Riassumo alcune riflessioni sull’escatologia cristiana, tratte da un libro di valore del noto biblista R. Penna («Ecco ora il momento favorevole». Il tempo e la storia fattori di base dell’identità cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2024)
La tematica escatologica è legata al momento liturgico attuale in cui celebriamo la Pasqua del Signore, Alfa ed Omega, Principio e Culmine della storia, individuale e collettiva.
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5).
Se vogliamo ridurre all'essenziale il messaggio di questo testo paolino ed esprimerlo davvero in due parole, dobbiamo semplicemente dire che l'apostolo afferma la realizzazione dell'eschaton (la fine) nel tempo, quindi all'interno della storia. Nulla è più paradossale di un'affermazione del genere. Essa contrasta, sia con la mentalità greca, che neanche conosce un vero e proprio éschaton temporale, sia con la fede giudaica, per la quale l'éschaton pone necessariamente fine alla storia.
Come mai Paolo giunge a una dichiarazione tanto sorprendente? A questo interrogativo possiamo dare una risposta complessiva. L'idea di vivere ormai alla fine dei tempi appartiene già alla coscienza tipica di tutto il cristianesimo delle origini; Paolo perciò la condivide con altri ambienti della tradizione.
Ricordiamo alcuni testi principali, che si possono accostare al nostro e che insieme ne differiscono in qualche misura. Anzitutto richiamiamo i termini con cui Marco sintetizza fin dall'inizio la predicazione di Gesù: «ll tempo è compiuto» (1,15). L'uso del verbo «compiere» accosta questo passo a quello di Gal 4,4 (dove compare pleroma) per indicare appunto un compimento; anzi, il fatto che il verbo sia un perfetto dice al lettore attento che il compimento si è già verificato e, insieme, il suo effetto perdura nel tempo. Nell'intenzione di Marco, questo compimento non è futuro, ma coincide già con la presenza effettiva di Gesù, qui e ora: è lui che dà valore al tempo, trasformandone il significato per il suo discepolo. Marco impiega il termine kairós che ha una sfumatura diversa rispetto a chrónos. Esso, infatti, indica non il tempo in genere, ma il tempo concreto, determinato in funzione di un soggetto o di un gruppo di soggetti.
In realtà, ciò che si compie è il «mio» tempo: io sono chiamato in causa dalla presenza di Gesù; segue, infatti, l’invito al pentimento e alla fede. Quindi in Marco, per quanto risuonino echi apocalittici, la prospettiva non riguarda la macrostoria ma la storia di ogni singolo ascoltatore delle parole di Gesù, come per dire che è arrivato per lui il momento decisivo della sua vita.
Nella Lettera agli Ebrei (1,2) leggiamo che Dio ci parlò nel Figlio «alla fine dei giorni, che sono questi». Contrapponendoli al passato (pálai, «una volta»), quando Dio parlava ai padri per mezzo dei profeti, l'autore evidenzia tutta la differenza che connota ormai il presente a motivo dell'intervento del Figlio. È lui, è la sua presenza che fa si che i giorni attuali si debbano computare qualitativamente come ultimi (definitivi e conclusivi).
Ciò che qui viene detto a proposito della rivelazione in parole, in Eb 9,26 lo si dice della sofferenza patita da Gesù: sottolineando la differenza con i sacrifici del sacerdozio ebraico, l'autore dichiara che in lui il sacrificio si è compiuto una sola volta, «adesso (nyni), alla conclusione dei secoli». Quest'ultima locuzione è comune nelle apocalissi giudaiche, ma in riferimento al futuro intervento di Dio alla fine dei tempi. Qui invece, l’“adesso” mette in rilievo non solo il tempo presente dei destinatari come tempo salvifico escatologico, ma soprattutto il tempo della rivelazione di Cristo come tempo del compimento escatologico.
[Altri testi At 2,17; 1 Cor 10,11].
Ritornando a Gal 4,4 si devono rilevare tre elementi:
1. La missione del Figlio
Tutti gli scritti cristiani, infatti, collegano la nuova concezione del tempo con la venuta di Gesù, con il suo ministero, con la sua morte e la sua risurrezione, e con il dono del suo Spirito. Bisogna però riconoscere che in Gal 4,4, più che altrove, l’accenno al Figlio è caricato di un'enfasi particolare, sia perché sta al centro di una frase principale, sia perché il concetto stesso di invio (exapésteilen) è raro nel Nuovo Testamento (oltre a Rm 8,3, si vedano anche Gv 3, 16; 1Gv 4,9).
Sullo sfondo non si può non sentire risuonare l'invocazione di Sap 9,10: «Mandala dai cieli santi, e inviala dal trono della tua gloria», che suppone la pre-esistenza di una Sapienza divina presso il Signore nei cieli. Oltre a questo specifico parallelismo, già la semplice idea di una missione da parte di Dio implica comunque una cristologia forte, in quanto suppone che colui che viene inviato goda di una pre-esistenza presso l'Inviante. È proprio la missione di questo Figlio a costituire il tempo nella sua pienezza. Ma una tale missione non è a vuoto. Dio non agisce senza scopo. Infatti, il periodo iniziato al v. 4 continua poi con due frasi finali, che appunto specificano il fine della missione e che, pertanto, contribuiscono assolutamente a delineare i contorni esatti della pienezza di cui si parla.
2. Il superamento della Legge
Alla connotazione del Figlio «nato sotto la Legge» corrisponde subito il primo scopo di quella nascita: «Per riscattare coloro che erano sotto la Legge» (4,5a). È qui che comincia a delinearsi lo specifico della concezione paolina sulla pienezza del tempo. Tutto ciò suppone in Paolo una concezione negativa della legge e della sua funzione. Fondamentale per Paolo è la convinzione davvero evangelica che finalmente in Cristo ci è stato tolto questo gioco di schiavitù. Proprio tale atto liberatorio appartiene di pieno diritto alla pienezza del tempo.
3. L'adozione a figli
La figliazione cristiana consiste poi propriamente nella ricezione dello Spirito del Figlio nei nostri cuori dove egli grida : «Abba padre!». Ecco la pienezza del tempo! Nel fatto di potersi rivolgere a Dio in termini pienamente filiali. Nella lettera agli Efesini si dice che siamo diventati familiari di Dio, ammessi a pieno titolo nella sua intimità.
Il costitutivo di un rapporto del genere non sta in una figlizione autonoma, come se Cristo avesse concesso a ogni credente la possibilità di rivolgersi a Dio da solo, a puro titolo personale secondo una figliazione parallela alla sua. Al contrario è chiaro che per Paolo il cristiano è figlio soltanto attraverso Gesù, il figlio vero unico, incomparabile. La pienezza infatti non consiste in un rinnovamento antropologico sganciato da Gesù; piuttosto il rinnovamento antropologico viene attratto nella dimensione della pienezza mediante l'invio e l'opera salvifica di Gesù.
L'evento pasquale determinò una vera svolta per i cristiani circa la percezione dell'identità di Gesù. Pietro, poco dopo la Pasqua, affermò che il Risorto era «l'iniziatore (archegós) della vita» (At 3,15), avendo compiuto «ciò che aveva annunciato per bocca di tutti i profeti» (At 3,18) e lo esaltò come «capo e salvatore» (At 5,31).
Paolo poi dichiara che a Gesù crocifisso Dio «donò il nome di Signore, che è sopra ogni altro nome» (Fil 2,9). Altrove l'Apostolo qualifica Gesù risorto come «ultimo Adamo» (1Cor 15,45), cioè un nuovo progenitore, come se in lui si riprendesse da capo la storia dell'umanità. Gli venne riconosciuta la divinità in modo esplicito o implicito: «Il Verbo era Dio» (Gv 1,1); «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28); «il nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13); «in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9); «tutto sostiene con la sua parola potente» (Eb 1,3).
Mentre la crocifissione appartiene alla storia, la risurrezione è una interpretazione di essa (e della persona di Gesù), a partire dalla fede. L’attività e la persona di Gesù vennero sottoposte a tante interpretazioni quante furono le persone o le comunità che se ne interessarono poiché Egli superava qualsiasi possibilità di incapsularlo in una sola definizione.
Venne proclamato Signore, Emanuele, Sacerdote (lui che era laico) Salvatore, Unigenito, Agnello sgozzato eppure ben ritto in piedi. Tutti questi titoli dicono molto di più sulla sua identità rispetto a quelli di maestro, profeta, messia. Molteplicità non significa eterogeneità, ma pluralità di ritratti che si fondono un unico quadro tutto sommato armonioso.
La risurrezione di Gesù non rappresenta soltanto un passaggio dalla morte alla vita, ma è un innalzamento presso Dio, alla sua destra, voluto da Dio stesso. Ora, anche in quanto uomo, è collocato su un piede di uguaglianza soteriologica con Dio, tanto da donare lo stesso Spirito. La parola economia, usata dalla Lettera agli Efesini per parlare dell’azione del Risorto, non significa realizzazione, dispensazione, ma, secondo il suo senso letterale, amministrazione, conduzione, guida, governo. La pienezza dei tempi ha il valore continuativo di una durata e comprende l'insieme delle occasioni e dei momenti utili per la salvezza che stanno tra la resurrezione di Gesù e la sua venuta finale.
Secondo la prima coscienza cristiana, la Pasqua dà inizio alla pienezza del tempo.
La risurrezione di Gesù, di conseguenza, non è un evento isolato, come ad esempio la resurrezione di Lazzaro. È, piuttosto, una primizia e perciò richiede di essere proseguita e completata dalla risurrezione generale. In questo senso è un evento escatologico che appartiene necessariamente al tempo finale.
Nella trattazione esposta al cap. 15, dove Gesù Risorto è presentato come il nuovo Adamo (1Cor 15), Paolo pensa soprattutto alla risurrezione universale degli uomini. Il futuro dell'uomo è legato alla vicenda di Cristo ma la novità di Cristo risorto si comprende solo in rapporto alla relazione con la condizione umana (o adamica) di base. Escatologia e cristologia si presentano talmente fuse da condizionarsi e chiarirsi a vicenda.
Lo sguardo sull’uomo è ottimistico. La risurrezione rappresenta la promozione globale dell'uomo tutto intero, l'elemento corporeo insieme a quello spirituale, in opposizione alla tradizione greca, che è d'impronta spiritualistica (dal momento che è interessata soltanto all’immortalità dell’anima, mentre disprezza il corpo). Paolo parla di un «corpo spirituale». Il corpo stabilisce una continuità tra il mondo presente e quello futuro. La Bibbia riconosce un’opposizione tra carne e spirito, ma non tra corpo e spirito. Il corpo è opera dell’atto creatore di Dio e questo suggerisce la positività dell’attuale condizione umana.
In questo capitolo, parlando di Adamo, infatti Paolo non accenna al tema del peccato (come avviene in Romani 5). L’Adamo contrapposto a Cristo non è l’uomo contrassegnato dal peccato ma semplicemente l’uomo creato e mortale il quale nel tempo presente vive una situazione misera rispetto a quella del Risorto. Tuttavia ora viene annunciata la vittoria escatologica sulla morte. Il nemico estremo, allora, non è il peccato ma la morte, intesa non in senso spirituale ma fisico.
È possibile, allora, stabilire un confronto tra Gesù terreno ed ogni altro uomo. Egli visse realmente come compartecipe del primo Adamo. Il corpo “psichico”, cioè terreno, non ancora trasformato dallo Spirito, non è di necessità peccaminoso perché nel suo corpo “psichico”, Cristo fu tentato come noi in tutto senza commettere peccato.
Piuttosto Paolo evidenzia una differenza tra “un prima” e un “poi”, tra una prima creazione (denominata terrestre o psichica) e un’ultima creazione (denominata pneumatica). Non è possibile farle coesistere? Esiste una inconciliabilità tra mondo presente e futuro? Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo prestare attenzione al concetto di «Spirito vivificante», un attributo assegnato a Gesù. Lo Spirito ha vivificato Gesù facendolo risorgere dai morti e spesso nel Nuovo Testamento lo Spirito viene identificato come Colui che vivifica. Questa azione raggiungerà il suo culmine nella vita eterna ma Cristo è diventato «Spirito» già a partire dalla Pasqua e quindi anche il tempo presente riceve un influsso salvifico da Lui. Questa azione salvifica è risanante ma anche elevante. La salvezza è già parzialmente ma realmente presente, connessa alla signoria di Cristo. Il suo Spirito abita già nel cristiano, in vista della tappa definitiva.
Chi aderisce a Cristo nella fede partecipa al momento decisivo della salvezza. Per i cristiani è giunta la «fine dei tempi» (1 Cor 10,11).
Il primo segno del compimento dei tempi consiste nell’effusione dello Spirito, annunciata dal profeta Gioele (3,1), un’effusione universale, senza distinzione tra giovani e vecchi, schiavi e schiave. Essa si verifica nella Chiesa (At 2,17). L’evento di Pentecoste è un segno della venuta degli ultimi tempi (Cf Ez 36,26; Is 44,3). Lo Spirito non è soltanto un principio di vita interiore, ma è soprattutto un impulso e una forza per la testimonianza; è una realtà potente che dinamizza i suoi beneficiari (At 1,8).
L’intervento divino già «qui ed ora» cambia le cose alla radice. La novità non è rimandata alla fine dei tempi, come avviene nell’apocalittica.
Si spiega così l'idea di rinascita, che si trova in bocca Gesù nel suo colloquio con Nicodemo (Gv 3,3-5). Addirittura, secondo Paolo, chi è unito a Cristo già realizza in sé e vive la novità prevista al «compimento dei tempi (eschaton)». Non si tratta di un ritorno all'indietro verso gli inizi dell’umanità, bensì di un dato nuovo, connesso con l'Ultimo (Cristo), non con il primo Adamo. Questo aspetto va tenuto presente per correggere la tesi che vede Paolo proteso verso una ritorno imminente di Cristo. In realtà per chi è in Cristo, la fine è già sostanzialmente arrivata, come certifica l'intima unione con lui mediante il battesimo che implica la morte dell'uomo vecchio. In questo senso Paolo condivide il concetto giovanneo di vita eterna già iniziata (Gv 5,24).
I battezzati sono rigenerati al punto da essere costituiti in uno stato di santità, in uno stato di rinnovamento completo. Paolo definisce i suoi destinatari “santi”, come del resto tutta la tradizione biblica ritiene che nel popolo eletto sia presente una santità oggettiva, connessa con la sua elezione e la partecipazione alla stessa santità di Dio. Questa qualità o santità di cui viene dotato ogni battezzato non è di ordine morale, quindi non è acquisibile con il personale sforzo etico, ma consiste in uno stato di base che è anteriore a ogni impegno individuale, quale dono immeritato, libero e gratuito di Dio. Su questa linea si pone l'intero discorso circa la giustificazione per fede, cioè per grazia. Anche il concetto di santificazione, raccomandata in alcuni passi, si spiega come trasposizione sul piano etico di una condizione pre-morale.
La vita cristiana è il termine a cui miravano le Scritture (cf. 1 Cor 10,11): considerando le vicende d’incredulità di Israele nel cammino nel deserto, Paolo esorta: badate che ciò non avvenga anche a voi.
Esiste un parallelo tra il compimento delle Scritture realizzatosi in Cristo e il loro compimento nella vita cristiana. Il “compimento dei tempi” non avviene soltanto oggettivamente in Cristo, al di fuori di noi, ma anche nella nostra stessa esistenza cristiana, nella nostra soggettiva esperienza di fede e di amore. Il cristiano partecipa «alla fine», è personalmente coinvolto. La pienezza dei tempi non è soltanto contemplata come un evento esterno, compiutasi nell'esistenza di Cristo, ma viene anche vissuta come un evento che tocca nel vivo ogni cristiano. Certo non si darebbe alcuna fine dei tempi, se non ci fosse stato l'evento Cristo. Il dato cristologico è determinante, è il fondamento, il punto di svolta. È in Cristo che avviene il cambiamento di era, ma il cristiano deve essere cosciente che la svolta coinvolge lui stesso. Tutto è avvenuto perché lui ormai sappia di vivere, per grazia, alla fine dei tempi: «Ecco ora il tempo favorevole! Ecco ora il giorno della salvezza» (2 Cor 6,2).
Ciò è confermato dall'Apocalisse quando annuncia la sconfitta del grande drago, del serpente antico, avvenuta mediante l’effusione del sangue dell'Agnello: «Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo» (Ap 12,10).
Secondo il quarto Vangelo, con la personale adesione a Cristo, già si sono compiuti per il cristiano gli eventi escatologici della resurrezione e del giudizio (Gv 5,24-25); si può parlare a suo riguardo di escatologia realizzata o inaugurata. Maria, la sorella di Lazzaro attesta riguardo al destino del fratello: «So che resusciterà nell'ultimo giorno». Alla questa fede tradizionale Gesù contrappone una nuova visione delle cose: «Io sono la resurrezione la vita.., chiunque vive e crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,24-26). Il messaggio decisivo di Giovanni è l’ottenimento di una vita eterna, a cui è correlato quello di resurrezione. La fede è un affidamento a Cristo, un’autoconsegna radicale a Colui che è personalmente «la via la verità e la vita» (Gv 14,6).
Dialettica tra presente e futuro
La fede cristiana passa dalla certezza del tempo già compiuto all'attesa di tempi ancora da compiersi: «Proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta [...]. La nostra cittadinanza, infatti, è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fil 3,13). L'elemento nuovo non è tanto l'escatologia, bensì la tensione fra il decisivo “già adempiuto” e il “non ancora completato”, tra presente e futuro. L'idea cristiana di una fine dei tempi rimandata al futuro ha la sua matrice nel giudaismo e nell'apocalittica giudaica.
Ci fu un’attesa da parte delle primissime generazioni cristiane di una fine imminente, in modo da rimanere deluse per la mancata venuta del Signore?
I cristiani delle generazioni successive alle prime non percepirono affatto la mancata venuta di Cristo come un problema e non c'è traccia di questa nelle fonti antiche. Se ne diedero una ragione teologica come leggiamo in una lettera della seconda generazione: «Davanti al signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certi credono, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro» (2 Pt 3,8-10).
L’immagine del ladro indica l’impossibilità di calcolare la fine.
I termini Apocalisse o apocalittico non erano sinonimi di catastrofe. L'Antica letteratura di questo genere non si proponeva di coltivare l’inquietudine o la paura ma al contrario, tendeva a spiegare l'origine del male del mondo e ancor più a offrire un messaggio di speranza alle vittime. Emerge una vera e propria teologia della storia che vede in Dio il conduttore degli avvenimenti al quale la fede Cristiana associa del Cristo Risorto.
Rimane intatta, tuttavia, per il cristiano una proiezione in avanti, pur sapendo che essa è motivata da una novità ormai resa presente. L'autore della Lettera agli Ebrei paragona la speranza del futuro ad un’ancora. Il paragone con questo strumento è quanto mai sorprendente ed efficace: sorprendente perché si tratta di un’ancora gettata in avanti o in alto invece che in basso ed è efficace perché nulla più di essa comporta l'idea di salvezza e stabilità in mezzo al turbinare dei flutti. La vera ancora è il crocifisso glorificato a cui la comunità si aggrappa come ad nuovo sommo sacerdote che ha offerto se stesso ed è entrato come precursore per noi al di là del velo del Santuario. Cristo è il nostro predecessore, dunque la speranza è soprattutto oggettiva: non si tratta del nostro personale soggettivo sperare, quanto un senso di fiducia verso colui al quale tendiamo.
Viene annunciato: «la speranza che vi attende nei cieli» (Col 1,5). «Cristo in voi, speranza della gloria» (27). Associare Cristo e la speranza significa semplicemente sapere che essa è assimilata alla definitiva vita divina a cui noi siamo destinati in Cristo. Sullo sfondo c’è una convinzione apocalittico-giudaica secondo cui il giusto possiede già un tesoro in cielo. La differenza notevole che intercorre tra lo scritto paolino e quelli giudaici, sta nel fatto che per i cristiani il tesoro in cielo non sono le nostre buone opere, ma è Cristo in persona: ed è come dire che la salvezza non ce la procuriamo noi da soli ma in Lui.
In ogni caso è al futuro che lo sguardo viene rivolto. Questo significa che il tempo storico è gravido di prospettive, nonostante le derive nichilistiche che ritengono inutile il senso del tempo e della storia, il senso del futuro. Il tempo, infatti, è abitato da una pienezza per il dono della presenza di Gesù Cristo, morto e risuscitato; esso perciò è pieno di momenti favorevoli, in cui poter vivere secondo il ritmo della speranza che apre al futuro; e quanto si realizza in esso è decisivo per la pienezza ultima, per il futuro assoluto e definitivo.
Riguardo all’escatologia cristiana, dobbiamo distinguere tre aspetti costitutivi: il collettivo, l’individuale e considerare il valore qualitativo del futuro che ci attende.
Alcune immagini accentuano il carattere comunitario o universale dell’azione definitiva di Dio: l’annuncio del giudizio universale, l’inaugurazione del Regno di Dio, la partecipazione ad un banchetto, la descrizione della Gerusalemme celeste, il millennio, le immagini negative (Geenna, fuoco tenebre…). La fede cristiana rifiuta il tema della reincarnazione.
Il messaggio del Nuovo Testamento sembra privilegiare un’attesa definitiva di carattere universale ma l’incontro personale con Cristo è previsto in alcuni passi.
Proprio Paolo, che pur testimonia l'attesa della venuta ultima del Signore Gesù tale da coinvolgere tutti insieme, scrive nella Lettera ai Filippesi di non avere ancora personalmente raggiunto la mèta, e precisa: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio della chiamata dall'alto da parte di Dio in Cristo Gesù» (Fil 3,12-14). L'idea soggiacente è quella del premio (3,14), inteso come pieno guadagno di Cristo, a motivo del quale ogni altra cosa è considerata spazzatura (3,8). Le categorie usate sono di tipo agonistico, sportivo e questa constatazione in qualche modo relativizza il linguaggio impiegato (cf 1 Cor 9,4). L'intento è quello di richiamare i lettori, in quanto cristiani, al senso di serietà e di responsabilità nella loro vita morale, che ha come sbocco un finale celeste. Secondo Paolo esiste un termine, anzi un traguardo da raggiungere, ed egli non lo ha ancora conseguito in pienezza.
Nel Nuovo Testamento il piano individuale è testimoniato anche da altre immagini. Nella parabola del ricco avaro si sottolinea che Dio sta dalla parte dei poveri ma il ribaltamento è prospettato non alla fine dei tempi, ma già al termine della storia individuale di ciascuno, diversamente da quanto si costata a Qumran.
Ricordiamo l'immagine presente nel termine Paradiso, parola di origine persiana che indicava un giardino recintato e quindi un luogo di riposo e di delizie. Col tempo acquisì una valenza religiosa per indicare la dimora celeste di Dio e dei giusti. Nel racconto del buon ladrone Gesù gli assicura il Paradiso nell’«oggi» ma né Gesù né l'evangelista precisa il modo in cui si realizza l'essere con il Signore. Si tratta però di una salvezza non solo provvisoria ma piena è definitiva, come ben commenta Sant'Ambrogio: La vita è stare con Cristo, poiché dove c'è Cristo, c'è la vita, c'è il regno. Si potrebbe dire: dove c'è Cristo, c'è il paradiso.
Tutte queste varie forme di linguaggio non sono di tipo informativo ma performativo. Più che comunicarci una rappresentazione descrittiva dell'aldilà tendono a incidere piuttosto sul comportamento della vita presente nei suoi rapporti con la vita futura. Si tratta di un linguaggio immaginoso, metaforico e la metafora implica una somiglianza approssimativa con la realtà. È certamente vero che la macrostoria del mondo non finisce con la microstoria del singolo e nessuno può pretendere di esaurire in sé la storia universale. C'è un di più che supera il singolo ed è ciò che riguarda tutti insieme. L'individuo è legato al destino collettivo ma è anche vero che con la morte individuale finisce una storia. Ciò che segue ad essa appartiene non più al provvisorio ma al definitivo. In quel momento, per il Cristiano, dopo che ha già vissuto pur in gradi diversi una comunione con Cristo, avviene un ulteriore incontro con lui, quello irrevocabile perché di un incontro si tratta.
Fin dalle sue origini il cristianesimo crede fermamente, insieme a Israele, che la salvezza ultima dell'uomo non sia soltanto spirituale. Essendo stato creato insieme al cosmo e come parte di esso, anche il cosmo intero dovrà partecipare alla promozione finale e definitiva dell'uomo. Entrambi si salvano o si perdono insieme. C'è una inestricabile connessione tra l'uomo e il creato : se egli è libero e uno con se stesso, anche la natura sarà libera, dignitosa, riconciliata. C’è una responsabilità dell'uomo nella Redenzione del Creato: più egli realizza la sua natura di figlio di Dio più questo si riverbera sul creato che recupera il proprio splendore originario, anteriore ad ogni avvenimento (Rm 8,19-23).
La bella immagine del parto si applica ad entrambi, all'uomo e al cosmo, ma all'uomo è anche affidato uno speciale incarico, quello della levatrice. L'immagine del parto, tuttavia, esclude l'idea che il futuro escatologico sia un semplice ritorno al passato delle origini e quindi un loro ripristino. Non si parla di un ritorno al Paradiso perduto. Non è in gioco una restaurazione, si tratta invece di un «novum».
Altre immagini parlano di cataclismi terrificanti ma queste descrizioni non devono inquietare più di tanto, in esse si presenta uno stereotipo collaudato da tutta una serie di scritti profetici e apocalittici.
Su questa linea ma i termini più sobri sono rappresentati da quei testi che insistono sulla novità in quanto tale senza attardarsi sulla descrizione delle eventuali catastrofi: «Noi aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2 Pt 3,13).
Alle immagini del parto e dei sommovimenti cosmici se ne aggiunge un'altra, quella della Nuova Gerusalemme.
Fin dalle sue origini il cristianesimo non si rassegna al presente in un atteggiamento rinunciatario. Guidato dal principio secondo cui Dio non si incontra tanto nella staticità della natura quanto nel dinamismo della storia, sa che l’oggi è sempre precario e comunque superabile. Perciò coltiva un sogno: un mondo in cui la giustizia abiti in modo stabile, un mondo in cui scompaiono finalmente le lacrime del dolore e della morte.
Il giudaismo prima ancora del Cristianesimo attribuisce a Dio il rinnovamento.
Paolo qualifica il futuro ultimo del mondo con l'espressione: «Dio sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,28), cioè tutte le cose raggiungono finalmente in Dio la loro pienezza e perfezione. Supponendo che Dio è amore, l'inferno consiste semplicemente nell'assenza di Dio. Le parole dell'apostolo prospettano nient'altro che la fioritura dell'amore in tutte le relazioni interpersonali, infatti solo l'amore non avrà mai fine. La concezione cristiana del Paradiso non consiste nel pensarlo come un luogo ma come una situazione qualitativa, una dimensione di vita, certo la migliore che si possa immaginare. Dio non sarà più di fronte al creato ma dentro di esso.
Il giorno ultimo
Il cristianesimo ha recepito da Israele l'idea di una venuta escatologica di Dio stesso o comunque del Messia come suo rappresentante per mettere fine alla storia e inaugurare un mondo nuovo. L'espressione è frequente già nell'Antico Testamento, particolarmente nei libri profetici e con tratti minacciosi, mentre il Nuovo Testamento, nel senso strettamente teologico (in riferimento a Dio), la impiega solo quattro volte e almeno in parte con tinte radiose.
Qui viene usato con una certa frequenza lo stesso costrutto ma in termini chiaramente cristologici, dove cioè Kyrios serve per designare non il Dio di Israele (Adonay) ma il Signore Gesù Cristo.
Un altro termine usato è quello di parousia. Nell’ellenismo indicava la visita solenne di un sovrano in una città. Mentre i cittadini dell’impero attendevano il sovrano in un luogo, i cristiani attendono il Signore nel tempo. Il termine parousia non indica mai la prima venuta di Cristo nella carne né la sua presenza interiore nei credenti.
I passi neotestamentari sottolineano lo stare protesi verso il futuro; viene valorizzata la tensione di chi attende con ansia e con gioia un incontro decisivo. La posizione è la medesima del corridore nello stadio che è proteso in avanti. «So soltanto questo dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù » (Fil 3,13-14)
Certo non si tratta di un avvento assoluto, come se colui che viene non fosse ancora noto poiché già ci fu un avvento legato all'incarnazione e alla resurrezione di Cristo. La sorpresa non potrà essere totale: l'avvenire cristiano è una specificazione e un complemento di ciò che egli conosce. La resurrezione seguì la croce, e l'avvento definitivo segue il corso storico.
Soprattutto la cosa ultima non è un fatto astratto o materiale neutro o impersonale, bensì una persona viva di cui sappiamo non solo che deve venire ma che è venuta e che viene ed è già in cammino per incontrarci. Non si dice che noi abbiamo speranza, come se essa esprimesse soltanto un atteggiamento soggettivo di insicurezza, ma si dice che la nostra speranza ci attende nei cieli, dove l'incertezza dell'attesa è chiaramente sostituita dalla certezza del traguardo.
Questo è il senso inerente alla definizione di Dio e di Cristo stesso come il Veniente (ho erchomenos). A monte di questa idea c'è l'antico concetto biblico di Dio «colui che è» ma anche «colui che sarà» (significato duplice del Nome di Dio rivelato a Mosé). Infatti egli è il Dio dell'esodo, dell'uscita, della liberazione, del superamento, dell'oltre, quasi che egli non fosse ancora mai completamente se stesso o meglio come se prospettasse all'uomo orizzonti sempre ulteriori essendo il Dio delle mille speranze.
Quando queste meravigliose promesse si realizzeranno? La tentazione è quella di cercare di stabilire delle scadenze. Alcuni passi sembrano ammettere una possibile previsione della venuta del Signore ma i segni sono fenomeni cosmici di difficile spiegazione. Altri passi affermano l’impossibilità di previsioni: il giorno verrà come un ladro nella notte. Resta l’invito paolino a fare buon uso del tempo (Ef 5,16).