Eremo del Garda da Sirmione |
Il brano è, per lui, una «via», una pista da percorrere, come
suggerisce, tra l'altro, la sua preferenza spiccata per l'immagine del cammino
che egli dettaglia ed elabora con cura — parla appunto di «via», parla di
«camminare», «correre», «inseguire» — per esprimere il dinamismo della vita
pratica cristiana. L'amore per Paolo non è un bene che il cristiano possa
credere di avere conseguito: è un valore da conquistare faticosamente, una meta
da raggiungere. L'amore, insomma, è davvero un cammino e un cammino in salita.
A) AMORE PER L'UOMO CHE È AMORE DI DIO
Ma quale amore? È una domanda che si pone subito, fin da un
primo contatto col brano, e alla quale, proprio per una comprensione adeguata,
occorre tentare di dare una risposta. Si tratta, indubbiamente, dell'amore di
cui è soggetto attivo il cristiano. Fin dalla prima espressione Paolo indica,
senza mezzi termini, che l'amore di cui sta parlando compete a lui — e a ogni
cristiano, come avremo modo di vedere approfondendo — come un elemento
irrinunciabile. Soggetto attivo di amore, Paolo ama Dio e ama i fratelli. Non
si tratta di strati diversi. Tutte le volte che Paolo usa «amore» (agape),
«amare» (agapao) o altri termini affini ci da costantemente l'impressione netta
di riferirsi a una globalità unitaria. Dio — si direbbe — non vuole essere
amato da solo: ci chiede, se amiamo lui, di amare anche gli uomini, con lo
stesso movimento di amore. E, d'altra parte, gli uomini non potrebbero essere
amati seriamente da soli con un amore così coinvolgente. Una pura filantropia
si arresta sulla soglia dell'amore cristiano. C'è un di più che spinge ad amare
fino ad espropriarsi di sé, giungendo fino al dono della vita. Si raggiunge
così un massimo, si sfiora un assoluto: siamo sulla linea di Dio.
Ma come è realisticamente possibile e come si spiega che un
amore che parte in direzione di Dio debba discendere anche agli uomini,
rimanendo sostanzialmente lo stesso amore, e, d'altra parte, un amore che parte
in direzione dell'uomo riesca a raggiungere l'assoluto di Dio?
La risposta a questa domanda ci porta a un approfondimento. Il
cristiano può amare a questo livello, perché Dio gli ha seminato nel cuore il
suo stesso tipo di amore tramite il dono dello Spirito. È lo Spirito di Dio e
di Cristo che, presente e attivo nella vita del cristiano, lo forgia e
perfeziona dal di dentro. I tentativi di amore del cristiano non rimangono,
così, a un livello dilettantesco e neppure
corinti la via per eccellenza dell'amore: i corinti sono gli
ascoltatori ai quali è indirizzato il discorso. Ma Paolo non vuole fare
un'esposizione astratta della via dell'amore. Per dimostrarla davvero, per
renderla evidente al massimo, Paolo sposta l'attenzione su se stesso. I corinti
sono al corrente di tanti dettagli della sua vita, lo conoscono di persona, lo
stimano e lo ammirano. Paolo accetta il loro apprezzamento perché — lo sa bene
lui come lo sanno i corinti — tale apprezzamento non si ferma a lui. Poche
pagine prima ha scritto: «Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo» (ICor
11,1).
L'apprezzamento dei corinti è funzionale a loro vantaggio.
Apprezzando Paolo, guardando alla sua vita, alla sua «via», essi trovano la
«via» di Cristo. Che cosa apprezzano i corinti in Paolo? C'è in lui tutta una
ricchezza di «doni di grazia». Paolo li ha chiamati poco prima charìsmata,
«carismi», nel senso preciso di una benevolenza di Dio, chàris, che si è
concretizzata in doni. Questi doni sono presenti come risultato nella persona
che ne è portatrice. I doni di grazia concentrati in Paolo dovettero fare
un'impressione enorme. Come lui stesso riconosce. Paolo aveva il cosiddetto
«dono delle lingue», la «glossolalia»: sotto un influsso speciale dello
Spirito, riusciva a esprimersi nell'assemblea in lingue sconosciute, che,
proprio come tali facevano pensare a una comunicazione particolare con tutto il
mondo di Dio, come se Paolo, uomo, parlasse anche le lingue «degli angeli». Non
solo: Paolo aveva anche il dono della «profezia»: sapeva leggere nei cuori e
parlare in nome di Dio; poteva riconoscere di avere avuto delle rivelazioni
speciali, di averle penetrate, di essersi addentrato davvero nel mondo proprio
di Dio. Più di una volta, specialmente quando vi sarà costretto dalla pressione
indiscreta dei suoi avversar!, lo affermerà senza mezzi termini (cf. 2Cor
12,1-6). Era nota anche la sua fede, un
altro dono speciale di Dio, che permetteva a Paolo una visione
tutta nuova e diversa del mondo, come se davvero avesse spostato le montagne:
tale fede aveva trovato la sua espressione anche in prodigi veri e propri, come
la guarigione dello storpio a Listra (cf. Atti 14,8-9), la risurrezione del
giovinetto di Troade (cf. At 20,7-10). Soprattutto era nota la dedizione di Paolo
al suo ministero proprio senza risparmio, in un contesto ricco di contrasti, di
opposizioni, di difficoltà a non finire che costituivano quell'insieme di
pressioni moleste che Paolo chiama «tribolazioni» (thlìpseis). Paolo, lungi
dall'esserne schiacciato, le accetta e arriva perfino a gloriarsene (cf. 2Cor
11,23-30).
Tutto questo però non è il ritratto completo di Paolo. È solo la
parte di lui, che era rilevabile dall'esterno, quella che più impressionava, ma
non certo la più importante. C'è, dietro a tutti questi particolari, una
dimensione segreta che li rende validi e senza la quale sarebbero tutti privi
di significato. Il segreto di Paolo, della sua «via», come era stato il segreto
della «via» di Gesù, è l'amore.
Tutti questi doni esaltanti, qualora si potessero realizzare in
concreto a prescindere dall'amore, si risolverebbero in meno che niente. Anche
il più vistoso di essi, la glossolalia, diventerebbe addirittura il suo
contrario: lo strepito grottesco di alcuni strumenti di culto pagano:
pezzi di bronzo o tamburi che venivano percossi rumorosamente
per impressionare la divinità.
Ne emerge una conclusione, ribadita e inculcata dal ritmo
martellante delle quattro frasi tutte costruite con il medesimo schema letterario
a tre elementi (1. se ho...; 2. ma non ho l'amore; 3. sono, ho nulla): l'amore
è talmente necessario e determinante che, senza di esso, l'attività ecclesiale
più brillante, anche quella di un apostolo come Paolo, si dissolverebbe nel
nulla.
Ma come si esprime, come si realizza quest'amore?
2. la FISIONOMIA DELL'AMORE
Paolo sente il bisogno di dare subito una risposta a questa
domanda che emerge spontanea proprio dalla sua esposizione.
«L'amore è longanime, è costruttivo l'amore» (13,4a).
È un'affermazione di principio che abbraccia in sintesi tutti i
tratti tipici dell'amore cristiano. Merita di essere adeguatamente
approfondita.
Paolo tiene presente, certo, la sua esperienza e quella della
comunità a cui scrive, ma il suo discorso non è più riferito a se stesso come
nella parte del brano che abbiamo esaminata. È un messaggio davvero universale,
valido per tutti i luoghi e tutti i tempi.
L'amore è «longanime», letteralmente «ha un cuore grande»
(makro-thyméi) 3 Come ci mostrano degli esempi interessanti che troviamo nella
traduzione greca dell'AT, il verbo usato da Paolo esprime l'atteggiamento di
bontà, di comprensione, di attesa e pazienza usato da Dio nei riguardi del
popolo. È un tratto tipico dell'amore di Dio. Ed è un tratto tipico dell'amore
di Cristo, che, nel vangelo, invita ad andare a lui, pronto sempre ad
accogliere tutti.
Ma questa «grandezza di cuore» è solo il primo passo. Una volta
che la persona dell'altro è stata accolta, si pone il problema di come
migliorarla. È la parte costruttiva dell'amore che cerca l'utilità della
persona. L'accoglienza permette un contatto in profondità, la bontà costruttiva
si rende dono; l'accoglienza si realizza ad apertura completa di cuore, la
bontà costruttiva esige una comprensione attenta, «induttiva», della persona al
didentro della sua identità, per evitare il rischio di imporle degli schemi
prefabbricati. Tale comprensione coinvolge la persona protagonista di amore in
tutte le risorse: l'intelligenza, la creatività, la fantasia. Così come fa Dio:
è lui che ci capisce fino in fondo, che ci ha progettati, ideati nel suo amore
(Cf. Rm 8,28-30). Egli, che solo è buono, tende a costruirci momento per
momento nella nostra vera identità. Realizzati in pieno in questa identità,
saremo la sua gioia.
Paolo sente però il bisogno di una esemplificazione dettagliata.
La lunga esperienza di vita ecclesiale gli ha insegnato ripetutamente quanto è
facile illudersi di amare, anche quando se ne ha la buona volontà sincera.
Occorre verificare la buona volontà su una serie di parametri concreti.
Anzitutto si deve fare attenzione a ciò che l'amore non è, sfrondando così la
scelta di fondo da quelle che ne sarebbero delle attuazioni illusorie o
addirittura delle negazioni.
«(L'amore») non è invidioso, non gira a vuoto, non si gonfia,
non va fuori posto, non cerca il proprio vantaggio, non si esaspera, non tiene
conto del male, non si rallegra dell'ingiustizia, ma gode insieme della verità»
(13,4-6).
È un prontuario di verifica davvero impegnativo, e, in più di un
punto, tagliente. La bipolarità dell'amore del cristiano che abbiamo visto più
sopra e che gli permette di partire o in direzione dell'uomo o in direzione di
Dio ma senza arrestarsi ne all'uno ne all'altro, illumina e precisa — avremo
modo di constatarlo subito — i dettagli di questo prontuario.
La scelta di fondo dell'amore non è compatibile con qualunque
forma di invidia o gelosia: il bene degli altri non è un limite per la persona
che ama. Al contrario:
costituisce, accolto ed amato, un arricchimento. Si somma col
bene che già possediamo, ci rende gioiosi e ci libera. La gelosia invidiosa —
intesa nel senso indicato — agli antipodi dell'amore di Dio. Dio ama donando,
donando gratuitamente, felice di donare. Il nostro amore, per essere davvero
sulla linea di Dio, dovrà fare altrettanto. E non si può amare Dio senza
quest'apertura gioiosa, all'infinito, che ci rende entusiasti di lui.
L'amore non gira a vuoto. È una sferzata dura contro qualunque
forma di dilettantismo. Quando l'amore si disperde in parole, quando si fa
qualcosa per l'altro, giusto per fare qualcosa, quando in ultima analisi
l'amore si risolvesse in hobby, saremmo agli antipodi dell'amore di
Cristo che ci chiede di amare come egli ha amato. Ed ha amato
donando la propria vita. Quando parte in direzione di Dio, l'amore richiede
l'accettazione e l'esecuzione della sua volontà. Il verbalismo di chi si
limitasse a dire:
«Signore, Signore» porrebbe il cristiano nella categoria degli
«operatori di iniquità» (cf. Mt 7,21-23).
L'amore non si gonfia. Si tratta di un'immagine cara a Paolo che
la usa anche altrove.4 Nel nostro contesto, puntualizza un rischio a cui va incontro
l'amore ed è la consapevolezza compiaciuta di se stesso. È Patteggiamento di
chi prova ad amare anche sinceramente, ma ha bisogno di dirselo e di dirlo. È
un'insidia sottile. Un amore del genere non riesce a diventare completamente
transitivo. Raggiunge l'altro ma per ritornare al punto di partenza. Allora non
merita neppure il nome di amore: è solo una forma mimetizzata e sofisticata di
ricerca di sé che si muove nel circolo chiuso del proprio egoismo.
L'amore, inoltre, non è fuori posto, non è sregolato. Il termine
usato (askèmonéi) si può riferire a sregolatezze sessuali che certo non erano
infrequenti a Corinto. Si tratta, nel caso, di un amore che va fuori strada in
misura vistosa. Ma il contesto dice di più: c'è una sregolatezza più sottile,
meno appariscente, ma che rimane sempre una limitazione, quando l'amore, anche
sincero, non tiene debitamente conto di tutti gli aspetti, delle esigenze della
persona che si ama. È l'amore intempestivo, che vuole dare tutto e subito, un
amore che opprime, che non sa aspettare, che non sa tacere. Nei riguardi di
Dio, l'amore esce dal suo binario e diventa «sregolato» quando ne dimentica la
trascendenza, quando banalizza Dio attendendosi da lui una risposta immediata e
fatta su misura dell'uomo. Amare Dio significa, invece, sapere attendere, anche
nel silenzio e nel buio, il suo momento: significa correre fino in fondo il «rischio»
di Dio.
L'amore non cerca il proprio vantaggio (lett. «ciò che è
proprio»), È un'affermazione evidente a prima vista, ma
che Paolo giudica opportuno richiamare. L'egoismo è il limite
più serio di ogni amore, fino a costituire una negazione radicale, quella
dell'uomo che prende se stesso come il proprio assoluto e diventa, nella
terminologia caratteristica di Paolo, l'uomo-carne.5 Se il cristiano si lascia
guidare dallo Spirito, è al di là del rischio di cadere nella carne nel senso
radicale. Ma c'è anche una carne in senso minore: consiste nell'amare se stessi
sia in Dio che negli altri. Amare Dio perché gratifica, amare gli altri perché
ci fa comodo. Certo l'amore perfeziona l'uomo al punto da costituire il massimo
della sua realizzazione: «Dio è amore» (IGv 4,16). Ma l'amore che perfeziona
l'uomo e porta i tratti di Dio e di Cristo è un amore gratuito. L'uomo non
potrà non essere felice di amare, ma lo sarà davvero in proporzione diretta
dell'oblatività gratuita del suo amore.
L'amore non si esaspera, non arriva a quelle posizioni
frettolosamente rigide e intransigenti che sono solo una copertura del nostro
egoismo. La costruttività, caratteristica di fondo dell'amore del cristiano,
gli richiede una capacità di attesa, serena e fiduciosa, nel rispetto cordiale
del ritmo di crescita di ogni persona.
L'amore deve evitare di tendersi anche nei riguardi di Dio.
Qualunque atteggiamento frettoloso, l'impazienza che ci porta a porre a Dio
delle scadenze, tutto questo abbassa il livello della nostra fede, che esige un
abbandono totale. L'amore verso Dio ci chiede di accogliere cordialmente Dio
come è, non come lo vorremmo noi, programmandolo su nostra misura.
L'amore non tiene conto del male. Il male — si parla del male
morale che deriva dalla malizia dell'uomo — è un fatto che, come tale, non può
essere ignorato ne sottovalutato. L'amore del cristiano non chiude gli occhi
davanti al male, qualunque forma questo possa assumere, ma non ne tiene conto, non
si lascia determinare da esso. È l'amore proprio di Dio che «fa alzare il suo
sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt
5,45). È l'amore di Gesù che
prega per i suoi crocifissori (cf. Lc 23,34). Paolo scrivendo ai
romani riassumerà quest'atteggiamento costruttivo dell'a-more in una delle sue
espressioni più belle: «Non ti far vincere dal male, ma vinci il male col bene»
(Rm 12,21).
C'è un'ultima degenerazione dell'amore che Paolo segnala,
sottolineando nello stesso tempo l'aspetto positivo corrispondente: l'amore non
si rallegra dell'ingiustizia, ma condivide la gioia della verità. Sia
l'«ingiustizia» che la «verità» toccano qui il rapporto dell'uomo con Dio.
L'amore del cristiano, proprio perché partecipe di quello di Dio, tende a
portare a Dio. Tutto ciò allora che, anche con l'apparenza immediata e
tangibile del piacere e dell'ebbrezza, mette l'uomo in un rapporto sbagliato,
di spareggio, di ingiustizia nei riguardi di Dio, tutto ciò che oggettivamente
è male, che è «peccato» anche sotto l'aspetto illusorio della gioia, non sarà
mai condiviso dal cristiano. Mentre l'amore del cristiano sarà costantemente
aperto a condividere nei fratelli gli elementi costruttivi che lo portano a Dio
e lo mettono in sintonia con lui. Tutto quello che appartiene alla «verità»
dell'altro, intesa in questo senso profondo di rettitudine che unisce e collega
l'uomo con Dio, non potrà lasciare il cristiano indifferente. Avrà la gioia di
sentire suo e di condividere tutto quello che c'è di veramente positivo e che,
proprio come tale, rientra nel quadro della verità di Dio.
B) L'ONNIPOTENZA DELL'AMORE
Come abbiamo avuto modo di constatare ripetutamen-te, il
prontuario di verifica contiene a ogni dettaglio un qualche risvolto positivo.
Dicendo ciò che non è l'amore, Paolo vuole mettere in evidenza, sottolineare
per contrapposizione ciò che è. C'è un movimento, quasi una accelerazione in
questa linea, e il discorso si sposta, anche letterariamente, dall'aspetto
negativo a quello di una proposta positiva affascinante:
(«L'amore»)
sostiene tutto crede tutto spera tutto
attende tutto» (13,7)
II ritmo incalzante della frase, l'insistenza ripetuta sulla
totalità — per ben quattro volte troviamo «tutto» (panta) — tradiscono
un'emozione che Paolo quasi non riesce a contenere. Siamo al vertice lirico di
tutto il capitolo. Ma l'espressione, analizzata da vicino nel suo contenuto, si
presenta tutt'altro che facile: che significa — viene subito da chiedersi — e a
chi si riferisce la capacità di una sopportazione, di una fede, di una
speranza, di un'attesa senza limiti sempre a tal punto collegate con l'amore,
da esserne addirittura dipendenti?
La struttura letteraria del versetto ci fornisce un primo
orientamento. Esiste una corrispondenza, anche se non proprio una sinonimia,
tra la prima e l'ultima frase:
«sopportare» (stégei) e «attendere» sotto pressione (hypo-ménei)
si richiamano a vicenda. Tra le due frasi troviamo: «tutto crede» e «tutto
spera». Ne deriva una precisazione per quanto riguarda il movimento del
pensiero: la constatazione di una certa onnipotenza dell'amore nella
sopportazione delle difficoltà sfocia nel campo della fede e della speranza;
dalla fede e dalla speranza, alimentate dall'amore, deriva la capacità di
attesa. La fede e la speranza occupano un posto centrale nella struttura del
versetto. Quando si parla in Paolo di fede e di speranza ci si riferisce
direttamente a Dio. L'amore, allora, che da alla fede e alla speranza la loro
rispettiva pienezza, sarà anzitutto un amore che parte in direzione di Dio.
Solo amando Dio con tutto il cuore, con tutte le nostre forze potremmo credere
pienamente in lui, affidarci a lui senza riserva, aspettare con una fiducia
incrollabile l'adempimento delle sue promesse. Anche nel rapporto con Dio la
logica dell'amore è l’unica che persuade fino in fondo.
Preso da questo amore, che gli da la forza e la capacità
di credere e di sperare pienamente, il cristiano sarà anche in
grado di sopportare ed attendere. E viceversa: più il suo amore si consoliderà
nella sopportazione e nell'attesa, più la sua fede e la sua speranza
diventeranno solide. L'amore è davvero un coefficiente che moltiplica tutto.
Anche se l'amore parte qui nella direzione di Dio, non si
arresta a lui. Amando Dio e quindi credendo, sperando pienamente in lui,
sopportando e attendendo, s'impara ad amare anche l'uomo. L'apertura totale e
incondizionata della fede a un Dio «totalmente diverso» alimentata dall'amore,
la capacità di sperare «contro ogni speranza» (cf. Rm 4,17) anch'essa
alimentata dall'amore, dilata il cuore abilitandolo ad un amore che non conosce
limiti. Quando l'uomo ha imparato ad amare un Dio che gli riserva sempre delle
sorprese, quando si è sensibilizzato alla «novità» di Dio accolta e desiderata,
allora è in grado di guardare gli altri uomini con un amore forgiato su misura
di Dio.
Questo amore non darà al cristiano un atteggiamento di
faciloneria credulona, che ignora le debolezze e difficoltà. Rimanendo sempre
sul terreno solido della concretezza il cristiano prenderà coscienza,
ammaestrato dalla sua esperienza dell'amore di Dio, che anche la persona umana
ha un suo tipo di infinito e non cessa mai di sorprendere. Soprattutto si
accorgerà con gioia della capacità creativa dell'amore. La persona sa dare il
suo meglio, quando si sente amata.
L'amore induce a credere e a sperare nell'uomo senza gli schemi
di limiti precostituiti: è pronto ad accogliere la «sorpresa» dell'uomo avendo
imparato ad accogliere la «sorpresa» di Dio.
Allora acquistano un significato preciso e stimolante anche la
prima e l'ultima delle quattro frasi del versetto riferite all'amore dell'uomo.
Se uno crede e spera nell'uomo, saprà «sopportare», con lo stesso amore con cui
crede e con cui spera, le sue debolezze e le difficoltà dell'ambiente in cui
vive. Saprà anche «attendere», senza fretta e con lungimiranza, quei frutti
migliori che l'uomo, amato davvero, un giorno darà.
Si ritrova anche in questo versetto la bipolarità nell'amore —
direzione Dio, direzione uomini — che abbiamo rilevate a più riprese. Mai,
però, come qui la bipolarità diventa unità: l'amore che tutto sopporta, tutto
crede, tutto spera, tutto attende coinvolge, in un unico giro, sia l'uomo che
Dio.
CONCLUSIONE: L'AMORE «NON CADE MAI»
A questo punto Paolo ha ùn'intuizione ardita: proprio perché
sfiora l'assoluto di Dio, l'amore non può venir meno. Paolo pensa al traguardo
finale. Ci sarà indubbiamente, anche nell'ambito dell'amore, una maggiorazione,
ma, mentre tutti gli altri elementi tipici della vita ecclesiale di adesso — il
dono delle lingue, la conoscenza, la profezia, la stessa fede e la stessa
speranza — sono destinati a scomparire quando il nostro contatto con Dio e con
gli altri avrà raggiunto la sua pienezza, l'amore rimarrà. Vedendo Dio «faccia
a faccia» (13,12) lo comprenderemo in pieno, lo ameremo davvero come merita.
Alla luce di Dio saremo in grado di vedere «faccia a faccia» anche l'uomo che
avrà raggiunto la sua identità completa. Ci sapremo comprendere reciprocamente
fino in fondo, capiremo davvero chi siamo e saremo in grado di realizzare il
massimo di amore anche nei nostri riguardi.
Non fa meraviglia che Paolo, dopo questa dimostrazione della via
dell'amore, riprenda il discorso diretto:
«Inseguite l'amore» (14,la).
La «via dell'amore» non è facile a percorrere. Richiede un
impegno dinamico, protratto e rinnovato. Occorre «inseguire» l'amore. Ma
inseguire l'amore per Paolo significa, in fondo, inseguire Cristo che ci mostra
e ci dona l'amore del Padre. Paolo scriverà ai filippesi riflettendo la sua
esperienza e quella di ogni cristiano impegnato nella via dell'amore:
«Inseguo per afferrare per il fatto che io stesso sono stato
afferrato da Cristo» (Fil 3,12).
( Ugo Vanni)
Nessun commento:
Posta un commento