sabato 23 settembre 2023

Scelte di vita

 Il dissidio tra vita celeste e impegno nel mondo nella storia 


Nella storia della spiritualità cristiana, diventerà normale scegliere il servizio duro per i fratelli rispetto al godimento della vita celeste. È il sentire comune dei veri discepoli. Anzi soltanto chi si è uniformato a tal punto con Cristo Gesù al punto da desiderare la comunione perfetta e definitiva con Lui, si mostra capace di affrontare la lotta più dura, rinunciando ad ogni suo vantaggio. L’apostolo sceglie di rimanere “nella carne” a vantaggio dei fratelli, proprio perché per lui vivere è Cristo. Anzi per sommo paradosso, il discepolo perfetto di Cristo, rinuncia a Cristo stesso, se ciò sarebbe necessario per redimere il fratello (Cf Rm 9,3). Per il vero discepolo, nulla è più importante del donarsi per amore. 

Iniziamo l'indagine da Guglielmo di saint Thierry. Egli insegna che la comunione con Dio è l'unica vera sorgente di felicità per l'uomo e in questo modo valorizza il desiderio proprio di eros. Tuttavia la ricerca di felicità nella comunione con Dio non distrae affatto il cristiano dal suo impegno a favore della terra. A creare gioia è il fatto di amare; più precisamente ancora, di essere, per quanto possibile all'uomo, ciò che Dio è: amore disinteressato, fedeltà a tutta prova, accondiscendenza misericordiosa. 

La contemplazione (o visione di Dio), avvertita come una forma anticipata della condizione futura, consiste nel vivere questa somiglianza di carità nella maniera più perfetta possibile. Il contemplativo, condotto da un sentimento d'amore totale, riesce ad intuire, a leggere sul volto di Dio i pensieri e i desideri che lo riguardano. Questo non significa che egli deve sviluppare delle considerazioni astratte ma discernere la propria missione. Contemplativo è, allora, colui che comprende con chiarezza il volere di Dio su di sé e che poi vi si conforma in totale fedeltà. «La <carità> trova dolce rivolgere sempre <lo sguardo> verso quel volto e, come su un libro di vita, leggervi le leggi della vita <adatte> per sé, e comprenderle, illuminando la fede, consolidandola speranza e risvegliando la carità» . 

Ciò che è possibile scrutare di Dio è la visione della sua volontà per noi, a favore del mondo e chi è divenuto perfetto nell'amore, osserva tutta la realtà creata con lo sguardo di accondiscendenza proprio di Dio. Aderendo a Dio senza riserve sotto ogni riguardo, la contemplazione «considera tutta la creazione che si trova al di sotto di Dio non diversamente da come <la considera> Dio <stesso>, disponendo e ordinando ogni cosa nella luce e nella virtù della sapienza». 

Il fatto di gustare Dio fa sgorgare nell'amante il desiderio di partecipare all'amore che lo riempie di gioia stupita. L'anima sapiente, gustando solamente Dio, «spoglia l'uomo dell'uomo», ossia, mentre ammira l'amore di Dio, lo assimila e, di conseguenza, elimina da sé ogni traccia di meschinità che si oppone ad esso. 

Se questo è il sentire di Guglielmo, non stupisce che egli, a sua volta, condivida e faccia sua la scelta già compiuta dall'apostolo Paolo. Questi, pur aspirando alla gioia della comunione con Dio, sceglieva di rimanere nella carne e di condividere le angustie delle sue comunità. «Anche se la vita di Paolo si svolgeva tutta nei cieli, egli non si negava ogni volta che era necessario stare accanto agli uomini sulla terra», osserva Guglielmo. 

Il mistico cristiano, quando si estranea dal mondo e contempla Dio, avverte dentro di sé la necessità della carità che lo costringe a ritornare dai fratelli: «La carità nei confronti di Dio lo portava verso l'alto, mentre la carità per il prossimo lo spingeva verso il basso, come se fosse appeso per il collo». La crudezza dell'immagine contribuisce a far comprendere l'intensità con cui l'amico di Dio, mentre gode della comunione con lui, avverte anche il bisogno di donarsi agli altri. Nella dottrina di Guglielmo, quindi, il sentimento di eros non contraddice affatto l'agape. Entrambi i sentimenti vengono infusi da Dio e il primo favorisce l'insorgere del secondo. 

Esponendo ciò che avviene nel cristiano quando è pervaso da un amore perfetto, Riccardo di san Vittore parla di quattro gradi della carità violenta. Vediamo che cosa egli attesta per quanto riguarda il quarto grado, quello proprio della maturità. 

Il dinamismo della crescita nell'amore viene illustrato attraverso la metafora della sete. Agli inizi del cammino il principiante ha sete di Dio e desidera andare verso di lui. In pratica si tratta di quello che ho individuato come il fenomeno tipico di eros. Nella maturità spirituale invece, ha sete secondo Dio. Che significa ciò? Questo atteggiamento interiore implica la rinuncia totale al proprio vantaggio e la disponibilità a porsi al servizio di Dio per collaborare al suo disegno. «Ha sete secondo Dio l'anima quando di sua volontà, non solo nei desideri carnali, ma anche in quelli spirituali, non lascia nulla alla sua libertà ma affida tutto a Dio, non pensando più a “quali sono i suoi vantaggi ma a quelli di Gesù Cristo». 

Il grado massimo della comunione con Dio non si ha nel godimento di Lui, ma nel ricevere una forza creativa tale da poterlo imitare, divenire utili al prossimo ed effondere la vita ricevuta da lui. A questo livello, infatti, l'uomo ha sete secondo Dio. 

Nel paragrafo successivo, Riccardo presenta lo stesso fatto con altri argomenti. L'uomo dapprima ritorna a se stesso (primo grado) per salire, poi, fino a Dio (secondo grado) ed immergersi nella gioia (terzo grado). In seguito, però, non vuole rimanere sempre nel godimento della comunione ma preferisce uscire da sé di nuovo. Questa volta (quarto grado), «esce a causa del prossimo», spinta dalla solidarietà (ex compassione). 

Nel seguito dell'opera, Riccardo cerca di penetrare all'interno dell'evento già annunciato. Egli non solo mostra come l'agape rappresenti il momento culminante della maturazione cristiana ma spiega anche per quale motivo si passi dall'eros alla agape. 

La spiegazione viene proposta attraverso un'immagine molto efficace. L'uomo viene paragonato ad un pezzo di ferro che deve perdere la durezza ed essere reso malleabile nelle mani di Dio. Il ferro ha bisogno di percorrere diverse fasi di trasformazione e di lavorazione: riscaldarsi, arroventarsi, liquefarsi. Ora, tutte le esperienze spirituali gratificanti, quali la scoperta dello splendore di Dio, la seduzione, la comunione con lui vissuta come un fidanzamento oppure la comunione estatica simboleggiata dall'unione nuziale, sono tutte modalità con Dio cerca di riscaldare e arroventare il cuore dell'uomo che, al principio appare rigido come un pezzo di ferro. Alla fine, però, esso si liquefa per assumere la forma, ossia la missione, assegnatagli da Dio. Questo avviene quando si raggiunge il terzo passaggio o grado dell'amore: «Come i fonditori, dopo aver liquefatto i metalli e preparato gli stampi, modellano come vogliono qualsiasi figura [...], così l'anima in questo stato si adatta facilmente a qualsiasi cenno della volontà divina, anzi, per un desiderio spontaneo, si dispone ad ogni sua decisione e piega ogni sua volontà all'approvazione di Dio». 

Solo dopo aver vissuto questa liquefazione interiore, l'uomo diventa capace di assomigliare a Dio. Ogni grado mistico non è fine a se stesso ma prepara il trasferimento della stessa carità di Dio nel cuore dell'uomo. Il più alto livello di perfezione consiste sempre nel saper amare come Lui. Il santo è colui che si presenta come un altro Cristo; capace di condividere i suoi sentimenti, è disposto a vivere ciò che viene richiesto dall'amore. 

Hanno raggiunto il culmine dell'amore e già si trovano al quarto grado della carità coloro che sono in grado di offrire la loro vita per gli amici e di portare a compimento quelle parole dell'Apostolo: «Siate gli imitatori di Dio come figli amatissimi e vivete nell'amore come anche Cristo vi ha amato e ha sacrificato se stesso per voi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave profumo». 

A questo punto Riccardo fa riferimento anch'egli al dissidio vissuto da s. Paolo - stare con Cristo o rimanere nella carne per amore degli uomini? -; condivide interamente la scelta già compiuta dall'apostolo e ripensa con ammirazione a Mosé che rifiuta di essere accolto da Dio da solo mentre il popolo viene destinato alla rovina (Es. 32, 32)50. 

In conclusione, i vantaggi cercati e goduti dall'eros spirituale sono necessari per accedere alla pienezza dell'agape. Ripensiamo all'immagine della liquefazione: ciò che conduce la persona umana allo scioglimento in Dio nella gioia piena dell'unione è anche la condizione che permette all'amante divino di scorrere facilmente verso il basso (facile ad inferiora currendo), nella piena disponibilità alla solidarietà più impegnativa. 

La compresenza del godimento supremo in Dio e della piena disponibilità al servizio per i fratelli compare anche in Teresa d'Avila. Questa mistica ha descritto il cammino spirituale come un percorso all'interno di un castello; passando attraverso sei stanze (o mansioni), si giunge fino a quella più interiore, la settima, dove si vive il matrimonio spirituale. 

Che cosa avviene quando l'anima raggiunge tale condizione di sposa? In primo luogo, Teresa ritiene che Dio voglia manifestarle in anticipo qualcosa della beatitudine celeste e, di conseguenze, le consente di vivere un legame d'unione così intenso da diventare una cosa sola con lui. 

Leggendo questo resoconto, è facile avere l'impressione di trovarsi di fronte ad una chiara manifestazione di eros. Teresa vive una pienezza così gratificante ed assorbente da indurla a disinteressarsi del fratello e renderla indisponibile ad accettare la fatica quotidiana del vivere. Eppure non è così. Infatti, sebbene si serva di molteplici immagini nell'intento di far conoscere la qualità di questo evento di comunione, lo considera in primo luogo come l'atto culminante della partecipazione alla morte e risurrezione del Signore: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (1, 21). «Altrettanto, mi pare, può ora dire l'anima, perché è qui dove la farfallina muore, e con estrema gioia, essendo ormai Cristo la sua vita». 

Infatti, quando, dopo aver illustrato, si pone a mostrare gli effetti che derivano dallo stato di gioia profonda del matrimonio spirituale, emerge una solidarietà vivissima col prossimo e una disponibilità piena ad affrontare le contrarietà relative alla sua missione. 

Il primo «effetto» è un oblio di sé, tale da farle sembrare che realmente «l'anima non esista più, perché è così trasformata che non si riconosce, né pensa al cielo che l'attende, né alla vita, né all'onore, essendo tutta intesa a procurare la gloria di Dio». 

Come già abbiamo scorto in altri mistici, il primo effetto della piena comunione con Dio è la totale dimenticanza di sé e la piena disponibilità a consegnarsi a Dio per realizzare quanto Egli vuole fare. La persona non esiste più per se stessa. Infatti, precisa Teresa, pur costatando la propria impotenza, l'anima sposa non tralascerebbe mai di fare per nessuna cosa al mondo tutto ciò che può fare, se risulta essere un servizio a Dio. 

In connessione stretta a questi due atteggiamenti, annullamento di sé e disponibilità a tutto, troviamo due effetti che richiamano ancora più da vicino la figura di Gesù crocefisso: la disponibilità, anzi il desiderio di soffrire, se questo risultasse necessario, e il perdono dei nemici. È evidente, allora, che dal matrimonio spirituale scaturisce un sentimento squisito di agape. La massima gratificazione d'amore non solo accompagna ma rafforza al massimo uno spirito di disinteresse. 

Infine Teresa, senza citare l'esperienza di s. Paolo e senza neppure pensare ad essa, mostra di riviverla pienamente: il desiderio impellente di vedere Dio viene vinto dal desiderio di essere utile agli uomini rinunciando totalmente al suo vantaggio personale: «Ciò che più di tutto mi sorprende è questo. Voi avete visto i travagli e le afflizioni causati a queste anime dal desiderio di morire per andare a godere di nostro Signore. Adesso, invece, è così grande l'ansia che hanno di servirlo, di lodarlo e, se possono, di giovare a qualche anima, che non solo non si augurano di morire, ma desiderano di vivere lunghi anni, anche in mezzo a enormi travagli, nel tentativo di far sì che il Signore venga glorificato a causa del loro sacrificio, sia pure solo di poco [....]. La loro beatitudine consiste nel tentare di aiutare in qualche modo il nostro Dio crocifisso». 

L'unione mistica con Cristo non si definisce unicamente con le delizie che l'accompagnano, ma anche con la comunione alle sofferenze del Redentore. 

Tutte queste testimonianze, fra le altre che si potrebbero riportare (ad es. Martino di Tours, Bernardo, Giovanni di Rysbroek, Francesco di Sales), attestano che il godimento della comunione con il Signore, non solo non costringe alla “fuga mundi”, ma appare come il fondamento più profondo dal quale proviene l’impegno d'amore per i fratelli.

lunedì 18 settembre 2023

Il significato di risurrezione

 

In un’ottica storica non è possibile passare direttamente dalla vita e insegnamenti di Gesù alla chiesa delle origini. Gesù  non aveva proclamato se stesso né aveva chiamato a una professione di fede in lui; la sua predicazione era imperniata sull'imminenza del regno di Dio. I primi cristiani proclamarono (l'opera di Dio in) Gesù e invitarono alla fede in lui. Accadde qualcosa che provocò questo passaggio dal Gesù che proclama il regno di Dio al Gesù che viene proclamato. Nel Nuovo Testamento e nella storia cristiana questo «qualcosa» si chiama risurrezione.

Comprensibilmente potrebbero essere stati alcuni seguaci di Gesù che non seppero della notizia della risurrezione o che non vi credettero. Si può immaginare che vi sia stato chi, come i discepoli di Giovanni (o quelli di Martin Luther King Jr.), ispirato semplicemente dalla persona di Gesù, dalla sua causa e/o dalla sua vita, decidesse di continuarle. Se esistettero, seguaci di Gesù di questo tipo non entrarono a far parte della prima chiesa e i loro scritti, se ve ne furono, non ebbero accesso al Nuovo Testamento.

La risurrezione di Gesù è fondamentale per la fede cristiana e il Nuovo Testamento. Che Dio ha risuscitato Gesù dai morti è il presupposto implicito - e spesso esplicito - di tutti gli scritti del Nuovo Testamento. La risurrezione si colloca quindi in una categoria totalmente diversa da quella, per esempio, del suo concepimento miracoloso, del quale non si parla più dopo i racconti della nascita di Matteo e Luca, e del resto l'identità di Gesù o il suo significato salvifico non vengono mai collegati e fondati su questi racconti. La risurrezione non è semplicemente un altro esempio delle storie di miracoli compiuti da Gesù, e nemmeno il suo ultimo e il più grande. La risurrezione è anzitutto un'affermazione riguardo a Dio: «Colui che ha risuscitato Gesù dai morti» diventa la nuova e definitiva natura di Dio (per es. 1 Tess. 1,9-10; Gal. 1,1,2 Cor. 4,14; Rom. 4,2.4; 6,4; 8,11; 10,9; Ef. 1, 2,0; Col. 2,12; I Pt. 1,2,l).


Non è questo il luogo in cui avventurarsi in qualcosa come una disamina esaustiva della risurrezione. Ci si limiterà a elencare alcuni punti importanti, necessari per comprendere quanto il Nuovo Testamento afferma della risurrezione di Gesù, senza documentare tutte le sottigliezze e le alternative alla concezione che viene qui illustrata:

la risurrezione fu un evento. La fede cristiana non inizia con una nuova grande  idea, intuizione, ideale o insegnamento, ma con un fatto che è accaduto. La  formazione e la continuazione della comunità cristiana non fu l'ostinata determinazione da parte dei discepoli di restare fedeli agli ideali di Gesù, bensì la loro risposta nella fede all'azione di Dio di risuscitare Gesù dai morti. Fin dall'inizio la fede cristiana non fu un buon consiglio ma una buona novella;

l'evento fu inteso come atto di Dio, non come ultima impresa di Gesù. La risurrezione è l'atto di Dio per il Gesù che ha sofferto la condizione di vittima in una vera morte umana e che è entrato impotente nel regno della morte come qualsiasi altro essere umano. Alle origini cristiane la fede nella risurrezione riguardava Dio, non qualcosa di straordinario inerente a Gesù;

la risurrezione è stata un evento unico, trascendente. Fu un atto unico di Dio che incise su questo mondo, ma non localizzabile in questo mondo alla modo in cui possono esservi collocati eventi spazio-temporali. Non è quindi in se stessa un evento del tipo di quelli che possono essere studiati dagli storici. La risurrezione è un fatto di azione di Dio percepito mediante la fede. Con eventi del genere gli storici non possono avere a che fare; possono soltanto occuparsi di coloro che in simili eventi hanno creduto e degli effetti della loro fede;

fin dall'inizio l'evento fu un evento interpretato. In quanto atto di Dio potè essere percepito e recepito solo nei termini della struttura mentale di coloro che vi credettero, già formata. Anche se ai fini della trattazione si può separare l'evento dall'interpretazione, nella realtà storica i due aspetti sono strettamente intrecciati. Non è possibile che qualche seguace di Gesù prima sia arrivato a credere che l'evento era accaduto, e poi in un secondo momento l'abbia interpretato in un certo modo. L'interpretazione era intrinseca alla percezione;

quando Gesù fece la sua comparsa, la nozione di risurrezione era già presente nella fede giudaica ed era un luogo comune nella teologia dei farisei (per es Dan. 12,2; Mc. 12,18-27; Gv. 11,17-24). La fede giudaica nella risurrezione non era una teoria dell'immortalità dell'anima umana ma un modo di affermare la fedeltà di Dio quando sembra che non vi sia in questo mondo un modo coi cui Dio possa rendere giustizia al suo popolo fedele. L'affermazione che Dio ha risuscitato Gesù non era quindi semplicemente dichiarare che i discepoli aveva no ritrovato il loro idealismo o che a Gesù era accaduto qualcosa di spettacolare, ma la testimonianza dell'atto di Dio;

la risurrezione fu percepita e interpretata in vari modi (non molti), tutti inquadrabili nella cornice generale del pensiero apocalittico. Alcune correnti del l'Antico Testamento più recente e della prima fede giudaica rappresentavano la risurrezione dei morti come momento della vittoria di Dio al termine della storia, come vittoria finale di Dio sui nemici della vita e come ristabilimento nella giustizia del popolo fedele di Dio (v. sopra, 7.6). È molto importante capire che per i primi cristiani la risurrezione non era semplicemente qualcosa d spettacolare che Dio aveva compiuto per Gesù, ma rappresentava il fronte avanzato dell'evento escatologico, l'inizio della nuova era. Dio ha risuscitato Gesi dai morti come «primizia» del raccolto definitivo che sarebbe presto avvenute (1 Cor. 15,20-23). Fede nella risurrezione non è semplicemente credere che ui corpo che era morto è tornato alla vita o che la mattina di pasqua il sepolcro era vuoto;

poiché la risurrezione afferma l'azione trascendente di Dio, ogni qualvolta s dica qualcosa della risurrezione si è davanti allo stesso problema di qualsias discorso su Dio: parlare dell'ultraterreno in termini terreni, nel senso che ciò comporta l'uso di un linguaggio mitologico. Per premunirsi da malintesi è utili richiamare alcuni punti riguardo a ciò che la fede nella risurrezione non è:

la fede nella risurrezione non è la credenza nell'immortalità, la credenza che l'anima «immortale» di Gesù sia in qualche modo «sopravvissuta alla morte»;

la fede nella risurrezione non è semplicemente l'esperienza soggettiva del ricordo potente di Gesù che continua a vivere nel cuore dei suoi discepoli, oppure la convinzione che Gesù continua a chiamare le persone a impegnarsi per la sua causa. La risurrezione non è solo un'esperienza capitata ai discepoli; è accaduta a Gesù, prima e indipendentemente dall'esperienza dei discepoli, della quale fu la causa generatrice;

la fede nella risurrezione non ha nulla a che vedere con fantasmi, comunicazioni speciali, sedute spiritiche e vari fenomeni parapsicologici;

la fede nella risurrezione non ha a che fare con una rinascita o un ripristino della vita di questo mondo, sul tipo di recuperi sbalorditivi come quelli che accadono sul tavolo operatorio;

la fede nella risurrezione non è nata adattando idee miriche associate al nascere-e-morire delle antiche divinità della fertilità, anche se le immagini associate a questi miti poterono essere usate per esprimere la fede cristiana;

risuscitato da Dio fu Gesù. Il problema non fu «se ci sia una vita dopo la morte», ma la fedeltà di Dio alla vita che Gesù aveva vissuto. A essere risuscitata fu la persona di Gesù, non semplicemente i suoi insegnamenti o la sua causa. Gesù aveva incarnato la volontà di Dio, aveva rappresentato che cosa s'intende che sia una vita veramente umana al servizio di Dio. Le istituzioni di questo mondo, secolare e sacro, avevano respinto questa vita nel modo più vergognoso e crudele immaginabile. La risurrezione significava che Dio aveva reintegrato e confermato questa vita, questa persona, e che con questo iniziava a farsi realtà ad opera di Dio la ri-creazione dell'umanità e del mondo.

Si può affermare la risurrezione, come nei credo e nei canti, senza raccontarla o raffigurarla, cioè senza pretendere di concettualizzarla o di dire che cosa si intende per l'atto di Dio che risuscita Gesù. Quando tuttavia la si racconta, come nei racconti del mattino di pasqua che si leggono nei vangeli, le storie che isprimono la fede pasquale narrano la risurrezione con cronologie, luoghi e eruppi di personaggi differenti. 

E. Boring, 234-237