Dio
diffonde la sua santità
1. Il culto
Dio ha fatto uscire Israele dalla schiavitù d'Egitto per creare poi
una stabile relazione con lui, per dimorare presso di lui e renderlo partecipe
della sua santità. Il Dio Santo, presente in mezzo al popolo, comunica agli
uomini la sua santità. Questa dichiarazione sintetizza il significato del culto
di Israele e del libro del Levitico. La santità è una qualità attribuita a Dio, con la quale si vuole
annunciare il suo essere totalmente altro rispetto a questo mondo. Che cosa
significa santità? In che senso Egli è santo?In primo luogo detiene un'autorità universale e assoluta; domina
interamente su tutti e su tutto e perciò il sentimento provato da chi si
avvicina a Lui è tremore (Sal 99,1; Gen 18,27, Es 20,18-19) ma anche gioia
profonda (Sal 97,1). Il tremore deriva dall’ammirazione della sua sovranità e
la gioia dal rilevare la grande differenza che c'é tra Lui e gli altri sovrani.
Egli si propone soltanto ciò che è bene: «Tu hai stabilito ciò che è retto;
diritto e giustizia hai operato in Giacobbe» (Sal 98,4). Il Dio della Bibbia è
del tutto etico. Egli è luce e in lui non vi sono tenebre (cf 1 Gv 1,5). «Ogni
buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall'alto e discendono dal Padre,
creatore della luce: presso di lui non c'é variazione né ombra di cambiamento»
(Gc 1,17). Egli stesso fa risaltare la sua diversità di comportamento da quello
degli uomini quando, rivolgendosi al suo popolo che meriterebbe una grave
punizione, dichiara: «Non darò sfogo all'ardore della mia ira, perché sono Dio
e non uomo, sono il Santo in mezzo a te e non verrò a te nell'ardore della mia
ira» (Os 11,9). In altre parole, mentre l'uomo agisce lasciandosi condizionare
dalle sue passioni, Dio opera seguendo un rigoroso criterio di giustizia e di
rettitudine. Il suo modo di essere e d'agire lo rende un Dio molto affidabile.
Se santità corrisponde a piena affidabilità, è ovvio che il sentimento
conseguente sia la fiducia in Lui e l'abbandono a Lui: «É in Lui che gioisce il
nostro cuore e nel suo santo nome noi confidiamo» (Sal 33,21). «Gloriatevi del
suo santo nome: gioisca il cuore di chi cerca il Signore... Ricordate le
meraviglie che ha compiuto» (Sal 105, 3.5). Egli vuole arricchire anche gli uomini della sua stessa santità ed,
allora, il suo popolo deve essere totalmente altro rispetto alle nazioni
circostanti: «Vi ho separato dagli altri popoli, perché siete miei» (Lv 19,26).
Il messaggio del Levitico si accorda bene con quello centrale del
libro dell’Esodo: il popolo liberato dalla schiavitù passa «dalla servitù al
servizio» (come si è espresso G. Auzou). Il servizio si esprime in primo luogo
nel culto ma la nuova identità di Israele non si risolve in esso. Israele viene
chiamato da Dio ad essere un «regno sacerdotale» e una «nazione santa» (Es
19,6). Se tutto il popolo può esercitare il sacerdozio, questo significa che è
tutta la sua vita a diventare culto, servizio divino, attività santa. Offrendo
i suoi comandamenti, Dio spiega quale sia il modo con il quale può esercitare
il sacerdozio. «Il diritto biblico
unisce diritto sacro e diritto profano. Tutto fa parte del servizio che il
regno sacerdotale e la nazione santa rendono al suo Dio. Sparisce in questo
modo – in principio almeno – la distinzione fra sacro e profano. Tutto diventa
sacro, e non solo gli atti prettamente cultuali»[1]. L'esortazione alla santità, ripetuta più volte nel Levitico (cf
11,14; 19,2; 20,7), viene ripresa dalla lettera di Pietro: «Come figli
obbedienti, non conformatevi ai desideri di un tempo, quando eravate nell’ignoranza,
ma, come il Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la
vostra condotta. Poiché sta scritto: Sarete santi, perché io sono santo. E se
chiamate Padre colui che, senza fare preferenze, giudica ciascuno secondo le
proprie opere, comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù
come stranieri» (1 Pt 1,14; Cf 1 Ts 4,3-8). Anche in questo caso, la santità stabilisce una separazione o
distinzione (rende stranieri al mondo), ma di nuovo questa consiste in una vita
etica. Israele sa che, nel passato, si sono verificate grandi
manifestazioni di Dio, come la liberazione dall'Egitto o la sua rivelazione sul
monte Sinai, ma normalmente l'uomo non incontra il Signore in questo modo. In
via ordinaria la sua presenza è discreta, non visibile e lo si può incontrare soltanto in un
cammino di fede. Il momento più significativo è il culto e il luogo deputato
all'incontro è la tenda del convegno, ove il culto si svolge. «Il Signore chiamò
Mosé, gli parlò dalla tenda del convegno e disse: "Parla agli israeliti
dicendo…"» (Lv 1,1). Il libro del Levitico comincia con queste parole che
ho citato. Dopo il Sinai, Dio parla dalla tenda del Convegno. Pone la sua
tenda, la sua abitazione, tra le altre che compongono l'accampamento di Israele.
Possiamo dire: il Signore intende abitare tra gli uomini e camminare assieme a
loro: «Sono andato vagando sotto una tenda in un padiglione» (1 Sm 7, 6-7). Anche oggi il Signore vuole manifestarsi nella nostra vita ed
accompagnarci nelle vicende della nostra epoca. La tenda in cui lo incontriamo
è Gesù Cristo Risorto, presente nella sua Chiesa, che ha promesso di restare
con noi «ogni giorno fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). La primitiva comunità cristiana si mostrava capace di vivere il
Vangelo in modo radicale poiché attingeva forza dal culto, nella frequentazione
del tempio: «Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio…» (At 2,46;
5,12). I cristiani, volendo aderire a Gesù, ponevano Dio al primo posto, e
collocando Dio al primo posto, assegnavano un valore primario al culto. Non può
svilupparsi in una vera vita di fede che non tragga la sua linfa dal culto. Dio
irradia in noi la Sua Santità cominciando da sé, dalla sua opera e dalla sua
azione sacramentale. Come il popolo di Israele si stringeva attorno alla tenda
del convegno, non ci stringiamo attorno al Cristo risorto e veniamo trasformati
in modo da essere «santi e immacolati davanti a lui nella carità» (Ef 1,4).
Lettera e spirito
Nonostante la prospettiva attraente che ho delineato, il libro del
Levitico non suscita molto entusiasmo ma solleva piuttosto delle difficoltà. Il sentimento di
ripulsa sorge dal fatto che nel testo troviamo continui riferimenti a sacrifici
cruenti nel tempio e l'imposizione di norme di purità sacrale che ci sono
estranee. Certamente i sacrifici cruenti non devono avere alcuna rilevanza per
il cristiano, dal momento che sono stati aboliti (cf Eb 10,9) ma non dobbiamo
forse, andando oltre le forme storiche in cui si sono espressi, coltivare anche
da parte nostra i sentimenti religiosi che furono la base di queste creazioni?
Dobbiamo cogliere la dimensione dello spirito presente nella lettera di questi
documenti. Ce lo suggerisce la Lettera agli Ebrei, dove il suo autore trae un
elevato insegnamento teologico e morale sul sacerdozio di Cristo, proprio
esaminando in profondità il significato e l'uso di queste forme religiose
antiche. Nell'ambito della rivelazione biblica, la normativa cultuale,
riportata in gran parte nel Levitico, non è per nulla secondaria ma, al contrario,
detiene un valore primario. Ci troviamo nel cuore della Legge mosaica. Veniamo
a conoscere quale sia stato lo scopo della costituzione del popolo di Dio:
rendere possibile la partecipazione alla santità di Dio. Poiché essa interessa
tutte le sfere dell'esistenza, nel libro del Levitico non troviamo soltanto
norme riguardanti il culto ma anche norme di carattere sociale di grande
rilevanza e che sorgano da motivazioni religiose (Lv 19,17-19)
Il significato dei sacrifici
Il testo del Levitico parla di una molteplicità di sacrifici
(olocausto, oblazione, di espiazione-riparazione, di comunione). Ogni forma
presenta uno scopo specifico e una normativa apposita. Prima di osservarli in
modo dettagliato, forse dobbiamo chiederci quale fosse il significato che gli
uomini antichi attribuivano al sacrificio. Questa pratica religiosa ha
interessato tutti i popoli e Israele l'ha attinta dalla cultura comune
dell'umanità dell'epoca.Lo scopo generale era quello di stringere una relazione con la
divinità[2]. Gli antichi pensavano che le divinità si
nutrisero realmente delle carni degli animali sacrificati e degli altri doni
presentati. Per questo il momento essenziale dell'atto del sacrificio stava nel
bruciare l'offerta, perché allora l'offerente la vedeva salire al cielo, presso
le divinità, sotto forma di fumo. Dio gradiva il profumo dell'offerta, come a
noi piace odorare i profumi che esalano dalla cucina. Gli uomini offrivano un
dono ma erano condizionati da una motivazione di interesse. Do ut des, è la formula lapidaria che esprime bene questo
sentimento o questa necessità: dono nella speranza di ricevere un
contraccambio. A queste motivazioni se ne poteva aggiungere un’altra: la carne
costituisce un ottimo alimento già di per sé, ma la carne di un animale sacrificato
avrebbe incrementato ancor di più la vita di chi poteva nutrirsi di questa
offerta. Anche il culto di Israele si è mosso lungo queste motivazioni?
Probabilmente, sì! (Gdc 6,19-24; Es 25,30) Nella Bibbia, però, troviamo dei forti
elementi correttivi di questa convinzione. Vediamone alcuni. 1. Prima di tutto è Dio a prevenire l'iniziativa degli uomini. Nel
comandamento che instaura il culto nel libro dell'Esodo, sembra che sia Dio a
mettersi in cerca di loro; sia lui a stabilire un momento, un luogo e una
modalità con la quale può comunicare loro la sua benedizione: «Farai per me un altare di terra e sopra di
esso offrirai i tuoi olocausti...; in ogni luogo dove io vorrò far ricordare il
mio nome, verrò a te e ti benedirò» (Es 20,24). Dio sorprende tutti ed
arricchisce in maniera gratuita, colmando di stupore riconoscente. Non è
possibile pensare che Dio abbia bisogno degli uomini ma piuttosto che goda di
esercitare la sua estrema generosità, come viene precisato in un testo di
Sofonia: «Il Signore tuo Dio, in mezzo a te, è un salvatore potente. Gioirà per
te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia»
(Sof 3,17). Altri testi si oppongono in modo diretto all'idea che Dio sia
interessato ad ottenere i nostri beni, ne abbia bisogno e subisca un danno se
non viene onorato. Nel salmo 16, secondo la versione dei LXX, l'orante attesta:
«Ho detto al Signore: il mio Signore sei tu, non hai bisogno dei miei beni»
(Sal 16,2 LXX). Il salmo 50 in modo ancora più esplicito, dichiara: «Non prenderò
vitelli dalla tua casa né capri dai tuoi ovili. Sono mie tutte le bestie della
foresta, animali a migliaia sui monti. Se avessi fame, non te lo direi. Mangerò
forse la carne dei tori? Berrò forse il sangue dei capri?» (Sal 50, 8-13). Dio non cerca gli uomini per qualche motivo di interesse ma perché
vuole essere benefico e generoso nei loro confronti. Lo fa capire in modo
preciso il racconto del sogno avuto da Giacobbe, mentre era in cammino per
sfuggire alla vendetta del fratello Esaù. Il patriarca è prevenuto dalla
provvidenza di Dio e il luogo nel quale lo ha incontra, o meglio nel quale è
stato trovato da lui, diventerà in seguito luogo di culto. «Giacobbe si svegliò
dal sonno e disse: "Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo".
Ebbe timore e disse: "Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la
casa di Dio, questa è la porta del cielo". La mattina Giacobbe si alzò,
prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e
versò olio sulla sua sommità» (Gen 28, 16-18). Il patriarca esprime una grande
sorpresa. Dio gli si è mostrato amico, oltre ogni su aspettativa. Quel luogo
della visita di Dio, diventa uno spazio di culto. Dopo essere stato preceduto dalla iniziativa di Dio, Giacobbe
esprime la sua adorazione nella forma di un voto. «Giacobbe fece questo voto:
«Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà
pane da mangiare e vesti per coprirmi, se ritornerò sano e salvo alla casa di
mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretto come
stele, sarà una casa di Dio; di quanto mi darai, io ti offrirò la decima"»
(Gen 28,20-22). Il patriarca viene presentato come un modello esemplare per il
futuro culto che avrebbero espresso i suoi discendenti. Non possiamo non
rilevare come la disposizione di Dio sia totalmente gratuita mente
l'atteggiamento del patriarca sia pervaso da chiari elementi opportunità. Del
resto difficilmente poteva essere altrimenti. Soltanto il Signore può essere
totalmente gratuito da sempre e, nell’uomo, il sentimento di gratuità è una
faticosa conquista e in ogni caso l'uomo ha sempre da guadagnare nell'aderire a
Dio. 2. Un altro elemento correttivo sta nell'attribuire più valore al
sentimento che alla preziosità del dono offerto. Il Levitico presuppone infatti
che ci fossero delle persone le quali, dal punto di vista materiale, potevano
offrire ben poco, come tortore o
colombi (Lv 14,21-22). Almeno in questi casi, era ben chiaro che l'atteggiamento
interiore di adesione a Dio era molto più importante del valore delle cose
offerte. «Poca cosa è per te ogni sacrificio, e meno ancora ogni grasso offerto
a te in olocausto; ma chi teme il Signore è sempre grande» (Gdt 16,16). Quando
Gesù offrirà se stesso, sarà la sua volontà di donarsi, a rendere preziosa agli
occhi di Dio la sua offerta (cf. Eb 10,10). 3. In seguito emerse la convinzione che si potevano offrire a Dio
doni migliori dei sacrifici. In Israele, «il re era incaricato del culto così
come era responsabile della giustizia»[3]. I profeti sollevarono, allora, delle
critiche severe, quando videro che i sovrani adempivano bene una delle loro
funzioni, quella di promuovere il culto nel tempio ma trascuravano l’altro
compito principale, quello di favorire la giustizia. Vivere rettamente costituiva
l’atto di culto migliore davanti a Dio. Questa convinzione non si affermò senza contrasto e in ogni caso i
sacrifici non vennero mai aboliti. Osserviamo come affiori questa diversità di
opinioni. Incontriamo dei credenti che esprimono la loro volontà di offrire a
Dio dei sacrifici, soprattutto per ringraziarlo in modo degno. L'offerente più
convinto compare nel salmo 66: «Entrerò nella tua casa con olocausti, a te
scioglierò i miei voti, promessi nel momento dell'angoscia... Ti offrirò grossi
animali in olocausto» (13.15). Allo stesso modo si esprimno altri fedeli (Sal
26,6; Sal 116,17). Differentemente, l'autore del salmo 50, dopo aver criticato
l'opinione che Dio abbia bisogno di essere nutrito dalle carni dei sacrifici e
aver richiamato la necessità della coerenza tra culto e vita, auspica una nuova
forma di culto: «Offri a Dio come sacrificio la lode e sciogli all'Altissimo i
tuoi voti; invocami nel giorno dell'angoscia: ti libererò e tu mi darai gloria»
(Sal 50,14-15). In questo testo, la preghiera, in cui compaiono espressioni di
lode o di supplica, viene preferita ai sacrifici cruenti. Qui rileviamo un
nuovo modo di pensare che attenua l'entusiasmo troppo forte di altri fedeli per
le forme consuete, senza però auspicare il loro annullamento. Il testo del salmo 51, invece, offre spazio ad entrambe le opinioni.
La forma tradizionale emerge là dove il salmista si augura che, al termine
dell'esilio, a ricostruzione avvenuta delle mura di Gerusalemme, sia
ripristinato anche l'uso di offrire sacrifici nel tempio. Tuttavia, dal momento
che questo culto non poteva essere esercitato in terra d'esilio, il salmista
accoglie ben volentieri un altro genere di offerta: «Uno spirito contito è
sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto, tu, o Dio, non disprezzi» (Sal
51,19). Un passo del libro di Daniele si muove nella stessa direzione: «Ora non
abbiamo più né olocausto, né sacrificio... né luogo per presentarti le primizie
e trovare misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo
spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori, come miglia di grassi
agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te ti sia gradito...» (Dn 3, 38-40). Queste analisi sommarie, mostrano come il culto sacrificale
incontrasse dei ridimensionamenti. Alcune delle perplessità che noi abbiamo di
fronte ai sacrifici cruenti, erano già state contemplate nella Bibbia.
Il significato del sacrificio per noi, oggi
Qual è il senso, allora, che possiamo attribuire al sacrificio? In
realtà la domanda che ci rivolgiamo può essere formulata in questo modo: come
possiamo trasporre per noi, nel nostro tempo, il contenuto spirituale espresso
in quei riti che per noi ora sono insignificanti? Il sacrificio rappresenta un dono che noi facciamo a Dio. Tutto il
valore del nostro donare, però, è di per sé molto limitato. Più che donare a
Lui, noi restituiamo, poiché tutte le cose che doniamo a Dio, infatti, le
abbiamo già ricevute in precedenza da lui. Inoltre non possiamo realmente
solidarizzare con lui soccorrendolo in certe sue necessità, perché egli già
possiede tutto. Possiamo allora offrire realmente qualcosa? Ci dobbiamo rassegnare soltanto a
rilevare l'enorme differenza tra il dono di Dio e il nostro dono di ricambio? Davide, animato dallo Spirito Santo, non volle offrire a Dio
qualcosa che non gli costasse nulla (2 Sam 24,24). Le cose preziose da offrire
che possono costarci molto non le
troviamo passando in rassegna i migliori sentimenti né i migliori doni. Le troviamo
quando, distogliendo lo sguardo dalle corse intorno a noi, lo dirigiamo verso
noi stessi. Qui troviamo una materia per il sacrificio che può essere molto
pregevole. Il dono massimo che possiamo offrire a Dio è la consegna a lui della
nostra volontà nell'atto dell'obbedienza. Nulla è nostro e ci appartiene in
modo vivo come il nostro volere. Anzi soltanto la nostra volontà ci appartiene,
anche la stessa possibilità di volere (il libero arbitrio), è un dono di Dio. È
il Signore il creatore è il garante della nostra libertà tuttavia l'esercizio
del volere dipende anche da noi. Ora il sacrificio migliore che possiamo
offrire a Dio è l'esercizio della nostra obbedienza, vissuta con un sentimento
di gioia, di riconoscenza, di fiducia, di abbandono al Signore. In questo tipo di sacrificio troviamo l'essenza della spiritualità
ed l'atteggiamento che rende concordi tra loro Antico e Nuovo Testamento. È
l'insegnamento che il profeta Samuele rivolge al re Saul: «Il Signore gradisce
forse gli olocausti di sacrifici quanto l'obbedienza alla voce del Signore? Ecco
obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è meglio del grasso egli
arieti» (1 Sam 15,22). Che cosa significa in fin dei conti imparare l'obbedienza? Significa
che Dio desidera e vuole la nostra maturazione e il nostro ritorno ad essere
conformi alla sua immagine. Egli non ci priva di nulla ma ci restituisce a noi
stessi. Il culto è l'atto con cui con la nostra persona aderiamo a Dio, ci incolliamo a lui per non perderci nel nulla ma continuare a
vivere, anzi per guadagnare pienezza di vita. «A te stringe l'anima mia che la
tua destra mi sostiene» (Sal 63,9). È ciò che Dio ricorda Geremia proponendogli
il segno della cintura: «Come questa cintura aderisce ai fianchi di un uomo,
così io volli che aderisse a me tutta la casa di Israele perché fossero mio
popolo, mia fama, mia lode e mia gloria, ma non mi ascoltarono» (Ger 13,11).
Ecco, in questo sta il significato del culto. Se Dio ci arricchisce in modo straordinario anche per un piccolo
dono che gli abbiamo offerto, quanto più riverserà su di noi la ricchezza della
sua grazia quando gli avremmo offerto un dono più impegnativo! «Apri la tua
bocca, la voglio riempire!… Se il mio popolo mi ascoltasse! Se Israele
camminasse per le mie vie! Lo nutrirei con fiore di frumento, lo sazierei con
miele dalla roccia» (Sal 81,11 ss).
Pensiamo al sacrificio di Abramo a proposito di Isacco e alla promessa
con cui Dio intendeva ricompensarlo (Gen 22,16). Ma dovremmo piuttosto pensare
all'obbedienza di Gesù e al risarcimento ottenuto dal Padre con la sua
resurrezione. Un dono fatto a Dio, anche quando sia offerto nello spirito di
gratuità più sincero, ottiene sempre molto di più di quanto si rinuncia e di
quanto si spera di ottenere. «Il Signore è uno che ripaga e ti restituirà sette
volte tanto» (Sir 35,13; cf 2 Cor 9,6.10).
La molteplicità dei sacrifici e la loro ripetitività
1. Essi, in genere hanno un carattere volontario e sono celebrati con grande gioia e generosità: «Quando qualcuno di voi vorrà presentare...» (Lv 1,2).
2. L'offerente non compie il rito in qualsiasi luogo ma in quello designato da Dio (Lv 17,1-10; cf Dt 12, 13 [2-12]) e non agisce da solo ma con la collaborazione dei sacerdoti e di altri. Il sacrificio avviene, quindi, in un contesto comunitario.
3. L'offerente impone la mano sulla vittima e poi la immola. Ogni fedele, quindi, agisce in prima persona e viene coinvolto in modo diretto nella celebrazione.
4. Il sacerdote subentra poi esercitando il suo ruolo proprio: raccoglie il sangue e compie con esso i gesti purificatori prescritti. Asperge il velo che sta davanti al Santo e versa il sangue alla base dell'altare.
5. Segue l'atto principale: la vittima offerta viene consumata dal fuoco. Nell'olocausto viene bruciata ogni membra dell'animale ma in altri sacrifici solo il grasso. Nei casi previsti, sacerdoti e fedeli possono mangiare le altri parte dell'animale.
Riflettiamo ora sui singoli elementi elencati. Hanno grande valore la volontarietà e la generosità. Nel tempo della costruzione del tempio, il re Davide chiede al popolo: «Chi vuole ancora riempire oggi la sua mano per fare offerte al Signore?» (1 Cr 29,5). L'atto di offerta, anzi il culto in genere è caraterizzato da un sentimento di gioia (cf 1 Cr 13,8); la stessa preziosità o sovvrabbondanza di vittime hanno valore se stanno a garantire il carattere di spontaneità e di generosità (cf 1 Cr 29,9; 2 Cr 5,6). Lo stesso atteggiamento viene ripreso nel Nuovo Testamento. Gesù ribadisce la volontarietà dell'atto del porsi alla sua sequela (Lc 14,25-33). San Paolo, organizzando una colletta a favore dei poveri, vuole che sia una vera offerta e non come una grettezza (cf 2 Cor 9,5). Apprezza l'entusiasmo e la generosità dei Macedoni, i quali hanno dato secondo i loro mezzi e anche di là dei loro mezzi, spontaneamente (2 Cor 8,3). L'offerente poi doveva imporre le mani sul capo dell'animale destinato al sacrificio per segnalare che nell’offerta di quel dono egli metteva tutto se stesso. Nella vita di fede è sempre necessario questo momento personale di consapevolezza e di adesione già convinta: «O Dio, sei tu il mio Dio» (Sal 63,2). Il credente deve formulare questo pensiero: mi trovo all'interno di una comunità, sono fra tante persone ma non vengo trascinato da loro, non obbedisco ad un flusso impersonale. Non esiste vera relazione di fede che non sgorghi dalla profondità della persona e dalla sua libertà. In questo contesto emerge anche un altro aspetto. L'offerente, partendo da un' istanza che nasce dalla profondità del cuore, da una scelta personale, esprime la sua fede in un ambito comunitario. Ciò interessa anche la nostra fede cristiana. «È impossibile credere da soli. La fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità del credente, non è rapporto isolato tra l’”io” del fedele e il “Tu” divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa si apre, per sua natura, al “noi”, avviene sempre all’interno della comunione della Chiesa. La forma dialogata del Credo, usata nella liturgia battesimale, ce lo ricorda. Il credere si esprime come risposta a un invito, ad una parola che deve essere ascoltata e non procede da me, e per questo si inserisce all’interno di un dialogo, non può essere una mera confessione che nasce dal singolo. È possibile rispondere in prima persona, “credo”, solo perché si appartiene a una comunione grande, solo perché si dice anche “crediamo”»[4]. Il fatto che l'offerente sia lui stesso a immolare l'animale, è un altro particolare che ci ricorda l'opportunità che ogni persona nella comunità sia coinvolta nel servizio a Dio. Non solo l'adesione al Signore deve provenire da una scelta personale convinta ma bisogna anche che nella celebrazione cultuale, ogni componente del popolo di Dio svolga il suo ruolo. Non soltanto nel rito ma anche in tutta la vita della comunità. Ognuno deve svolgere la sua funzione specifica. «Ciascuno, secondo il dono ricevuto, lo metta al servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 4,11). Dopo l'uccisione della vittima, il sacerdote ne versava il sangue alla base dell'altare. Compare l'importanza del sangue come espressione della vita stessa dell'animale e viene sacrificato (Lv 17,11). Sia il sangue, sia il suo versamento alla base dell'altare, sono gesti che vengono ripresi e approfonditi nell'ambito del nuovo testamento. È la lettera agli Ebrei a rilevare l'importanza del sangue: «Secondo la legge, quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue, e senza spargimento di sangue non esiste perdono. Era dunque necessario che le cose raffiguranti le realtà celesti, fossero purificate con tali mezzi» (Eb 9,22-23). Qual è la realtà celeste a cui allude il passo citato? Essa veniva già esposta al versetto dodici: «Cristo è entrato una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna» (Eb 9,11-12). Gli uomini hanno offerto a Dio la vita di animali che erano in realtà un dono che egli aveva già concesso loro perché potessero nutrirsi e vivere. Dio invece, ha donato agli uomini se stesso nel suo Figlio amato. Questi non ha tolto la vita a nessuno ma ha offerto tutta la sua persona per difendere la causa di Dio e quella degli uomini. La sua fedeltà, espressa in modo concreto nello spargimento del suo sangue, ora rende capaci anche noi di offrire a Dio il nostro sacrificio. Il suo sangue infatti purifica la nostra coscienza dalle opere morte, perché serviamo al Dio vivente (cf. Eb 9,14). Ecco dove giunge la preziosità del sangue. «Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi; e voi per opera sua credete in Dio, che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, in modo che la vostra fede e la vostra speranza siano rivolte a Dio» (1 Pt 1,18-21). Il gesto del versamento del sangue alla base dell'altare, viene ripreso e valorizzato dal libro dell'Apocalisse: «Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran voce: «Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?». Allora venne data a ciascuno di loro una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro» (Ap 6,9-11). Le anime degli uomini immolati sono state già collocate sotto l'altare. L'autore quindi mette in scena una folta schiera di martiri. Essi rappresentano non soltanto i cristiani uccisi all'epoca contemporanea all'autore (forse un'allusione ai fedeli uccisi nel corso della persecuzione di Domiziano) ma i martiri di ogni epoca; anzi rappresentano tutti i discepoli di Cristo che hanno versato il loro sangue nella fedeltà eroica esercitata nello svolgimento della loro missione. La supplica ardente e gli uccisi che sollecita l'azione di vendicatrice di Dio, la stessa offerta della loro vita, le loro preghiere e le loro intercessioni hanno un valore sacrificale. La supplica, rivolta nello stile imprecatorio dei salmi, infonde la sicurezza che tutte le vittime della storia non sono affatto dimenticate da Dio. Anzi rivelano che la preghiera delle vittime, come anche la preghiera della Chiesa, rappresenta una forza determinante della storia. «Al loro ardente desiderio la risposta di Dio è rappresentata dal dono della veste bianca, simbolo della partecipazione personale alla risurrezione. È meglio immaginare che la scena evochi i giusti in genere, uccisi perché attaccati alla loro fede: l'evento di Gesù Cristo è il culmine di questa tragica storia e risposta piena all'umanità in attesa»[5]. Dopo aver osservato questi elementi comuni, vediamo ora le caratteristiche specifiche di alcuni sacrifici particolari.
L'olocausto
L’oblazione
Esemplificazioni
Dal momento che ho fatto riferimento al valore spirituale dell’olocausto e dell’oblazione, vediamo
come il contenuto di questi sacrifici possa coinvolgere la nostra vita. La cosa più costosa per una persona è sempre quella di convertire se
stessa. Togliere da noi tutto ciò che ci separa da Dio o può affievolire la
nostra comunione d'amicizia con lui! Spesso preferiamo impegnarci in azioni che
sono più eclatanti, che sono soltanto apparentemente più impegnative e generoso
mentre rifiutiamo di donare a Dio quello che ci chiede in realtà e che ci può
sembrare invece, una cosa da nulla. Dio preferisce la monetina della nostra
conversione, all'offerta molto risonante di tante attività appariscenti che
spesso sono svolte per soddisfare il nostro ego. Donargli l'impegno che costa i
liberarci da una tendenza negativa (quale la facilità a chiedere al
risentimento, quale la ricerca di una posizione di vantaggio, l'attaccamento al
denaro, le concessioni alla sensualità) è come offrire l'obolo della vedova.
Insignificante agli occhi degli uomini ma preziosa davanti a Dio Padre (Mc
12,41-44). Dio richiede da noi un cambiamento di rotta al punto di navigazione
dove abbiamo deviato: «Con ciò con cui hai perso i beni, con quello stesso devi
riacquistarli. Tu devi a Dio una monetina? Non accetterà da te una perla al suo
posto» (Isacco di Ninive, Un’umile speranza, p. 124)Facendo qualche altra osservazione sul sacrificio costoso, possiamo
pensare al valore di doni che sono irrilevanti sul piano della produttività, in
quanto non sono immediatamente traducibili in risultati visibili a livello
pastorale o sociale, ma possono essere fecondi in profondità. Mi riferisco, a
titolo di esempio, al valore della castità e della continenza, scelti nella
promessa del celibato o nel volto di verginità. Ugualmente sono fecondi a
livello del ministero, non certo a livello visibile, la sopportazione di una
malattia, la sottomissione alle vicende dolorose della vita che si prestano
all'improvviso; [la vita stessa di un eremita, condotta nel silenzio e nella
dimenticanza di sé]. Sulle vicende dolorose della vita, osserva Isacco di
Ninive: «Amico della virtù non è colui che opera diligentemente cose belle, ma
colui che accoglie con gioia le cose cattive che hanno comunione con lui» (
Isacco di Ninive, Un’umile speranza, p. 135). In conclusione, è possibile offrire a Dio sacrifici di valore.
Tuttavia anche in questo caso dobbiamo sempre ricordare che restituiamo a lui
ciò che egli ci ha dato in precedenza. Noi offriamo qualcuno tra i beni che ci
ha dato, ma Lui ci dona sempre in cambio se stesso, anzi ha già cominciato a
donare se stesso a noi quando ha risvegliato in noi il desiderio del donare.
Il sacrificio d'espiazione
È un atto cultuale compiuto per ottenere il perdono dei peccati e
rappresenta il momento centrale della celebrazione del grande giorno
dell'espiazione: Yom Kippur (Lv 16). Il significato di espiazione (asam), nella Bibbia, è molto diverso da come veniva
intesa nell’antichità e da come la intendiamo ora. Gli antichi la facevano
consistere nello sforzo di trarre dalla propria parte la potenza misteriosa e
spesso funesta delle divinità, per guadagnare il loro appoggio. Ritenendo
d’essere minacciati dall'ira (spesso ingiustificata) e dell'invidia degli dèi,
cercavano di ingraziarsi le divinità con atti di culto, con riti di
purificazione, perfino con sacrifici umani o di animali. Venivano persino
sacrificati delinquenti comuni proprio per conquistarsi il favore delle
divinità. Per noi l’espiazione, più semplicemente, è scontare una colpa
attraverso la pena o il castigo. È quanto pensiamo dovrebbe pagare una persona
colpevole per un atto criminoso o per un danno provocato. Dal punto di vista
del colpevole, è la sopportazione coatta di una sofferenza che viene inflitta a
scopo punitivo. Talora la condanna per l’espiazione, può ridursi in realtà ad
una vendetta, ammantata di giustizia. Vediamo ora il concetto biblico. Il peccato, traducendosi in un atto
di malizia che deteriora i rapporti col prossimo, apre un contenzioso tra
persone umane ma anche tra Dio e l'uomo. Ogni volta che una persona danneggia
un'altra, colpisce
anche Dio che si sente
coinvolto. Nei rapporti tra gli uomini, la riparazione è necessaria e
corrisponde ad un risarcimento adeguato al danno (Lv 5,20-24). Ma come rapportarsi con Dio? Come dare una riparazione a Lui e
ottenere il suo perdono? Qui interviene l'espiazione, che possiamo paragonare
ad una multa. Essa viene a sostituire una punizione che risulterebbe troppo
dura. Il rito di espiazione viene allora introdotto non per placare Dio (che
non nutre mai sentimenti d’ostilità), ma per dare all'uomo un'occasione di
ravvedersi. Il Signore non prova sentimenti ostili verso gli uomini, neppure
verso i colpevoli, ma sono gli uomini a dover mettersi in un giusto rapporto
con Lui. Dio si colloca in primo luogo dalla parte della vittima (soprattutto
se ha subito violenza), come nel caso di Abele ma anche dalla parte
dell'aggressore, come nel caso di Caino. Infatti anche l’aggressore può
diventare vittima a sua volta, perchè rischia la vendetta da parte di severi
giustizieri. Il sacrificio d'espiazione è un dono
fatto agli uomini, per dare loro
la possibilità di cambiare vita e a correggersi.La proibizione data al sacerdote di entrare nel santuario, ossia nel
luogo più sacro del tempio, con eccessiva dimestichezza (Lv 16,2), è il segno
che permane una frattura con Dio, provocata dal peccato. Nel grande giorno
dell'espiazione, si attua un segno particolare: il sacerdote impone le mani sul
capo di un capro, confessa su di esso tutte le colpe degli Israeliti, le
riversa sopra di esso e poi lo manda via nel deserto (Lv 16,20-22). Questo
gesto vuole significare che la richiesta di perdono, espressa dal sacerdote
come rappresentante del popolo, è stata esaudita e che i peccati non pesano più
su di esso. Sono stati come portati via, annullati. Tutti questi segni potrebbero sembrare delle scappatoie improprie,
se in quel giorno tutto il popolo non dovesse umiliarsi, riconoscendo le proprie
colpe e astenendosi dal lavoro. Il Giorno dell'espiazione diventa un giorno di
riflessione per tornare al Signore, con un degno cambiamento di vita. Il
perdono viene concesso a chi si sforza di correggersi. Gli uomini riparano il
male fatto semplicemente proponendosi di correggersi e agire con rettitudine,
obbedendo alla volontà di Dio. Al contrario di altri sacrifici, il risarcimento è obbligatorio, nei
confronti del prossimo e di Dio. Si evidenzia l'attenzione che tutti gli
israeliti possano compierlo: «Se non ha mezzi per procurarsi una pecora o una
capra, porterà al Signore due tortore o due colombi... Se non ha mezzi per due
tortore o due colombi, porterà un decimo di efa di fior di farina» (Lv 5, 7 e
11). Non bisogna confondere il concetto di espiazione con quello di
rappresentanza e neppure confonderlo con la punizione, che invece viene evitata
o attenuta da un’espiazione.
Nel corso della storia,
come i sacrifici spirituali (quali l’obbedienza o il pentimento) erano stati
preferiti a quelli cruenti, l’espiazione ottenuta con gli olocausti fu
affiancata da quella realizzata mediante dei comportamenti positivi: «Chi onora
il padre espia i peccati»; «L’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina
espia i peccati» (Sir 3,30). «Cosa gradita al Signore è tenersi lontano dalla
malvagità, sacrificio di espiazione è tenersi lontano dall’ingiustizia» (Sir
35,5). Ancora di più: qualcuno, grazie al suo comportamento particolarmente
retto, può ottenere il perdono a favore del popolo o di altri. «Fineès... per
la sua fermezza quando il popolo si ribellò, per la bontà coraggiosa della sua
anima, egli fece espiazione per Israele» (Sir 45,23). In quest’ultimo passo
emerge il concetto di rappresentanza: una sola persona agisce bene, ma lo fa a
vantaggio di tutti, come se li compendiasse in se stesso. Volere rappresentare
altri che si trovano in una condizione sfavorevole, è un gesto di grande
generosità e solidarietà. Attribuire a tutti i meriti accumulati da uno solo, è
un grande favore che Dio concede agli uomini. Uno dei personaggi che s’impegna a rappresentare la moltitudine (del
popolo o dell’umanità) e che con la sua estrema fedeltà a Dio, ottiene il
perdono a loro vantaggio è il Servo di Dio, di cui parla Isaia (cap. 53). Il
suo impegno è molto più radicale ed incisivo di quello di Fineès: «Quando
offrirà se stesso in sacrificio di riparazione (asam), vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà
per mezzo suo la volontà del Signore» (Is 53,10). Il servo vive una situazione
che è quella che avrebbe dovuto sperimentare tutto il popolo se Dio lo avesse
punito con giustizia. Proprio lui, l’innocente, incontra la persecuzione per la sua fedeltà a
Dio. «Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i
nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato» (Is
53,4). Ora i meriti della sua fedeltà vanno a vantaggio di tutta la nazione. Gli evangelisti annunciano che il ruolo del Servo è stato preso
volontariamente da Gesù. Secondo il Vangelo di Marco, Egli stesso assume la sua
fedeltà a Dio nella persecuzione, in quella che sta già subendo ma soprattutto
in quella che subirà durante la passione, come impegno per riscattare l’umanità. La sua missione, compresa la sua morte,
andrà a vantaggio di tutti. «Il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi
servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,
11; cf Mt 20.27). In seguito il riscatto operato da Gesù viene indicato come
una vera espiazione (ilasmos) (cf. Rm 3,25; Eb 2,17; 1 Gv 2,2 e 4,19). È uno dei modi per
comprendere il significato salvifico della morte di Gesù, un fatto misterioso e
paradossale. San Paolo riflette anche sul significato di rappresentanza. Già Adamo era una figura collettiva oltre che
personale. Gesù davanti a Dio Padre rappresenta tutti gli uomini che sono “uno”
in lui. Se nel passato la concezione dell’unità della stirpe degli uomini aveva
procurato loro un grave danno, a motivo della colpa di Adamo, ora, invece, si
trasforma in una possibilità dal valore incommensurabile: tutti diverremo
partecipi della stessa gloria di Cristo. «Il dono di grazia non è come la
caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la
grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono
riversati in abbondanza su tutti» (Rm 5,15). Osservando il sacrificio d’espiazione, sembra che ottenere il
perdono fosse estremamente facile. In realtà i riti devono essere accompagnati
da un cambiamento reale del sentimento e del comportamento dell’offerente. È il
cammino di conversione ad assicurarci il perdono. Se ciò non avviene, l’uomo
corre il rischio di sperimentare la severità della pedagogia divina. Su questo
aspetto, il libro del Levitico è molto radicale. Quanto Dio è pronto a
perdonare, altrettanto è pronto a perseguire il ribelle ostinato (Lv 26,14-33).
In ogni caso rimane impensabile che Egli tronchi in modo definitivo la sua
alleanza, abbandoni l’umanità a se stessa e se ne disgusti: «Io non li
rigetterò e non mi stancherò di loro fino al punto di annientarli del tutto e
di rompere la mia alleanza con loro, poiché io sono il Signore, loro Dio» (Lv
26,44). Per quanto la sua pedagogia possa essere severa, la sua misericordia la
supera immensamente. Da parte sua Gesù, pur esprimendosi talora in minacce e severi
ammonimenti (Mt 11,21-24; 18,7; Lc 6,24-26), normalmente preferisce
rappresentare la benevolenza di Dio. Vuole convincere con la benevolenza più
che con l’accusa, al punto da essere frainteso come un connivente del peccato
(Lc 7,34).
2. Solidarietà
Finora abbiamo parlato a lungo del culto e dei sacrifici ma la
santità di Dio e vuole espandersi anche nella vita degli uomini. A partire dal capitolo 17, dopo le prescrizioni sul culto e sui
sacrifici, inizia l'esposizione di norme che riguardano i rapporti tra persone.
Dall'ambito particolare del tempio, si passa alla vita quotidiana. Non troviamo
più norme di tipo sacrale, ma suggerimenti di carattere squisitamente morale.
Le due parti del libro, nonostante queste profonde differenze, non vanno concepite
come separate fra loro ma anzi sono intimamente connesse. Ora la santità, una
caratteristica propria di Dio, viene trasferita anche a tutto il popolo. Il Dio
santo, santifica: «Io sono il Signore che vi santifica» (Lv 22,31). La sua
santità consiste nella sua diversità rispetto al mondo, nell'essere totalmente
altro. Il primo carattere di Israele consisterà, a sua volta, nel distinguersi
dagli altri popoli per quanto riguarda il comportamento morale. Il popolo di
Dio non dovrà agire come si comportavano le genti con cui era entrato a
contatto. La santità di Dio inoltre è totale estraneità al male e piena
affidabilità. Allo stesso modo, ogni uomo dovrà agire bene, evitare il male ed
essere considerato affidabile dal proprio fratello. Gesù insisterà perché i suoi discepoli riprendano questa
caratteristica del popolo di Dio al quale anche loro appartenevano: «Risplenda
la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e
glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Anche la prima lettera
di Pietro attribuisce ai componenti della Chiesa le caratteristiche tipiche del
popolo di Dio: «Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa,
popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che
vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1 Pt 2,9). Quindi
anche i cristiani, proprio per aver conosciuto la verità e per aver ricevuto un
nuovo essere, devono mostrare uno stile di vita conseguente: «Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini a
astenervi da desideri della carne che fanno guerra all'anima. Tenete una
condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori,
al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita»
(1 Pt 2,11-12). La prima esposizione di norme riguarda il comportamento sessuale. Il
Levitico non vuole con ciò affermare che queste siano le più rilevanti.
L'autore si rivolge a persone che già conoscevano i precetti del decalogo nella
sua interezza. Forse in quel tempo, il popolo era maggiormente esposto ad
imitare comportamenti negativi che vedevano verificarsi tra i pagani proprio
per quanto riguarda questo aspetto della vita. Gli uomini, riguardo alla
sessualità, sono sempre particolarmente deboli ed esposti all'influenza del
male. Le impurità, sebbene siano meno gravi di altri atti, come le violenze o
le ingiustizie in campo economico, rischiano di coinvolgere molte persone a
largo raggio. Proprio a causa di esse, il cuore dell'uomo comincia a farsi
dominare dal male e quindi diventano una porta attraverso la quale entrano
altri mali nel cuore dell'uomo. Mettono a repentaglio l'autodominio della
persona più di altri comportamenti negli quali è meno coinvolta con il suo
corpo. Forse per questo le impurità sono elencate per prime tra i propositi di
male che, secondo l'insegnamento di Gesù, escono dal cuore dell'uomo (Mc 7,31).
San Paolo scrivendo i cristiani che si erano convertiti dal paganesimo,
raccomandava in primo luogo la rettitudine anzi la santità nella sfera sessuale.
Egli adopera una terminologia, per esempio quella di santificazione, che
richiama l'insegnamento esposto nel libro del Levitico: «Voi conoscete quali
regole di vita vi abbiamo dato da parte del signore Gesù. Questa infatti è
volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall'impurità, che
ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, senza
lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio; che
nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello, perché il
Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e ribadito. Di non
ci ha chiamati all'impurità ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste
cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo spirito» (1
Ts 4,2-8).Nel capitolo 18 del Levitico incontriamo la proibizione di avere
rapporti con consanguinei. Il testa sembra rivolgersi a degli ascoltatori di
sesso maschile. È interessante osservare il rischio cui incorrono i
trasgressori: chi agisce male verrà espulso dalla terra promessa, come in
precedenza erano stati espulsi gli abitanti che la abitavano prima degli ebrei.
La terra vomita via da sé chi compie tali azioni abominevoli (Lv 18,27-30).Nel capitolo successivo, la normativa allarga fino al comportamento
da tenere in tutti settori della vita. Bisogna abbandonare ogni forma di
durezza e a agire nei confronti del prossimo non soltanto con lealtà ma anche
con bontà, compassione e mitezza. Il testo soprattutto bandisce l'odio: «Non
coverai odio contro il tuo fratello; rimprovererai apertamente il tuo prossimo,
così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai
rancore contro i figli del tuo popolo, ma ama il tuo prossimo come te stesso.
Io sono il Signore» (Lv 19,17-18.9). Non basta però evitare l'odio, ma bisogna
saper prendersi delle responsabilità per favorire il prossimo ed esercitare
delle attenzioni benevoli nei confronti delle persone più svantaggiate: «Quando
mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo,
né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna,
non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per
il povero e per il forestiero. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19, 9-10).
«Non opprimerai il tuo prossimo, né lo spoglierai di ciò che è suo; non
tratterrai il salario del bracciante al tuo servizio fino al mattino dopo. Non maledirai il sordo, né metterai inciampo
davanti al cieco, ma temerai il tuo Dio. Io sono il Signore» (Lv 19, 13-14).
«Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo
opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è
nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati
forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,33-34).Altre norme proibiscono qualsiasi forma parzialità degli indizi in
tribunale (Lv 19,15). Altre ancora hanno lo scopo evidente di proteggere dagli
accessi connessi all'idolatria come le pratiche magiche (Lv 19,31) e i
sacrifici umani (Lv 20,1). Prima dell'esilio, gli israeliti si erano macchiati
di queste pratiche estremamente riprovevoli.
3. Le Norme di purità
Per un lettore moderno, la parte più difficile del libro del
Levitico è costituito dal concetto di sacro e impuro. In effetti questa
concezione per noi è una cosa strana. Il problema non riguarda però soltanto la
Bibbia perché queste normative erano diffuse in tutti i popoli dell'antichità.
Per la mia riflessione mi basta riproporre alcune distinzioni che spero siano
chiarificatrici. Per gli antichi il sacro era una forza cosmica indipendente,
superiore alle stesse divinità. Gli dèi e forse neppure Dio erano in grado di
dominare del tutto questa energia. Solo presupponendo una mentalità di questo
tipo, è possibile comprendere il significato di alcuni episodi biblici che ci
appaiono sconcertanti. Quando Uzzà toccò l'arca per impedire che cadesse
durante il trasporto, venne colpito a morte all'istante. Era stato fulminato
chiaramente da un’energia che emanava da una realtà sacra come era l'Arca (2 Sm
6,7). Gli animali che, per pascolare, salivano sul monte Sinai, nel momento
della manifestazione di Dio sulla sua vetta, se oltrepassavano il limite
protettivo tracciato, venivano abbattuti a sassate, stando a distanza (Es
19,12-13). Questi animali si erano caricati un’energia potentissima che poteva
provocare perfino la morte di chi li avrebbe avvicinati o toccati. Il
comportamento rispettoso nei confronti del sacro non appare come una questione
morale ma come una precauzione di carattere vitale. Solo in seguito il sacro
venne identificato con il Dio santo (Is 6,3). Il giuramento ridestava l'energia terribile del sacro alla quale non
sarebbe stato possibile sfuggire (cf Gc 11,29-40; 17,1-3). Chi aveva giurato
avrebbe dovuto mantenere l'impegno preso, pena la morte stessa. Anche lo stesso
patto con Dio espresso con un giuramento da parte del popolo, si sarebbe
rivelato distruttore nei confronti dei trasgressori, se fosse stato violato (Es
24,3-9). Connessa al sacro è l'idea dell'impuro. Nel significato originario,
impuro non significava immondo in senso morale. È impuro tutto ciò che, avendo
avuto attinenza con il sacro, ha acquistato un’energia che potrebbe danneggiare
la vitalità di una persona, depotenziandola. È impuro il sangue, è impuro l'esercizio della sessualità poiché
quando si comunica alle sorgenti della vita, si entra in contatto con il sacro.
Ogni relazione con questi eventi, depotenziando le persone, le
espone al pericolo. In questo periodo più antico l'impurità era considerata
come parte della natura e come tale non era affatto cattiva. Il contatto con
l'impuro inevitabile e talora necessario o raccomandabile. I sacerdoti avevano
il compito di istruire il popolo su questa questione molto vitale. Benché
questo sentire fosse diffuso fra tutti i popoli, come ho detto, in Israele il
problema del sacro acquisì una gravità particolare.In seguito il peccato fu posto in relazione con l'impurità perché
anch'esso depotenziava la persona al massimo grado. In alcuni settori del
giudaismo, il problema dell'impurità divenne quasi ossessivo. A partire
dall'epoca in cui l'impurità venne collegata al peccato, il peccatore fu
considerato impuro. L'uomo stesso come tale viveva di fatto una situazione di
impurità.
All'epoca neotestamentaria, i giusti e le persone più sensibili dal
punto di vista religioso, cercavano di tutelarsi dall'impurità dei peccatori. Certamente sulla questione che sto trattando, incontriamo un abisso
tra Antico e Nuovo Testamento. Finora ho cercato di mostrare sempre la
relazione di continuità, pure nella discontinuità, tra le due Alleanze, ma
riguardo a questo argomento, è prevalente la discontinuità se non la rottura. Innanzitutto, a partire da Gesù viene abolita la separazione tra
sacro e profano. Tutta la creazione può essere considerata contemporaneamente
tutta sacra e tutta profana. L’esistenza umana che è del tutto profana (ossia
libera da qualsiasi contaminazione sacrale) diventa anche del tutto santa.
L'esistenza, condotta in piena obbedienza a Dio, vissuta nell'amore per Dio e
il prossimo, costituisce il vero atto di culto. Ormai incontriamo Dio Padre
negli eventi della vita e non in luoghi sacri. Questo modo di pensare è un vero
rivolgimento. Non deve esiste più un tempio. Il luogo d'incontro tra Dio e
l'uomo è Cristo stesso e, in seguito, la comunità della Chiesa. I sacrifici
cruenti sono aboliti perché superati dalla vita di obbedienza fino alla morte
condotta da Gesù. Osserviamo ora da vicino la questione degli alimenti. Gli israeliti
cercavano di mangiare cibi mondi per restare puri. Era per loro una questione
di coscienza (e per non trasgredire queste norme, alcuni affrontarono il
martirio con grande coraggio). L’alimentarsi seguendo le norme di purità,
tuttavia, non soltanto causava un fraintendimento per quanto riguarda la vera
purificazione, ossia quella del cuore, ma favoriva l’insorgere un certo
risentimento tra ebrei e non ebrei. Gli ebrei, dopo l'esilio, avevano cercato
di distinguersi dai pagani, vivendo in modo più etico. Per difendere la loro
diversità, non soltanto vollero sottomettersi con serietà ai comandamenti
divini di carattere morale, ma valorizzarono con scrupolosità le norme che li
separavano dai pagani. Le regole alimentari servivano a questo scopo. Rifiutare
certi cibi, però, si trasforma facilmente in un rifiuto, più o meno marcato,
nei confronti di coloro che invece se ne alimentano. Gesù supera le norme del puro e dell'impuro. In Marco vediamo la
svolta radicale che Gesù ha dato al concetto di purezza davanti a Dio: non sono
le azioni rituali che purificano. Purezza ed impurità si realizzano nel cuore
dell'uomo e dipendono dalla condizione del suo cuore (cfr Mc 7,14-23).
L'impurità non provocava soltanto una divisione tra ebrei e pagani ma una rottura
anche all'interno della stessa società ebraica. Gesù, volendo portare un segno
manifesto del regno di Dio che aveva cominciato a introdurre nel mondo,
continua ad erodere le barriere che gli uomini avevano frapposto fra loro e lo
fa integrando le persone che venivano escluse dalla società. In base alle norme del Levitico, i lebbrosi dovevano restare lontani
dalle persone, privi di ogni contatto umano. Le donne che soffrivano di perdite
di sangue restavano impure per tutto il tempo in cui si manifesta la loro
malattia. Persone che esercitano una professione che li esponeva ad avere
contatti con altera gente impura, venivano considerate a loro volta
inavvicinabili. Nei confronti dei lebbrosi, Gesù è nello stesso tempo amichevole e
cauto. In genere sono loro che si avvicinano a lui, infrangendo le imposizioni
dell'isolamento. Quando li vede vicini, Gesù viene preso da compassione. Tutti
gli evangelisti notano che gli tocca il lebbroso e poi, una volta che lo ha
guarito, lo obbliga a presentarsi ai sacerdoti, che potevano integrarlo in modo
ufficiale nella società. Sembra imbattersi in un dilemma: da una parte patisce
per la doppia sofferenza della malattia e dell'esclusione sopportata da questi
miseri uomini. Il fatto di toccarli li assicura della sua vicinanza con loro.
Dall'altra parte è consapevole della necessità delle norme con le quali la
comunità cercava salvaguardare la vita di tutti. È chiaro in ogni caso e nel
regno di Dio la persona vale in assoluto e che neppure un lebbroso può essere
lasciato a se stesso e identificato con il suo male. Quanto al fatto della alla donna emoroissa, cogliamo il seguente
messaggio. La donna, che soffriva per le perdite di sangue, lo aveva toccato di
nascosto, convinta che bastasse rischiare questo gesto per poter ottenere la
guarigione. Spinta da Gesù, ella è costretta a confessare il suo ardimento.
Questi sembra quasi trattarla con eccessiva durezza quando la costringe ad
esporsi al pubblico, «tutta impaurita e tremante». Il realtà Gesù la rivaluta
di fronte a tutti e la propone ad esempio come persona di fede. Inoltre ella
viene integrata nuovamente della società. Né lei stessa nei propri confronti,
né gli altri, devono più considerarla impura. In questi casi Gesù va oltre le
norme di purità. Il regno di Dio non accetta queste separazioni umilianti tra
le persone. Gli uomini devono solidarizzare hanno ed accogliere anche chi
sembra ributtante. In conclusione, per quanto valore le norme di purità avessero avuto
nel tempo in cui furono istituite, per Gesù ora non sono più valide, perché
separano gli uomini tra di loro e umiliano i più deboli. Così facendo Gesù
offre una nuova interpretazione della Legge ed opera in modo da esporsi alla
critica che tende a considerarlo un trasgressore. Anzi peggio: un eversore
della normativa stabilita da Dio e un disgregatore dei principi essenziali sui
quali si basava la società. La verità del Vangelo abbatte il muro di divisione tra ebrei e
cristiani, come si ripromette di abbattere ogni altra divisione. La normativa
dell'astension e dai cibi immondi, mentre aiutava popolo di Israele a
sentirsi più legato a Dio e alla sua Legge, dall'altro lo separava nettamente
dalle altre nazioni. Molti israeliti cercavano di attenuare le differenze con
le quali si distinguevano dagli altri, per evitare il loro risentimento. Così facendo, però correvano il
rischio però di perdere la loro identità.
Il problema venne avvertito con forza all'interno delle
comunità cristiane primitive, quando i pagani vennero a far parte di quelle
comunità, composte in un primo tempo
soltanto di ebrei. Potevano gli ebrei-cristiani condividere la mensa con i
fratelli provenienti dal mondo pagano? Si poteva superare la storica divisione
tra i due gruppi? La prima comunità che tentò di realizzare una piena
integrazione tra i due gruppi etnici fu quella di Antiochia, fino a
consentire la condivisione della stessa mensa. San Paolo sosteneva con forza
che le antiche norme non dovevano essere imposte anche i pagani che si facevano
cristiani. Anzi la missione di Gesù aveva reso obsolete tutte
queste regole. S. Pietro venne convinto da una visione celeste e soltanto dopo
questa esperienza che lo sorprese alquanto, accettò di entrare in casa del
centurione pagano Cornelio e di mangiare con lui e la sua famiglia. Gradualmente le norme alimentari vennero superate o almeno non
furono più considerate vincolanti per le coscienze. In concomitanza avveniva
una riconciliazione tra ebrei e pagani. La fede in Cristo creava un uomo nuovo,
cioè una comunità nella quale cominciava un nuovo modo di convivenza fino
allora inedito. Questo nuovo modo di pensare e di fare si impose però con
grande difficoltà perché toccava questioni di coscienza. Secondo l’esegesi liberale, il cristianesimo sarebbe
essenzialmente una morale, una specie di «riarmo» etico. Ma con ciò
non si rende giustizia alla novità del Nuovo Testamento. «La vera novità si
intravede, quando negli Atti degli Apostoli Pietro prende posizione di fronte
all'obiezione di farisei convertiti alla fede in Cristo, che chiedono di
circoncidere i cristiani provenienti dal paganesimo e di ordinare loro
di osservare la legge di Mosé. A questo Pietro replica: “Dio non ha fatto
alcuna discriminazione tra noi e loro, purificando i loro cuori con la fede”
(15,511). La fede purifica il cuore. Essa deriva dal volgersi di Dio verso l'uomo. Non è semplicemente una
decisione autonoma degli uomini. La fede nasce, perché le persone vengono
toccate interiormente dallo Spirito di Dio, che apre il loro cuore e lo
purifica (Cf Gv 15, 3».
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