martedì 12 luglio 2011

Commento di Tertulliano al Pater

Dal trattato La preghiera (De oratione)













2. L'Orazione domenicale [ossia del Signore, Dominus] comincia con una testimonianza resa a Dio e con un atto di fede quando diciamo: Padre nostro che sei nei cieli. Con questa invocazione, preghiamo Dio e proclamiamo la nostra fede. È scritto: «A quanti l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). D'altronde, il Signore chiama spesso Dio nostro Padre; e anzi, ci ha ordinato di non chiamare nessuno sulla terra col nome di Padre; di riservare questo nome al Padre celeste (Mt 23,9). Pregando così, noi dunque obbediamo alla sua volontà. Beati coloro che riconoscono il Padre!

Dio rimprovera Israele, lo Spirito chiama a testimoni il cielo e la terra, dicendo: «Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me» (Is 1,2). Chiamarlo Padre, è riconoscerlo come Dio. Questo titolo è una testimonianza di pietà e potenza. Nel Padre, invochiamo anche il Figlio. Egli infatti dice: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Non dimentichiamo nemmeno la Chiesa, nostra madre. Nominare il Padre e il Figlio vuoi dire proclamare la Madre, senza la quale non c'è né Figlio né Padre. Così, con una sola parola, lo adoriamo con i suoi, obbediamo al suo precetto e sconfessiamo coloro che hanno dimenticato il loro Padre.

L'espressione Dio Padre non era mai stata rivelata a nessuno. Quando lo stesso Mosè chiese a Dio chi fosse, sentì un altro nome. A noi questo nome è stato rivelato nel Figlio. Perché questo nome implica il nuovo nome di Padre. «Io sono venuto nel nome del Padre mio» (Gv 5,43). E altrove: «Padre, glorifica il tuo nome»; e ancora più esplicitamente: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini» (Gv 17,6). Noi dunque gli chiediamo:

Sia santificato il tuo nome

3. E glielo chiediamo non certo perché si confaccia all'uomo fare auguri a Dio, come se si potesse augurargli qualcosa, o se egli potesse esserne privo senza i nostri auguri. Ma dobbiamo benedire Dio in ogni tempo e in ogni luogo quale segno di riconoscenza che ogni uomo gli deve per i suoi benefici. La benedizione assolve questa funzione. D'altronde, come potrebbe il nome di Dio non essere sempre santo e santificato in se stesso, dal momento che santifica gli altri? E le schiere angeliche che lo attorniano non smettono di dire: «Santo, Santo, Santo» (Is 6,3). E noi, che aspiriamo a condividere la beatitudine degli angeli, ci associamo fin d'ora alle loro voci, ripetendo l'omaggio della nostra futura dignità. Questo per quanto riguarda la gloria di Dio.

Quanto alla preghiera che formuliamo per noi, quando diciamo: «Sia santificato il tuo nome», chiediamo che sia santificato in noi, che siamo in lui, ma anche negli altri, che ancora attendono la grazia di Dio, per conformarci al precetto che ci obbliga a pregare per tutti, anche per i nostri nemici. Ecco perché non dire espressamente: II tuo nome sia santificato in noi, significa chiedere che lo sia in tutti gli uomini.

Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra

4. In questo modo, non auguriamo a Dio di avere successo nella realizzazione dei suoi disegni, come se un qualche ostacolo potesse impedire alla sua volontà di compiersi, ma chiediamo che la sua volontà sia fatta in tutti gli uomini. Se vogliamo dare una interpretazione allegorica facendo riferimento alle immagini di carne e spirito, allora il cielo e la terra siamo noi. Ma, anche nel suo senso più ovvio, la natura della domanda resta la stessa, ossia che la volontà di Dio si compia in noi sulla terra, affinché possa compiersi in noi nel cielo. Orbene, qual è la volontà di Dio, se non che seguiamo i suoi insegnamenti? Noi dunque lo supplichiamo di comunicarci la sostanza e l'energia della sua volontà, per essere salvati sulla terra e nei cieli, perché la sua volontà essenziale è di salvare i figli che ha adottato. Questa volontà di Dio il Signore l'ha realizzata attraverso la parola, l'azione e la sofferenza. In questo senso, ha detto che faceva non la sua volontà, ma quella di suo Padre.

Non c'è dubbio che egli faceva la volontà del Padre suo; questo è l'esempio che ci da anche oggi: pregare, lavorare, soffrire fino alla morte. Per realizzarlo, abbiamo bisogno della volontà di Dio. Dicendo: Sia fatta la tua volontà, ci rallegriamo dal momento che la volontà di Dio non è mai un male per noi, anche se ci tratta con rigore a causa dei nostri peccati.

Anzi, con queste parole ci incoraggiamo a sopportare la sofferenza. Il Signore, per mostrarci, nell'angoscia della sua Passione, che la debolezza della nostra carne si trovava nella sua, gli dice anche: «Padre, allontana questo calice». Poi precisa: «Tuttavia, non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Le 22,42). Egli stesso era la volontà e la potenza del Padre; ma per insegnarci a pagare il debito della sofferenza, si rimette completamente alla volontà del Padre.

Venga il tuo regno

5. Questa domanda si riferisce alla precedente: Sia fatta la tua volontà, ossia: il tuo regno si compia in noi. E quando mai Dio non regna, se «nelle mani del Signore sono i cuori dei re» (Pr 21,1)? Ma tutto quello che auguriamo a noi stessi, lo riferiamo a lui, lo santifichiamo in lui, perché è da lui che lo attendiamo. Se l'avvento del regno di Dio è conforme alla sua volontà ed esige la nostra attesa, come mai alcuni chiedono con lacrime una dilazione per il mondo, dal momento che il regno di Dio, di cui domandiamo la venuta, tende a mettere fine a questo mondo? Noi chiediamo di regnare più prontamente per sfuggire più in fretta alla schiavitù.

Quand'anche questa preghiera non avesse stabilito per noi il dovere di chiedere l'avvento di questo regno, l'avremmo spontaneamente chiesto a gran voce, affrettandoci ad andare ad abbracciare le nostre speranze (Eb 4,11). Le anime dei martiri, sotto l'altare, invocano il Signore con grandi grida: «Fino a quando, Sovrano, non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?» (Ap 6,10). Essi debbono, infatti, ottenere giustizia alla fine dei tempi. Signore, affretta dunque la venuta del tuo regno! È l'augurio dei cristiani, la confusione degli infedeli, il trionfo degli angeli; è per esso che soffriamo, o piuttosto è esso che invochiamo.

Dacci il nostro pane quotidiano

6. Con quale arte la sapienza divina ha disposto tutte le parti di questa preghiera! Dopo le cose del cielo, ossia dopo il nome di Dio, la volontà di Dio, il regno di Dio, vengono le necessità della terra, alle quali egli ha voluto riservare un posto. Il Signore no aveva forse detto: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33)?

Tuttavia, è probabilmente opportuno dare un senso spirituale a queste parole: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Perché Cristo è il nostro pane, perché è la nostra vita e la nostra vita è il pane. «Io sono il pane della vita», ha detto (Gv 6,35). E un po' prima. Il pane è il Verbo del Dio vivente disceso dal cielo. D'altronde, poiché ha detto: «Questo è il mio corpo» (Lc 22,19), noi crediamo che nel pane ci sia il suo corpo.

Dunque, chiedendo il nostro pane quotidiano, chiediamo di vivere continuamente nel Cristo, di identificarci col suo corpo. Ma l'interpretazione letterale, d'altronde in accordo con la fede e la dottrina, resta perfettamente valida. Essa ci ordina di chiedere pane, la sola cosa necessaria ai fedeli: «Di tutto il resto si preoccupano i pagani» (Mt 6,3)!

È d'altronde ciò che il Signore ci inculca con esempi e che evoca nelle sue parabole, quando dice: «Un padre prende forse il pane dei figli per gettarlo ai cani?» (Mt 15,26). E anche: «Se il figlio chiede del pane, chi gli darà una pietra?» (Mt 7,99. In tal modo, egli mostra quello che i figli hanno il diritto di attendersi dal loro padre. È anche ciò che chiede quell'uomo che viene, di notte, a bussare alla porta. A buon diritto, egli aggiunge. «Dacci oggi»; prima aveva detto: «Non affannatevi per il domani, chiedendovi che cosa mangerete» (Mt 6,31). Ed è ancora per insegnare questa verità che il Signore espone la parabola di quell'uomo che ammassa nei suoi granai un abbondante raccolto per trascorrere lunghi anni in tranquillità e quella notte stessa muore (Lc 12,16).

Rimetti a noi i nostri debiti

7. Dopo aver invocato la liberalità di Dio, era naturale implorare la sua clemenza. A cosa ci serviranno gli alimenti, se non fanno altro che ingrassarci come tori destinati ai sacrifici? Il Signore sapeva di essere il solo senza peccato. Per questo, ci insegna a dire: Rimetti a noi i nostri debiti. La confessione è una domanda di perdono, perché sollecitare il perdono è un confessare il proprio peccato. Questo ci dimostra che la penitenza è gradita al Signore, poiché egli la preferisce alla morte del peccatore.

La parola debito nella Scrittura è un'immagine del peccato: peccando, contraiamo il debito del giudizio, che dovremo pagare fino all'ultimo centesimo, a meno che non ci sia rimesso, come quello che il padrone rimette al suo servo (Mt 18,27).

Questo è il significato della parabola. Infatti, il servo che ha beneficiato della clemenza del suo padrone, persegue duramente il proprio debitore; ma il padrone lo fa comparire davanti a lui, per consegnarlo all'aguzzino sino a quando abbia scontato fino all'ultimo centesimo. Il suo esempio ci mostra che dobbiamo rimettere i loro debiti ai nostri debitori. Altrove, il Signore aveva già detto, in forma di preghiera:

«Perdonate e vi sarà perdonato» (Le 6,37). E quando Pietro gli chiede se deve perdonare suo fratello fino a sette volte. Gesù gli risponde. «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18,22), per completare la Legge dove, nel libro della Genesi, è detto: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette» (Gen 4,24).

E non indurci in tentazione

8. Per completare questa preghiera così concisa, preghiamo Dio di rimettere non soltanto i nostri debiti, ma di allontanare completamente da noi il peccato: E non indurci in tentazione, cioè non permettere che siamo sedotti dal tentatore. Ma il cielo ci preservi dal credere che Dio possa tentarci, come se ignorasse la fede di ciascuno di noi o si adoperasse per farci cadere. Impotenza e malizia appartengono al demonio. Quando, un tempo, il Signore ordinò ad Abramo di sacrificargli suo figlio, lo fece più per manifestare la sua fede che per tentarla, affinché il patriarca divenisse per noi una illustrazione viva del precetto che avrebbe insegnato più tardi, ossia che dobbiamo preferire Dio a tutto ciò che abbiamo di più caro.

Gesù Cristo stesso si lasciò tentare da Satana per farci scoprire, in quest'ultimo, l'origine e l'artefice della tentazione. Egli conferma questa verità quando poi dice: «Pregate per non entrare in tentazione» (Le 22,46). E questo è tanto vero che furono tentati, abbandonando il Signore, per aver preferito darsi al sonno piuttosto che alla preghiera. L’ultima domanda ci spiega d’altronde il significato di non indurci in tentazione, ossia: Ma liberaci dal male.

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