisione di affidarsi o di amare - come appunto la conoscenza religiosa - la libertà deve rimanere intatta, non sminuita ma esaltata. Un donarsi costretto - sia pure costretto da una costringente evidenza interiore - non sarebbe più amore. La ragione e la libertà insieme offrono la condizione che rende possibile all’uomo il dono di sé. Il donarsi dell'uomo - nel nostro caso l'affidarsi a Cristo - deve essere ragionevole, intelligente, motivato e libero.

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