venerdì 12 dicembre 2025

I fondamenti della vita comune

 1. La missione del cristiano: vivere in mezzo agli altri

«Ecco quant'è buono e quant'è gioioso che i fratelli dimorino assieme» (Sal. 133,1). Il nostro intento nelle pagine che seguono è quello di riflettere su alcuni insegnamenti e regole che la sacra Scrittura ci offre per la vita in comune sotto l'autorità della Parola. Non è una cosa così ovvia come spesso si crede che il cristiano possa vivere in mezzo ad altri cristiani. Gesù stesso visse in mezzo ai suoi nemici. Alla fine lo abbandonarono anche tutti i discepoli. Sulla croce rimase completamente solo, circondato da malfattori e da gente che si beffava di lui. Per questo egli era venuto, per portare la pace ai nemici di Dio. Perciò anche il cristiano non deve chiudersi nella solitudine di una vita monastica, ma vivere in mezzo ai suoi nemici. Lì è la sua missione, lì il suo lavoro. «Il Regno deve essere in mezzo ai suoi nemici. E chi non vuole sopportare questa situazione, non vuol far parte del Regno di Cristo, ma vuole trovarsi in mezzo ad amici, sedere circondato da rose e gigli, vivere non presso uomini malvagi, ma presso gente pia. O bestemmiatori di Dio e traditori di Cristo! Se Cristo avesse agito come agite voi, chi mai avrebbe potuto essere beato?» (Lutero).

«Io li disseminerò fra i popoli ed essi si ricorderanno di me nei paesi lontani» (Zac 10,9). I cristiani sono, per volontà di Dio, un popolo disperso, disseminato «in mezzo a tutti i regni della terra» (Dt 28,25). Ecco la loro condanna e la loro promessa. Il popolo di Dio deve vivere in paesi stranieri, in mezzo a gente miscredente, ma sarà il seme del Regno di Dio in tutto il mondo.

«Io li raccoglierò, perché io li voglio riscattare» e «torneranno» (Zc 10,8 - 9). Quando avverrà? È già avvenuto in Gesù Cristo, che morì «per raccogliere in uno i figlioli di Dio dispersi» (Gv 11,52), e sarà visibile alla fine dei tempi, quando gli angeli di Dio raduneranno i suoi eletti, «dai quattro venti dall'un capo ali'altro dei cieli» (Mt 24,31). Fino a quel momento il popolo di Dio resta nella dispersione, unito solo in Gesù Cristo divenuto uno dal fatto che, seminato in mezzo ai miscredenti, pensa a lui nel paese straniero.

Perciò nel periodo che intercorre tra la morte di Cristo e il giudizio universale, è solo un'anticipazione concessa dalla grazia di Dio, se dei cristiani già da qui possono vivere insieme con altri cristiani in una comunità visibile. È per la grazia di Dio che una comunità può riunirsi visibilmente, in questo mondo, attorno alla Parola ed al sacramento. Non tutti i cristiani possono essere partecipi di questa grazia. I prigionieri, gli ammalati, i solitari nella dispersione, i predicatori dell'Evangelo nei paesi pagani sono soli.

Essi sanno che la comunione visibile, è una grazia. Pregano assieme al salmista che vorrebbe «procedere con la folla e guidarla alla casa di Dio tra i canti di giubilo e di lode d'una moltitudine in festa» (Sal 42,5). Ma restano soli, un seme sparso in paesi lontani secondo la volontà del Signore. Ma essi afferrano nella fede con tanto più ardente desiderio ciò che è loro negato come esperienza visibile. Così il discepolo del Signore esiliato, Giovanni l'apocalittico, nella sua solitùdine, dell'isola di Patmos partecipa «in spirito nel giorno di doménica» al culto divino insieme con le sue comunità (Ap 1,10). Egli vede i sette candelabri, cioè le sue comunità, le sette stelle, che sono gli angeli delle comunità, ed al centro al di sopra di tutto il Figlio dell'uomo, Gesù Cristo, nella sua grande gloria di risorto. E questi lo consola e fortifica mediante la sua Parola. In questo consiste la comunione divina a cui l'esiliato partecipa il giorno della risurrezione del suo Signore.

La presenza fisica di altri cristiani è per il credente fonte di incommensurabile gioia e fortificazione. Con profonda nostalgia l'apostolo Paolo prigioniero chiama a sé nella sua prigione «il suo caro figlio nella fede» Timoteo, negli ultimi, giorni della sua vita; lo vuole rivedere ed avere vicino. Paolo non ha dimenticato le lacrime sparse da Timoteo all'ultimo addio (2 Tim. 4,4). Pensando alla comunità di Tessalonica, l'apostolo Paolo prega «notte e giorno intensamente di poter vedere il vostro volto» (1 Tess. 3,10), ed il vecchio Giovanni sa che la gioia che prova al pensiero dèi suoi sarà perfetta solo quando potrà andare da loro e parlare loro a voce invece che per mezzo di «carta e inchiostro» (2 Gv 12). Non ha motivo di vergognarsi e sentirsi ancora troppo legato alla carne, se un credente desidera vedere il volto corporeo di altri cristiani. L'uomo è creato con un corpo, e il Figlio di Dio comparve per noi in terra corporalmente, fu risuscitato nel corpo, nel corpo il credente riceve il sacramento, e la risurrezione dei morti porterà la piena comunione delle creature di Dio spirituali e corporali insieme. Nella presenza fisica del fratello il credente glorifica il creatore, il redentore, il riconciliatore, il salvatore, Dio Padre, Figlio e Spirito santo. Il prigioniero, l'ammalato, il cristiano in diaspora riconosce nella vicinanza del fratello un segno corporale della presenza del Dio uno e trino. Visitatore e visitato riconoscono nella solitudine l'uno nell'altro il Cristo che è presente fìsicamente; essi si accolgono reciprocamente e s'incontrano come s'incontra il Signore, con rispetto, umiltà e gioia. Essi ricevono l'uno dall'altro la benedizione come benedizione del Signóre Gesù Cristo. Ma se già in un solo incontro del fratello con il fratello c'è tanta gioia, quale infinita ricchezza si deve offrire a coloro che, secondo la volontà del Signore, sono ritenuti degni di vivere giorno dopo giorno in comunione di vita con altri cristiani! Certo è facile che quanto chi è solo ritiene una indicibile grazia di Dio, da chi gode continuamente di questo dono sia tenuto in poco conto e venga calpestato. Si dimentica facilmente che la comunione con fratelli cristiani è un dono della grazia del Regno di Dio, che può esserci tolto ogni momento, che passerà forse solo un breve tempo prima che siamo gettati nella più profonda solitudine. Perciò, chi fino da ora può godere di una vita cristiana insieme con altri cristiani glorifichi la grazia di Dio dal più profondo del suo cuore e ringrazi Dio e riconosca che è grazia, null'altro che grazia se oggi ancora possiamo vivere in comunione 

2. Comunità è comunione di vita mediante Cristo e in Cristo

La misura in cui Dio concede il dono di una comunità visibile è vario. Il cristiano in diaspora è consolato da una breve visita di un fratello cristiano, da una preghiera in comune e dalla benedizione fraterna; è persino fortificato da una lettera scrittagli da mano cristiana. Il saluto aggiunto dall'apostolo Paolo di propria mano alle sue lettere era certo anche un segno di questa comunione. Ad altri è donata la comunione nel culto domenicale. Altri ancora possono vivere una vita cristiana nella comunità familiare; giovani teologi, prima della loro consacrazione, godono del dono di una vita in comune con i fratelli per un certo tempo. Tra cristiani impegnati di una comunità oggi nasce il desiderio di incontrarsi, negli intervalli concessi dal loro lavoro, con altri cristiani, per breve tempo, per vivere insieme e studiare insieme la Parola. La vita in comune, oggi, è di nuovo sentita dai cristiani come quella grazia che veramente è, come la situazione di eccezione, come rose e gigli della vita cristiana (Lutero).

Comunione cristiana è comunione per mezzo di Gesù Cristo e in Gesù Cristo. Non esiste comunione cristiana che sia più di questo e nessuna che sia meno. Solo questo, sia nel breve incontro di una sola volta sia in una comunione quotidiana prolungata negli anni. Siamo uniti solo per mezzo di Gesù Cristo e in Lui.

Che cosa significa?

In primo luogo vuol dire che un cristiano ha bisogno dell'altro per Gesù Cristo.

In secondo luogo che un cristiano incontra l'altro solo per mezzo di Gesù Cristo.

In terzo luogo che in Gesù Cristo siamo stati eletti fin dall'eternità, accolti nel tempo e uniti per l'eternità.

Primo: cristiano è l'uomo che non cerca più la sua salvezza, la sua salute, la sua giustizia in se stesso, ma solo in Gesù Cristo. Il cristiano sa che la Parola di Dio in Gesù Cristo lo giudica colpevole, anche se lui stesso non si sente colpevole, e la Parola di Dio in Gesù Cristo lo dichiara innocente e giusto, anche quando non si sente affatto giusto. Il cristiano non vive più di se stesso, dell'accusa di sé o della propria giustificazione, ma dell'accusa e della giustificazione di Dio. Vive completamente della Parola che Dio pronuncia su di lui, nella fiduciosa accettazione del suo giudizio, sia che esso la giudichi colpevole sia che lo giustifichi. La morte e la vita del cristiano non sono più chiusi in lui stesso; egli trova ambedue solo nella Parola che dall'esterno gli viene incontro nella Parola di Dio rivolta a lui. I riformatori hanno espresso questo pensiero: «la nostra giustizia è una giustizia estranea, una giustizia che ci viene da fuori (extra nos». Con ciò hanno detto che il cristiano dipendedalla Parola di Dio che gli viene rivolta: egli è teso verso l'esterno, verso la Parola che gli viene incontro. Il cristiano vive completamente della verità della Parola di Dio in Gesù Cristo: Se gli si chiede: «dov'è la tua salvezza, la tua beatitudine, la tua giustizia?», egli non può mai indicare se stesso, ma la Parola di Dio in Gesù Cristo che gli attribuisce salvezza, beatitudine, giustizia. Egli cerca questa Parola dove può. Poiché ogni giorno è affamato e assetato di giustizia, egli desidera sempre di nuovo questa Parola redentrice. Ed essa può venirgli solo dall'esterno. Lui in se stesso è povero e morto. Dall'esterno deve venirgli l'aiuto, ed esso è venuto e viene ogni giorno di nuovo nella Parola di Gesù Cristo che ci porta la salvezza, la giustizia, l'innocenza, la beatitudine. Ma Dio ha posto questa Parola in bocca a uomini, perché venga trasmessa da un cristiano all'altro. Quando uno è stato da essa raggiunto egli la dice al prossimo. Dio ha voluto che cercassimo e trovassimo la sua Parola viva nella testimonianza del fratello, sulla bocca dell'uomo. Perciò il cristiano ha bisogno del cristiano che gli dica la Parola di Dio, ne ha sempre di nuovo bisogno quando è incerto e scoraggiato; perché non può aiutarsi da solo senza defraudarsi della verità. Ha bisogno del fratello quale portatore e nunzio della Parola salvifica di Dio. Ha bisogno del fratello solo per Gesù Cristo. Il Cristo nel proprio cuore è più debole del Cristo nella parola del fratello; quello è incerto, questo è certo. Da ciò risulta anche chiaro lo scopo di ogni comunità cristiana: i cristiani si incontrano come nunzi del messaggio della salvezza. Come tali Dio li fa riunire e dona loro la comunione; solo per mezzo di Gesù Cristo e della «giustizia estranea» è giustificata la loro comunione. Possiamo solo dire: dal messaggio annunziato dalla Bibbia e dai riformatori che l'uomo è giustificato solo per grazia, nasce la comunione dei cristiani; solo in esso è fondato il bisogno reciproco dei cristiani.

Secondo: un cristiano incontra il prossimo solo per opera di Gesù Cristo. Tra gli uomini regna la discordia: «Egli è la nostra pace» (Ef 2,14), dice l'apostolo Paolo di Gesù Cristo, l'umanità vecchia e discorde è divenuta sua. Senza Cristo tra Dio e gli uomini e tra uomo e uomo regna la discordia. Cristo si è fatto mediatore e ha ristabilita la pace con Dio e tra gli uomini. Senza Cristo non conosceremmo Dio, non potremmo invocarlo, non potremmo venire a Lui. Ma senza Cristo non conosceremmo nemmeno il fratello e non potremmo incontrarlo. La via è bloccata dal nostro stesso io. Cristo ha aperta la via a Dio e al fratello. Ora i cristiani possono vivere insieme in pace, possono amarsi e servirsi gli uni gli altri, possono divenire uno. Ma anche ora lo possono solo tramite Gesù Cristo. Solo in Gesù Cristo siamo uno, solo tramite Lui siamo legati gli uni agli altri. Egli resta sempre l'unico mediatore.

Terzo: quando il Figlio di Dio prese su di sé la nostra carne, egli ha preso su di sé per grazia il nostro essere, la nostra natura, noi stessi, veramente e fisicamente. Questa fu l'eterna decisione del Dio uno e trino. Ora siamo in Lui. Dove Egli si trova, porta la nostra carne, porta noi. Dov'è Lui siamo anche noi, nella sua incarnazione, nella croce, nella sua resurrezione; apparteniamo a Lui, perché siamo in Lui. Perciò la Sacra Scrittura ci chiama corpo di Cristo. Ma se siamo stati eletti in Gesù, prima, che potessimo saperlo e volerlo, e siamo stati accettati con tutta la comunità, apparteniamo tutti insieme a Lui per l'eternità.

Noi che viviamo qui in comunione con Lui, saremo poi uniti con Lui in comunione eterna. Chi guarda il fratello, sappia che sarà unito a lui eternamente in Gesù Cristo. Comunione cristiana significa comunione per mezzo di Gesù Cristo e in Gesù Cristo. Su questa premessa si basano tutte le indicazioni e regole che la Sacra Scrittura dà per la vita comunitaria dei cristiani.

«Ora, quanto all'amore fraterno non avete bisogno che vi scriva, giacché voi stessi siete stati ammaestrati da Dio ad amarvi gli uni gli altri... Ma vi esortiamo, fratelli, che maggiormente abbondiate in questo» ( 1 Ts 4,9 ss.). Dio stesso si è assunto il compito di insegnarci l'amore fraterno; tutto ciò che gli uomini possono ancora aggiungere sta nel ricordo di quell'insegnamento divino e nell'ammonimento di abbondare ancora più pienamente in esso. Quando Dio ebbe misericordia di noi, quando ci manifestò Gesù Cristo come fratello, quando si conquistò il nostro cuore con il suo amore, in quello stesso momento incominciò anche l'insegnamento dell'amore fraterno. Quando Dio ebbe misericordia di noi, noi imparammo ad avere misericordia del fratello; quando invece del giudizio ci fu concesso il perdono, fummo preparati a perdonare al fratello. Ciò che Dio faceva per noi, noi lo dovevamo pure al fratello. Quanto più avevamo ricevuto, tanto più potevamo dare, e quanto più misero era il nostro amore per il fratello, certo tanto meno vivevamo della misericordia e dell'amore di Dio. Così Dio stesso ci insegnò a incontrarci tra fratelli quando Dio ci è venuto incontro in Cristo. «Accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio» (Rm 1, 5.7).

È da questo che l'uomo posto da Dio insieme con altri fratelli in una vita comunitaria impara che cosa significhi aver dei fratelli. «Fratelli nel Signore», così Paolo chiama la sua comunità (Fil. 1,14). È solo in Gesù Cristo che siamo fratelli l'uno dell'altro. Io sono fratello per l'altro a motivo di ciò che Gesù Cristo ha fatto per me e in me, e l'altro mi è divenuto fratello a motivo di ciò che Gesù Cristo ha fatto per lui e in lui. È un fatto di straordinaria importanza che noi siamo fratelli solo per opera di Gesù Cristo. Non avrò dunque a che fare, nella comunità, con il fratello che mi viene incontro in cerca di fraternità; fratello è il mio prossimo salvato da Cristo, assolto dai suoi peccati, chiamato alla fede e alla vita eterna. La nostra comunione non può essere fondata su ciò che un cristiano è in se stesso, in tutta la sua interiorità e pietà; ciò che è determinante per la nostra comunione è ciò che uno è in Cristo. La nostra comunione si basa solo su ciò che Cristo ha fatto per ambedue; e questo non succede solo all'inizio, così che col passar del tempo si aggiungerebbe ancora qualcosa in più a questa comunione; no, resta così per tutto il futuro e per tutta l'eternità. Io ho ed avrò comunione con l'altro solo per mezzo di Gesù Cristo, Quanto più vera e profonda diventa la nostra comunione, tanto più tutto quello che può esserci tra di noi svanirà e tanto più chiaro e puro regnerà in noi solo Gesù Cristo e la sua opera. Apparteniamo gli uni agli altri solo per mezzo di Gesù Cristo, ma per Gesù Cristo ci possediamo completamente, ci possediamo per la eternità.

3. Comunità non è un ideale umano ma una realtà divina

Questo fatto mette, in partenza, al bando ogni torbido desiderio di avere di più. Chi vuole di più di quanto Cristo ha fatto nascere tra di noi, non cerca la fratellanza cristiana; costui cerca qualche eccezionale esperienza comunitaria, che gli è negata altrove; egli intromette nella comunione fraterna desideri torbidi ed impuri. Proprio in questo punto la comunità cristiana è per lo più gravemente minacciata, fin dall'inizio, di essere avvelenata nel suo intimo, cioè rischiamo di scambiare la comunione cristiana con un ideale, mescolando il naturale desiderio di comunione, provato da un cuore pio, con la realtà spirituale della fratellanza cristiana. Per una comunione cristiana è fondamentale che sia ben chiaro fin dall'inizio:

Primo: fratellanza cristiana non è un ideale, ma una realtà divina. Secondo: la fratellanza cristiana è una realtà pneumatica e non psichica.

Infinite volte tutta una comunità cristiana si è spezzata, perché viveva di un ideale. Proprio il cristiano serio, che per la prima volta si vede posto a vivere in una comunità cristiana, porta con sé un'immagine ben precisa della vita in comune di cristiani e cercherà di attuarla. Ma la forza del Signore ben presto farà crollare tutti questi ideali. Dobbiamo essere profondamente delusi degli altri, dei cristiani in generale e, se va bene, anche di noi stessi, quant'è vero che Dio vuole condurci a riconoscere la realtà di una vera comunione cristiana. È la bontà di Dio che non ci permette di vivere, anche solo per brevi settimane, secondo un ideale, di credere a quelle beate esperienze, a quello stato di entusiasmante estasi, che ci mette come in uno stato d'ebbrezza. Il Signore non è Signore di emozioni, ma della verità. Solo la comunità che è profondamente delusa per tutte le manifestazioni spiacevoli connesse con la vita comunitaria, incomincia ad essere ciò che deve essere di fronte a Dio, ad afferrare nella fede le promesse che le sono state fatte. Quanto prima arriva, per il singolo e per tutta la comunità, l'ora di questa delusione, tanto meglio per tutti. Una comunità che non fosse in grado di sopportare una tale delusione e non le sopravvivesse, che cioè restasse attaccata al suo ideale, quando questo deve essere frantumato, in quello stesso istante perderebbe tutte le promesse di comunione cristiana stabile e, prima o dopo, si scioglierebbe. Ogni ideale umano che venisse portato in una comunità cristiana, impedisce la vera comunione e deve essere spezzato, perché la comunità cristiana possa veramente vivere. Chi ama il suo ideale di comunità cristiana più della comunità cristiana stessa, distruggerà ogni comunione cristiana, per quanto sincere, serie, devote siano le sue intenzioni personali. 

Dio odia le fantasticherie, perché rendono superbi e pretenziosi. Chi nella sua fantasia si crea una immagine di comunità, pretende da Dio, dal prossimo e da se stesso la sua realizzazione. Egli entra a far parte della comunità di cristiani con pretese proprie, erige una propria legge e giudica secondo questa i fratelli e Dio stesso. Egli assume, nella cerchia dei fratelli, un atteggiamento duro, diviene quasi un rimprovero vivente per tutti gli altri. Agisce come se fosse lui a creare la comunità cristiana, come se il suo ideale dovesse creare l'unione tra gli uomini. Considera fallimento tutto ciò che non corrisponde più alla sua volontà. Lì dove il suo ideale fallisce, gli pare che debba venir meno la comunità. E così egli rivolge le sue accuse prima contro i suoi fratelli, poi contro Dio, ed infine accusa disperatamente se stesso. Dio ha già posto una volta per sempre l'unico fondamento della nostra comunione. Dio ci ha uniti in un sol corpo in Gesù Cristo, molto prima che noi entrassimo a far parte di una comunità con altri cristiani; perciò ci uniamo con altri cristiani in vita comunitaria non avanzando pretesa alcuna, ma con gratitudine e pronti a ricevere. Ringraziamo Dio per ciò che ha fatto per noi; lo ringraziamo perché ci ha dato fratelli che vivono nell'ascolto della sua chiamata, del suo perdono e della sua promessa. Non ci lamentiamo con Dio per ciò che egli non ci concede, ma lo ringraziamo per ciò che ci dà ogni giorno. Non è forse sufficiente ciò che ci viene donato? Fratelli che nel peccato e nel dolore vivano e camminino insieme con noi sotto la benedizione della sua grazia. Forse che il dono di Dio, in un giorno qualunque, anche nei giorni più difficili e dolorosi di una comunità cristiana, è meno di questo dono così grande ed incomprensibile? Forse che li dove colpa e malintesi dominano la vita in comune, anche il fratello peccatore non resta pur sempre il fratello insieme col quale mi trovo sotto la Parola di Cristo? Ed il suo peccato non offre pur sempre nuova occasione di gratitudine per il fatto che ambedue possiamo vivere in quell'unico amore che ci perdona in Gesù Cristo? Forse che proprio l'ora della profonda delusione per l'atteggiamento del fratello non mi riuscirà estremamente salutare, perché insegna così radicalmente che ambedue non possiamo vivere mai delle nostre parole e azioni, ma solo di quell'unica Parola e di quell'unico fatto che ci unisce nella verità, cioè nel perdono dei peccati in Gesù Cristo? Lì dove le nebbie mattutine delle nostre illusioni si levano, ecco che incomincia la luminosa giornata della comunione cristiana. Nella comunità cristiana il ringraziamento ha lo stesso ruolo che nella vita del singolo cristiano. Solo chi ringrazia per le cose piccole riceve pure quelle grandi. Noi impediamo Dio di concederci i grandi doni spirituali, che Egli tiene in serbo per noi, perché non ringraziamo per i doni quotidiani. Crediamo di non doverci accontentare delle esperienze spirituali, della conoscenza, dell'amore, che ci sembrano dati in piccola misura, ma di dover ricercare bramosi i doni maggiori. Ci lamentiamo di mancare della grande certezza, della forte fede, delle ricche esperienze che Dio ha concesso ad altri cristiani, e ci riteniamo molto pii per queste nostre lamentele. Chiediamo nelle nostre preghiere cose grandi e dimentichiamo di ringraziare per i piccoli (e pure in realtà per nulla piccoli!) doni giornalieri. M come potrebbe il Signore affidare cose grandi a chi non è capace di accettare da Lui con gratitudine le cose piccole?

Se non ringraziamo ogni giorno per la comunione cristiana nella quale siamo posti, anche quando ne facciamo grandi esperienze ne riceviamo ricchezze sei sibili, ma anzi sentiamo la nostra debolezza, la poca fede, le difficoltà, se continuiamo a lamentarci con Dio che tutto resta ancora così misero e così piccolo, che nulla corrisponde alle nostre aspettative impediamo a Dio di accrescere la nostra comunione nella nella misura e con le ricchezze che sono pronte per noi Gesù Cristo. E questo si riferisce in particolare a che alle lamentele che si sentono così spesso da parte di pastori e di membri di Chiesa zelanti a proposito della loro comunità. Un pastore non si lamenti della sua comunità con Dio, ma tanto meno con gli uomini; la comunità non gli è stata affidata perché egli si faccia suo accusatore davanti a Dio e agli uomini. 

Chi è deluso di una comunità cristiana nella quale è stato posto, esamini prima se stesso, se non è magari solo un ideale che Dio spezza; e se si rende conto che le cose stanno così, ringrazi Dio che ha condotto in questo travaglio; se invece ritiene che le cose non sono così, eviti, però, di farsi accusatore della comunità del Signore, ma accusi piuttosto stesso per la sua mancanza di fede, chieda a Dio che gli insegni a riconoscere il suo fallimento ed il suo particolare peccato, preghi di non rendersi colpevole di fronte ai suoi fratelli; riconoscendo la propria colpa, interceda per i suoi fratelli, si dedichi al suo compito e ringrazi il Signore.

Per una comunità cristiana accade lo stesso che per la nostra santificazione: è un dono di Dio che non possiamo reclamare. Solo Dio sa a che punto è la nostra comunione, a che punto la nostra santificazione. Ciò che a noi pare debole e povero per Dio può essere grande e magnifico. Il cristiano non deve continuamente stare a sentire il polso della sua vita spirituale, e così pure la comunità cristiana non ci è data perché misuriamo insistentemente la sua temperatura. Quanto più profonda è la gratitudine con la quale accettiamo ogni giorno ciò che ci viene donato, tanto più certa e costante sarà la crescita quotidiana della comunione secondo la volontà di Dio.

Comunione cristiana non è un ideale che dobbiamo sforzarci di realizzare, ma una realtà data da Dio in Cristo, alla quale possiamo partecipare. Quanto più chiaramente impaliamo a vedere il fondamento e la forza e la promessa di ogni nostra comunione in Gesù Cristo solamente, tanto più serenamente impareremo pure a riflettere sulla nostra comunità e a pregare e sperare per essa.

Dato che la comunità cristiana è basata solo su Gesù Cristo, essa è una realtà pneumatica e non psichica. Ed in questo veramente essa differisce da Ogni altra comunità. La Sacra Scrittura indica col termine pneumatico ( = spirituale) ciò che solo lo Spirito Santo crea, il quale pone nei nostri cuori Gesù Cristo come nostro Signore e Salvatore; chiama, invece, psichico ( = dell'animo) ciò che nasce dagli istinti, dalle forze naturali, dalla disposizione dell'animo umano.

Il fondamento di ogni realtà spirituale è la chiara Parola di Dio manifestata in Gesù Cristo. Il fondamento di ogni realtà psichica è il desiderio tenebroso e torbido dell'animo umano. Il fondamento della comunione spirituale è la verità, il fondamento della comunione psichica è la brama. L'essenza della comunione spirituale è la luce. — «Dio è luce e in lui non vi sono tenebre alcune» (1 Giov. 1,5) — «Se camminiamo nella luce, com'Egli è nella luce, abbiamo comunione l'uno con l'altro». La natura della comunione psichica è tenebre — «poiché è dal di dentro, dal cuore degli uomini, che escono cattivi pensieri» (Mc 7,21).

4. Comunione spirituale e comunità psichica

È la notte fonda che copre ogni opera umana nelle sue origini, anche tutti gli istinti nobili e pii. Comunione spirituale è la comunione di coloro che sono chiamati da Cristo; psichica è la comunione delle anime religiose. Nella comunione spirituale vive il chiaro amore del servizio fraterno, l'agape; nella comunione psichica arde il fosco amore degli empi istinti pii, dell'eros. Là regna il servizio fraterno ordinato, qui la disordinata brama di godimento; là l'umile sottomissione sotto il fratello, qui il Superbo-Umile assoggettamento del fratello ai propri desideri. Nella comunione spirituale regna solo la Parola di Dio; nella comunione psichica accanto alla Parola domina ancora l’uomo dotato di particolari forze, di esperienza, di disposizioni suggestivo-magiche. Là il legame è dato solo dalla parola di Dio, qui il legame è anche un tentativo di vincolare l'altro a sé. Là ogni potenza, gloria e signoria è data allo Spirito Santo; qui si cercano e si coltivano sfere di potere e di influsso personali, finché si tratta di persone pie, certo con l'intenzione di servire alle cose migliori e più nobili, ma in realtà, nonostante tutto, per detronizzare lo Spirito Santo e tenerlo ad una distanza irreale. Infatti qui rimane reale solo quanto v'è di psichico. Perciò lì regna lo Spirito, qui la psicotecnica, il metodo; lì l'amore del prossimo sincero, prepsicologico, premetodico, pronto ad aiutare; qua l'analisi e le costruzioni psicologiche; lì il servizio umile e semplice reso al fratello, qua il trattamento calcolatore ed indagatore dell'estraneo. 

Forse la seguente osservazione può rendere più evidente il contrasto tra la realtà spirituale e quella psichica: entro una comunità spirituale non può mai esserci in nessun modo una relazione «immediata» tra l'uno e l'altro; nella comunità psichica invece regna un desiderio di comunione profondo, originale, psichico, di contatto immediato con le altre anime, così come nella carne vive il desiderio di immediata unione con altra carne. Questa brama dell'animo umano cerca la completa fusione dell'io con il tu, sia che essa si effettui nell'unione dell'amore sia che si effettui nel forzato assoggettamento dell'altro alla propria sfera di influenza e di potere, il che in fondo è lo stesso. Qui chi è psichicamente più forte si sfoga e si attira l'ammirazione, l'amore o il timore del più debole. Tutto si basa su vincoli umani, su suggestione, su asservimento, e tutto ciò che è caratteristico e proprio solo della comunione data da Cristo, in questa immediata comunione delle anime, compare come caricatura.

Esiste una conversione psichica, che si manifesta con tutti i segni di una vera conversione lì dove, in seguito all'abuso conscio o inconscio della superiorità di un; uomo, un singolo o tutta una comunità sono profondamente emozionati e attirati nella sua sfera d'influenza. Qui l’animo ha esercitato il suo influsso direttamente su un'altra anima. Il più debole è stato sopraffatto dal più forte; la resistenza del più debole è stata spezzata dalla personalità dell'altro. È stato violentato, ma non vinto dalla causa. E questo si manifesta nel momento in cui si richiede un impegno per la causa indipendentemente dalla persona alla quale sono .legato o forse anche in contrasto con questa. A questo punto chi è psichicamente convertito crolla e manifesta in tal modo che la sua conversione non è opera dello Spirito Santo, ma di un uomo e che perciò non è duratura.

Ed altrettanto esiste un amore psichico' per il prossimo. Esso è capace di compiere i sacrifici più inauditi; nella sua ardente dedizione e nei suoi successi visibili supera spesso il vero amore cristiano, parla il linguaggio cristiano con una eloquenza sbalorditiva ed elettrizzante. Ma è questo l'amore di cui l'apostolo dice: «E quando distribuissi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri, e quando dessi il mio corpo ad essere arso» — cioè se compissi le maggiori azioni d'amore con la massima dedizione — «se non ho carità (cioè l'amore di Cristo), ciò niente mi giova» (1 Cor. 13,3). L'amore psichico ama il prossimo per se stesso, l'amore spirituale ama il prossimo per Cristo. Perciò l'amore psichico cerca il contatto immediato con l'altro, non lo ama nella sua libertà, ma come uno che è legato ad esso; vuole vincere, conquistare ad ogni costo, insiste presso l'altro, vuoi essere irresistibile, vuole dominare. L'amore psichico non tiene in gran conto la verità, la relativizza, perché nulla, nemmeno la verità, deve intromettersi tra lui e l'essere amato. L'amore psichico desidera l'altro, la comunione con lui, il suo amore, ma non lo serve. Anzi, anche lì dove sembra servire, desidera ancora qualcosa per sé. Due cose, che in fondo sono la stessa, mettono in luce la differenza tra amore spirituale e amore psichico: l'amore psichico non riesce a sopportare lo scioglimento di una comunità non più vera per amore di una comunione vera; l'amore psichico non può amare il nemico, quello, cioè, che gli si oppone ostinatamente e seriamente. Questi sentimenti nascono ambedue dalla stessa origine: l'amore psichico per natura è amore che desidera qualcosa per sé, è, cioè, brama di comunione psichica. Finché è in grado di accontentare in qualche modo questo desiderio, non vi rinunzia mai, nemmeno per amore della verità, nemmeno per il vero amore del prossimo. Dove, però, non ha più speranza di soddisfare questa sua brama, lì è arrivato alla sua fine, cioè al nemico; si muta in odio, disprezzo e calunnia.

5. L'amore spirituale come fondamento della comunità

Ma proprio qui è il punto dove ha inizio l'amore spirituale. Perciò l'amore psichico diviene odio personale lì dove incontra il sincero amore spirituale che non desidera nulla per sé, ma serve il prossimo. L'amore psichico si rende da sé fine a se stesso, opera, idolo, che adora ed al quale deve asservire ogni cosa. Cura, coltiva, ama se stesso e null'altro a questo mondo. L'amore spirituale, invece, viene da Gesù Cristo, serve solo Lui, sa che non ha accesso immediato al prossimo. Cristo sta tra me e l'altro. Che cosa significhi amore per il prossimo non lo so in partenza, solo dal concetto generico di amore sorto dal mio desiderio psichico — anzi, tutto ciò, forse, davanti a Cristo può essere proprio odio e massimo egoismo —; che cosa è amore mi vien detto solamente da Cristo nella sua Parola. Contro ogni mia propria opinione e convinzione Gesù Cristo mi dirà come si manifesta realmente l'amore per il fratello. Perciò l’more, per il cristiano, è legato solo alla Parola di Gesù Cristo. Lì dove Cristo, a causa dell'amore, vuole che io viva in comunione con altri, lo farò; lì dove la sua verità, a causa dell'amore, mi ordina di interrompere una comunione, la interrompo a dispetto di ogni protesta del mio amore psichico. Poiché l'amore spirituale non desidera nulla per sé, ma pensa solo a servire, ama tanto il nemico quanto il fratello. Esso infatti non è nato ne dal fratello ne dal nemico, ma da Cristo e dalla sua Parola. L'amore psichico non comprenderà mai quello spirituale; poiché l'amore spirituale viene dall'alto ed ha qualcosa di completamente estraneo, nudo, incomprensibile per l'amore terreno.

Dato che Cristo sta tra me e l'altro, non devo desiderare una comunione immediata con questo. Come solo Cristo poteva parlare con me in modo da soccorrermi realmente, così anche l'altro può essere aiutato solo da Cristo stesso. Ma ciò significa che lo devo lasciare libero l'altro e non tentare di determinare le sue decisioni, costringerlo o dominarlo con il mio amore. Essendo libero da me, l'altro vuole essere amato così come è veramente, cioè come un uomo per il quale Cristo ha conquistato la remissione dei peccati ed al quale ha preparato la vita eterna. Poiché Cristo ha già da tempo compiuto la sua opera nel mio fratello, ben prima che io potessi incominciare la mia opera in lui, perciò devo lasciar libero il fratello per Cristo; egli deve incontrarmi solo da quell'uomo che egli è già per Cristo. Ecco che cosa significa che possiamo incontrare il prossimo solo tramite Gesù Cristo. L'amore psichico si crea, una propria immagine dell'altro, di ciò che quello è e di ciò che deve diventare. Prende la vita del prossimo nelle proprie mani. L'amore spirituale riconosce la vera immagine del prossimo tramite Gesù Cristo; è l'immagine che Gesù Cristo ha forgiato e che vuole forgiare.

Perciò l'amore spirituale resterà costante affidando, in tutto ciò che dice e che fa, il prossimo a Cristo. Non tenterà di suscitare nel suo animo emozioni cercando di influenzarlo troppo personalmente ed immediatamente, o intervenendo nella sua vita in maniera impura; non proverà piacere nell'eccitazione dei sentimenti e nell'eccessivo ardore religioso; ma lo incontrerà con la chiara Parola di Dio e sarà pronto a lasciarlo solo con questa Parola per un lungo periodo, a lasciarlo di nuovo libero, perché Cristo possa operare in lui. Rispetterà i limiti che sono posti tra me e l'altro da Cristo e troverà la piena comunione con lui nel Cristo che ci congiunge e unisce tutti.

Perciò parlerà più con Cristo del fratello che non di Cristo al fratello. Sa che la via più breve che porta all’altro passa attraverso la preghiera rivolta a Cristo e che l'amore per lui è completamente legato, alla verità in Cristo. Riguardo a questo amore l'apostolo Giovanni dice: «Io non ho maggiore allegrezza di questa, di udire che i miei figlioli camminano nella verità» (3 Gv 4).

L'amore psichico vive di un'oscura bramosia incontrollata e incontrollabile; l'amore spirituale, vive nella chiarezza e nel servizio ordinato dalla verità. L'amore psichico lega, produce asservimento e irrigidimento; l'amore spirituale porta frutti che crescono all'aperto, sotto la pioggia e la tempesta, al sole, in pieno vigore, come piace a Dio.

Per ogni convivenza cristiana è questione di vita o di morte promuovere in tempo la capacità di discernere tra ideale umano e realtà divina, tra comunione spirituale e comunione psichica. È questione di vita o di morte di una comunità cristiana saperne, quanto prima, giudicare spassionatamente. Cioè: una vita. vissuta in comune sotto la Parola può restare sana lì dove non si presenta come movimento, ordine monastico, associazione, collegium pietatis, ma come parte della Chiesa universale, una e santa; dove partecipa, lavorando e soffrendo, al travaglio, al combattimento, alla promessa di tutta la Chiesa. Ogni principio di selezione e ogni conseguente separazione, che non è obiettivamente condizionata da un lavoro comune, da cause locali, da nessi familiari, è un vero pericolo per una comunità cristiana.

Nella via della selezione intellettuale o spirituale si introduce spesso di nuovo di soppiatto il fattore psichico e defrauda la comunione della sua forza spirituale e della sua efficacia per la comunità, la spinge ad assumere un atteggiamento settario. L'esclusione dalla comunità di chi è debole o modesto o apparentemente mutile può addirittura comportare l'esclu-sione di Cristo, che bussa alla nostra porta nel fratello povero. Perciò dobbiamo essere particolarmente cauti su questo punto.

Un osservatore superficiale potrebbe pensare che il pericolo di confondere l'ideale con la realtà, il fattore spirituale con quello psichico sia maggiore lì dove una comunità è variamente strutturata, cioè: lì dove, come nel matrimonio, nella famiglia, nell'amicizia il fattore psichico ha un'importanza preminente nella formazione della comunità in genere, e dove il fattore spirituale si aggiunge solo a quello fisico-psichico. Veramente solo in tali comunità si correrebbe il pericolo di mescolanza e di confusione delle due sfere, mentre essa potrebbe difficilmente aver luogo in una comunità di carattere prettamente spirituale. Ma chi pensa così, incorre in un grave errore. Tutte le esperienze e, come si vede facilmente, anche la cosa in sé ci dimostrano proprio il contrario. Un vincolo matrimoniale, una famiglia, un'amicizia conoscono molto chiaramente i limiti delle loro forze intese a creare la comunione; sanno molto bene, se sono sani, dove finisce il fattore psichico e dove incomincia quello spirituale. Conoscono il contrasto tra comunione fisico-psichica e comunione spirituale. D'altro canto dove si mette insieme una comunità di carattere puramente spirituale è molto vicino il pericolo che vengano portati nella comunità tutti i fattori psichici e vi vengano confusi.

Unirsi in una comunità di carattere prettamente spirituale non è solo pericoloso, ma anzi un fatto del tutto anormale. Dove, in una comunità spirituale, non entra a far parte una comunione fisico-familiare, o la comunione in un serio lavoro, dove non entra la vita quotidiana con tutto ciò che essa pretende dall'uomo che lavora, lì è necessaria una particolare vigilanza e sobrietà. Perciò l'esperienza ci dice che proprio in brevi incontri durante le vacanze il momento psicologico si fa largo assai facilmente. Nulla è più facile che risvegliare l'ebbrezza della comunione in pochi giorni di vita comunitaria, e nulla è più fatale per una vita comunitaria sana, sobria e fraterna nel lavoro quotidiano.

Non ci sono molti cristiani a cui Dio non conceda, almeno una volta nella loro vita, la esperienza inebriante di una vera comunione cristiana. Ma una simile esperienza in questo mondo non rimane altro che un sovrappiù, una grazia concessa oltre al pane quotidiano di una vita comunitaria cristiana. Non possiamo reclamare simili esperienze, ed esse non sono lo scopo di una vita in comune con altri cristiani. Non è l'esperienza di comunione cristiana ciò che ci con-giunge, ma la fede ferma e certa nella comunione cristiana. Afferriamo per fede come il più grande dono di Dio il fatto che è Dio che opera ed ha già operato in noi; questo ci rende beati e contenti, ma ci prepara anche a rinunziare a tutte le esperienze se Dio, a volte, non vuole concederle. Siamo congiunti per fede, non per esperienza. 

«Ecco quant'è buono e quant'è gioioso per i fratelli dimorare insieme» (Salmo 133,1): questo è l'inno della Sacra Scrittura alla vita in comune sotto la Parola. Volendo spiegare la parola 'insieme' (cioè concordi), possiamo dire «che fratelli dimorino assieme» in Cristo, perché Gesù Cristo solo è la nostra concordia. «Egli è la nostra pace» (Ef. 2,14). Solo tramite lui possiamo incontrarci, godere gli uni degli altri, avere comunione gli uni con gli altri.

D. Bonhoffer, La Vita comune, 35-60



giovedì 11 dicembre 2025

SERVIZIO FRATERNO

1. L’accettazione dell’altro come creazione originale di Dio

«Poi sorse fra loro una disputa su chi di loro fosse il maggiore» (Lc 9,46). Sappiamo bene chi semina questa disputa fra le comunità cristiane. Ma forse non teniamo abbastanza presente che nessuna comunità cristiana può formarsi senza che, prima o dopo, questa disputa nasca in essa. Appena degli uomini si mettono insieme, ecco che incominciano a osservarsi gli uni gli altri, a giudicarsi, a classificarsi secondo un determinato ordine. E con ciò, già sul nascere di una comunità, inizia una terribile, invisibile, spesso inconscia lotta di vita e di morte. «Nacque fra loro una disputa», è quanto basta per distruggere una comunità. Perciò per ogni comunità è di importanza vitale guardare in faccia, fin dal primo momento, questo pericoloso nemico ed estirparlo subito. Non si può perdere tempo, poiché sin dal primo momento dell'incontro con l'altro l'uomo cerca la sua posizione di combattimento, dove può resistere all'altro. Ci sono uomini forti e uomini deboli; se lui non è forte, ebbene, si arroga il diritto del debole e lo adduce in campo contro i forti. Ci sono uomini dotati e uomini meno dotati, uomini semplici e uomini dal carattere difficile, uomini pii e meno pii, uomini socievoli e misantropi. Forse che il meno dotato deve prendere posizione quanto quello dotato?

Il difficile di carattere quanto il semplice? E se non sono dotato, forse, però, sono pio; se non sono pio, forse non voglio nemmeno esserlo; non può l'uomo socievole al momento, conquistare tutti per sé ed esporre alle critiche quello meno socievole? ed il misantropo divenire il nemico invincibile ed infine vincitore dell'uomo socievole? quale uomo non troverebbe con sicuro istinto il luogo in cui può resistere e difendersi? e non cederebbe mai e poi mai ad un altro; chi non difenderebbe la sua posizione con tutto il suo istinto di autoaffermazione? Tutto ciò può accadere tra le persone più colte o anche tra le più pie; ma l'importante è che una comunità cristiana sappia che certamente in un qualche angolino «sorge fra loro la disputa su chi è il maggiore fra loro». È la lotta dell'uomo naturale per l'autogiustificazione. Egli trova se stesso solo nel confronto con gli altri, nel giudizio, nella critica del prossimo. Autogiustificazione e critica vanno sempre insieme, come giustificazione per grazia e servizio sono sempre uniti. La maniera più efficace per lottare contro i nostri cattivi pensieri spesso è di metterli radicalmente a tacere. Com'è certo che lo spirito di autogiustificazione può solo essere superato dallo spirito di grazia, tuttavia i singoli pensieri pronti a criticare vengono limitati e soffocati col non concedere loro mai il diritto di farsi largo, tranne nella confessione del peccato, della quale dovremo ancora parlare.

Chi sa dominare la propria lingua, sa anche dominare il proprio corpo (Giac. 3,3 ss.). Sarà quindi una regola fondamentale di ogni vita comunitaria proibire al singolo di parlare del fratello in assenza di lui. È ben chiaro che con ciò non si intende proibire la parola personale intesa a richiamare il fratello, e di questo si parlerà ancora. Ma non è permesso parlare dietro le sue spalle, anche quando le nostre parole possono assumere l'apparenza di benevolenza e di aiuto, perché, proprio così travestite, si infiltrerà sempre di nuovo lo spirito di odio per il fratello con l'intento di fare del male. Non è qui il momento di parlare delle singole limitazioni da applicare a questa regola; la decisione deve essere presa di volta in volta. Si tratta di cosa chiara e biblica. «Tu siedi e parli contro il tuo fratello, tu diffami il figlio di tua madre... Ma io ti riprenderò e ti metterò tutto davanti agli occhi» (Salmo 50,20 ss.). «Non parlate gli uni contro gli altri, fratelli. Chi parla contro un fratello o giudica suo fratello, parla contro la legge e giudica la legge. Ora se tu giudichi la legge, non sei un osservatore della legge, ma un giudice. Uno soltanto è il legislatore e il giudice, Colui che può salvare e perdere; ma tu chi sei che giudichi il tuo prossimo?» (Giac. 4,11 s.). «Nessuna cattiva parola esca dalla vostra bocca; ma se ne avete una buona che edifichi, secondo il bisogno, ditela, affinchè conferisca grazia a chi l'ascolta» (Ef 4,29).

Lì dove sin dall'inizio sarà mantenuta questa disciplina della lingua, ogni singolo farà una scoperta impareggiabile: cesserà di osservare continuamente l'altro, di giudicarlo, di condannarlo, di assegnargli il suo preciso posto dove lo si può dominare e così violentarlo. Sarà ora in grado di lasciar libero completamente il fratello, come Dio glielo ha messo accanto. Lo sguardo gli si allargherà e guardando i fratelli, con sua somma meraviglia, riconoscerà per la prima volta la gloria e la grandezza del Dio creatore. Dio non ha fatto l'altro come lo avrei fatto io; non me lo ha dato come fratello, perché io lo domini, ma perché in lui io trovi il mio Creatore. Nella sua libertà di creatura il mio prossimo diviene per me motivo di gioia, mentre prima mi dava solo fastidio e pena. Dio non vuole che io modelli il prossimo secondo Pimmagine che pare buona a me, cioè secondo la mia propria immagine; ma nella sua libertà di fronte a me ha fatto il mio prossimo a Sua immagine.

Non posso mai sapere in precedenza quale debba essere l'immagine di Dio nel prossimo; sempre di nuovo questa assumerà una forma diversa e nuova, che dipende dalla libera creazione di Dio. A me può anche sembrare strana, indegna di Dio. Ma Dio crea l'altro a immagine e somiglianzà del suo Figliolo, del Crocifisso: anche questa immagine a me era pur parsa strana, indegna di Dio, prima che l'avessi compresa. 

2. Vivere similmente nella grazia del perdono di Cristo

E allora forza e debolezza, saggezza e stoltezza, dotato o non dotato, pio o meno pio, tutta la diversità dei mèmbri nella comunità non sarà più ragione di dissenso, giudizio, condanna, cioè di autogiustifi-cazione, ma sarà causa di allegrezza e di servizio reciproco. Anche così ogni membro della comunità ha il suo posto ben preciso; non più quello in cui potrà affermarsi con maggior successo, ma quello in cui potrà meglio servire. In una comunità cristiana Punica cosa che importa è che ognuno sia anello indispensabile di una catena. Solo lì dove anche l'ele-mento più piccolo è ben saldo, la catena non si spezzerà. Una comunità che permette che in essa vi siano mèmbri inutilizzati, ne sarà distrutta. Sarà perciò bene che ogni singolo riceva anche un compito preciso a servizio della comunità, perché in momenti di dubbio sappia che anche lui non è inutile o inutilizzabile. Ogni comunità cristiana deve sapere che non solo i deboli hanno bisogno dei forti, ma che anche i forti non possono fare a meno dei deboli. L'esclusione dei deboli è la morte della comunità. Nella comunità non dovrà regnare l'autogiustificazione e con ciò violentamento, ma giustificazione per grazia e perciò servizio. Chi nella sua vita ha provato una volta la misericordia di Dio, non desidera altro che servire. Non lo attira più l'alto trono di giudice; egli vuole vivere in basso, con i miseri e gli umili, perché Dio lo ha trovato lì in basso. «Non abbiate l'animo alle cose alte, ma lasciatevi attirare dalle umili» (Rom. 12,16).

Chi vuol imparare a servire, deve prima imparare a tenere se stesso in poco conto. «Nessuno abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere» (Rom. 12,3). «Conoscere bene se stessi e imparare a tenersi in poco conto è il massimo compito e quello più utile. Non mettere in luce se stessi, ma avere sempre una buona opinione degli altri, questo è vera sapienza e perfezione» (Thomas a Kempis),

«Non vi stimate saggi da voi stessi» (Rom. 12, 16). Solo chi vive del perdono dei suoi peccati in Gesù Cristo può provare la giusta umiltà, sapere che egli con la sua sapienza era giunto completamente alla sua fine quando Cristo gli perdonò, si ricorderà della sapienza dei primi uomini che volevano conoscere che cosa è bene e che cosa è male e in questa sapienza perirono. Ma il primo uomo che nacque su questa terra fu Caino, il fratricida: ecco il frutto della sapienza dell'uomo! Poiché il cristiano non può ritenere se stesso saggio, non terrà più in gran conto neppure i suoi piani e le sue intenzioni, saprà che è un bene se la sua volontà viene spezzata nell'incontro con il prossimo. Sarà pronto a ritenere la volontà del prossimo più importante e urgente della propria. Che importa se il proprio piano sarà contrastato? Non è meglio servire il prossimo che spuntarla con la propria volontà?

Ma non solo la volontà, anche l'onore del prossimo è più importante del mio: «Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» (Gv. 5,44). Il desiderare di essere onorati impedisce la fede. Chi cerca il proprio onore non può più cercare Dio e il prossimo. Che male c'è se sono trattato ingiustamente? Non mi sono, forse, meritato un castigo ben maggiore da parte di Dio, se Dio non mi trattasse secondo la sua misericordia? Non mi viene reso anche nel-l'ingiustizia mille volte ciò che mi merito? Non sarà utile e bene per la mia umiltà che io impari a sopportare in silenzio e con pazienza mali così minimi? «Lo spirito paziente vai meglio dello spirito altero» (Eccl. 7,8). Chi vive della giustificazione per grazia accetta anche offese e ingiustizie senza protestare, ma anzi vede in esse la mano del Signore che punisce e fa grazia, insieme. Non è buon segno se non si vogliono più sentire e sopportare queste cose senza richiamarsi subito al fatto che anche l'apostolo Paolo, per es., si è fatto forte del suo diritto di cittadino romano, e che Gesù, a colui che lo percosse, disse: «Perché mi percuoti?» (Gv. 18,23). In ogni modo nessuno di noi agirà veramente come Gesù e Paolo, se non avendo prima imparato, come questi, a tacere di fronte a offese e scherni. Il peccato della ipersensibilità e permalosità, che tanto facilmente fiorisce nella comunità, ci fa vedere sempre di nuovo quanto diffuso sia un errato concetto dell'onore, cioè quanta mancanza di fede regna ancora nella comunità.

Ed infine deve essere detta ancora un'ultima cosa: non ritenere se stessi saggi, tenersi dalla parte degli umili, senz'altro — senza voler dire grandi parole, ma parlando in piena sobrietà —, significa ritenere se stesso il più grande dei peccatori. Questo risveglia tutte le forze di opposizione dell'uomo naturale, ma anche del cristiano consapevole di sé. Pare una esagerazione, quasi una mancanza di sincerità. Eppure l'apostolo Paolo ha detto di sé che egli è il primo tra i peccatori (1 Tim. 1,15), e questo proprio quando parla del suo servizio di apostolo.

Non può essere vera coscienza dei propri peccati, senza che conduca in questo abisso. Se i miei peccati, in qualche modo, confrontati con quelli degli altri, mi paiono minori, meno gravi, vuoi dire che non riconosco ancora veramente il mio peccato. Necessariamente il mio peccato è il più grave ed il più riprovevole. Per il peccato degli altri l'amore cristiano trova tante giustificazioni; solo per il mio non ci sono scuse. Perciò esso è il più grave. Deve trovare il fondo di questa umiliazione chi vuoi servire il fratello nella comunità.

Come, infatti, potrei servire umilmente, senza ipocrisia, colui il cui peccato in realtà mi pare veramente più grave del mio? Non devo sentirmi superiore a lui, posso avere ancora una speranza per lui? Sarebbe un servizio ipocrita. «Non credere di essere progredito un passo nella tua opera di santificazione se non senti profondamente di essere peggiore di tutti gli altri» (Thomas da Kempis).

3. Ascoltare il fratello come ascoltiamo la Parola di Dio

Come si effettua, ora, un servizio fraterno nella comunità? Oggi tendiamo a rispondere subito che l'unico vero servizio al prossimo è il servizio reso

on la Parola di Dio. È vero che nessun altro servizio può essere considerato di pari importanza, e che, anzi, ogni altro servizio deve sempre essere improntato a questo. Cionostante una comunità cristiana non è formata solo da predicatori della Parola. Si potrebbe abusarne terribilmente se si volessero trascurare alcune altre cose.

Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l'amore di Dio incomincia con l'ascoltare la sua Parola, così l'inizio dell'amore per il fratello sta nell'imparare ad ascoltarlo. È per amore che Dio non solo ci da la sua Parola, ma ci porge pure il suo orecchio. Altrettanto è opera di Dio se siamo capaci di ascoltare il fratello. I cristiani, e specialmente i predicatori, credono spesso di dover sempre 'offrire' qualcosa all'altro, quando si trovano con lui; e lo ritengono come loro unico compito. Dimenticano che ascoltare può essere un servizio ben più grande che parlare. Molti uomini cercano un orecchio che sia pronto ad ascoltarli, ma non lo trovano tra i cristiani, perché questi parlano pure lì dove dovrebbero ascoltare. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non saprà neppure più ascoltare Dio; anche di fronte a Dio sarà sempre lui a parlare. Qui ha inizio la morte della vita spirituale, ed infine non restano altro che le chiacchiere spirituali, la condiscendenza fratesca che soffoca in tante belle parole pie. Chi non sa ascoltare a lungo e con pazienza parlerà senza toccare veramente l'altro ed infine non se ne accorgerà nemmeno più. Chi crede che il suo tempo è troppo prezioso per essere perso ad ascoltare il prossimo, non avrà mai veramente tempo per Dio e per il fratello, ma sempre e solo per se stesso, per le sue proprie parole e per i suoi progetti.

La cura d'anime dei fratelli si distingue dalla predicazione essenzialmente per il fatto che al compito di annunziare la Parola si aggiunge quello di ascoltare. Si può anche ascoltare a mezzo orecchio, convinti di sapere già quello che l'altro ha da dirci. È un modo di ascoltare impaziente e distratto, che disprezza il fratello e aspetta solo di poter finalmente prendere la parola e liberarsi dell'altro. Questo non è compiere la propria missione, e certamente anche qui nel nostro atteggiamento verso il fratello si rispecchia il nostro rapporto con Dio. Se noi non riusciamo più a porgere il nostro orecchio al fratello in cose piccole, non c'è da meravigliarsi se non siamo più capaci di dedicarci al massimo tra i servizi consistenti nell’ascoltare, affidatici da Dio, cioè quello di ascoltare la confessione del fratello. Il mondo pagano sa, oggi, che spesso si può aiutare un altro solo ascoltandolo seriamente; avendo riconosciuto questo, vi ha impostato una propria cura d'anime laica, alla quale accorrono numerosi gli uomini, anche i cristiani. Ma i cristiani hanno dimenticato che il compito dell'ascoltare è stato loro affidato da Colui il quale è l'uditore per eccellenza, alla cui opera essi sono chiamati a collaborare. Dobbiamo ascoltare con l'orecchio di Dio, affinchè ci sia dato di parlare con la Parola di Dio.

4. Ognuno porti il peso dell'altro

II secondo servizio che, in una comunità cristiana, l'uno deve rendere all’altro, è l'aiuto concreto e attivo. Si pensa in primo luogo a piccoli e semplici servizi materiali. In ogni vita comunitaria se ne trovano un'infinità. Nessuno è troppo alto per un piccolo servizio al prossimo. La preoccupazione per la perdita di tempo che spesso un tale servizio materiale comporta, è segno di una eccessiva importanza attribuita al proprio tempo e lavoro. Dobbiamo essere pronti a lasciarci interrompere da Dio. Dio contrasterà sempre di nuovo, anzi, ogni giorno, le nostre vie e i nostri piani, mandandoci persone con le loro richieste e necessità. Possiamo passare oltre senza badare a loro, preoccupati come siamo dell'importanza della nostra giornata, così come il sacerdote passò oltre senza curarsi dell'uomo caduto in mano ai predoni — forse egli era addirittura immerso nella lettura di un passo biblico'. — E così noi passiamo oltre senza vedere il segno della croce nella nostra vita, il quale vorrebbe indicarci il vero valore delle vie di Dio e non delle nostre.

È un dato di fatto piuttosto strano che proprio cristiani e teologi spesso ritengono il loro lavoro così importante e urgente che si irritano per una interruzione. Credono di servire Dio in questo modo e disprezzano invece la via di Dio «tortuosa, eppure diritta», come canta Gottfried Arnold. Non vogliono saperne di un'interruzione del cammino degli uomini. Eppure fa parte della disciplina dell'umiltà non risparmiare la propria mano dove essa può rendere un servizio, e non voler decidere del proprio tempo ma lasciare che lo riempia il Signore. Nel convento il giuramento di obbedienza fatto all'abate toglie al monaco il diritto di disporre del proprio tempo. Nella vita comunitaria evangelica al posto di questo voto subentra il servizio reso liberamente al fratello. Solo lì dove le mani non si sentono superiori all'opera di amore e di misericordia nel quotidiano servizio fraterno, la bocca può annunziare, piena di letizia e in maniera credibile, la Parola dell'amore e della misericordia divina.

In terzo luogo parliamo del servizio inteso a sostenere il prossimo. «Portare i pesi gli uni degli altri» (Gal. 6,2). La legge di Cristo è una legge del 'portare'. Portare vuoi dire sopportare, soffrire insieme. Il fratello è un peso per il cristiano, soprattutto per il cristiano. Per il pagano l'altro non diviene nemmeno un peso, egli infatti evita di lasciarsi aggravare da qualcuno, mentre il cristiano deve portare il peso del fratello. Deve sopportare il fratello. Solo se è un peso, l'altro è veramente un fratello e non un oggetto da dominare. Il peso degli uomini per Dio stesso è stato così grave che Egli ha dovuto piegarsi sotto questo peso e lasciarsi crocifiggere. Dio ha veramente sopportato gli uomini nel corpo di Cristo. Ma così li ha portati come una madre porta il figlioletto, come un pastore porta l'agnello perduto. Dio accettò gli uomini ed essi lo oppressero fino a terra, ma Dio restò con loro ed essi con Dio. Nel sopportare gli uomini Dio ha mantenuto la comunione con loro. È la legge di Cristo che si è compiuta sulla croce. Ed i cristiani partecipano a questa legge. Essi devono sopportare il fratello; ma quello che è più importante, essi sono anche in grado di portare il fratello, sotto la legge che è compiuta in Cristo. La Scrittura parla assai spesso di 'portare'. Essa esprime con questa parola tutta l'opera di Gesù Cristo: «Erano le nostre malattie che Egli portava; erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato... Il castigo è stato su lui, per cui abbiamo pace» (Is. 53,4 s.). Perciò essa può dire che tutta la vita dei cristiani è un portare la croce. Qui si realizza la comunione del corpo di Cristo. È la comunione della croce nella quale uno deve sentire il peso dell'altro. Se non lo sentisse non ci sarebbe comunione cristiana. Se si rifiuta di portarla, rinnega la legge di Cristo.

In primo luogo è la libertà dell'altro, di cui prima abbiamo parlato, ad essere un peso per il cristiano. Va contro la sua presunzione, eppure egli deve ammetterla. Potrebbe liberarsi di questo peso, togliendo la libertà all'altro, violentandolo, imponendogli la propria immagine. Se invece lascia che Dio gli dia l'impronta della sua immagine, gli concede la sua libertà e porta lui stesso il peso di questa libertà del-l'altra creatura. Della libertà dell'altro fa parte tutto ciò che intendiamo quando diciamo: essere, individualità, carattere; ne fanno parte anche le debolezze e stranezze, che mettono così gravemente alla prova la nostra pazienza, ne fa parte tutto ciò che produce la quantità di attriti, contrasti e scontri tra me e l'altro. Portare il peso del prossimo vuoi dire sopportare la realtà di creatura dell'altro, accettarla e, sopportandola, goderne.

Ciò diviene particolarmente difficile là dove forti e deboli sono uniti nella fede in una comunità. Il debole non giudichi il forte, il forte non disprezzi il debole. Il debole si guardi dall'orgoglio, il forte dalla indifferenza. Nessuno difenda i propri diritti. Se il forte cade, il debole si guardi dal provarne piacere; se il debole cade, il forte lo aiuti gentilmente a rimettersi in piedi. L'uno ha bisogno di tanta pazienza quanta l'altro. «Guai a colui che è solo e cade senza avere un altro che lo rialzi» (Eccl. 4,10).

A questa sopportazione reciproca nella libertà allude certo anche la Bibbia quando raccomanda: «Sopportandovi gli uni gli altri» (Col. 3,13). «Vi esorto a condurvi con ogni umiltà e mansuetudine, con longanimità, sopportandovi gli uni gli altri con amore» (Ef. 4,2). Alla libertà dell'altro si aggiunge, il suo abuso nel peccato, che per il cristiano diviene un peso quando si tratta di un fratello. È ancora più diffìcile sopportare il peccato dell'altro che non la sua libertà, perché nel peccato si infrange la comunione con Dio e con i fratelli. Qui il cristiano soffre la frattura della comunione creata in Gesù Cristo con l'altro. Ma proprio nel saper sopportare questo peso si manifesta veramente la immensa grazia divina. Non disprezzare il peccatore, ma saperlo portare, vuoi dire non doverlo considerare perduto, poterlo accettare, potergli conservare la comunione mediante il perdono. «Fratelli, quand'anche uno sia stato colto in qualche fallo, rialzatelo con spirito di mansuetudine» (Gal. 6,1). Come Cristo ha portato noi quando eravamo peccatori e ci ha accettati così, noi, nella comunione con Lui, possiamo portare i peccatori e riceverli nella comunione con Gesù Cristo mediante il perdono dei peccati. Noi possiamo portare i peccati del fratello, non occorre che giudichiamo. Questa è una grazia concessa al cristiano; infatti, quale peccato è commesso nella comunità senza che egli debba esaminare se stesso ed accusarsi per la sua propria infedeltà nella preghiera e nell'intercessione, per la sua mancanza di servizio fraterno, di ammonimento fraterno e di consolazione, per il suo proprio peccato, per la sua indisciplinatezza spirituale, con la quale ha danneggiato se stesso, la comunità e i fratelli? Poiché ogni peccato del singolo pesa su tutta la comunità e la accusa, perciò la comunità canta inni di grazia, in tutto il dolore che prova per il peccato del fratello e sotto tutto il peso che per questo ricade su di essa, perché essa è ritenuta degna di prendere su di sé il peccato e di perdonare. «Ecco, così li porti tutti, ed essi ti portano a loro volta, ed ogni cosa, buona e cattiva, è in comune» (Lutero).

5. Testimoniare con la vita l'uno all'altro la consolazione e il giudizio di Dio

II servizio del perdono viene reso giornalmente dall'uno all'altro. Avviene senza parole, nell'intercessione reciproca; e ogni membro della comunità che non si stanca di rendere questo servizio, può star sicuro che questo servizio viene reso dai fratelli anche a lui. Chi sostiene l'altro, sa di essere sostenuto, e solo in questa forza può portare anche lui. Lì dove si rende il servizio di ascoltare, di aiutare concretamente, di portare fedelmente, può anche essere reso il servizio massimo, cioè quello della Parola.

Si tratta qui della parola da uomo a uomo, libera, non legata a ministero, tempo e luogo. Si tratta della situazione unica nel mondo, in cui un uomo testimonia all'altro con parole umane tutta la consolazione di Dio, i suoi ammonimenti, la sua bontà e la sua severità. Questa parola è circondata da un'infìnità di pericoli. Se prima non si è ascoltato bene, come si potrebbe trovare la parola adatta all'altro? Se è in contrasto con l'aiuto concreto, come potrebbe essere parola credibile e verace? Se non nasce dalla prontezza a portare l'altro, ma da impazienza e da spirito di violentamento, come potrebbe essere parola liberatrice e salutare? E al contrario, proprio lì dove realmente si ascolta, si serve, si porta, facilmente si tace. La profonda diffidenza di fronte a tutto ciò che è solo parola, spesso soffoca la parola che dovremmo rivolgere al fratello. Che cosa può fare una debole parola umana per il prossimo? Dovremmo aumentare ancora il numero di parole vuote? O dobbiamo, come i routiniers spirituali, parlare con parole che passano accanto al reale bisogno dell'altro? Che cosa v'è di più pericoloso che pronunciare la Parola di Dio più del necessario? e chi, d'altro canto, si assume la responsabilità di aver taciuto dove dovrebbe aver parlato? Quanto più semplice è annunziare la parola ordinata dal pulpito che dire questa parola completamente libera, tra la responsabilità di tacere e quella di parlare.

Alla paura della propria responsabilità di fronte alla Parola si aggiunge la paura del prossimo. Quanto costa, talora, pronunciare il nome di Gesù Cristo anche solo di fronte ad un fratello! Anche qui un sentimento giusto è misto ad uno errato. Chi ha il diritto di penetrare nell'intimo del prossimo? Chi ha il diritto di chiedergli ragione, di colpirlo, di abbordarlo riguardo alle cose ultime? Non sarebbe certo segno di avvedutezza cristiana affermare semplicemente che ognuno ha questo diritto, anzi, questo dovere. Potrebbe di nuovo prender piede lo spirito di violentamento nella forma peggiore. L'altro, infatti, ha il suo proprio diritto, la sua responsabilità ed anche il suo dovere di difendersi di fronte ad intrusioni illecite. L'altro ha il suo proprio segreto, che non può essere violato senza grave danno, segreto che non può rivelare senza distruggere se stesso. Non è un segreto di ciò che sa e sente, ma il segreto della sua libertà, della sua redenzione, del suo essere. Eppure questo sentimento così giusto si trova in prossimità alquanto pericolosa delle parole di Caino: «Sono io forse il guardiano di mio fratello?» (Gen. 4,9). Il rispetto della libertà del prossimo, che apparentemente ha una ragione spirituale, può sottostare alla maledizione di Dio; «Io domanderò conto del suo sangue alla tua mano» (Ez. 3,18). Lì dove cristiani vivono insieme, prima o dopo necessariamente avverrà che uno annunci all'altro la Parola e la volontà di Dio. È impensabile che non si parli una volta, in conversazione fraterna di quelle cose che per ognuno sono di vitale importanza. Non è cristiano se uno coscientemente nega all'altro il servizio decisivo. Se non riusciamo a pronunciare la Parola, dobbiamo esaminare noi stessi se non vediamo nel nostro fratello solo la sua dignità umana, che non osiamo violare, e così dimentichiamo la cosa più importante, e cioè che anche lui, per quanto anziano, altolocato, importante, possa essere, è, un uomo come noi, che, peccatore, invoca la grazia divina, che ha le sue pene come noi, che ha bisogno di aiuto, consolazione e perdono come noi.

La base, sulla quale i cristiani poggiano per entrare in vero colloquio gli uni con gli altri, è che sanno l'uno dell'ahro di essere pure peccatori, perduti e abbandonati, nonostante tutti gli onori umani, se non trovano aiuto. Con questo non si disprezza l'altro, non lo si disonora; anzi, gli si rende l'unico vero onore che l'uomo possiede, cioè che come peccatore è partecipe della grazia e della gloria di Dio, che è figlio di Dio. Questa conoscenza da alla parola del fratello la necessaria libertà e sincerità. Ci rivolgiamo la parola richiamandoci ali'aiuto di cui abbiamo bisogno ambedue. Ci esortiamo reciprocamente a seguire la strada indicata da Cristo. Ci ammoniamo a non cedere alla disobbedienza che è la nostra rovina. Siamo miti e siamo duri l'uno verso l'altro, perché conosciamo la bontà e la severità di Dio. Perché dovremmo temere l'un l'altro, se ambedue non abbiamo da temere che Dio? Perché dovremmo pensare che il fratello non ci capirebbe, dal momento che noi abbiamo pur compreso molto bene quando un uomo qualunque, forse con parole assai infelici, ci ha annunziato la consolazione o l'ammonimento di Dio? O crediamo che possa essere! anche un solo uomo, che non abbia bisogno di consolazione e di ammonimento? Perché Dio, se così fosse, ci avrebbe donato la comunione con fratelli?

Quanto più impariamo a lasciarci dire dall'altro la Parola, ad accettare umilmente anche un duro ammonimento e rimprovero, tanto più liberi ed obiettivi saremo nel dire una parola noi.

Chi rifiuta per sé, per troppa vanità o sensibilità, una seria parola del fratello, non potrà neppure annunziare, in tutta umiltà, la Parola all'altro, perché teme che sia rifiutata e si sentirebbe offeso da questo. L'ipersensibile diventerà sempre un adulatore, e con ciò ben presto anche dispregiatore e calunniatore del fratello. L'umile, invece, si attiene allo stesso tempo alla verità e all'amore. Si attiene alla Parola di Dio e da questa si lascia condurre verso il fratello. Non cercando ne temendo nulla per sé, può aiutare il prossimo mediante la Parola.

Indispensabile, perché ordinato dalla Parola divina, è l'ammonimento lì dove il fratello cade in aperto peccato. L’esercizio della disciplina nella comunità incomincia nella cerchia più ristretta. Dove il rinnegamento della Parola di Dio nell'insegnamento o nella vita mette in pericolo la vita del gruppo comunitario e con ciò tutta la comunità, lì è necessario osar dire la parola che ammonisce e castiga. Nulla può esservi di più crudele di quella bontà che lascia l'altro nel suo peccato. Nulla può esservi di più misericordioso del duro rimprovero che richiama il fratello dalla via del peccato. È un servizio di misericordia, un'ultima offerta di sincera comunione, se lasciamo che la Parola di Dio rimanga lì, sola, tra noi, a giudicare e aiutare. Non siamo noi, allora, a giudicare; Dio solo giudica e il giudizio di Dio è di aiuto e salutare.

Possiamo servire il fratello fino in fondo solo non sollevandoci mai sopra di lui; lo serviremo ancora, quando gli diciamo la Parola di Dio che giudica e separa, quando, obbedendo a Dio, interromperemo la comunione con lui. Sappiamo pure che non è il nostro amore umano che ci permette di restare fedeli all'altro, è l'amore di Dio che raggiunge l'uomo solo attraverso il giudizio. La Parola di Dio stesso serve l'uomo giudicandolo. Chi accetta il servizio reso dal giudizio divino, ha trovato aiuto.

6. L'autorità come servizio fedele a Cristo

Qui è il punto dove si manifestano i limiti di ogni azione umana per il fratello. «Nessuno può in alcun modo redimere il fratello, ne dare a Dio il prezzo del riscatto d'esso. Il riscatto dell'anima dell’uomo è troppo caro e non sarà mai sufficiente» (Salmo 49,8). Questa rinuncia ad ogni possibilità propria è appunto la premessa e la conferma dell'aiuto liberatore, che solo la Parola di Dio può dare al fratello. Non è in mano nostra la vita del fratello, non possiamo tenere unito ciò che vuole spezzarsi, non possiamo tenere in vita ciò che vuole morire. Ma Dio congiunge ciò che sta per spezzarsi, crea comunione dove regna la separazione, dona grazia mediante il giudizio. Egli ha messo la sua parola sulla nostra bocca. Vuole che venga annunziata da noi. Se impediamo la sua Parola, il sangue del fratello peccatore ricadrà su di noi. Se annunziamo la sua parola, Dio salverà per nostro mezzo il fratello. «Chi converte un peccatore dall'errore della sua vita, salverà l'anima di lui dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Giac. 5,20).

«Chiunque fra voi vorrà essere primo, sarà serve di tutti» (Afe. 10,43). Gesù ha legato ogni autorita nella comunità al servizio. Vera autorità c'è solo lì dove si compie il servizio dell'ascoltare, aiutare, portare ed annunziare la Parola.

Ogni culto per una persona che si estende a particolari qualità, a eccezionali capacità, forze, talenti di un altro — anche se si tratta chiaramente di qualità spirituali — è un sentimento terreno e non trova posto nella comunità cristiana, anzi la avvelena.

Se oggi si sente tanto spesso la necessità di 'figure episcopali', di 'personalità sacerdotali', di persone che abbiano vera autorità lo si deve soprattutto al fatte che si prova il bisogno di ammirare un uomo, di imporre un'autorità umana visibile, perché la vera autorità derivante dal servizio sembra troppo umile. E questo è segno di malattia spirituale. Nulla si oppone più nettamente a questo bisogno del Nuovo Testamento stesso, lì dove descrive la figura del vescovo (1 Tim. 3,1 ss.). Non vi appaiono per nulla entusiasmanti capacità umane, brillanti qualità di una personalità spirituale. Vescovo è l'uomo semplice e fedele nella sua vita e nella sua fede, che compie onestamente il suo servizio nella comunità. La sua autorità dipende dal modo di servire. Nell'uomo stesso non vi è nulla di ammirevole. La smania di autorità fittizia, in fondo, non cerca che di erigere nella Chiesa una qualche immediatezza, un legame umano. La vera autorità è consapevole che ogni immediatezza proprio nel campo dell'autorità è un male, che essa può affermarsi solo nel servizio di colui che, unico, ha autorità. La vera autorità sa di essere legata, nel senso più stretto, alla Parola di Gesù: «Uno solo è il vostro maestro, e voi siete tutti fratelli» (Mt. 23,8). La comunità non ha bisogno di personalità brillanti, ma di fedeli servitori di Gesù e dei fratelli. E realmente essa non manca delle prime, ma di questi ultimi. La comunità concederà la sua fiducia solo ai semplici servitori della Parola di Gesù, perché sa che da questi sarà guidata non in base a sapienza ed orgoglio, ma secondo la Parola del buon Pastore. La questione spirituale della fiducia, strettamente connessa con quella dell'autorità, si decide in base alla fedeltà con cui uno serve Gesù Cristo, e mai in base alle qualità eccezionali di cui dispone. Autorità nella cura d'anime può averla solo il servitore di Gesù, che non cerca la sua propria autorità, ma che pone se stesso sotto l'autorità della Parola ed è un fratello tra fratelli.

Da Bonhoeffer, VITA IN COMUNE


mercoledì 10 dicembre 2025

MEDITAZIONE

Come un teologo riformato suggerisce la lectio divina

La meditazione ci mette soli davanti alla Parola

Tre sono le cose per le quali il cristiano ha bisogno di un periodo stabilito di solitudine con se stesso durante la giornata: la meditazione della Parola; la preghiera; l'intercessione. Egli deve trovarle tutte e tre nel periodo quotidiano di meditazione. Ci si può domandare perché dovrebbe essere necessaria un'ora stabilita, dato che troviamo tutti i suddetti momenti nel culto comune. Potremo dare una risposta in questo senso: il periodo di meditazione serve alla riflessione personale sulla Scrittura, alla preghiera personale, ed all'intercessione personale; a nessun altro scopo.

Non v'è luogo per esperimenti spirituali. Ma per queste tre cose dobbiamo avere il tempo necessario, perché è Dio stesso che ce lo ordina. Anche se la meditazione non avesse per noi nessun altro senso che quello di rendere a Dio un servizio da Lui richiesto sarebbe già sufficiente.

Il momento della meditazione non ci fa precipitare nel vuoto e nell'abisso della solitudine, ma ci mette soli di fronte alla Parola. Con ciò essa ci da un fondamento sicuro col quale poggiare e dove trovare indicazioni per il cammino che dobbiamo percorrere.

Mentre nel culto in comune leggiamo un testo seguito, nella nostra meditazione della Scrittura ci atteniamo a un breve testo espressamente scelto, che può anche restare lo stesso per tutta la settimana. Se mediante la lettura in comune della Bibbia venivamo portati a conoscere piuttosto l'ampiezza e la vastità di tutta la Scrittura nel suo insieme, qui invece veniamo condotti nella incommensurabile profondità di ogni singola frase e parola. Ambedue le cose sono egualmente necessarie. «Affinché siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi qual sia la larghezza, l'altezza e la profondità dell'amore di Cristo» (Ef 3,18).

Nella meditazione leggiamo il testo, basandoci sulla promessa che esso ha qualcosa di assolutamente personale da dirci per la giornata che abbiamo davanti a noi; che non si tratta solo della Parola di Dio rivolta a tutta la comunità, ma anche della Parola di Dio rivolta a me personalmente. Ci esponiamo alla singola parola e proposizione finché ne siamo afferrati personalmente. Non facciamo, così, nulla di diverso da ciò che fa ogni giorno, il cristiano più semplice, meno istruito.

Leggiamo la Parola di Dio come Parola di Dio per noi. Non chiediamo, dunque che cosa questo passo ha da dire ad altri; per noi predicatori ciò significa che, leggendo, non ci dobbiamo chiedere come predicheremo su questo testo e come lo potremmo spiegare, ma che cosa ha da dire proprio a noi personalmente. È logico che prima dobbiamo averne compreso il contenuto; ma in questo momento non ci troviamo di fronte ad un'esegesi del testo, né alla preparazione di un sermone, ne di uno studio biblico qualsiasi, ma attendiamo la Parola di Dio rivolta a noi. E non è mai un'attesa vana, ma l’attesa che si fonda su una precisa promessa. Spesso siamo così oppressi e sopraffatti da altri pensieri e immagini e preoccupazioni che passa parecchio tempo prima che Dio riesca a spazzare via tutto e a penetrare nel nostro intimo. Ma è sicuro che questo accadrà, quant'è certo che Dio stesso è venuto da noi in terra e vi tornerà. Appunto per ciò incominceremo la nostra meditazione con la preghiera che il Signore ci mandi il suo Spirito Santo nella sua Parola e ci riveli la sua Parola e ci illumini.

Non è necessario che riusciamo a riflettere su tutto il passo fino in fondo. Spesso ci soffermeremo su una sola frase o addirittura su una parola, che ci afferra e mette in questione il nostro modo di essere e non ci lascia più liberi. Non bastano, talora, parole come 'padre', 'amore', 'misericordia', 'croce', 'santificazione', 'risurrezione' per riempire completamente il tempo dedicato alla meditazione?

Non è necessario che nella meditazione ci sforziamo di pensare e pregare con parole chiaramente formulate. Il pensiero e la parola silenziosi che nascono dall'ascolto possono, spesso, essere anche più ricchi.

Non è necessario che nella meditazione scopriamo idee nuove. Questo ci distrae solo e soddisfa la nostra vanità. È più che sufficiente che la parola che leggiamo penetri in noi così come la leggiamo e comprendiamo e prenda dimora in noi. Come «Maria conservava in sé» (Lc. 2,19) le parole dei pastori, come conserviamo spesso la parola di un uomo per parecchio tempo, ed essa si fissa in noi, opera, ci fa riflettere, ci preoccupa o ci allieta, senza che possiamo farci nulla, così la Parola di Dio, nella meditazione, vuole penetrare nel nostro animo e dimorare in noi, ci vuole muovere, vuole operare in noi, così che tutto il giorno non riusciamo a disfarcene, ed opererà in noi spesso in modo tale che non ce ne accorgiamo nemmeno.

Soprattutto non è necessario che, durante la meditazione, facciamo qualche scoperta inattesa e straordinaria. Può anche accadere, ma se non è così non è affatto segno di un periodo di meditazione sprecato. Non solo in principio, ma sempre di nuovo passeremo periodi di grande vuoto interiore e di apparente indifferenza, di incapacità di intendere e di avversione per la meditazione. Non dobbiamo fermarci su queste esperienze, e soprattutto non dobbiamo lasciarci indurre a non mantenere tanto più fedelmente e pazientemente i nostri periodi di meditazione. Perciò non è bene che prendiamo troppo sul serio le numerose brutte esperienze che facciamo con noi stessi nella meditazione. Per una via traversa apparentemente pia potrebbero introdursi di nuovo di nascosto la nostra vanità e le nostre pretese di fronte a Dio, come se fosse nostro diritto fare esperienze solo edificanti ed allietanti, come se l'esperimentare la nostra povertà interiore non fosse degno di noi. Ma un simile atteggiamento non ci fa progredire. Impazienza e rimproveri mossi a noi stessi promuovono solo la nostra vanità e ci fanno invischiare sempre più nella rete dell'autoosservazione. Per pensieri egocentrici non dev'esserci posto nella meditazione, come non può es-sercene nella vita del cristiano in genere.

Dobbiamo rivolgere la nostra attenzione esclusivamente alla Parola e affidarci esclusivamente alla sua opera. Non potrebbe darsi che Dio stesso ci mandi questo periodo di vuoto e deserto inferiore, perché fossimo pronti ad attenderci di nuovo tutto da Lui? «Cercate Dio, non un piacere» - questa è la regola fondamentale per ogni meditazione. Se cerchi solo Dio, troverai gioia - ecco la promessa data ad ogni meditazione.

L'intercessione come servizio alla comunità

La lettura della Parola ci spinge alla preghiera. Abbiamo già detto che la via più sicura per giungere alla preghiera è di lasciarci guidare dal passo biblico, pregare fermandosi su quanto si è letto. Così non cadiamo nel nostro stesso vuoto. Pregare non significa altro che essere pronti a far propria la Parola, ad applicarla alla mia situazione, ai miei compiti particolari, alle mie decisioni; ai miei peccati, alle mie tentazioni. Ciò che non può entrare a far parte della preghiera della comunità, può essere esposto qui, nel silenzio, davanti a Dio. Basandoci sul passo biblico, chiediamo chiarezza per la nostra giornata, preghiamo di essere preservati dalla tentazione, di progredire nella santificazione, di rimanere fedeli al nostro lavoro e di ricevere le forze necessario per compierlo; lo chiediamo nella certezza di essere esauditi, perché la nostra preghiera sorge dalla Parola e dalla promessa di Dio. La parola di Dio è stata compiuta in Gesù Cristo, perciò ogni preghiera che noi rivolgiamo a Dio richiamandoci a questa Parola è sicuramente esaudita in Gesù Cristo. Una particolare difficoltà alla nostra meditazione sta nel fatto che i nostri pensieri si lasciano facilmente distrarre e vagano per proprio conto, soffermandosi su qualche altra persona o qualche avvenimento della nostra vita. Per quanto ne siamo sempre di nuovo rattristati e ce ne vergognamo, pure non dobbiamo lasciarci prendere dallo scoraggiamento o dal timore o addirittura pensare che noi non siamo fatti per tali periodi di meditazione. Qualche volta può essere di aiuto non cercare disperatamente di scacciare i pensieri e di concentrarci, ma di includere semplicemente nella nostra preghiera la persona o l'avvenimento che ci è venuto in mente e distrae sempre di nuovo il nostro pensiero; così torneremo pazientemente al punto di partenza della nostra meditazione.

Come facciamo seguire la nostra preghiera personale alla lettura della Parola, così è bene fare per l'intercessione. Non è possibile, in un culto in comune, ricordare tutte le persone che ci sono affidate e intercedere per loro, o comunque non nella forma dovuta. Ogni cristiano ha la propria cerchia di persone che gli hanno chiesto di intercedere per loro o per le quali si sente chiamato, per determinate ragioni, a intercedere. In primo luogo saranno coloro insieme ai quali vive ogni giorno. E qui ci troviamo ad un punto in cui sentiamo battere il cuore di ogni convivenza cristiana. Una comunità cristiana vive dell'intercessione reciproca dei mèmbri o perisce. Non posso giudicare o odiare un fratello per il quale prego, per quanta difficoltà io possa avere ad accettare il suo modo di essere o di agire. Il suo volto, che forse mi era estraneo o mi riusciva insopportabile, nell'intercessione, si trasforma nel volto del fratello per il quale Cristo è morto, nel volto del peccatore perdonato. Questa è una scoperta veramente meravigliosa per il cristiano che incomincia a intercedere. Non esiste antipatia, non esiste tensione e dissidio personale che, da parte nostra, non possa essere superato nell'intercessione. L'intercessione è il bagno di purificazione a cui il singolo ed il gruppo devono sottoporsi giornalmente. Può esserci un'aspra lotta con il fratello, nella nostra intercessione, ma rimane la promessa che vinceremo. Come? Intercedere non significa altro che presentare il fratello a Dio, vederlo nella luce della croce di Gesù come povero uomo e peccatore bisognoso di grazia. Con ciò viene a cadere tutto quello che me lo rende antipatico; lo vedo in tutta la sua miseria e pena; nel suo travaglio e peccato che mi si mostrano così grandi e così opprimenti come se fossero i miei; ed allora non posso fare a meno di supplicare: «Signore, opera tu stesso, tu solo in lui, secondo la tua severità e la tua bontà». Intercedere significa: concedere al fratello lo stesso diritto che è stato concesso a noi, cioè di porsi davanti a Cristo ed essere partecipe della sua misericordia.

Da ciò risulta chiaro che anche l'intercessione è un servizio che ci viene chiesto da Dio e dal fratello, ogni giorno. Chi si rifiuta di intercedere per il prossimo, gli rifiuta il suo servizio cristiano. È pure chiaro che l'intercessione non è preghiera generica, indistinta e confusa, ma una richiesta molto concreta. Si tratta di persone ben precise, e di difficoltà precise, perciò anche di richieste precise. Quanto più chiara è la mia preghiera di intercessione, tanto più certo ne è l'esaudimento.

Ed infine non possiamo nemmeno rifiutarci di riconoscere che il servizio di intercessione richiede tempo, da parte di ogni cristiano e, più ancora, da parte di ogni pastore, a cui è affidata tutta una comunità. L'intercessione sola, se fatta bene, riempirebbe tutto il tempo che vogliamo dedicare alla meditazione. Così si dimostra che l'intercessione è un dono della grazia divina a ogni comunità cristiana e a ogni cristiano. Poiché con essa ci viene offerto un dono incommensurabile, lo accetteremo anche con gioia. Proprio il tempo che dedicheremo all'intercessione sarà per noi, ogni giorno, fonte di sempre nuova allegrezza nel Signore e nella comunità cristiana.

Dato che meditazione, preghiera e intercessione sono un servizio dovuto a Dio, e dato che in questo servizio troviamo la grazia di Dio, dobbiamo esercitarci a trovare per questo servizio un'ora fissa durante la giornata, come per ogni altro servizio che rendiamo. Non si tratta di «legalismo», ma di disciplina e di fedeltà. Per lo più l'ora della mattina sarà l'ora migliore. Anche di fronte ad altri abbiamo il diritto di prenderci quest'ora e possiamo procurarci questo periodo di silenzio indisturbato, anche a dispetto di tutte le difficoltà che ci vengono dall'esterno. Per un pastore questo è un ordine inderogabile da cui dipenderà tutto il suo modo di dedicarsi al suo ministero.

Chi sarà fedele nelle cose grandi, se non ha imparato ad esserlo in quelle piccole?

II tempo della prova nel mondo non cristiano

Ogni giorno il cristiano, per molte ore, si trova solo in mezzo ad un mondo tutt'altro che cristiano. È il tempo della prova. È la prova di una buona meditazione e di una buona comunione cristiana. La comunità è servita a rendere ogni membro libero, forte e maggiorenne? O lo ha reso inesperto e incapace di agire da sé? Lo ha preso per la mano per un breve tratto, perché impari di nuovo a camminare da solo? o lo ha reso pauroso e indeciso? Ecco una delle prime e più difficili domande rivolte ad ogni gruppo comunitario cristiano. Qui si dimostrerà inoltre se la meditazione ha condotto il cristiano in un mondo irreale, dal quale si risveglia pieno di paura quando deve uscire nel mondo terreno per compiere il suo lavoro, o se lo ha condotto nel mondo reale di Dio, dal quale esce per andare, fortificato e purificato, incontro al nuovo giorno? Lo ha fatto vivere brevi momenti di ebbrezza spirituale, che svaniscono quando si trova di fronte alla realtà quotidiana; o gli ha radicato così profondamente nel cuore la Parola di Dio, che questa lo sostiene e fortifica per tutto il giorno e lo spinge ad un amore attivo, all'obbedienza, alla buona Opera? Solo la giornata ne deciderà.

La presenza invisibile della comunità cristiana è una realtà ed un aiuto per il singolo? L'intercessione degli altri mi sostiene durante la giornata? La Parola di Dio mi è vicina, mi consola, mi fortifica? Abuso delle ore in cui sono solo agendo contro gli interessi della comunità, contro la Parola e contro la preghiera? Il singolo deve sapere che anche il suo comportamento quand'è solo si riflette sulla comunità; quando è solo può distruggere e macchiare la comunità, e può fortificarla e santificarla. Ogni autodisciplina del cristiano è pure un servizio reso alla comunità. D'altra parte non esiste peccato, per quanto nascosto, commesso dal singolo nel pensiero, nella parola o nel-l'azione che non arrechi danno a tutta la comunità. Nel corpo penetra un germe patogeno, del quale ancora, forse, non si sa donde provenga, in quale membro si trovi, ma dal quale pure il corpo è già avvelenato. Ecco l’immagine della comunità cristiana. Poiché siamo membra di un corpo non solo quando vogliamo esserlo, ma in tutto il nostro essere, perciò ogni membro serve a tutto il corpo a salvezza o a perdizione. Non è una teoria, ma una realtà spirituale, che nella comunità cristiana viene spesso sperimentata in maniera impressionante, o come forza distruttrice o come forza vitale.

Chi, dopo la sua giornata lavorativa, torna nel gruppo comunitario, porta con sé la benedizione della solitudine, e lui stesso riceve a sua volta la benedizione della comunione. Beato chi è solo nella forza della comunione, beato chi mantiene la comunione nella forza della solitudine. La forza della solitudine e la forza della comunione è, però, solo la forza della Parola di Dio che vale per il singolo nella comunità. 

Da Bonhoeffer, Vita comune


Il grande valore della condivisione

 I tuoi beni sono proprietà di Dio

Lazzaro non ha subito alcuna ingiustizia da parte del ricco: il ricco non gli ha preso dei beni; solamente non gli ha dato parte dei propri. Se chi non ha dato parte dei suoi beni, ha come accusatore colui di cui non ha avuto misericordia, come potrà essere perdonato chi ha rubato anche i beni altrui, mentre da ogni parte sarà circondato da quelli che hanno ricevuto dei torti? In quel giorno non vi sarà bisogno di testimoni ne di accusatori, di dimostrazioni e di prove: ma le nostre azioni, una ad una, come le abbiamo compiute, appariranno davanti ai nostri occhi. 

«Ecco l'uomo e le sue opere», dice. Infatti è un furto anche i il non dare parte dei propri beni. Forse vi sembra stupefacente quanto affermo, ma non vi stupite: infatti, a partire dalle Scritture divine, vi offrirò una testimonianza, che dice come la rapina, la frode e il furto non consistono solo nel rubare i beni altrui, ma anche nel non dare agli altri parte dei propri beni. Di quale passo sto parlando? Rimproverando i giudei per mezzo del profeta, Dio dice: «La terra ha dato i suoi frutti e non avete offerto le decime: le cose tolte ai poveri sono nelle vostre case». Come a dire: «Poiché non avete fatto le solite offerte, avete rubato al povero». Dice questo per mostrare ai ricchi che appartengono ai poveri i beni che possiedono, sia che li abbiano ricevuti per eredità paterna, sia che li abbiano accumulati in un altro modo. E in un altro passo dice: «Non spogliare la vita del povero» (Sir 4,1). Chi spoglia, spoglia i beni altrui: infatti si parla di "spogliazione", quando ci impadroniamo dei beni di un altro. E da questo, perciò, impariamo che, se non facciamo l'elemosina, saremo puniti come i ladri. Infatti i beni sono del Signore, in qualunque modo li abbiamo accumulati: e se li daremo ai bisognosi, ne otterremo in gran quantità. Per questo Dio ti ha concesso di possedere più degli altri: non per sperperarlo nella lussuria, nell'ubriachezza, nelle gozzoviglie, nelle vesti lussuose e in altre mollezze, ma per dividerlo con i bisognosi. Infatti come un collettore di imposte, qualora spenda a suo piacimento il denaro che gli è affidato e tralasci di distribuirlo a chi gli è stato ordinato, ne paga le conseguenze e va incontro alla morte, così anche il ricco è una sorta di collettore che riceve delle ricchezze da spartire con i poveri e che ha il compito di distribuirle ai suoi compagni di servitù nel bisogno. Dunque, qualora spenda per sé più del necessario, nell'aldilà andrà incontro a una pena gravissima. Infatti i beni che possiede non appartengono a lui, ma ai suoi compagni di servitù.

5. Siamo pertanto parsimoniosi, come se le ricchezze non fossero nostre. Solo così diverranno nostre. Come saremo parsimoniosi? Quando non le impieghiamo per il superfluo e non solamente per le nostre necessità, ma quando le distribuiamo nelle mani dei poveri: se sei nel benessere e spendi più del necessario, dovrai render ragione delle sostanze che ti furono affidate. Questo accade anche nelle case della gente ricca. Molti infatti hanno affidato i loro affari ai loro servitori; tuttavìa, costoro custodiscono quanto è stato loro affidato e non ne abusano, ma lo distribuiscono a chi e quando il padrone glielo comanda. Fa' questo anche tu! Hai ricevuto, ti è stato affidato più degli altri, non per spenderlo da solo, ma per diventare un buon amministratore anche per gli altri. 

Non indagare sulla vita del richiedente

Chi è generoso non deve chieder conto della condotta, ma solamente migliorare la condizione di povertà e appagare il bisogno. Il povero ha una sola difesa: là sua povertà e la condizione di bisogno in cui si trova. Non chiedergli altro; ma, fosse pure l'uomo più malvagio al mondo, qualora manca del nutrimento necessario, liberiamolo dalla fame. Anche questo ha comandato di fare il Cristo, quando ha detto: «Siate simili al Padre vostro che è nei deli, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45). L'uomo misericordioso è un porto per chi è nel bisogno: il porto accoglie e libera dal pericolo tutti i naufraghi; siano essi malvagi, buoni o siano come siano quelli che si trovano in pericolo, il porto li mette al riparo all'intemo della sua insenatura. Anche tu, dunque, quando vedi in terra un uomo che ha sofferto il naufragio della povertà, non giudicare, non chieder conto della sua condotta, ma liberalo dalla sventura! Perché procurarti delle noie con le tue stesse mani? Dio ti ha liberato da ogni preoccupazione superflua e da ogni vana ricerca. Quanto a lungo e quanto a sproposito avrebbero discusso molti, se Dio avesse comandato loro di esaminare con attenzione la vita, la condotta e le azioni di ciascuno, prima di dargli l'elemosina!

Ebbene, siamo liberi da tutte queste difficoltà. Perché allora andarsele a cercare? Una cosa è giudicare, un'altra è fare l'elemosina. Si chiama elemosina proprio perché la diamo anche a chi non la merita. Anche Paolo esorta a farlo, dicendo: «Non stancatevi di fare il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede» (Gal 6,9). Se ci mettiamo ad esaminare puntigliosamente gli immeritevoli, forse non ce ne capiterà mai uno che la meriti; al contrario, se diamo anche agli immeritevoli, sicuramente verrà incontro alle nostre mani chi la merita e chi è in grado di compensare l'indegnità di quegli altri. Come accadde al beato Abramo, che senza esaminare i passanti, una volta ebbe la possibilità di ospitare anche gli angeli. Imitiamolo anche noi e, con lui, il suo discendente Giobbe. Infatti quest'ultimo ha emulato con grande zelo la generosità del suo antenato e, per questo motivo, diceva: «La mia porta era aperta a ogni viandante» (Gb 31,32). Non era aperta ad uno e chiusa ad un altro, ma aperta indistintamente a tutti.

6. Comportiamoci anche noi allo stesso modo, vi scongiuro, senza investigare oltre il dovuto. Infatti l'unico merito del povero è il suo bisogno: e se qualcuno ci viene incontro con questo, non esigiamo nulla di più. Infatti non facciamo l'elemosina al comportamento, ma all'uomo; ne proviamo compassione per la sua virtù, ma per la sua sventura, affinchè anche noi possiamo ottenere dal Signore grande misericordia e noi, che non la meritiamo,possiamo godere della sua filantropia. 

Se infatti ci mettessimo a esaminare i meriti dei nostri compagni di servitù e a fare mille investigazioni, Dio farà lo stesso anche con noi: e noi, che con insistenza chiediamo conto delle azioni dei nostri compagni di servitù, verremo privati della filantropia che viene dall'alto. Egli dice: «Con il giudizio con cui giudicate sarete giudicati (Mt 7,2). 

Giovanni Crisostomo, Discorsi sul povero Lazzaro, 2, 4-6)


lunedì 8 dicembre 2025

Accoglienza reciproca nella Chiesa

Pieve di Romena
in Casentino (Ar)
Lettera ai romani 

Capitolo 14

Paolo, dopo aver parlato del rapporto tra i cristiani con le autorità, tratta ora una seconda questione specifica che gli stava molto a cuore: spegnere la discordia tra i credenti che provenivano dall’ebraismo (giudeo-cristiani) e i credenti che provenivano dal paganesimo (etno-cristiani). Gli ebrei erano abituati a rispettare rigorose norme di carattere alimentare. La Legge, di per sé, proibiva soltanto l’astensione dagli animali definiti impuri ma alcune correnti giudaiche avevano esteso questa proibizione fino a proibire il consumo di tutte le carni (Cf Dn 1,8-16). Inoltre avevano stabilito altre pratiche ed osservanze in certe scadenze del calendario (14,5). 

I giudeo-cristiani, anche dopo il Battesimo, continuavano a seguire tali pratiche. Questo comportamento suscitava un certo disappunto da parte degli etnocristani. Forse alcuni di loro, per evitare tensioni, trasgredivano delle norme alle quali, però, si sentivano obbligati in coscienza. Diventavano allora persone “deboli”, a rischio di peccare, rispetto agli altri che liberi da scrupoli, si sentivano “forti”. L’apostolo invita tutti all’accoglienza reciproca evitando atteggiamenti di disprezzo o di condanna gli uni contro gli altri (14,10-12). Devono imitare l’accoglienza verso tutti manifestata da Dio stesso (14,3). Tutti infatti adottano un loro particolare stile di vita animati dal desiderio di essere fedeli al Signore Gesù, il quale ha il potere di rendere ogni credente capace di fedeltà secondo la sua particolare convinzione (14,4). Tutti appartengono a lui durante questa vita ed anche oltre la morte (14,8). Bisogna evitare che, proprio all’interno della comunità, qualcuno cada in peccato trascinato da altri a trasgredire ai dettami di coscienza (14,15). Ogni credente è prezioso agli occhi del Signore il quale ha donato la sua vita per tutti (14,15). A suo parere, non esiste una differenza religiosa tra i cibi e nessun alimento è impuro (14,14). Il Regno di Dio introdotto da Gesù è interessato a far acquisire beni spirituali molto più rilevanti (14,17) ma, proprio la novità creata dal Signore esige un profondo rispetto reciproco fondato sulla carità (14,21). Bisogna imparare a ridimensionare le proprie convinzioni, non vincolanti, quando questo è necessario per favorire la comunione. 

1Accogliete chi è debole nella fede, senza discuterne le opinioni. 2Uno crede di poter mangiare di tutto; l’altro, che invece è debole, mangia solo legumi. 3Colui che mangia, non disprezzi chi non mangia; colui che non mangia, non giudichi chi mangia: infatti Dio ha accolto anche lui. 

«Considerate la prudenza di Paolo e vedete come qui egli dimostra la sua consueta saggezza in ciò che dice delle due categorie di fedeli: esprime loro un rimprovero moderato. Non osa dire (agli ex-pagani) che rimproveravano gli altri: fai male [a deridere gli ebrei]. Non vuole neppure che i Giudei persistano nelle loro osservanze. Non dice loro: fate bene [a conservare le pratiche legali], per non consolidarli ancora di più. I più deboli sono sempre quelli che richiedono più cure. Pertanto, rivolgendosi subito ai più forti [etno-cristiani], dice loro: [c’è] chi è ancora debole nella fede. Denominare qualcuno così è mostrare che è malato. Accoglietelo con carità: questo invito dimostra ancora una volta che ha bisogno di molte cure e che la malattia è grave. 

I più progrediti deridevano quelli che chiamavano uomini di poca fede, cristiani sospetti che continuavano a “giudaizzare”. Questi ultimi [i giudeo-cristiani] giudicavano i loro accusatori; li rimproveravano di infrangere la legge per soddisfare la loro gola (il che era vero per un buon numero di gentili). Per questo l'apostolo aggiunge: Dio ha preso al suo servizio [anche chi era pagano]. Perché allora lo rimproveri di non sottostare alla legge? Dio ha accolto anche lui, cioè gli ha comunicato la sua grazia ineffabile e lo ha assolto da ogni accusa» (CLR 25,1). 

4Chi sei tu, che giudichi un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone. Ma starà in piedi, perché il Signore ha il potere di tenerlo in piedi. 

«Quando dice starà in piedi, l'apostolo lo mostra vacillante, bisognoso di attenzione, di grande cura. Viene invocato Dio stesso per guarirlo: Egli è onnipotente per renderlo saldo. Questo è il linguaggio che usiamo quando i malati sono quasi nella disperazione. Per evitare la disperazione, chiama questo malato un servo: Chi sei tu, per giudicare il servo altrui? Un nuovo rimprovero indiretto! Non è perché la sua condotta non sia degna di giudizio che ti proibisco di giudicarlo, ma perché è il servo di un altro; il che significa che non è tuo, ma di Dio. Se rimane saldo o se cade: sia l'uno che l'altro di questi due stati, in entrambi i casi, è affare del Signore perché è lui che soffre la perdita quando il servo cade, e, quando rimane saldo, il guadagno è del Signore. Non potrebbe rimproverare più fortemente questo zelo indiscreto. Dice: Dio che subisce la perdita, soffre senza lamentarsi. Quale zelo intempestivo, quale eccesso di ansia non mostri, nel tormentare, nell'inquietare chi non fa come te?» (CLR 25,2)

5C’è chi distingue giorno da giorno, chi invece li giudica tutti uguali; ciascuno però sia fermo nella propria convinzione. 6Chi si preoccupa dei giorni, lo fa per il Signore; chi mangia di tutto, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; chi non mangia di tutto, non mangia per il Signore e rende grazie a Dio.

«Non si tratta qui di decisioni [etiche] capitali: ciò che bisogna sapere, infatti, è se l'uno o l'altro si comporta in vista di Dio, se, da entrambe le parti, si finisce per rendere grazie a Dio. Ebbene! Entrambi benedicono Dio. Pertanto, poiché da entrambe le parti Dio è benedetto, non c'è molta differenza» (CLR 25,2). 

7Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, 8perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. 9Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi. 

«Non siamo liberi; abbiamo un Signore che desidera la nostra vita, non la nostra morte. Egli si interessa della nostra morte e della nostra vita più di noi. Con ciò dimostra infatti di prendersi cura di noi più di quanto noi ci prendiamo cura di noi stessi, di considerare la nostra vita un tesoro per lui e la nostra morte una perdita. È sufficiente, per dimostrare che Dio si prende cura di noi, dire che viviamo per lui e che moriamo per lui. Fornisce poi un'altra prova, un segno lampante della provvidenza di Dio. Qual è questo segno? Per questo stesso motivo Gesù Cristo morì e risuscitò: per avere dominio sui morti e sui vivi. Siate dunque convinti che egli è sempre preoccupato per la nostra salvezza e per la nostra perfezione. Se infatti la sua provvidenza non si fosse preoccupata così tanto di noi, che necessità avrebbe avuto di incarnarsi tra noi? Lo zelo di farci sue membra lo portò ad assumere la forma di schiavo, fino alla morte. Dopo tali prove, ci avrebbe disprezzato? No, no; non avrebbe voluto perdere ciò che gli era costato così caro» (CLR 25,2). 

10Ma tu, perché giudichi il tuo fratello? E tu, perché disprezzi il tuo fratello? Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio, 11perché sta scritto: Io vivo, dice il Signore: ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio. 12Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio. 13D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello.

«L'apostolo continua con tono più mite: tu perché condanni il tuo fratello? Il titolo di fratello che usa pone fine alla lite. Poi ricorda il terribile giorno del giudizio» (CLR 25,3). 

14Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è impuro in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come impuro, per lui è impuro. 15Ora se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Non mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto! 16Non divenga motivo di rimprovero il bene di cui godete! 

«Nulla è impuro, dice l'apostolo, se non per chi pensa che sia impuro. Perché allora non correggere il fratello, affinché si ricreda dal pensare che qualcosa è impura? Temo, dice l'apostolo, di contristarlo. Perciò aggiunge: se, mangiando qualcosa, contristi il tuo fratello, da allora in poi non cammini secondo la carità. Vedete come l'apostolo concilia i cuori? Mostra al debole cristiano di avere così tanta considerazione per lui che, per non rattristarlo, non osa nemmeno prescrivergli ciò che sarebbe tuttavia molto necessario, preferendo attirarlo con una condiscendenza piena di carità. Avendogli tolto la paura, non gli fa violenza, ma gli lascia il pieno controllo della sua condotta. Infatti, il vantaggio di far rinunciare a qualcuno un tipo di cibo non vale lo svantaggio di rattristare il fratello. Vedete fino a che punto spinge lo zelo della carità? Per questo aggiunge queste parole: Non distruggere con il tuo cibo colui per il quale Gesù Cristo è morto. Non stimi abbastanza tuo fratello da acquistare, anche a prezzo dell'astinenza, la salvezza della sua anima? Cristo ha fatto il sacrificio più grande, e tu non farai il minimo? Eppure lui è il Signore, e tu sei un fratello» (CLR 26,1). 

17Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: 18chi si fa servitore di Cristo in queste cose è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. 19Cerchiamo dunque ciò che porta alla pace e alla edificazione vicendevole. 20Non distruggere l’opera di Dio per una questione di cibo!

«Come nuova ragione per porre fine ai timidi scrupoli dell'uno, allo spirito contenzioso dell'altro, dice: il regno di Dio non consiste nel mangiare e nel bere. È per questo che possiamo essere giustificati? Quali sono dunque i titoli che ci danno accesso al cielo? Giustizia, pace, gioia, pratica della virtù, concordia fraterna, che sono ostacolati da tali dispute; la gioia dell'armonia che è rovinata da tali rimproveri. Queste riflessioni l'apostolo le ha rivolte non a una sola delle due parti, ma a entrambe contemporaneamente, perché c'è l'opportunità di farle comprendere a entrambi. Le vostre lotte, le vostre dispute, i problemi che causate, le divisioni che provocate nella Chiesa, i vostri insulti al vostro fratello, il vostro odio contro di lui, eccitano maldicenze dall'esterno, così che non solo, con ciò, non correggete nulla, ma producete un effetto completamente contrario. Il vostro bene è la carità, l'amore fraterno, l'unione, la concordia, la pace, una vita dolce e clemente» (CLR 26,1).

Tutte le cose sono pure; ma è male per un uomo mangiare dando scandalo. 21Perciò è bene non mangiare carne né bere vino né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi. 22La convinzione che tu hai, conservala per te stesso davanti a Dio. Beato chi non condanna se stesso a causa di ciò che approva. 23Ma chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce secondo coscienza; tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza è peccato.

«Per evitare che le concessioni fatte rafforzassero il più debole nei suoi errori, l'apostolo si rivolge a lui e lo rimprovera: tutti i cibi siano puri, ma un uomo fa male a mangiarli, quando lo fa con una cattiva coscienza. Quindi se hai costretto tuo fratello con la forza e lui ha mangiato, non ci sarebbe alcun profitto; non è il cibo che contamina, ma l'intenzione di chi mangia. Se, quindi, non correggi questa intenzione, tutti i tuoi sforzi sono vani e hai solo fatto del male; perché c'è una grande differenza tra credere semplicemente che un cibo sia impuro e mangiarlo quando si crede che lo sia. Quando, quindi, violi quest'anima debole, pecchi doppiamente: accresci il suo pregiudizio combattendolo, la costringi a mangiare qualcosa che crede impuro. Pertanto, finché non hai operato la persuasione, non esercitare costrizione. L'apostolo è più esigente; non gli basta che ci asteniamo dalla costrizione, vuole anche che abbiamo condiscendenza verso il cristiano giudaizzante. Egli stesso, infatti, ha spesso dato l'esempio, come quando circoncise il suo discepolo, quando gli rasò i capelli, quando fece le oblazioni legali. Nulla può essere paragonato alla salvezza del vostro fratello. E questo è ciò che Cristo ci mostra a sufficienza, lui che è disceso dal cielo, che ha sofferto ogni cosa per noi. 

Non obiettarmi, dice l'apostolo, che il tuo fratello agisce senza ragione, ma che tu puoi correggerlo. La sua debolezza è una ragione sufficiente per venire in suo aiuto, soprattutto perché non ti reca alcun danno. La tua condiscendenza non sarà ipocrisia, ma un'indulgenza edificante e saggia. Se usi costrizione con lui, ti resiste, ti condanna e persiste nel suo pregiudizio e nel suo scrupolo; se, al contrario, ti trova indulgente, si affeziona a te; il tuo insegnamento non gli sembra sospetto e ti permette di seminare gradualmente i semi della verità in lui. [Al contrario] dal momento in cui ha concepito odio contro di te, tu stesso avrai chiuso ogni accesso alle tue parole nella sua anima. Perciò non costringerlo, ma per il suo bene astieniti; Non perché consideri impuro il cibo, ma perché saresti per lui motivo di scandalo; in questo modo aumenterai il suo affetto per te» (CLR 26,2). 

Capitolo 15

Nei primi versetti (1-13) riprende e conclude l’argomento sviluppato nel capitolo precedente. Ogni credente deve cercare di edificare il prossimo e evitare ogni motivo di scandalo. Si tratta di di imitare lo stile di vita di Gesù. In tutta la vita non curò mai il proprio interesse ma si spese per quello degli altri (15,3.7); non soltanto li beneficò ma accettò con pazienza i loro insulti. Lo attesta la Sacra Scrittura che offre sempre un insegnamento molto utile per consolidare la nostra speranza. I membri della comunità, provenienti da culture diverse, devono accogliersi imitando Gesù che si pone a servizio degli Ebrei per attuare la promessa di Dio ai Padri e che serve anche i pagani per manifestare la sua misericordia. 

L’apostolo ha esaurito tutte le sue istruzioni e comincia a congedarsi dalle comunità. Ora deve chiedere il loro aiuto e per questo riprende ad usare un linguaggio molto dimesso. Non è il loro fondatore e neppure una loro guida specifica. Si scusa di aver voluto impartire istruzioni, comunicando loro insegnamenti che già conoscevano. Detto questo, richiama ciò che più gli interessava. Ricorda che egli è un servitore di Cristo, accreditato da lui. Ha realizzato in modo magnifico l’incarico ricevuto. È come un sacerdote che offre a Dio non vittime sacrificali ma una miriadi di persone che si dedicano a Dio, così che la sua missione è un vero atto di culto. Questo è stato reso possibile per il fatto che Cristo stesso ha agito per mezzo di lui. 

Essere graditi al prossimoo

1Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. 2Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene, per edificarlo. 

«Vedete come li esalta con queste parole lusinghiere, in cui non solo li chiama forti, ma li mette anche sullo stesso piano di sé? E fa di più, li prende per l'idea di utilità, senza dire loro nulla di penoso. Voi siete forti, dice loro, e se usate condiscendenza non vi fate alcun male; ma l'infermo corre i rischi maggiori se non è sostenuto. Ora non parla di infermi, ma delle debolezze degli infermi, per suscitare la compassione dei fedeli. Siete diventati forti? Rendi la ricompensa a Dio che vi ha creati tali; sarete graditi a lui, se aiuterete gli ammalati a risorgere. Anche noi eravamo deboli, ma la grazia ci ha resi forti.

Questa condotta non si deve osservare solo nelle debolezze della fede, ma anche in ogni altra debolezza. Ad esempio, se un uomo è incline all'ira, o è incline a pronunciare parole violente, o ha qualche altro difetto, sopportatelo. Non cerchiamo la nostra soddisfazione personale. Ciascuno di voi si sforzi di soddisfare il prossimo in ciò che è buono e può edificarlo. Sei forte Lascia che l'infermo senta la tua forza; fagli sapere per esperienza qual è la tua forza, pensa a soddisfarlo» (CLR 27,2). 

3Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma, come sta scritto: Gli insulti di chi ti insulta ricadano su di me. 

«Di nuovo ricorre a Cristo. Questo è ciò che l'apostolo non manca mai di fare. Quando parla dell'elemosina, indica Cristo, dicendo: Voi conoscete la bontà del nostro Signore Gesù Cristo, che, essendo ricco, si è fatto povero per noi (2 Cor 8,9); per persuadere alla carità, si affida di nuovo a Cristo, dicendo: Come Cristo ci ha amati ( Ef 5,25); e quando consiglia di sopportare la vergogna e affrontare i pericoli, ricorre di nuovo a Cristo, dicendo: il quale, invece della vita felice, che avrebbe potuto godere, sopportò la croce e disprezzò la vergogna (Eb 12,2). Ecco l'apostolo propone Gesù Cristo come esempio, chiedendo [al forte] di portare le infermità altrui, e cita un oracolo dei profeti: Come sta scritto: Gli oltraggi fatti a voi sono ricaduti su di me. Ma ora, che cosa significano queste parole: Non cercò di piacere a se stesso? Non avrebbe potuto sopportare i rimproveri, non avrebbe potuto soffrire ciò che ha sopportato, se avesse voluto pensare solo ai propri interessi. Ma non volle. Pensando solo a noi, non pensò più a se stesso» (CLR 27,2). 

4Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza. 

L'apostolo rafforza poi i fedeli contro le tentazioni che dovranno subire, dicendo: Tutto ciò che è stato scritto è stato scritto per nostra istruzione, affinché conserviamo la speranza mediante la pazienza e la consolazione che ci danno le Scritture, cioè affinché non cadiamo. In effetti, i conflitti sono di mille tipi, interiori ed esteriori, e l'apostolo vuole che noi, rafforzati e confortati dalle Scritture, mostriamo la nostra pazienza; che la perseveranza nella pazienza sia per noi perseveranza nella fede. Esse si generano a vicenda, la speranza produce pazienza, la pazienza produce speranza, ed entrambe nascono dalle Scritture (CLR 27,2). 

5E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù, 6perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo.

«L'apostolo qui trasforma di nuovo le sue esortazioni in preghiere. È nella natura della carità avere per gli altri gli stessi sentimenti che si hanno per sé (CLR 27,2). Poi, per dimostrare che non raccomanda un amore qualsiasi, aggiunge: sull’esempio di Cristo Gesù. Questa è l'abitudine costante di Paolo; perché non c'è un altro amore oltre a questo. Qual è il frutto della concordia? Con un solo animo e una voce sola rendere gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Non dice soltanto: Con una sola bocca, ma prescrive la comunione delle anime. Vedete come cementa ulteriormente l'unione di tutto il corpo della Chiesa e come conclude glorificando Dio? (Cf CLR 27,3)

7Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio. 

«Cediamo dunque a questo desiderio di Cristo, uniamoci strettamente gli uni agli altri. Se qualcuno vuole separarsi da voi, non separatevi, non pronunciate queste fredde parole: chi mi ama, io amo; se il mio occhio destro non mi amasse, lo caverei: queste sono parole di Satana, degne dei pubblicani, e che ispirano l'odio dei pagani. Siete chiamati a una vita superiore, siete iscritti in cielo, siete soggetti a leggi più nobili. Non fate dunque tali discorsi. Chi non vuole amarvi, circondatelo di un affetto più vivo, per attirarlo a voi; è uno dei vostri membri. Quando uno dei nostri membri viene separato dal resto del nostro corpo, facciamo di tutto per riunirlo, allora lo circondiamo di più cura e attenzione. Maggiore sarà la vostra ricompensa se attirerete a voi colui che non vi amerà. Se il Signore ci comanda di invitare alla nostra mensa coloro che non possono ricambiare, e questo affinché la nostra ricompensa sia accresciuta, quanto più dovremmo comportarci allo stesso modo nell'amicizia. Perché colui che ami, e che ti ama, ti ha pagato ciò che ti è dovuto, mentre colui che ami e che non ti ama, ha sostituito Dio al suo posto come debitore verso di te. Colui che ti ama non ha bisogno di tutta la tua sollecitudine; al contrario, colui che non ti ama è colui che ha bisogno del tuo aiuto. 

Del resto, è impossibile che chi ama diventi così facilmente oggetto di odio; una bestia selvaggia risponde all'affetto che si ha per lei con affetto; questo è ciò che, dice il Signore, fanno i pagani e i pubblicani (Mt 5, 46-47). Praticate dunque questa carità; non stancatevi di ripetere: Quanto più mi odiate, tanto più vi amerò. Ecco una parola che placa tutte le liti, che ammorbidisce tutti i cuori. Questa malattia dell'odio è o un'infiammazione o un raffreddamento; in entrambi i casi il dolce calore della carità opera la cura» (CLR 27,3).

8Dico infatti che Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri; 9le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome. 10E ancora: Esultate, o nazioni, insieme al suo popolo. 11E di nuovo: Genti tutte, lodate il Signore; i popoli tutti lo esaltino. 12E a sua volta Isaia dice: Spunterà il rampollo di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni: in lui le nazioni spereranno. 

«Parla della sollecitudine di Cristo, per mostrare quanto Cristo abbia fatto per noi, senza pensare al proprio vantaggio. Dimostra che sono i Gentili i più debitori a Dio. Ora, se sono i più debitori, è giusto che sopportino le debolezze degli Ebrei. Mostra che le benedizioni concesse agli Ebrei, sono state elargite in virtù delle promesse fatte ai loro padri; quanto ai Gentili, devono queste benedizioni solo alla misericordia, alla bontà di Dio. Gesù Cristo divenne ministro del vangelo per i Giudei, per adempiere le promesse fatte ai loro padri. Alla sua venuta, il Figlio di Dio, cooperando con il Padre, fece sì che queste promesse si adempissero. Quanto ai pagani, devono glorificare Dio per la sua misericordia. Ciò significa: gli ebrei, benché indegni, hanno ricevuto gli effetti della promessa; ma voi, che non avevate ricevuto neppure una promessa, è per un puro effetto della bontà di Dio che siete stati salvati» (CLR 28,1)

13Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo. 

Prego «affinché la vostra speranza abbondi, cioè affinché troviate non solo consolazione nelle vostre tribolazioni, ma gioia nell'abbondanza della fede e della speranza. Perché con questo attirerete lo Spirito; con questo conserverete tutti i beni con il suo aiuto. Come il cibo sostiene la nostra vita e la vita distribuisce il cibo, così se abbiamo le cose giuste, avremo lo Spirito; e se abbiamo lo Spirito, avremo buone opere. E allo stesso modo, è vero anche il contrario: se non abbiamo le cose, anche lo Spirito ci sfugge. Se perdiamo il sostegno dello Spirito, inciampiamo subito nelle nostre opere: perché una volta che lo Spirito se ne va, arriva l'impuro» (CLR 28,2).