I Salmi nella tradizione dei Padri
La rilevanza del salterio
I salmi appaiono subito interessanti ma non altrettanto
facili. Ciò nonostante, c’è stato chi ha accompagnato la gioia per la scoperta
della fede con la soddisfazione per la scoperta del Salterio.
È il caso che ci viene offerto, per esempio, da Basilio, il
quale, introducendo le sue omelie sui Salmi, manifesta il suo entusiasmo per
questo tipo di preghiera:
È voce della Chiesa. Allieta i giorni festivi,
crea quella gravita che piace a Dio. Il salmo infatti trae lacrime anche da un
cuore di pietra. Il salmo è opera degli angeli, cittadinanza celeste,
spirituale profumo [1].
Nel mondo d’oggi non solo la recitazione dei salmi, ma anche la
preghiera stessa sembra impossibile. Osserva Kurt Appel: «La questione della
preghiera è a mio parere la più difficile e fondamentale questione teologica
del nostro tempo. Nel suo scritto sulla religione Jacques Derrida fa notare in
proposito che nel mondo delle idee dell’ontoteologia, il cui rappresentante
ultimo è Hegel, la preghiera non ha alcun posto. Sembra essere crollato
infatti, quell’ordine simbolico in vigore per secoli e millenni che poteva
localizzare al proprio centro Dio, verso cui ci si innalzava per mezzo della
preghiera… »[2]. Appel parla
quindi del trauma subito dalla cultura occidentale, quello della perdita del
palazzo celeste, con il vuoto della preghiera ad essa collegato.
Per quanto riguarda la nostra esperienza di vita, dobbiamo
dire che il monaco sta o cade in base all’intensità e alla frequenza della
preghiera: «Specchio del monaco è la preghiera»[3].
Lo scopo principale della preghiera è quello di assorbire
l’energia dello Spirito. La perseveranza nella preghiera rende possibile «la
comunione con la santità di Dio e con l’energia dello Spirito»; chi persevera
in essa «riceve la grazia della perfezione santificante dello Spirito»[4].
Il dono tipico della preghiera, ricevere ed assorbire lo
Spirito, corrisponde con la grazia specifica della recita dei salmi. Il
convincimento viene avvalorato da un episodio biblico: il profeta Eliseo,
quando fu richiesto d’intervenire per sovvenire ad uno stato di necessità, fece
suonare una cetra per poter ritrovare l’ispirazione (2 Re 3,15). Il canto dei
Salmi aveva, per i Padri e per gli autori spirituali, la medesima funzione
esercitata dalla cetra di Eliseo[5].
Tra le forme di preghiera, quindi, viene privilegiato il
salterio e la familiarità con esso è una delle caratteristiche principali della
vita monastica: «La recita frequente dei Salmi favorisce in noi una compunzione
assidua» dice Cassiano[6].
Teodoreto di Cirro considera cosa scontata che tra i monaci e il salterio vi
sia grande familiarità: «Quanti vivono la vita monastica ripetono in continuazione, giorno e notte,
i salmi, per onorare il Creatore e tenere assopite le passioni»[7]. Richiamo la bella
esortazione di Girolamo al monaco Rustico: «Impara il salterio parola per
parola»[8].
Tommaso da Kempis riprende questa tradizione quando, nel consigliare al monaco
la preghiera silenziosa nella sua cella, scrive: «Lì ti rallegrerai nel Signore
e parlerai con lui ed egli ti risponderà. Si accosterà al tuo cuore la sua luce
e la verità si manifesterà a te più chiaramente… Dirai: Chi è come te,
Signore? Quante sono vere le parole che ho
letto: Alla tua luce vediamo la luce.
E ora: Il Signore Dio è mia luce e mia salvezza; nella tua luce camminerò ed esulterò tutto il
giorno nel tuo nome…»[9].
Tommaso non soltanto condensa la preghiera segreta del monaco in alcune
espressioni del salmi, ma presenta questo tipo di vita come il luogo in cui si
sperimenta al presente il contenuto profondo dei salmi: «Quanto sono vere le
parole che ho letto!».
L’autore del salmo 108 dichiara: «Ma io sono preghiera.. (va’anì
teffilà)» (108,4). Il monaco diventa
preghiera e diventa un salterio, il quale rappresenta la sostanza della
preghiera. Il monaco che non gusta, non ama, non recita in salmi con frequenza,
lascia cadere una delle grandi opportunità del suo carisma.
Necessità della meditazione
Per conseguire il traguardo tracciato ed evitare tale
rischio, bisogna in primo luogo, trasformare il salterio in un oggetto di
meditazione prolungata.
Il programma di vita dell’orante sembra tracciato nel
salmo 36:
«La bocca del giusto medita la sapienza e la sua
lingua esprime il diritto. La legge del suo Dio è nel suo cuore: i suoi passi
non vacilleranno» (vv. 30-31).
La meditazione avviene tramite la ripetizione del testo: la
bocca medita la sapienza (pi-tzaddìk
ieghé chochmà). Da questa ripetizione, che
non è solo mnemonica ma affettiva, il testo passa nel cuore (toràt
Elohàv belibbò) e dal cuore si trasferisce
nella vita (i suoi passi non incontreranno inciampo) (lò’ tim’àd ashuràv).
Un altro versetto salmodico richiama un fatto simile: «Ti
siano gradite le parole della mia bocca. Davanti a te la meditazione del mio
cuore» (Sal 18,35). Non si parla tanto di sviluppare dei pensieri ma, nel testo
masoretico come nella LXX, si parla strettamente di meditazione: ossia di ripetizione orale del testo. La
ripetizione delle parole è meditazione ma dopo la bocca è menzionato il cuore,
quindi bisogna ripetere il testo con partecipazione personale. I salmisti,
ovviamente, non intendono proporre una ripetizione meccanica ma una attenzione
viva al significato delle parole.
È opportuno, allora, soffermarsi sui versetti, osservare che
cosa suggeriscano, farli nostri. «Impariamo come sia bene che ciascuno dialoghi
con se stesso, e non attenda maestri da fuori, ma discorra con sé… con la
propria mente », suggerisce Eusebio di Cesarea[10].
Ognuno di noi potrebbe essere la cetra pizzicata dallo Spirito. Afferma
Basilio:
«Spiegandoti a poco a poco le parole di questo
salmo, ne comprenderai il contenuto recondito; [comprenderai] che non è di
chiunque penetrare nei misteri divini, ma solo di chi è capace di farsi come un
organo consono alle disposizioni [divine], in modo che la sua anima possa
essere toccata, in luogo dello stesso salterio, dallo Spirito Santo che agisce
in lei»[11].
In questo testo, Basilio considera l’introduzione al
salterio come un’iniziazione misterica e il risultato consiste nella
sostituzione del testo con la persona stessa. Lo Spirito che ispirò il
salmista, ispira chiunque, anche me. Tutti siamo destinati a diventare come
autori e non semplici ripetitori dei versetti: «Io, preghiera» (Sal 108,4).
Nel cristianesimo antico, il salterio venne usato in primo
luogo come testo biblico di prova per accreditare appieno il mistero di Cristo.
A partire dal secolo IV, i Padri cercarono di fare in modo che tutti i fedeli
fossero in grado di servirsene, in modo particolare i monaci. Una delle prime
testimonianze è la lettera di Atanasio a Marcellino[12].
Inviti alla recitazione dei salmi ne troviamo in autori ed ambienti diversi.
«Chi non arrossirebbe di concludere la giornata senza la preghiera dei salmi?»,
chiede san Massimo di Torino[13].
Il salterio dei Padri
Quale testo usavano i Padri? Certamente non lo stesso
Salterio dell’edizione C.E.I. (adottato nella Liturgia delle ore) che utilizza una traduzione dal testo ebraico,
messo a punto dai masoreti[14].
Nell'avvertenza preposta all'edizione italiana della Bibbia di Gerusalemme
leggiamo:
«Per l'Antico Testamento, la versione è fatta a
partire dal testo masoretico, cioè il testo ebraico fissato nei sec. VIII-IX
dopo Cristo dai rabbini ebrei che ne hanno precisato sia la grafia che la
vocalizzazione. Quando il TM presenta difficoltà insormontabili, s'è fatto
ricorso ad altri manoscritti ebraici o a versioni antiche, principalmente
greca, siriaca e latina»[15].
Come appare in modo chiaro da questo testo, la traduzione
greca dei LXX viene usata come risorsa secondaria per risolvere problemi
testuali; spesso è stata considerata, a torto, una versione inadeguata del
testo ebraico, quindi secondaria rispetto a quello. Per gli autori del Nuovo
Testamento e per i Padri, sia greci che latini, invece, la versione preferita
era la versione greca dei LXX, considerata ispirata quanto quella ebraica e
preferibile ad essa. Essa era privilegiata rispetto anche ad altre traduzioni
dall’ebraico in greco, messe a punto da traduttori ebrei.
In realtà oggi gli studiosi attestano che la traduzione dei
LXX non fu una versione, talora imprecisa ed arbitraria, di un unico testo in
ebraico esistente (quello trasmesso in seguito dai masoreti), ma la traduzione
di un altro testo ebraico che noi non conosciamo altrimenti[16].
Inoltre la LXX non fu propriamente una semplice traduzione ma una rilettura del
testo ebraico a partire dalle convinzioni maturate in Israele negli ultimi
secoli prima di Cristo[17].
Gli ebrei che in un primo tempo avevano bene accolto questa
versione in greco, in seguito, visto l’uso che veniva fatto dai cristiani a
sostegno della loro fede, si mostrarono piuttosto critici nei suoi confronti[18],
e cercarono di modificarla proponendo altre versioni dall’ebraico in greco come
quella di Aquila[19], di Simmaco[20]
e di Teodozione[21].
Se i Padri greci usarono il salterio in greco dei LXX,
prediligendolo ad altri, ciò nonostante, conoscevano, consultavano e
commentavano tutte le altre traduzioni in greco e le varianti della stessa LXX.
Per questo possiamo trovare differenze nella citazione del medesimo versetto
biblico.
La Chiesa latina si servì, a sua volta, di una traduzione
del testo greco dei LXX, pur nelle sue numerose varianti locali, raggruppate
dagli studiosi sotto l'unica denominazione di Vetus Latina. In pratica, nei primi tempi, sia la Chiesa
d'Oriente, sia quella d'Occidente, usarono come testo di preghiera la versione
in greco dei LXX, o nella lingua originale o in traduzione latina.
Questa tradizione sembrò interrompersi in Occidente con Girolamo.
Quando papa Damaso volle unificare il testo usato nelle Chiese, affidò a
Girolamo il compito di raggiungere tale obiettivo e questi fu il primo che
pensò di ritornare al testo ebraico, senza però voler rompere con la tradizione
precedente[22].
In realtà, dopo un primo tentativo abortito, la seconda
traduzione dei salmi compiuta da Girolamo, non si basò realmente sull'ebraico
ma sulla versione dei Settanta, quella
riportata dall'Esapla di Origine,
il testo più sicuro di riferimento. Venne considerata traduzione dall'ebraico
in modo piuttosto forzato, in quanto l'Esapla riportava anche una traslitterazione del testo
ebraico. Questa seconda traduzione di Girolamo, chiamata Gallicana, (poiché diffusa soprattutto nelle Chiese di quella
regione), fu la preferita nelle Chiese d'Occidente.
Nonostante il tentativo di rifarsi al testo ebraico, rimasto
più che altro a livello teorico, di fatto la Chiesa latina continuò a servirsi
di una versione dei Salmi, corrispondente a quella della Chiesa d'Oriente, ed
entrambe si rifacevano alla versione dei LXX. Per secoli, quindi, il salterio
conosciuto e commentato dai Padri greci e latini e in seguito dai monaci
medievali, rimase non quello ebraico ma quello greco. Il testo dal greco fu
accolto dalla liturgia la quale ancora oggi ne conserva la numerazione.
In conclusione, quando leggiamo i commentari dei Padri e
degli autori medievali sui Salmi, non vi troviamo commentato il salterio usato
da noi, derivato quasi esclusivamente dal testo ebraico, ma quello della LXX.
Soltanto questo può essere denominato il salterio della tradizione[23].
Dall’ebraico al greco
Il testo dei Salmi è talora difficile da tradurre per la
mancanza di chiarezza. I Padri furono coscienti delle difficoltà
d’interpretazione presenti nel Salterio.
Presento un versetto che ha mostrato e ancora mostra
particolari difficoltà interpretative: il versetto 19 del Salmo 68 (67 LXX).
Come punto di partenza vi cito la traduzione più letterale
possibile: «Salisti verso l’alto, facesti prigioniera la prigionia; prendesti
doni tra gli uomini e anche i ribelli per dimorare il Signore Dio». Perché il
testo abbia un minimo di senso, Roberto Reggi, un traduttore molto fedele alla
lettera, ha dovuto aggiungere un tra
prima di ribelli: prendesti doni tra gli uomini e anche tra i ribelli. Non c’è traduzione che non sia anche
interpretazione[24]. Reggi,
poi, non spiega che significato abbia il dimorare del Signore Dio.
Mario Luzzi, biblista valdese, cerca di rimanere aderente
alla lettera ma traducendo in modo da dare senso più soddisfacente al versetto,
purtroppo in un italiano ormai antiquato: «Tu sei salito in alto, hai menato in
cattività dei prigioni, hai preso doni dagli uomini, anche dai ribelli, per
farvi quivi la tua dimora, o Eterno Dio»[25].
Dio non soltanto riesce a sottomettere anche dei ribelli a lui ma è capace di
renderli un luogo della sua presenza. La versione della C.E.I riprende questa
linea interpretativa.
Tutto risolto? Se leggiamo alcune versioni dei rabbini,
rimaniamo assai sorpresi. Tutti i traduttori davano per scontato che il
soggetto della salita fosse il Signore stesso, ma in realtà non è così.
Leggiamo, infatti, presso Moisé Levi: «Tu [Mosè] sei salito in alto, prendendo
con te [la Torà che era tenuta come un prigioniero, hai preso regali per l’uomo
(la Torà e i comandamenti) così che anche tra i ribelli possa dimorare Iah,
Elohim» (Moise Levi, Tikkùn Tehillim,
Edizioni Moise Levi, Milano 2007, pp. 180-181). Lo spazio dato
all’interpretazione si allarga mediante soprattutto delle aggiunte di per sé
assenti nel testo. Moise Levi traduce in modo per noi così strano perché si
ispira ad una tradizione ebraica documentata dalla Metzudàt di Davìd e Rashi: Dio concede che Mosè sottragga la
Torà agli angeli e la porti sulla terra e ciò manifesta il suo amore particolare
per gli uomini.
Ricordo, per ultimo, che questo versetto viene citato dalla
lettera agli Efesini. L’autore pensa che il soggetto dell’ascesa sia Cristo
Risorto: «Salisti verso l’alto, facesti prigioniera la prigionia, distribusti
doni agli uomini» (Ef 4,8).
Che offre di particolare questa citazione? 1) Attribuisce la
salita a Cristo risorto 2) Non corrisponde né al testo ebraico, né alla
traduzione della LXX. Infatti lì leggiamo prendesti (lakàchta
oppure elabes) dei doni mentre
qui troviamo il contrario, distribuisti (edoken) doni agli
uomini. È chiaro che esistevano testi ebraici differenti.
Veniamo ora ai Padri. Teodoreto scorge la differenza tra la
LXX e il testo citato da Efesini (tra elabes e edoken) ma non si
scompone affatto. Del resto, per i Padri le diversità tra i testi non sono un
problema ma piuttosto una ricchezza. Egli afferma che Cristo Risorto ha fatto
l’una e l’altra cosa, ha preso e
ha donato. Dopo aver presa la
fede di quelli che prima erano non credenti, ha donato loro la grazia.
Appoggiandosi alla versione di Aquila così conclude in modo magnifico: «Non
guardò alla loro malvagità. Vide bene che erano ripugnanti ma continuò a
beneficarli, fino a farli diventare una sua dimora»[26].
Differenze tra Masora e LXX
Espongo ora alcuni esempi di diversità tra la traduzione
dall'ebraico (Masora) e dal greco (LXX). Normalmente i testi coincidono nella
sostanza, ma spesso rivelano delle differenze.
A volte la differenza sta in un particolare presente solo
nel testo greco, che sembra aggiunto a quello ebraico. Un caso illustre è dato
dal salmo 39, al versetto sette. In ebraico: «Sacrifici e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai
aperto»; il testo dei LXX presenta la variante: «Sacrifici e offerta non gradisci, ma un corpo mi hai
formato». La Lettera agli Ebrei (10, 5-10) applica al Cristo preesistente la
dichiarazione espressa dal salmista. Il salmo preannuncia così la sua
incarnazione, soprattutto l’offerta di sé che ha contraddistinto tutta la sua
vita. Incontriamo una riflessione molto acuta sul significato della vita di
Gesù, e questa meditazione viene ispirata dal testo del salmo.
Il cuore infiammato
L'autore del salmo 39 (38) dichiara di vivere una situazione
dolorosa simile a quella di Giobbe: colpito da sofferenza acuta, cercò di accogliere
in silenzio la pesante di Dio, anche per non scandalizzare, a motivo delle sua
protesta, eventuali testimoni non credenti. Con l’andare del tempo il suo
dolore si fece più acuto, incontenibile ed allora uscì in una lamentazione
molto vivace: «Ammutolito, in silenzio, tacevo, ma a nulla serviva, e più acuta
si faceva la mia sofferenza. Mi ardeva il cuore nel petto; al ripensarci è
divampato il fuoco» (vv. 3-4). Il testo
ebraico dice alla lettera: nella mia riflessione (o meditazione) è divampato un fuoco (bahaghighì tiv’ar èsh).
Di quale tipo di fuoco si tratta? Il testo ebraico
presuppone che si tratti di un dolore acuto, di uno sdegno verso Dio che, in
altri, avrebbe potuto portarli anche all’incredulità.
La traduzione greca dei LXX, invece, considera questo fuoco
un sentimento del tutto positivo; sembra astrarre l’affermazione dal contesto e
farne un'esperienza permanente: quando meditiamo, accendiamo un fuoco dentro di
noi, un calore di fede. Il semplice passaggio del verbo dal presente al futuro
modifica sostanzialmente il senso del versetto. Ci viene in mente l'esperienza
dei discepoli di Emmaus. Il testo greco infatti così interpreta: Dentro di
me si è infiammato il mio cuore e nella mia meditazione divamperà un fuoco.
Estrapolato dal contesto, il versetto diventò un ritornello
nella tradizione patristica: la meditazione della parola è necessaria per
alimentare il fuoco dello zelo per Dio. Forse i traduttori della Settanta hanno
voluto anticipare l'esito positivo che avrebbe avuto la vicenda, ma il primo
senso non significava un fuoco di devozione quanto piuttosto di dolore
sdegnato. Da qui una divergenza intertpretativa.
Eusebio di Cesarea mette in bocca al salmistra questa
espressione: «Mi bruciava il fuoco dell'abbattimento (τῆς ἀθυμίας ἐνεπιμπράμην πυρὶ)»[27].
Origine pensa al fuoco della devozione, restando vicino alla
soluzione suggerita dal testo: «Donde si troveranno carboni di fuoco in te, che
non hai mai bruciato per la parola del Signore, mai ti sei infiammato per le
parole dello Spirito Santo?»[28].
Didimo il cieco, si mostra esitante. In un primo momento
interpreta quel fuoco come un dolore acuto: «Il mio cuore ha come acquistato
calore a seguito del rinnovarsi del mio dolore», ma, nel seguito del commento
invece si armonizza con l’interptretazione origeniana[29].
L'interpretazione data da Origene penetrerà anche in
Occidente e diverrà prevalente. La ritroviamo in Agostino: «Comprendo, Signore,
quanto sia mirabile e incomprensibile la tua scienza e tuttavia nelle mie
meditazioni mi infiamma un fuoco che mi spinge a cercare sempre il tuo volto»[30].
Attirare lo Spirito
Vediamo in breve un altro caso famoso di discrepanza tra
ebraico e greco. Nel Salmo 119 (v. 131) troviamo: «Apro anelante la bocca
perché ho sete dei tuoi comandi». Alla lettera, in ebraico, leggiamo: «La mia
bocca ho aperto [avidamente] e ho aspirato perché i tuoi precetti ho agognato (pi
fa’àrti va’esh’àfa, kì lemitzvotécha ia’àvti).
Compare il verbo sha’af che significa aspirare. Il salmista pensa di assimilare le parole di Dio come
aspira l’aria. I traduttori in greco hanno calcato l’immagine dell’aspirazione:
«Ho aperto la bocca e ho attratto lo Spirito (eìlkysa pneuma)». Il verbo aspirare viene rafforzato con attirare (elkô)
e l’aria viene condensata come vento/spirito. Il versetto viene allora ad
assumere questo significato: leggendo le parole di Dio con vivo desiderio, il
credente assimila lo Spirito Santo. Questo ritornello ritorna nella tradizione
spirituale. Così interpreta Atanasio: «Assetato della tua grazia, ti ho invocato
e mi hai donato il tuo Santo Spirito (dipsòn ten chàrin sou, kai
edokàs moi tò Pnuma sou tò aghion), poiché
desideravo comprendere le Scritture»[31].
Eusebio di Cesarea ribadisce: «Il fondamento stesso dei comandamenti è ordinato
ad attirare e attrarre lo Spirito. … Non c’è alcuna differenza tra il dire:
accogliere una parola, o dire: attrarre lo Spirito, perché lo Spirito con la
parola divina è un’unica realtà. Anche il Salvatore dice dei discorsi che
faceva: “Le parole che vi ho detto, sono spirito e vita” (Gv 6,63)»[32].
Teodoreto di Cirro, conferma l’intuizione di Eusebio: la
bocca rappresenta la prontezza dell’anima che si apre alle sollecitazioni dello
Spirito; l’anima, perciò, può attirare lo Spirito. Il salmista, per il fatto
stesso che desidera i comandamenti, mostra di essersi reso degno di ricevere la
grazia[33].
Egli ricorda il versetto di un altro salmo: «Apri la tua bocca e la voglio
riempire». Vale a dire: se sei aperto verso il Signore, Egli può comunicarti in
maggiore abbondanza i suoi doni di grazia.
Agostino riprende la stessa interpretazione di fondo ma
aggiunge una variante molto significativa. Non pensa, come Eusebio, alla
capacità della persona umana a corrispondere alla grazia ma piuttosto alla
debolezza dell’uomo che deve essere corroborata da Dio:
«Che cosa desiderava se non di osservare i
comandamenti divini? Ma come avrebbe potuto un uomo debole attuare un progetto
così audace, un uomo piccolo fare cose grandi? Aprì la bocca confessando la
propria incapacità e si attirò
l’energia per poter riuscire: Aprì la bocca chiedendo, cercando e bussando e
nella sua sete si abbeverò di quello Spirito buono che lo rese capace di
osservare il comando divino...»[34].
Dietro la diversità di queste due interpretazione compare la
differenza di mentalità tra Oriente ed Occidente; i padri orientali più
ottimisti, gli occidentali più consapevoli della fragilità dell’uomo.
In seguito ai due esempi riportati penso di aver spiegato il
motivo per il quale, in Occidente, si è creata una tensione tra i sostenitori
della LXX e quelli della veritas ebraica
(che ha in Girolamo il capostipite): i primi non vogliono che si perda la
pregnanza di questi testi che hanno illuminato tutta una tradizione spirituale,
i secondi preferiscono attenersi ad un testo che pare loro più chiaro e
coerente.
L’Esegesi dei Padri
Cristo orante
I Padri, pregando i salmi, non volevano restare vincolati al
senso storico ma li riapplicavano alla situazione di vita di fede. I loro
commenti al salterio non sono soltanto esegesi, nel senso moderno, ma
attualizzazione del significato storico in un nuovo contesto e in una nuova
fase della storia della salvezza. Per questo, seguendo dei suggerimenti, già
presenti nel Nuovo testamento, hanno cercato di vedere nei testi salmici
prefigurazioni di Gesù e della Chiesa.
Prima di osservare alcune di queste interpretazioni
successive, possiamo pensare che
il salterio abbia alimentato la spiritualità di Gesù. L'osservazione «Guardate
gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai;
eppure il Padre vostro celeste li nutre» (Mt 7,26), può rievocare il Salmo 146
(v. 9): «Il Signore provvede il cibo al bestiame, ai piccoli del corvo che
gridano».
L'invocazione del Pater,
è analoga a quelle presenti nel salmo 144. Il salmista, dopo aver celebrato la
grandezza di Dio (v.3), comincia a magnificare il suo Regno: «Il tuo regno è un
regno eterno, il tuo dominio si estende per tutte le generazioni» (v. 13). La
prima parte del salmo corrisponde, quindi, alle prime due invocazioni del Pater.
L'attuarsi del Regno di Dio viene
esemplificato in alcune circostanze particolari: l'elargizione del cibo e il
sostegno nelle difficoltà. Quindi i versetti 15 e 16 («Gli occhi di tutti sono
rivolti in attesa e tu dai loro il cibo in tempo opportuno. Tu apri la tua mano
e sazi il desiderio di ogni vivente»), rimandano all'invocazione: «Dacci ogni
giorno il nostro pane quotidiano». A sua volta il versetto 14 («Il Signore
sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto»), rinvia
all'invocazione: «Perdona a noi i nostri debiti...». Infine la constatazione
del versetto 20 («Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge
tutti i malvagi»), non è lontana dall'invocazione: «Liberaci dal male».
Piuttosto che la distruzione dei malvagi, Gesù auspica piuttosto la liberazione
dal Malvagio per eccellenza (cioè il Maligno). Non voglio, tuttavia, stabilire
parallelismi forzati: il Padre nostro scaturisce dalla novità portata da Gesù;
questi invoca la realizzazione escatologica del Regno, mentre il salmista parla
della sovranità normale di Dio. Ciò nonostante, Gesù quando parla ai suoi
contemporanei del regno di Dio si avvale di una nozione da loro conosciuta. Dio
attua in modo totale e definitivo ciò che ha già cominciato a fare nella storia
d'Israele. Da questo punto di vista, le caratteristiche proprie della sovranità
divina, illustrate dal salmo, rappresentano il contesto necessario per cogliere
il senso che Gesù dava alla sua missione. Egli introduce quel tipo di Regno
profetizzato nel Salmo e quest'ultimo diventa una prefigurazione della vita di
Gesù.
L'ammonizione di Marco 10,15 (“Chi non accoglie il regno di
Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”), non è dissimile dal
proposto espresso dal salmista: «Io resto quieto e sereno, come un bimbo
svezzato in braccio a sua madre» (Sal 130,2).
La comunicazione del suo stato d'animo ai discepoli,
all'inizio della sua vicenda di passione, ossia «La mia anima è triste fino
alla morte», è simile a quella del salmista del salmo 41 (v. 6): «Perché ti
rattristi anima mia, perché ti agiti in me?». Marco riprende l'aggettivo
piuttosto raro presente nella versione dei Settanta: perìlypos[35]
[Inatì perìlypos ei, ê psychê mou, kai inatì syntaràsseis me?]. Egli vuole, in modo certo, presentare una somiglianza
tra l’invocazione del salmista e quella di Gesù.
L'invocazione di Gesù: Abbà, Padre! (Mc 14,36) ricorda in modo diretto quella messa
sulla bocca del re Messia nel salmo 89: «Egli mi invocherà tu sei mio Padre. Io
farò di lui il mio primogenito» (vv. 27-28). Il testo ebraico ricorda ancora
più da vicino, l'espressione aramaica di Gesù abbà: hu iqrae'ni avi atthà.
Molte parole e sentimenti usate o espressi da Gesù
richiamano i Salmi. Possiamo concludere che essi hanno rappresentato la sua
meditazione privilegiata?
Cristo, prefigurato nei Salmi
Gli autori neotestamentari attribuiscono a Gesù in primo
luogo i salmi a contenuto messianico e, in base al principio dell'analogia
tipologica, gli assegnano quei tratti dell'uomo giusto nel quali si può
ravvisare una somiglianza con Cristo.
Gesù, in una discussione con i farisei, attesta che, nel
salmo 109, il Messia viene dichiarato Signore di Davide e che, quindi, è un
personaggio molto più importante dell'antico re (Mt 22,41-46). L'evangelista
Giovanni, quando narra del tradimento di Giuda, considera questo evento già
prefigurato nel caso capitato all'autore del salmo quaranta: «Anche l'uomo nel
quale confidavo, colui che mangiava il mio pane ha alzato contro di me il suo
calcagno» (Gv 13,18; Sal 40,10).
I Padri sviluppano quindi un uso già affermato presso gli
autori del Nuovo Testamento: i salmi parlano di Cristo. Riprendono questo dato
e lo allargano.
Come mai? Oltre ai motivi tradizionali, quali la rilettura
del testo o la tipologia (già usuali nella tradizione ebraica), sono stati
sollecitati da altri motivi più specifichi, propri del momento storico.
Presento il caso di Ireneo. Il vescovo d'origine asiatica, finito in Gallia a
Lione, dovette affrontare lo gnosticismo. Ora una tesi tipica degli gnostici sosteneva
che l'Antico Testamento proveniva da un Demiurgo malvagio e piuttosto
pasticcione e che, al di sopra di lui stava un Dio ineffabile, buono e
sapiente, che voleva recuperare le anime sprofondate nella materia. Ireneo
doveva ribadire che il Padre di Gesù era identico al Dio Creatore. Tutto
l'Antico Testamento, ispirato dall'unico Dio, preparava il Nuovo. Per
rafforzare questa convinzione, Ireneo afferma che Dio, quando parlava con i
Patriarchi e i profeti, si intratteneva con loro per mezzo del suo Verbo.
Abramo o Mosè, più che parlare direttamente con Dio, incontravano il suo Verbo.
Egli stesso preparava la sua venuta, la preannunciava e ispirava loro i
sentimenti che Egli avrebbe manifestato nella sua vita terrena. Impossibile
dunque contrapporre tra loro i due Testamenti che avevano come autore lo stesso
Verbo.
«I profeti avevano profetizzato anche questo:
coloro sui quali avrebbe riposato lo Spirito di Dio, che avessero obbedito al
Verbo del Padre avrebbero sopportato la persecuzione: infatti i profeti
prefiguravano in se stessi tutto ciò, a causa del loro amore di Dio e a causa
del suo Verbo. Infatti, poiché erano anch'essi membra di Cristo: ciascuno di
loro secondo il fatto di essere un membro determinato manifestava la profezia;
tutti, pur essendo molti, raffiguravano uno solo, e annunciavano le azioni che
sarebbero state di uno solo.
Proseguendo poi nell’analogia, Ireneo scrive:
Come infatti per mezzo delle nostre membra si
esprime l’attività di tutto il nostro corpo, ma la figura dell'uomo tutto
intero non si esprime per mezzo di un solo membro, ma per mezzo di tutte le
membra, così tutti i profeti prefiguravano uno solo, ma ciascuno di loro
compiva l'economia secondo il fatto di essere un membro determinato; e in base
alla funzione del membro che egli era, profetizzava l'opera del Cristo. Alcuni
lo hanno visto nella gloria: contemplavano la sua vita gloriosa presso il
Padre, alla sua destra. Altri lo hanno visto venire sulle nubi come Figlio
dell'uomo…»[36].
Ireneo applica all’insieme della profezia l’immagine del
corpo che Paolo utilizza per parlare della relazione tra Cristo e i cristiani.
I salmisti, potremmo dire, sono membra dello stesso Corpo di Cristo che
preannunciano l'uno o l'altro aspetto della sua figura e della sua vita.
La stessa convinzione, a partire dagli stessi problemi, la
troviamo esposta in Origene. Nel trattato I Princìpi, Egli attesta: «… parole di Cristo diciamo non
soltanto quelle con cui egli ha insegnato quando si è incarnato e si è fatto
uomo: infatti anche prima Cristo parola di Dio era in Mosé e nei profeti. Come
infatti essi senza parola di Dio potevano profetare di Cristo?»[37]
A partire da questa persuasione di fondo i Padri cercano di
scoprire aspetti del mistero di Cristo ben al di là dei preannunci espressi nei
salmi tipicamente messianici. Così facendo, in realtà, allargano una prassi già
iniziata dagli autori del Nuovo Testamento.
I Padri non rievocano soltanto la persona di Cristo in se
stessa ma la rivedono prefigurata in molteplici episodi della sua vita.
I discepoli che, abbandonando il loro mestiere, si mettono
alla sequela del Signore, incarnano l’invito rivolto alla sposa, nel salmo 44,
ad abbandonare il popolo d’origine per dedicarsi ora tutta al suo sposo. «Gesù,
appena li vide, li chiamò ed essi lasciarono immediatamente il loro padre
Zebedeo. “Ascolta, o figlia, dimentica il tuo popolo”. Abbandonarono il loro
padre sulla barca»[38].
Il versetto 17 del salmo 17 (Dall'alto stese la mano e mi
afferrò, mi sollevò dalle grandi acque, mi libero da nemici potenti e più forti
di me) è sorprendente perché insegna che
ciò che Dio ha compiuto per il popolo nell'uscita dall'Egitto, al mare Rosso,
ora lo ripete per il singolo fedele. L’attraversamento delle acque riceve un
nuovo significato e, in questo caso, i flutti tempestosi rappresentano i nemici
che il salmista (Davide) deve affrontare in uno scontro pericoloso. Commentando
questo versetto, Cromazio d'Aquileia collega tra loro due episodi del Vangelo,
quello in cui Cristo sostiene Pietro che stava per affondare (cf. Mt 14,31) e
quello del rinnegamento dell'apostolo. Egli afferma:
«Fu allora che veramente Pietro temette e cominciò
a correre pericolo di naufragare, quando negò di conoscere Gesù. Allora gridò
aiuto al Signore: “Salvami!”. E Gesù, stendendo la mano, lo afferrò. Tese la
mano e lo tirò fuori dai flutti. Perché si legge nel vangelo che, subito dopo
la negazione di Pietro, Gesù l'abbia guardato, per cui l'apostolo pianse
amarissime lacrime»[39].
Vediamo un altro esempio. Il salmo 112 ricorda come Dio, pur
sedendo in alto, si chini a guardare verso gli uomini, anzi verso il povero
seduto sull'immondizia. Il povero, guardato con misericordia da Dio ricorda a
Pier Crisologo, proprio il figlio prodigo della parabola:
«Quando il figlio prodigo era ancora lontano, il
padre lo vide. Lo vide il Padre, perché egli al Padre potesse volgersi. La
vista del Padre illuminò lo sguardo del figlio che veniva, perché sparisse
tutta l'oscurità del peccato. Se il Padre celeste non avesse cancellato con la
luce del proprio sguardo tutta la tenebra della confusione, questo figlio non
avrebbe mai visto lo splendore del volto divino»[40].
Abbiamo visto così l'elemento essenziale. Nei salmi,
soprattutto nella versione greca dei LXX, è possibile scorgere il mistero di
Cristo e ritrovare anche vari episodi della sua vita. Queste intuizioni
richiedono una buona conoscenza della Scrittura.
Nell’ambito liturgico
Il metodo, dall’esegesi proprio dei Padri, è passata in ambito
liturgico. Offro qualche esempio. L'attuale antifona d'ingresso della Messa di
Pasqua risale alla tradizione; rifacendosi ad un versetto del salmo 138,
esplicita il ringraziamento che il Risorto, pieno di stupore, rivolge al Padre:
«Sono risorto e sono sempre con te; tu hai posto su di me la tua mano, è
stupenda per me la tua saggezza» (v. 18). Il versetto salmico che segue
l’antifona riporta invece l’incipit del
salmo: «Signore tu mi hai provato e mi hai conosciuto. Tu hai conosciuto il mio
riposo e il mio risveglio».
Il canto d’ingresso di Pasqua riprende, quindi, alcuni versetti
del salmo 138 (vv. 18 e 5-6), non seguendo la versione ebraica ma quella della
LXX. Dove l'ebraico dice: tu mi scruti e mi conosci, il testo greco intende questo scrutare non come un
semplice osservare, sorvegliare per custodire ma uno scrutare che mette alla
prova. Inoltre, «Tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo» diventa tu hai
conosciuto la mia sessione (il
riposo del sonno) e il mio risveglio (erghesin mou).
In altre parole Cristo è il giusto provato da Dio che riconosce
il progetto sapiente del Padre e che si trova pieno di stupore nel riconoscere
la grandezza del soccorso e del risarcimento donatogli da Dio. In questo caso
non troviamo una diversificazione del testo dall'ebraico al greco, quanto una
rilettura del medesimo testo. Il verbo hqr
(scrutare) è inteso piuttosto come un provare (dokimazo) e l'alzarsi (qum) è chiamato resurrezione (egeiro), come avviene nei Vangeli. Nell’antifona, quindi
incontriamo una riflessione sulla Pasqua di Cristo, non soltanto annunciata in
modo generico ma riletta seguendo alcune linee interpretative della Bibbia.
Natività. Pian del Levro, Piccola Fraternità di Gesù affresco della Chiesa |
La Chiesa prefigurata nei Salmi
Consideriamo, ora, un altro aspetto essenziale per quanto
riguarda l'esegesi dei Padri: il mistero di Cristo ci coinvolge e così da
Cristo è facile passare alla Chiesa.
Abbiamo visto poco fa l'attualizzazione fornita da Cromazio
riguardo al fedele che stava per affogare e ricorda il caso di Pietro.
Commentando lo stesso versetto, Cassiodoro invece pensa a tutta la Chiesa: «
dall'alto stese [la mano] e mi prese… (misit de summo ed accepit me...)». «In modo appropriato la Chiesa dichiara di essere
stata accolta perché gode di essere stata unita a Cristo, suo Sposo… (Apte
vero dixit Ecclesia, accepit me, quae Sponso Christo iuncta laetatur…)»[41].
Il recupero dall'acqua, non riguarda questo o quello, in situazioni
diversificate. In primo luogo riguarda tutta la Chiesa. Il dono della fede
impedisce ai fedeli di rimanere immersi e di affogare nella mentalità e nei
costumi propri degli altri uomini.
Un esempio tipico del passaggio da Cristo alla Chiesa, lo
scorgiamo nel Commento al salmo terzo di Bruno da Segni: «Signore, quanti sono
numerosi i miei oppressori!» (v. 2). Questo autore, mettendo in bocca a Cristo
tale supplica, così la esplicita:
«Vedeva ... in tutto il mondo che re e capi, tutti
i malvagi, in modo particolare la schiera degli spiriti maligni, avrebbero
aggredito con crudeltà i suoi fedeli, le sue membra, il suo corpo che è la
Chiesa. Altrove [Cristo] dice che in ognuno dei suoi egli stesso sarebbe stato
afflitto, tribolato e perseguitato. Anche in questo [versetto] giustamente
dichiara di subire lui stesso, ciò che viene fatto a loro e patisce le loro
sofferenze come fossero sue»[42].
Molto spesso, quando in una strofa o in un versetto, ad
invocare è un singolo uomo, in questa unica persona i Padri vedono
rappresentata tutta la Chiesa. A volte invece si attribuisce la preghiera in
primo luogo alla Chiesa e l’applicazione al singolo credente avviene in
seguito, dopo questa attribuzione primaria. Osserva, ad esempio, Teodoreto di
Cirro, commentando il salmo quinto: «La Chiesa, sconvolta da molteplici ondate
che l’assalgono da ogni parte, e non soltanto essa, ma anche ogni fedele che ha
scelta di vivere nella rettitudine, oltrepassano la burrasca e la dominano,
poiché hanno invocato di continuo l’assistenza divina»[43].
Questo modo di pensare continua anche in epoca successiva,
presso i Padri medievali. Il sottotitolo del salmo 101 riporta questa
specificazione: «Preghiera di un povero che langue ed effonde il suo lamento
davanti a Dio». Si chiedono i Padri: Chi è questo povero? Agostino esita nel
vedere in esso una prefigurazione di Cristo ma poi acconsente[44].
Il suo discepolo, Prospero d'Aquitania, si libera da questo
imbarazzo ed unisce Cristo e i cristiani in una realtà sola mettendo in bocca a
Cristo Risorto questa confortante preghiera:
«Questo povero è Cristo che si rivestì delle
nostre povertà... Dice poi: «Non allontanare il tuo volto da me per l'umiltà
delle mie membra. Infatti, quando il Padre potrebbe allontanarsi dal Figlio?
Perciò chiede di essere esaudito in qualsiasi giorno della sua tribolazione,
poiché la pietà del Capo soffre insieme con ogni parte del corpo e la
sofferenza di tutti, che cambia nei luoghi e nei tempi, non è mai senza colui
che ha pietà di tutti»[45].
Secoli dopo, Cassiodoro legge queste attribuzioni ma non le
condivide. Senza nominarlo, si dissocia da Agostino. Perché? Di questo povero
il sottotitolo dice che è anxiatus,
ossia bloccato dall'angoscia e questo stato d'animo, a suo parere, non conviene
a Gesù. L'anxietas rappresenta,
nel latino classico, la situazione di chi, trovandosi nella sofferenza acuta, è
incapace di deliberare, mentre Gesù ha saputo scegliere (Furlanetto p. 272). Il
povero allora non è Cristo ma quei fedeli che nella Chiesa sono stati capaci di
maturare grazie alla preghiera carismatica che hanno ricevuto da Dio.
«Così agiscono i pauperes
Christi, sono attenti ad intercedere non soltanto per ricevere soccorso
ai loro mali ma anche per i sofferenti che vivono in tutto il mondo. Sulla
terra vivono nell'indigenza, ma sono ricchi davanti a Dio; sono privi di vizi
ma colmi di virtù; disprezzati dagli uomini ma apprezzati da Cristo»[46].
Il povero non è
allora il Cristo ma una figura collettiva che abbraccia tutti i pauperes
Christi, che sono stati capaci di
condividere la sua dedizione a Dio e ai fratelli. L'espressione il povero è
anonima affinché ogni pauper Christi
possa sentirsi rappresentato: «.... questo povero è introdotto a parlare in
modo anonimo, affinché in questo singolo tutti i poveri di Cristo possano
riconoscersi»[47].
Bruno di Segni rimane fedele ad interpretare il singolo come
figura collettiva ma ne allarga l'ambito di rappresentanza: il povero è ogni
uomo, qualsiasi uomo perché ogni uomo è, di per sé, un misero. Non occorre
sforzarsi di trovare forme particolari di rappresentanza: «Qualsiasi uomo è
povero come lo è costui perché dipende dalla solidarietà altrui. Questa
invocazione appartiene a chi implora l'aiuto di Dio, trovandosi in mezzo a
delle difficoltà»[48].
I Padri amano, dunque, evidenziare la relazione da uno a
molti: un singolo può rappresentare Cristo, o la Chiesa vista come un unico
organismo, un settore della Chiesa (i penitenti o i giusti), la stessa umanità.
In conclusione chi prega [con i salmi], non intercede mai soltanto per se
stesso ma è una figura di rappresenta di altri o di tutti.
La regina alla destra del trono
Abbiamo visto che ci sono dei salmi che sono nati come
messianici e che facilmente la Chiesa orante poteva attribuire a Cristo. Allo
stesso modo, troviamo dei salmi che potremo definire ecclesiologici, dal
momento che in essi i Padri vedono unanimemente una prefigurazione della
comunità cristiana. Due casi tipici sono rappresentati dai salmi 44 e 45.
Del salmo 44, interessano soprattutto due versetti: «Alla
tua destra sta la regina in ori di Ofir» (v.10). nella LXX: «Sta la Regina alla
tua destra in un mantello dorato, variamente adornata (lett: con ornamenti
tutto all'intorno)». L'altro: «Ascolta, figlia, guarda porgi l'orecchio: dimentica
il tuo popolo e la casa di tuo padre» (v.11).
Soffermiamoci ad osservare la prima immagine, la regina
collocata alla destra. Chi rappresenta costei? Dichiara Atanasio: «La regina è
la Chiesa dal momento che è la Sposa di un re così grande. La collocazione alla
destra significa l’onore che riceverà nel secolo futuro. La sua veste preziosa
è costituita dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Possiede una veste
ancora più splendida, cioè lo stesso Cristo (ἔχει δὲ καì ἕτερον ἱμάτιον λαμπρότερον,
τὸν Χριστὸν αὐτόν) Quanti siete stati battezzati in
Cristo, vi siete rivestiti di Cristo»[49].
In modo analogo risponde Eusebio di Cesarea: «Chi è costei
se non l'intera Chiesa cattolica, raccolta da un confine all'altro della terra?
Quella che il Signore stesso ha fondato per sé sulla roccia, perché non
prevalgano contro di essa le porte dell'ade»[50].
Non siamo di fronte ad una attribuzione encomiastica eccessiva? Eusebio sembra
anticipare la nostra obiezione dal momento che poco dopo precisa: «Per essere
più esatti, puoi dire che con ciò si indica la Chiesa celeste... Questa è la
perfetta Sposa di Cristo, e non sbaglierai se chiamerai figlia sua la Chiesa
che è sulla terra». Eusebio spiega anche il significato dell'abito dorato di
cui la Chiesa è rivestita. Esso rappresenta «l'abito luminoso
dell'incorruttibilità»[51].
La Sposa rappresenta dunque il nuovo popolo di Dio, inserito nell'antico, la
Chiesa escatologica che ha inizio sulla terra ma avrà compimento in cielo.
I Padri, tuttavia, distinguono tra loro senza però separare
mai tra loro le due forme di Chiesa. Anzi, come attesta Cassiodoro, ci viene
posta allo sguardo la figura definitiva della Chiesa affinché impariamo già da
ora a venerare con grande rispetto quella realtà che otterrà grande onore nel
cielo[52].
La destra è il posto d'onore riservato allo Sposo che è anche il capo, la testa
di quel corpo della Chiesa. Cristo ha voluto unirla a sé per un atto d'amore.
Egli ha voluto renderla partecipe della sua stessa gloria. L'onore della Chiesa
è dovuto a questo dono di grazia che non dipende dal merito[53].
La sposa chiamata da lontano
Passiamo ora ad esaminare l’altro versetto che ho annunciato
sopra: «Ascolta, figlia, guarda porgi l'orecchio: dimentica il tuo popolo e la
casa di tuo padre». In sintonia con l'attuale esegesi, i Padri hanno colto la
somiglianza tra l'invito che ora la sposa riceve con quello che Dio aveva
rivolto ad Abramo: lasciare il suo ambiente d'origine e abbandonare i costumi
con i quali aveva vissuto. Abramo, quando aveva ricevuto la chiamata di Dio,
era un pagano e doveva assumere la mentalità di fede del credente. La Chiesa,
composta di persone provenienti dal paganesimo, ora deve rifare lo stesso
cammino. Deve ascoltare e cambiare vita. «Come già si era verificato in Abramo
che aveva lasciato la terra e i suoi parenti, Dio invita l'anima ad abbandonare
i Caldei per andare ad abitare nella regione dei vivi», è quanto osserva
Girolamo nella lettera ad Eustochio[54].
Dopo aver richiamato, il distacco di Abramo, Cirillo
d’Alessandria ne opera un’attualizzazione sacramentale:
«Vedi come anche noi facciamo la stessa cosa. I battezzandi, che si sono
convertiti alla verità, devono dimenticare la casa del padre e il loro popolo.
Infatti, nel ricevere il battesimo, dopo che si sono rivolti verso occidente,
li esortiamo a dire con forza: “Rinuncio a te, satana....”. Il salmista, per
mostrare alla figlia il dono che riceverà da Cristo, subito aggiunge: “Il te si
compiacerà della tua bellezza”. Una volta purificata, la tua anima ritroverà di
nuovo la bellezza con la quale fu creata ad immagine di Dio e otterrai come
amante (erômenon) il Figlio amato da Dio»[55].
Giovanni Crisostomo cita questo versetto nel contesto delle
Catechesi in preparazione al Battesimo. La vicenda della sposa del salmo è
quella comune della sua comunità e dei singoli che chiedono il Battesimo:
«Il Signore buono, avendola vista trascinare nell'abisso del male, non
guardò alla sua bruttezza né badò all'eccesso della sua miseria, ma l'accolse
con sovrabbondante bontà. Ascolta figlia! Non le chiede conto degli errori, né
esige la riparazione, ma la invita a porgere ascolto e l'induce a dimenticare
ciò che ha commesso»[56].
Cassiodoro conferma: «Cristo desiderò (concupivit) la Chiesa quando questa era ancora deforme per il
peccato. Non la trovò bella ma fu lui a renderla tale (speciosam
fecit ipse, non reperit). Inoltre la Chiesa
è bella perché partecipa alla bellezza di Cristo (haec vero pulchra
est, quia sibi eam sociavit Sponsus)»[57].
La città di Dio
Vediamo
ora l’altro salmo tipicamente ecclesiale, il 45. I versetti più significativi
sono il 5 e il 6: «Un fiume e i suoi canali rallegrano la città di Dio, la più
santa delle dimore dell’Altissimo. Dio è in mezzo ad essa non potrà
vacillare…». Nel testo dei LXX leggiamo la variante: «Gli impeti del fiume
rallegrano la città di Dio. Dio ha santificato la sua tenda…».
Ecco
la rilettura di Cirillo Alessandrino: «Il fiume rappresenta Cristo, come
coglierà subito chi ama le Scritture. Dice a suo riguardo un profeta: “Farò
scendere verso di essa un fiume di pace...”. L’Altissimo ha santificato la sua tenda. Questa
tenda è la Chiesa. Egli abita nelle anime dei santi e dei fedeli e le rende
sante grazie al dono dello Spirito santo»[58],
Per Eusebio, il fiume richiama invece la Parola di Dio:
«Città di Dio è la comunità di quelli che conducono una vita secondo Dio.
Recando in sé la parola celeste che zampilla, è ricolma di ogni divina letizia»[59].
Altre interpretazioni insistono sull’efficacia della Parola: «[La città di Dio]
è l'anima capace di Dio che raggiunge
l'intimo delle parole del Signore, più dolci del miele e del favo»[60].
In epoca bizantina il fiume ricorda il pianto silenzioso di chi riceve il dono
delle lacrime: «È il cuore purificato e consolato dalle lacrime [del
pentimento]»[61].
Proseguendo suo Commentario, Eusebio preferisce seguire una
variante dei LXX introdotta dalla traduzione di Simmaco. Questi non pensa, in
modo generico, alla dimora dell’Altissimo
ma ad un santuario, a un luogo particolare, presente nella città abitata da
Dio. Simmaco pensa, in modo evidente, al tempio. Accogliendo questa variante,
Eusebio la attualizza in questi termini: il santuario rappresenta coloro che
nella Chiesa danno spazio alla Parola di Dio e cercano la santificazione. Soltanto
questi meritano di sperimentare l’adempimento della promessa profetica: «In
loro abiterò e camminerò: sarò loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Lv
11,14)[62].
Non tanto nei Commentari quanto nelle omelie, ad alcuni la
Chiesa richiama la figura di Maria. Secondo Teodoreto di Ancira, Maria, in modo
particolare, è la tenda santificata e abitata dal Signore: «I cristiani
obbediscono alle predizioni dei profeti, sicché sulla Vergine degna di ogni
lode esclamano con tutto il cuore: l'Altissimo ha santificato il suo
Tabernacolo: Dio è in mezzo a lei»[63].
Seguendo il testo del salmo 46, troviamo al versetto 6: Dio
sta in essa… Dio la soccorre allo spuntare dell’alba. Mi piace riportare il Commento di Eusebio per la notizia interessante
che ci fornisce ed anche per l’esortazione che impartisce: «Qualcuno dice di
ritenere che qui si alluda a quelle assemblee mattutine nelle quali siamo
soliti convenire in chiesa dovunque sulla terra. Secondo un’altra
interpretazione, questo discorso ci sollecita e ci esorta alle preghiere
mattutine, per offrire a Dio quasi le primizie della nostra vita. È in quelle
ore che la mente, più serena e pura, è solita porsi come sacerdote a celebrare
il culto divino (katà gàr toutous tous kairous atàrachos ousa malista
ē kekatharmene diànoia, iereōs tropon leitourgein eiōthe tō Theō)»[64].
Concludo questo breve saggio circa l’interpretazione
ecclesiologica dei salmi da parte dei Padri con un’osservazione di Agostino che
mi sembra sintetizzare bene il loro modo di pensare. L’esortazione che Egli
rivolge prima di intraprendere l’esposizione del Salmo 106, la ripropongo per
qualsiasi altro: «Questo salmo ci ricorda le misericordie di Dio dimostrate
verso di noi, e perciò procura più dolce diletto a chi ne ha fatto esperienza.
Ad ogni modo, esso non è stato composto per uno solo o per due, ma per il
popolo di Dio, a cui viene presentato perché vi si riconosca come in uno
specchio»[65]. Evidenzio
due termini importanti fare esperienza (expertis… in se docere), e rispecchiarsi nel testo. Il compito che i Padri si proponevano nell’esporli
ai fedeli, non consisteva soltanto nello spiegarne il senso dal punto di vista
letterale (o storico). Il loro intento è aiutare i fedeli a verificare nella
loro vita cristiana in che modo essi si realizzano di nuovo in loro stessi e
così la Chiesa può come specchiarsi nel testo. Solo a questo livello si
realizza una vera comprensione.
La recitazione
Per diffondere l’uso dei salmi tra il popolo, i Padri
cercavano di trasformare i salmi in composizioni musicali, come appare da
questa dichiarazione di Teodoreto di Cirro:
«La grazia divina, componendo insieme
la piacevolezza del canto con l’utilità, offre agli uomini un
insegnamento che diventa molto gradito e desiderato. Accade spesso che molti
non sappiano richiamare nessun passo degli altri libri della Bibbia o solo
qualcuno, mentre, per quanto riguarda i canti ispirati di David, molti, di
frequente, se ne ricordano e li canticchiano da soli mentre sono in casa,
occupati nelle loro faccende o quando sono in strada, ammaliati dalla dolcezza
del canto. Mentre si lasciano catturare dalla piacevolezza, attingono anche un
insegnamento utile»[66].
I salmi sono stati diffusi come canti e solo in seguito come
preghiere.
Come pregare i Salmi?
Nella letteratura patristica, la migliore introduzione alla
lettura personale dei salmi la troviamo nella lettera di Atanasio d’Alessandria
a Marcellino[67], un
personaggio sconosciuto, il quale, dopo aver passato una dolorosa malattia,
aveva intrapreso una vita di fede impegnata.
«Ho saputo che ti sei dedicato alla lettura
dell’intera Scrittura, più sovente tuttavia leggi il libro dei salmi e cerchi
con grande impegno di comprendere il senso recondito di ciscun salmo. Approvo
questa tua fatica; anch’io nutro lo stesso amore per questo libro come per
tutta la Scrittura»[68].
Perché preferire i Salmi si chiede Atanasio a nome del suo
interlocutore? La risposta è molto semplice: come un giardino che offre una
varietà di alberi e di fiori, nel salterio si trova tutto ciò che viene
annunciato in tutti gli altri libri biblici[69].
In ogni libro della Scrittura troviamo un insegnamente particolare, proprio a
quel testo, ma nei Salmi si accenna a tutte le tematiche sviluppate in tutti
gli altri libri.
Atanasio parla di un senso recondito presente all’interno
dei Salmi (tὸν ™ν ˜κάστῳ ψαλμῷ νοàν ™γκείμενον). In che cosa consiste? Sono riferimenti
alla persona di Cristo e agli eventi della sua vita. Egli cerca di mostrare
come ciò avvenga in un lungo tratto della sua lettera[70].
Dopo aver parlato del Salterio in relazione agli altri libri
della Bibbia e in relazione a Cristo,
l’alessandrino aggiunge un’osservazione che ci riguarda più da vicino:
in questi testi poetici ognuno di noi trova descritto se stesso e vede i moti
della propria anima. In questo modo ha la possibilità di conoscere meglio se
stesso e di correggersi[71]. Sono un modello di ciò che ognuno di noi
dovrebbe dire per curare la propria passione. Manifestano pensieri di
pentimento, di sopportazione delle tribolazioni, di riconoscenza: «Per ogni
evenienza si potrebbe trovare il canto divino confacente a noi, ai nostri
sentimenti, alla nostra situazione»[72].
Avviene così uno scambio tra noi e il testo letto: quelle parole diventano
nostre[73] e in questo consiste la magia propria del
salterio. I salmi diventano così uno specchio dell’orante stesso.
L’ultimo passaggio è che l’orante stesso diventi un salterio
(αὐτὸς ὁ ἄνθρωπος
ψαλτήριον γενόμενος), uno strumento musicale, docile al plettro dello
Spirito[74].
Per far questo non dovrà limitarsi a ripetere le parole del testo, ma dovrà
convertirsi e rinnovare la propria esistenza, trasformandosi secondo i
sentimenti di Cristo. Egli diventa allora un simbolo di un cuore pacificato[75].
Un’ultima osservazione: usando i Salmi, la preghiera diventa
particolarmente efficace perché lo Spirito Santo ama vedere pronunciate da noi
le parole che Egli stesso ha ispirato[76].
I suggerimenti di Atanasio ebbero una grande risonanza e li
ritroviamo di frequente presso altri autori.
All’inizio di questo studio avevo richiamato l’indicazione
di Girolamo al monaco Rustico: imparare il salterio parola per parola. Anche
l’invito di Girolamo appartiene ad una mentalità comune e riecheggia molto
tempo dopo nel bellissimo il consiglio di Teolepto, all'interno della
tradizione esicasta: «Non scorrere velocemente le parole, ma esaminale con la
mente e fanne tesoro. Medita poi quanto hai letto, perché la ragione ricavi
dolcezza dalla comprensione, la lettura rimanga indimenticabile e si accenda
ancor più il tuo ardore nei pensieri divini»[77].
Molto significative sono le parole rivolte alla monaca Xene
da parte di Gregorio Palamas:
«Le parole di Dio diventano dolci al palato e più
del miele per la bocca… La meditazione delle divine testimonianze è esultanza
del cuore»; [la speranza in Dio] «si intrattiene con quelle testimonianze
sperimentandone il gusto e apprendendone in parte la sovrabbondante ricchezza
di bontà, secondo colui che dice: “Gustate e vedete che il Signore è buono”.
Egli è l'esultanza dei giusti, la gioia dei retti, la dolcezza di coloro che
sono umiliati…» [78].
Questa prassi e
quest’esperienza travalicano oltre lo stretto mondo monastico. Francesco di
Sales riconosceva: «…ci sono certe massime che possiedono una forza particolare
per dar soddisfazione al cuore…, come gli slanci profusi così abbondantemente
nei Salmi da Davide» [79]. In un tempo più vicino a noi, Charles de Foucauld
offre questo suggerimento: «… leggere molto i salmi, meditarli a lungo, poiché
sono tanto ricchi di consolazione e insegnamenti […] Nei tuoi salmi, mio Dio,
tu ci dai tanti esempi di preghiera! Sono le tue parole, gli indicibili gemiti
dello Spirito Santo nell’animo di Davide, preghiere divine […] Pensiamo che
sono la parola di Dio, e che Gesù
ha avuto tutti i salmi mille e mille volte sulle labbra… usiamoli, in entrambi i casi, con fede e moltissimo amore» [80]. Da quanto si può concludere da queste attestazioni,
il salterio può nutrire lo spirito in modo incomparabile se non addirittura insostituibile.
È utile osservare come, nel
passare dei secoli, gli uomini dello Spirito partecipino alla stessa
esperienza, impartino gli stessi consigli quasi alla lettera:
«Ogni volta che ci sentiamo tiepidi, aridi, muti
davanti a lui, ogni volta che non sappiamo cosa dirgli, apriamo il nostro
salterio e leggiamo lentamente uno o più salmi adatti al nostro stato d’animo:
rivolgiamoci a Dio e soffermiamoci su tutte le parole, come se venissero dal
nostro intimo» [81].
Prestare
attenzione ad ogni parola e farla sgorgare dal nostro intimo, come fosse
nostra. Fratel Carlo ci comunica un ottimo suggerimento per quanto riguarda un
altro problema che ci può sopravvenire: alcuni versetti presuppongono una
spiritualità elevata. Recitandoli, potremmo avere l’impressione di mentire a
noi stessi e a Dio. In realtà, quanto più il contenuto di un salmo è elevato,
tanto più dovremo ripeterlo per farlo nostro:
«Recitiamo spesso questo salmo, recitiamolo tanto
più se questa estrema fiducia all’inizio ci stupisce, se questa perfetta
speranza non ci è spontanea, se questa purezza nella quale possiamo e dobbiamo
vivere ci sembra più lontana… riempiamoci tanto più di questo spirito, che è lo
Spirito Santo, quanto più lo sentiamo diverso dal nostro sentire, per arrivare
infine a farlo nostro» [82].
Che dire quando la recita
viene accompagnata da distrazioni, da noia, da appesantimenti dello spirito? La
nostra preghiera deve essere, allora, rifiutata e sospesa? La preghiera, però,
non è solo esperienza di dolcezza, e nel suo corso: «offriamo a Dio non solo
l’ossequio della nostra adorazione, ma anche quello delle nostre lotte e delle
nostre sofferenze» [83].
I Salmi imprecatori
Nel pregare i Salmi, molti si sentono contrariati quando
s’imbattono in espressioni d’imprecazione contro i nemici. In entrambi i
Testamenti, talora Dio provvede alla distruzione dei malvagi, nell’intento di
soccorrere i miseri. Nell’Antico Testamento, il caso più clamoroso è quello
dell’annientamento di Faraone e di tutto il suo esercito al mar Rosso (Es 14),
un fatto che avviene dopo che Dio aveva fatto tutto il possibile per convertire
gli Egiziani. Nel Nuovo, troviamo la condanna a morte nei confronti di Anania e
Saffìra (At 5,1-11) o di re Erode
(At 12,23). Il giudizio previsto al compimento della storia, talora può essere
anticipato nel suo corso. In ogni caso l’unico che può decidere ed attuare
questi interventi estremi è soltanto Dio. La domanda che ci formuliamo, però, è
questa: se Dio può intervenire con il suo giudizio, quando gli sembra opportuno
farlo, l’uomo può invocare questo suo tipo d’intervento a danno degli
avversari?
Gesù chiede di pregare per i nemici riferendosi ad altri
uomini (Mt 5, 44) mentre i nemici per i quali è doveroso pregare sono il
peccato e la morte (1 Cor 15, 25, Eb 10, 12-13). Soltanto questi devono essere
annientati sicuramente già al presente.
Nell’usare il salmo secondo, messianico, la comunità
apostolica riconosce di sperimentare come nemici propri gli stessi che si sono
opposti al Cristo. Tuttavia, in questo caso, non invoca la distruzione di tali
oppositori ma di poter vincere la loro opposizione. Chiede il coraggio
dell’annuncio, non la morte degli avversari del Vangelo (At 4, 23-31).
Come si sono comportati i Padri nei confronti dei salmi o
dei versetti imprecatori?
Atanasio, nella lettera a Marcellino, non affronta
direttamente la questione sulla opportunità di questo tipo di preghiera,
tuttavia, in modo indiretto, possiamo attingere qualche suggerimento. Egli
afferma che il salterio rivela a noi stessi i nostri sentimenti, quali la
delusione nei confronti dell’inerzia apparente di Dio verso i malvagi o il nostro sdegno di fronte al
successo degli empi. Lo stesso vale per quanto riguarda lo sdegno verso i
nostri nemici. Il salterio, dopo averceli fatto conoscere, c’insegna a plasmare
i nostri sentimenti perché siano più conformi al sentire di Dio[84].
Questo potrebbe significare che l’orante, dopo aver conosciuto e dato libero
corso alla sua ira, dovrebbe nel frattempo ricredersi e affidarsi al giudizio
di Dio. Il salmo costituirebbe, quindi, uno strumento pedagogico. L’esempio si
trova nel Cristo il quale, mentre pronuncia parole d’imprecazione contro i
nemici, in realtà si vendicò, non di loro, ma della morte e dell’autore della
morte, cioè il diavolo, proprio per mezzo del perdono dei nemici[85].
Atanasio attribuisce a Gesù una netta trasformazione del Salmo 93 che inizia
con l’invocazione: «Dio vendicatore (‘El neqamòt), Signore, Dio vendicatore risplendi!» (v.1) e termina con un deciso
«li annienterà il Signore nostro Dio» (yaztmithem Yhwh ‘elohenu). Gesù si vendica della morte e del diavolo, vivendo
il sentimento opposto a quello che satana eccita negli uomini provati
dall’ingiustizia, ossia il perdono e la resistenza passiva. I Padri rifiutano
si pensare che i nemici dei quali s’invoca l’annientamento siano degli uomini
in carne ed ossa.
Il versetto che ha imbarazzato i Padri in modo particolare è
quello che troviamo al termine del salmo 138: «Quelli che ti odiano, Signore,
non li ho forse odiati? E contro i tuoi nemici, non mi struggevo? Di odio
perfetto li odiavo, nemici sono diventati
per me (tέleion m‹so$ έm…soun auτοὺς)» (vv. 21-22). Ho
citato il testo che troviamo nei LXX, quello conosciuto dai Padri. Dove il
testo greco pone l’aggettivo perfetto (tέleion), l’ebraico riporta tachlìt, tradotto di solito con l’aggettivo implacabile, estremo.
Ora la diversità delle due versioni, è stata utilissima ai
Padri per fornire un’interpretazione conforme ai loro sentimenti cristiani. In
genere il suggerimento è questo: l’uomo, per un sentimento naturale, conosce
l’avversione. Di per sé questa passione, come tutte le altre, non è qualcosa di
negativo di per sé. Tutto dipende da come la si gestisce. Ci si può indignare e
trasformare questo impulso in un fatto positivo, come lo sarebbe una resistenza
opportuna al male. L’odio perfetto è l’avversione trasformata da questa forma
di correzione. È il rifiuto totale del male accompagnato però dalla volontà di
recuperare il malfattore.
Il versetto restava comunque scivoloso. Si poteva operare
questa distinzione: non possiamo odiare i nemici personali, ma è giusto avversare
i nemici di Dio. Sì, ma in che modo? Come traduciamo nella pratica questa
avversione?
Nel commentare questo versetto, Agostino si preoccupa di
chiudere ogni possibile falla che possa giustificare la violenza:
Stando però così le
cose, come la mettiamo con quell'Amate i vostri nemici? Forse che, avendo
detto: I vostri, avrà escluso quelli di Dio? Dice ancora: Fate del bene a
quelli che vi odiano. Non dice: Coloro che odiano Dio. Per questo motivo avrà
il salmista potuto dire: Non ho forse io odiato coloro che odiavano te,
Signore? Non dice infatti: Coloro che odiano me. E mi struggevo [di sdegno] nei
confronti dei tuoi nemici. Dice: Tuoi, non miei. Tuttavia quanti ci odiano e ci
son nemici per il fatto che serviamo Dio, cos'altro fanno se non odiare Dio
stesso e diventare suoi nemici? E allora? Saremo forse dispensati dall'amare
questi nostri nemici? O non sarà vero che soffrono persecuzioni per la causa di
Dio coloro a cui si dice: Pregate per coloro che vi perseguitano?
Dopo aver chiarito questo aspetto, prosegue il commento dei
versetti spiegando che cosa significhi odio perfetto.
Nota bene, dunque, che cosa aggiunge. Li odiavo con un odio perfetto. Che significa:
Con un odio perfetto? In loro io odiavo
le colpe da loro commesse, ma amavo la creatura tua. Ecco come si odia con odio
perfetto: non odiando la persona a causa dei suoi vizi e non amando i vizi in
vista della persona. Ed ora osserva come continua: Mi son diventati nemici. Nemici
non soltanto di Dio ma suoi nemici personali. Lo dichiara espressamente. Come,
allora, metterà in pratica nei loro riguardi le parole che sopra diceva e cioè:
Non ho forse odiato coloro che odiavano te? e
insieme quelle del Signore che comanda: Amate i
vostri nemici? Come adempirà il suo dovere, se non ricorrendo a
quell'odio perfetto, per il quale nei cattivi si odia il fatto che sono cattivi
e si ama la loro condizione di uomini?
Per chiarire meglio la sua posizione, Agostino richiama il
caso di Mosé:
C'è un esempio che risale ai tempi del Vecchio
Testamento quando a quel popolo carnale venivano applicate sanzioni e pene
esterne: si tratta di un uomo, che per l'intelligenza [del mistero] apparteneva
al Nuovo Testamento, dico di Mosè, servo di Dio. Come poteva egli odiare quanti
erano caduti in peccato, se nello stesso tempo pregava per loro? e come non li
odiava se li condannava a morte? Li odiava con odio perfetto. E per la
perfezione del suo odio, pur odiando le colpe che puniva, amava l'uomo per il
quale pregava.
In pratica si deve odiare il peccato ma amare il peccatore[86].
Vediamo ora un altro aspetto di questa questione. Nella
lettera a Marcellino, Atanasio
formula un altro suggerimento per la lettura personale del salterio: «Un nemico
tiranno è insorto contro il tuo popolo e contro di te come Golia contro Davide?
Non temere, ma abbi fede anche tu come Davide e dì le parole del salmo cento
quaranta tre»[87]. Quali sono
queste parole? «Benedetto, il Signore, mia roccia che addestra le mie mani alla
battaglia, le mie dita alla guerra». Nel film «Salvate il soldato Ryan», un soldato americano, mentre spara dal
campanile contro i tedeschi che avanzano, recita proprio questi versetti ed
ottiene anche la grazia sperata.
Di quali nemici parla Atanasio e che cosa comporta questa
guerra? Non lo chiarisce. Per analogia con altri testi più espliciti, possiamo
pensare ancora che il nemico sia il male o il maligno. Tuttavia Atanasio ormai
ammetteva che i cristiani potessero far parte dell’esercito romano.
Nel Medievo, i grandi Commentatori seguono la linea
interpretativa comune dei Padri. Il salmo 143, nella versione dei LXX, riporta
come sottotitolo (mancante nell’ebraico): preghiera di David contro Golia[88].
Bruno di Segni (1045-1123) afferma che Golia rappresenta il diavolo. Questi
perseguita la Chiesa tramite i tiranni, gli
eretici, i vizi e gli spiriti maligni[89].
Per Bruno, gli eretici sono, presumibilmente, i partigiani di Berengario di
Tours, nella disputa eucaristica nella quale fu coinvolto, mentre i tiranni
sono i grandi feudatari che, nella lotta per le investiture, si oppongono alle
decisioni di papa Gregorio VII. Bruno chiede che la Chiesa, grazie all’aiuto di
Dio, considerato indispensabile, sia in grado di superare le difficoltà che
incontra nel corso della storia ma non chiede la morte dei nemici. Di fatto combatté
questi tiranni con arme evangeliche, ossia con la resistenza pacifica (fu
incarcerato, infatti, da Adolfo, il conte di Segni).
Nel secolo successivo, con San Bernardo, le prospettive sono
già mutate in modo rilevante. Nel trattato spirituale che indirizza ai
cavalieri templari, chiude la sua esortazione citando proprio il salmo 143. Ora
i nemici, sono ben identificati (sono gli islamici che occupano la Terrasanta)
e i soldati che combattono questi nemici della fede, lo fanno con armi reali,
non metaforiche, contando sull’addestramento fatto da Dio[90].
La tradizione non è abbandonata del tutto: i templari debbono lottare contro i
vizi interiori, come è stato consigliato fino a quel momento, ma a questo
combattimento interiore viene aggiunto ora il dovere d’ annientare fisicamente
i nemici esteriori; si tratta d’una interpretazione insolita ma rispecchia una
nuova visione che affonda le radici anche nell’antichità cristiana.
Bibliografia
SIGLE: PL = Patrologia latina (Migne); PG = Patrologia Greca
(Migne): TLG = Thesaurus linguae graecae (www. Documenta catholica omnia.it).
Edizioni del Salterio
I Salmi (ebraico,
greco, latino, italiano), a cura di Marco Zappella, San PaoloMilano 2015.
La Bibbia dei Settanta
(a cura di P. Sacchi), vol. 1-2, Morcelliana, Brescia 2012.
Il Salterio della tradizione, a cura di Luciana Mortari, Piero Gribaudi Editore, Torino 1983.
I canti di lode dei Padri. Esapla dei Salmi, EDB, Edizioni San Lorenzo, Bologna – Reggio Emilia,
2009.
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Edizioni Qiqajon, Magnano 2008.
Commentari patristici
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Teodoreto di Cirro, Interpretatio in Psalmos, PG 80 (857-2002)
Commentari medievali
Magno Aurelio Cassiodoro, Expositio Psalmorum, Corpus christianorum, serie latina, XCVII (I-LXX) e
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Esemplificazioni
Salmo 44
Il salmo 44 era tra i preferiti nella tradizione a motivo
della estrema facilità con cui poteva essere applicato a Cristo e alla Chiesa.
Basilio, che di solito ama restare legato al senso letterale, in questo caso,
quasi in ogni versetto, trascende la lettera e si addentra nel significato
spirituale, ossia nell’interpretazione cristologica.
Il titolo del salmo
a) Il mutamento
Com’era normale all’epoca, egli inizia la sua esposizione
a partire dal titolo del salmo che così suona: Per il fine, per coloro che
saranno mutati. Gli si offre così
l’opportunità di prestare attenzione alla caratteristica umana della mutabilità.
«Il salmo pare composto allo scopo di perfezionare
la natura umana, e di offrire un aiuto ai fedeli che hanno scelto di vivere
secondo virtù, per raggiungere il traguardo che si sono proposti. Per il fine, per coloro che saranno mutati.
L’espressione, piuttosto oscura, equivale a per
gli uomini. Noi infatti, fra tutti gli esseri razionali, siamo i più
soggetti alle mutazioni e ai rivolgimenti, ogni giorno e quasi ogni ora. Non
siamo mai eguali a noi stessi né nel corpo né nella mente.
Basilio riprende un tema rilevante già sviluppato da
Origene, il quale, a sua volta, aveva elaborato degli spunti derivanti dalla
filosofia platonica. Il platonismo aveva marcato la distinzione tra realtà
immutabile (divina) e realtà mutabile. La mutabilità evidenzia la povertà
ontologica degli essere sensibili a confronto con l’immutabilità del divino. È
indice di miseria, di problematicità.
In Origine, tuttavia, il mutamento non si riduce soltanto ad
uno smacco per l’uomo ma diventa occasione di una progressiva trasformazione
ontologica e morale verso il Bene, in uno slancio senza posa. Che l’uomo possa
cambiare, trasformarsi e migliorarsi appare come un dato che offre possibilità
attraenti. La metafisica del progresso ad ogni livello (ermeneutica, morale,
mistico ed escatologico) diventa un concetto portante della teologia origeniana[91].
Nel commento di Basilio, il mutamento appare a tre
livelli: morale/ontologico (da uno stato animalesco ad uno umano); a livello
escatologico (la trasformazione del corpo da uno stato terreno a quello
spirituale); a livello ascetico (trasformazione continua verso il meglio).
Basilio parla, in primo luogo, del mutamento morale che,
coinvolge, però l’identità stessa della persona, a livello ontologico:
Ci trasformiamo anche quando siamo irati,
acquistando un atteggiamento da belva. Siamo diversi ancora quando ci troviamo
in preda al desiderio, poiché ci rendiamo simili a bestie per i piaceri della
vita. Si rendono simili a cavalli furibondi coloro che ardono di insano amore
per le donne degli altri. E l'uomo falso può essere paragonato alla volpe, come
per esempio Erode. […] Vedi dunque la varietà e la molteplicità delle nostre
trasformazioni? […]
L’uomo può, dunque, precipitare al livello animale (e anche
al di sotto di esso). La cultura antica era sensibile al dato delle metamorfosi.
In un secondo passo, Basilio parla del mutamento più
completo, quello che assorbirà tutta la persona nella partecipazione alla
risurrezione di Cristo, quale evento escatologico:
Il verbo è coniugato al futuro; guardiamo allora
se non ci sia indicata la dottrina della risurrezione; con essa otterremo
l’estrema trasformazione, trasformazione in meglio e in spirito. Il corpo «è
seminato - dice - nella corruzione, e risorge in incorruttibilità». Vedi qual è
la mutazione? «È seminato in debolezza e risorge in potenza. È seminato corpo
animale e risorge corpo spirituale, quando ogni altra creatura corporea si
muterà insieme con noi» (1 Cor 15,41-42).
Basilio conclude sollecitando il mutamento etico/ascetico.
Il miglioramento della persona non può avere termine.
Non per tutti sono scritte le parole di Dio, ma
per coloro che hanno orecchie interiori; allora, ha posto come titolo le parole
per coloro che saranno mutati, cioè,
credo io, per coloro che hanno cura di se stessi e che progrediscono sempre
verso il meglio attraverso esercizi di pietà. […] Chi progredisce verso la
virtù, non è mai senza mutamento. “Quando infatti ero bambino - dice - parlavo
da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; quando poi mi son fatto
uomo, ho smesso ciò che era da bambino” (1 Cor 13,11). E poi ancora, fatto
uomo, non desistetti di agire, ma “dimentico di ciò che sta dietro,
protendendomi verso ciò che sta davanti, continuo la mia corsa, fisso alla
meta, verso la palma alla quale Dio mi chiama lassù” (Fil 3,13-14). Mutazione è
dunque il rinnovamento che si compie nell'intimo dell'uomo di giorno in giorno»
[…]
Gregorio di Nissa valorizzerà ancora di più questo tema
elaborando la dottrina detta dell’epektasis.
b) la bellezza del Diletto
Nel proseguire il commento al titolo, Basilio si sofferma
poi sulla dedica al Diletto. Ritroviamo di nuovo uno spunto
platonico/origeniano.
«Questo è un cantico per il Diletto. Ti devo
spiegare chi la Scrittura chiami Diletto? Oppure lo sai senza bisogno delle mie
parole, memore delle parole evangeliche? “Questo è il Figlio mio Diletto, nel
quale mi compiacqui: lui ascoltate” (Mt 17,5). […]
Basilio identifica il Diletto con il Cristo. Già il
platonismo aveva rilevato che la bontà del divino suscita il desiderio di amore
di chi la contempla, simile all’attrazione di carattere erotico che ispira
qualsiasi forma di bellezza sensibile. Tuttavia la visione e la contemplazione
della bellezza trascendente era stata ritenuta possibile soltanto a chi
realizza una conformità ad essa nel suo comportamento esistenziale.
L’intuizione era facilmente assimilabile dall’esperienza cristiana, grazie alla
mediazione offerta dal Cantico dei Cantici. Così Origene e, in seguito,
Gregorio di Nissa hanno esposto a lungo questo tema nei loro commenti al
Cantico di Salomone.
Basilio, dopo aver identificato il Diletto, ossia il
sommamente amabile, nel Cristo. ricorda subito che la partecipazione
all’esperienza contemplativa, alla visione della Bontà/Bellezza richiede una
conformità ad essa, anzi una conformità a Lui.
Non è di tutti giungere alla perfezione della
carità, e conoscere il vero Diletto, ma è proprio di colui che si è ormai
spogliato del vecchio uomo, corrotto da ingannevoli desideri, e si è rivestito
del nuovo, che si rinnova per riconoscersi secondo l'immagine del Creatore (Ef
4,22).
In riferimento a Gesù la purezza o bellezza di vita è
identificata nella carità. Tutto ciò che è difforme dalla carità e opposto allo
spirito di Cristo, diventa un velo che impedisce o attenua la nostra capacità
visiva.
Chi ama la ricchezza e arde dal desiderio della
corruttibile bellezza fisica, e preferisce questa piccola gloria a quella vera,
e pone la sua capacità di amore in cose non convenienti, costui è fatto cieco
dinanzi alla visione di ciò che è veramente Diletto. Per questo dice: “Amerai
il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la
tua mente” (Mc 12,30). L'espressione con tutta non ammette spartizioni. Quella
parte infatti del tuo amore che tu disperdi in cose vili, necessariamente ti
mancherà al tutto. Per questo, fra tutti, solo pochi furono chiamati amici di
Dio […]
Non è possibile conoscere a livello esistenziale, per
partecipazione, realtà tra loro contrastanti. L’amore per l’una, rende ciechi
per l’altra. Tale argomento otterrà un grande sviluppo in tutta la tradizione
ascetica.
Il testo del Salmo
Dopo aver esposto il significato del titolo, Basilio
intraprende il commento al testo del salmo. Il primo argomento è quello
dell’ispirazione poetica e spirituale di cui l’autore del componimento dichiara
d’essere preso.
L’ispirazione
«Procediamo a spiegare le parole del salmo: Mi
eruttò dal cuore una buona parola. Già alcuni pensarono che queste
parole fossero poste in bocca alla persona del Padre e riferite al Verbo che
fin dall'inizio è presso di lui, che egli generò - dicono - quasi dal cuore e
dalle viscere; da un cuore buono non poteva che uscire una parola buona. Ma a
me sembra che si debbano riferire alla persona del Profeta.
Compare il Basilio, amante del senso letterale. A suo
parere, il soggetto che parla al presente è il salmista stesso, autore del
piccolo poema. Con questo, si discosta dall’interpretazione di altri che
miravano in modo immediato a scorgere un senso cristologico, come se
ascoltassimo il Verbo che riferisce della sua generazione da Dio[92].
La mia lingua è
penna di scrivano che scrive veloce. Come la penna è uno strumento atto
a scrivere, se è mossa da una mano abile nel formare i caratteri della
scrittura, così anche la lingua del giusto, se è mossa dallo Spirito Santo,
scrive parole di vita eterna nel cuore dei credenti. Essa sarà intinta non
nell'inchiostro, ma nello spirito del Dio vivo.
In prima istanza, dobbiamo pensare all’ispirazione poetica
del salmista ma il fenomeno dell’ispirazione rievoca quello dell’iscrizione nel
cuore dei comandamenti, l’evento fondamentale della Nuova Alleanza.
Lo scriba dunque è lo Spirito Santo, perché è
sapiente, capace di insegnare a tutti, e veloce nello scrivere, perché veloce è
il moto del suo pensiero. Lo Spirito scrive in noi i pensieri “non su tavolette
di pietra, ma su tavole di carne, sul cuore” (2 Cor 3,3).
L’ispirazione è un dono che raggiunge tutti e possiede un
carattere di attualità ma la sua efficacia appare diversificata a seconda del
grado di accoglienza del credente:
Secondo la più o meno grande capacità del cuore,
lo Spirito scrive nei cuori pensieri più o meno numerosi, comprensibili a
tutti, o più oscuri secondo il grado di purezza cui saremo giunti. Per la
velocità di coloro che scrivono, già tutta la terra è piena del Vangelo.
In modo analogo, Teodoreto, attribuisce al salmista questa
dichiarazione: «Mi sono nutrito con questi discorsi spirituali, e perciò
produco ora questi frutti ed esprimo queste considerazioni»[93].
La bellezza del Cristo
Il testo del salmo celebra poi le qualità del Diletto, il
Re/Messia, e riprende il tema della bellezza, già accennato nel titolo. Basilio
ha appreso da Origine a prestare attenzione alle varianti del salmo e confronta
la versione di Aquila e di Simmaco. Infine riconosce che l’autore, più che
parlare della bellezza in se stessa del Cristo, preferisce soffermarsi sugli
effetti che quella esercita, per la fede, sulle persone sensibili:
Anche Aquila e Simmaco ci suggeriscono questa
interpretazione. Il primo dice: “Sei ornato in bellezza sopra i figli degli
uomini”. E Simmaco: “Sei bello sopra i figli degli uomini”. Il Signore chiama
bello colui che è proteso verso la sua divinità… Il Profeta guarda allo
splendore del Signore ed è colpito dai fulgori che ne derivano. Percosso
nell'anima dalla visione di tanta bellezza, fu spinto all'amore divino della
bellezza spirituale. E quando questa si manifesta all'anima umana, tutto ciò
che prima era amato diviene vile e disprezzabile. Per questo anche Paolo,
quando vide il Signore splendido di bellezza, giudicò tutte le cose spazzatura
per acquistare Cristo (Cf. Fil 3,8).
Rilevo, di nuovo, l’assimilazione di un tema platonico
nella spiritualità cristiana.
Martin Linter ritiene che sia stata proprio la mistica
cristiana ad apprezzare l’energia dell’eros e che se questo atteggiamento più
accogliente fosse passato nell’ambito della teologia morale, si sarebbero
attenuati nella pastorale gli effetti negativi derivati da un atteggiamento
prevalentemente di difesa nei confronti di questo elemento fondamentale della
nostra umanità[94].
Ora, in aggiunta, nella tradizione patristica, la
preghiera dei Salmi diventa il luogo privilegiato per sperimentare l’attrazione
per il Diletto, come attesta Teodoreto di Cirro riferendo l’esperienza del
monaco Giuliano:
Col beato Davide diceva: «I giudizi del Signore
sono tutti fedeli e giusti, più preziosi dell'oro, di molto oro fino, più dolci
del miele e di un favo stillante» ed ancora: «Cerca la gioia nel Signore,
esaudirà i desideri del tuo cuore»; «Gloriatevi del suo santo nome: gioisca il
cuore di chi cerca il Signore»; «Gustate e vedete quanto è buono il Signore»;
«L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente»; «A te si stringe l’anima mia».
Grazie a queste frasi, passò in lui l’amore per Dio. Intatti il grande Davide cantando
insegnava e faceva in modo che fossero in molti ad essere partecipi dell'amore
divino. La sua speranza non andava delusa: l'amore divino ferì questo santo
uomo e con lui tanti e tanti altri. Giuliano infatti si accese di tanto amore
da desiderare Dio, da non vedere alcuna cosa terrena; di giorno e di notte
sognava Dio e lo contemplava[95].
Davide, ossia in realtà il salterio, è scuola dell’amore per
Dio; è un philtron, come dicevano gli
antichi, che produce una mania
d’amore.
L’efficacia della parola
Il salmo prosegue dando risalto al valore delle parole del
Re Messia. Basilio accosta questo versetto ad un passo del Vangelo di Luca,
dove si parla delle parole di grazia pronunciate da Gesù.
Diffusa è la
grazia sulle tue labbra; perciò Dio ti benedisse in eterno. È scritto
nel Vangelo: “Si stupivano delle parole di grazia che procedevano dalla Sua
bocca” (Lc 4,22). Per questo il salmo, volendo mostrarci l’abbondanza della
grazia delle parole pronunciate da nostro Signore, molto vivacemente dice: diffusa è la grazia sulle tue labbra, per
l'abbondanza della grazia contenuta nelle parole Dio
ti benedisse in eterno - dice.
Nel salmo, la potenza della Parola non è una dote naturale
del Cristo (quale Verbo fatto carne) ma una sua conquista spirituale. Basilio, conformandosi
alla lettera del testo, pensa alla crescita umana e spirituale di Gesù. La sua
identità di Verbo, dal punto di vista umano, è stata una conquista. È un
ragionamento molto ardito.
È chiaro che bisogna riferire queste parole
all'umanità, in quanto cresce “in sapienza, in età e in grazia” (Lc 2,52). In
questo modo comprendiamo chiaramente che la grazia gli fu data come premio del
suo valore. Queste parole sono coerenti a queste altre: Tu hai amato la giustizia e odiato l’iniquità, per questo ti unse Dio,
il tuo Dio, con l'olio della gioia a preferenza dei tuoi compagni (v.
8).
Ottenere la grazia della parola, è stata una conquista da
parte di Gesù. Crescendo come uomo, Gesù ha ottenuto di acquisire la sua vera
identità, del resto già data, di Parola del Padre. Questo è avvenuto tramite la
sua obbedienza, che ha raggiunto il culmine nello svuotamento della morte.
Ci sono anche le parole scritte da Paolo ai
Filippesi: “Si abbassò, facendosi obbediente sino alla morte, e alla morte in
croce, e perciò Dio lo ha esaltato”. Così è chiaro che queste parole sono
pronunciate dall'uomo e riferite al Salvatore.
Alla Chiesa è dato di partecipare alla medesima esperienza
di Gesù:
Esse si possono però anche riferire alla Chiesa,
in quanto essa è il corpo di Cristo, ed Egli il suo capo. Come abbiamo
dimostrato essere labbra di Cristo i ministri delle dottrine celesti, (per
esempio Paolo, che aveva in sé Cristo che parlava, e chiunque altro sia simile
a lui in virtù) (Cf 2 Cor 13,3), così anche noi siamo le altre membra di
Cristo, tutti noi che crediamo in Lui. Non sbaglierà dunque chi riferirà al
Signore la benedizione data alla Chiesa. L’espressione Dio ti benedirà significa: benedisse le tue membra e riempì il
tuo corpo dei Suoi beni in eterno, cioè all'infinito.
La Chiesa può pronunciare una parola potente, se il suo
parlare proviene dalla sua esperienza di identificazione con Cristo. La forza
del Vangelo emana sempre dalla virtù dello svuotamento di sé. Priva della
carità, la predicazione diventa vuota.
L’efficacia della Parola del Messia è ribadita, nel corso
del salmo, dalle immagini della spada e delle frecce.
Cingi la tua spada
al tuo fianco, o Potentissimo… Noi pensiamo che in senso figurato queste
parole si debbano riferire alla viva parola di Dio, capace di adattarsi alla
carne. “La Sua parola è operosa e più affilata di qualsiasi spada a doppio
taglio ; è così penetrante da separare l'anima e lo spirito e le giunture e il
midollo ; è capace di discernere i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12)
[…].
La spada è posta in relazione con la Parola, tramite una
citazione delle lettera agli Ebrei. Per interpretare il significato delle
frecce, Basilio ricorre, invece, ad un passo del Qohelet (12,11).
Le tue frecce sono
acute, o Potentissimo. Frecce acute del Potente sono le parole che
sempre raggiungono il cuore degli ascoltatori e che colpiscono le anime
sensibili. Dice: «Le parole dei sapienti sono come pungoli» (Qo 12,11). […]
Le ammonizioni dei saggi penetrano nel cuore e feriscono.
Dopo aver suggerito questa comparazione su base biblica (un po’ forzata),
l’immagine della freccia finisce col rievocare piuttosto il dardo di Cupido. Il
linguaggio usato da Basilio richiama la filosofia dell’eros platonico: dià
tês agàpês, kai epourànion kaì makàriston erôntes erôta…
Ora dunque le tue
saette sono acute. Da questi dardi sono colpiti coloro che hanno
accettato la fede, e che dicono di ardere del perfetto amore di Dio, come la
sposa: «Io sono ferita dall'amore» (Ct 2,5). Inenarrabili e ineffabili sono la bellezza
della parola, lo splendore della sapienza e l'aspetto di Dio, contemplati
direttamente nel loro aspetto, e beati sempre coloro che sono desiderosi di
quella vera bellezza! Essi infatti sono congiunti a essa attraverso l'amore,
anelano all'amore celeste e beato, e quasi si dimenticano dei parenti e degli
amici, si dimenticano della casa e di ogni altro bene; sono dimentichi pure di
ogni necessità fisica, come il mangiare e il bere, e sono legati solo a
quest'amore divino e puro.
Infine tutti i testimoni autentici del Vangelo possono
svolgere la funzione della freccia.
Potresti intendere per saette acute anche coloro che furono inviati a disseminare il
Vangelo su tutta la terra. Essi, dopo aver reso acuti se stessi, risplendevano
per le opere della giustizia, e finemente si insinuavano nell'animo dei loro
discepoli. Infatti questi dardi, inviati dovunque, preparavano i popoli a
sottomettersi a Cristo. […]
Naturalmente, insieme all’acutezza della freccia, ossia alla
santità dei testimoni, è necessario riscontrare la disponibilità degli
ascoltatori.
Non si sottomette a Dio nessuno che sia nemico di
Dio, né arrogante né superbo, ma chi dalla fede ha imparato l'obbedienza. I
dardi cadono nel cuore di chi era un giorno nemico del re, lo trascinano al desiderio
della verità, e lo innalzano verso il Signore; così con i loro insegnamenti
riconciliano Dio con i suoi nemici.
Il regno del Messia
Concluso l’elogio riguardo la bellezza e la forza dello
Sposo, i versetti successivi parlano dell’unzione regale ricevuta dal
Re/Messia: II tuo trono, Dio, è nei
secoli dei secoli ; scettro di rettitudine è lo scettro del tuo regno; hai
amato la giustizia e hai odiato l'iniquità; per questo ti unse Dio, il tuo Dio,
con l'olio della gioia a preferenza dei tuoi compagni.
Il salmista si rivolge al Sovrano, chiamandolo Dio: il
tuo trono, o Dio. Sicuramente egli usa
questo linguaggio molto ardito perché pensa al Messia come un vicario di Dio,
senza pensare ad una sua reale divinità. Attribuiti al Cristo Risorto, il
versetto però, acquista un altro significato e il linguaggio audace diventa
realista:
Dopo aver a
lungo parlato rivolgendosi alla natura umana, il Salmista ora volge il discorso
sull'altezza della gloria dell'unigenito. II tuo trono, o Dio, è nei secoli dei
secoli. Cioè: il tuo regno si estende sui secoli, ed è più antico di ogni
intelligenza. Con molta sapienza celebra la magnificenza del regno di Dio, dopo
aver ricordato l'obbedienza dei popoli. […]
Dopo la proclamazione dell’eternità del Regno messianico, il
salmista parla del rito dell’unzione regale, la quale prefigura la vera unzione
ricevuta da Gesù che consiste nel ricevere lo Spirito Santo, senza misura.
Per questo ti unse
Dio, il tuo Dio, con l’olio della gioia a preferenza dei tuoi compagni.
Un crisma particolare distingueva in modo esclusivo i sacerdoti e i re, ma la
carne del Signore fu unta col vero crisma, con la stessa presenza in lui dello
Spirito Santo; ed è questo appunto che viene chiamato olio di gioia. Fu unto a preferenza dei suoi compagni, cioè a
preferenza di tutti gli uomini che furono partecipi di Cristo. Infatti a loro
fu data in piccola parte una qualche comunione con lo Spirito, invece sul
Figlio di Dio lo Spirito discese e “rimase sopra di lui” (Gv 1,32) come dice
Giovanni. A ragione il Salmista chiama lo Spirito olio di gioia poiché anche
uno solo dei frutti prodotti dallo Spirito Santo è letizia (Cf Gal 5,22).
Basilio si sofferma ancora a considerare la vicenda umana di
Gesù. Prima aveva detto che il dono di possedere una parola di grazia era il
risultato di una identità conquistata, ora aggiunge che l’unzione dello Spirito
diventa efficace in quanto Gesù, in tutta la sua vita, non solo ha amato il
bene ma lo ha fatto al punto di ripudiare nel modo più radicale possibile ogni
compromesso con il male:
L'argomento del discorso è il Salvatore, nella
divinità della sua natura e nella economia dell'incarnazione. Il Salmista di
nuovo passa a guardare all'umanità di Dio e dice: Hai
amato la giustizia e hai odiato l'iniquità. Questo significa : anche gli
altri uomini spesso raggiungono la capacità di fare il bene e di allontanarsi
dal male, ma solo attraverso una faticosa e costante lotta; tu invece hai una
naturale disposizione verso il bene, una congeniale dimestichezza con esso, e
aborri il male.
L’innocenza di Gesù viene donata a tutta la Chiesa
affinché la possa condividere:
Anche per noi non è difficile, se lo vogliamo,
raggiungere un tale amore del bene e un tale odio dell'iniquità. Con molta
sapienza Dio ha dato all'anima razionale tutte le facoltà, quella dell'amore
così come quella dell'odio. Pertanto noi, diretti dalla ragione, amiamo la
virtù e odiamo l'iniquità. Talvolta l’odio può anche essere lodevole: Non ho
forse odiato coloro che ti odiano, o Signore, e non mi struggevo per i tuoi
nemici? Li odiavo di un odio completo (Sal 138,21-22). […]
Un ragionamento analogo viene sviluppato da Teodoreto, in
modo più chiaro e sintetico:
«Compagni, amici e fratelli, sul piano umano, sono
i credenti in lui. Dichiara infatti l’apostolo santo: Saremo partecipi di Cristo se custodiremo sino alla fine l’impegno
della fede. Ancora: Affinché sia il
Primogenito tra molti fratelli. Allo stesso modo, è stato unto dallo
Spirito Santo, non come Dio ma come uomo. Come Dio, è consostanziale allo
Spirito ma come uomo ha ricevuto i suoi doni, e in questo consiste l’unzione.
Ancora sul piano umano ha amato la giustizia e odiato l’iniquità. In questo
caso si riferisce alle sue scelte da uomo non alla sua potenza divina. Quale
Dio possiede lo scettro della giustizia e del regno»[96].
Riporto ora il testo di Basilio, esimendomi da ogni
commento dal momento che ho già presentato questi temi nell’esposizione
precedente.
La festa nuziale
Sta la regina alla tua destra, in vesti
d'oro, ravvolta in variopinto abbigliamento. Qui parla già della Chiesa,
di cui abbiamo appreso nel Cantico che, unica,
è la perfetta colomba di Cristo, che stando alla destra di Cristo accoglie
coloro che si sono distinti nelle opere buone e li separa dai malvagi, come il
pastore separa le pecore dai capretti (Ct 6,8). È presente dunque la regina,
cioè l'anima congiunta al Verbo suo sposo, non succube del peccato, ma
partecipe del regno di Cristo. Essa sta alla destra del Salvatore in veste
d'oro, cioè ornando se stessa, magnificamente e piamente, delle dottrine
spirituali conteste e variegate. Poiché le dottrine non sono semplici, ma
molteplici e diverse, e contengono argomenti morali, naturali e mistici, la
Scrittura dice che la veste della sposa è variegata.
Ascolta, o figlia, e guarda, porgi il tuo
orecchio; dimentica il tuo popolo, e la casa del padre tuo; e s'invaghirà il re
della tua bellezza; poiché egli è il tuo Signore, e lui adoreranno.
Invita la Chiesa a udire e a osservare i precetti, e se la rende familiare
chiamandola « figlia », quasi che egli la generi nella carità. Con la parola guarda
insegna ad avere la mente esercitata all'osservazione. Considera - dice
- la creazione e, guidata dall'ordine che è insito in essa, innalzati alla
contemplazione del Creatore. Poi, piegando l'alto collo della sua superbia,
dice: China il tuo orecchio. Non
accorrere alle favole del mondo, ma insegui l'umile voce contenuta nelle parole
del Vangelo. Piega il tuo orecchio a questa dottrina, affinché ti dimentichi
delle cattive abitudini e degli insegnamenti del padre. Perciò : Dimenticati del tuo popolo e della casa di tuo padre.
Infatti: «Chiunque commette peccato è figlio del diavolo» (Gv 3,8). Respingi -
dice - gli insegnamenti dei demoni, dimentica i sacrifici profani, le danze
notturne, le favole che infiammano alla turpitudine e a ogni dissolutezza. Per
questo ti ho chiamato figlia mia, perché tu dimenticassi il padre che, prima,
ti aveva generato alla perdizione. Se con l'oblio tu cancellerai le macchie dei
cattivi insegnamenti, riacquisterai la bellezza che ti è propria, e apparirai
desiderabile allo sposo, al re.
Poiché egli è il tuo Signore, e lui
adoreranno. Il Salmista dichiara qui la necessità dell'obbedienza con
queste parole : Egli è il tuo Signore; lui
adoreranno; naturalmente il soggetto sotto inteso sono tutte le
creature. Infatti «nel nome di Gesù Cristo ogni ginocchio si piegherà, nel
cielo e sulla terra e negli inferni » (Fil 2,10).
La figlia di Tiro con doni; e i ricchi del
popolo imploreranno il favore dal tuo volto. Sembra che l'idolatria
fosse sommamente praticata nella regione della Cananea. Tiro è la capitale
della Cananea. Queste parole, esortando la Chiesa alla obbedienza, dicono: La figlia di Tiro verrà un giorno con doni. E i
ricchi del popolo adoreranno con doni il tuo volto. Non ha detto con doni adoreranno te, bensì il tuo volto. Infatti non la Chiesa è adorata,
ma il capo della Chiesa, Cristo, che la Scrittura chiama appunto volto.
Tutta la gloria della figlia del re è interiore; con frange d'oro, ravvolta
in variopinto abbigliamento. Saranno condotte al re altre vergini dopo di lei.
Dopo che si è purificata dalle antiche dottrine false, che si è sottomessa al
nuovo insegnamento, e che ha dimenticato il suo popolo e la casa di suo padre,
lo Spirito Santo manifesta i suoi attributi. E poiché ha visto la sua bellezza
nascosta, dice : Tutta la gloria della figlia del re (cioè della sposa di
Cristo, che è divenuta finalmente, attraverso l'adozione, figlia del re) è
interiore. Queste parole ci invitano a volgerci ai più intimi segreti della
gloria della Chiesa, poiché tutta interiore è la bellezza della sposa. Colui
infatti che si adorna solo per quel Padre che vede nell'intimo, e prega (Cf Mt
6,6), e fa ogni sua azione non per essere visto dagli uomini, ma per rendersi
solo noto a Dio, costui possiede una gloria interiore, così come la figlia del
re. E così pure le fibbie d'oro, di cui è ornata nel suo variopinto
abbigliamento, sono interiori. Non cercarle nell'oro esteriore e nella varietà
materiale delle vesti, ma pensa a una veste che sia degna di ornare colui che è
l'immagine del Creatore, come dice l'Apostolo: «Spogliati dell'uomo vecchio, e
rivestiti del nuovo, che si rinnovella a immagine del suo Creatore verso la
pienezza della conoscenza di Dio» (Col 3,9-10).Colui che si è rivestito « di
viscere di misericordia, di benignità, di umiltà, di pazienza, di mansuetudine»
(Col 3,12) è rivestito ulteriormente, ed è ornato nell'intimo della sua
umanità. Anche Paolo ci esorta a rivestirci di Cristo Signore (Cf. Rm 3,14),
non esteriormente, ma in modo che la memoria di Dio protegga la nostra mente.
Io credo che venga tessuta questa veste spirituale qualora l’azione si componga
con la teoria insegnata, e la segua. Come infatti una veste materiale si tesse
quando la trama si lega con l'ordito; così, quando prima esiste la dottrina e
poi la pratica la segue, ne può nascere un abito splendido per l'anima: essa
condurrà infatti una vita coerente con la virtù, perfetta in teoria e in
pratica. […] Ascoltino anche coloro che hanno promesso la loro verginità al
Signore : esse saranno condotte vergini al Signore. Queste sono le vergini che
stanno nella Chiesa, che. le tengono dietro, e che non si sviano dalla
disciplina della Chiesa.
Le vergini saranno presentate fra la gioia
e l'esultanza, saranno condotte nel tempio del re. Saranno presentate al
re e condotte, non in un luogo qualunque, ma proprio nel tempio del re, non le
anime che si sono votate alla verginità forzatamente e neppure quelle che hanno
abbracciato una vita di castità spinte dal dolore o dalla necessità, ma quelle
che godono di tale stato virtuoso in gioia ed esultanza. […] Quale importanza
abbia l'essere introdotto nel tempio del re, lo mostra il Profeta quando prega
con queste parole : «Una sola cosa ho domandato al Signore, e questa cercherò:
di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per
contemplare le delizie del Signore e visitare il suo tempio » (Sal 26,4).
In luogo dei tuoi padri ti son nati dei figli: e tu li costituirai principi
su tutta la terra. Poiché più sopra è stato comandato alla sposa di dimenticare
il suo popolo e la casa del padre, ora in cambio dell'obbedienza, in luogo dei
padri ha dei figli, insigniti di tale onore da essere posti come principi su
tutta la terra. Chi sono dunque i figli della Chiesa? Ma sono i figli del
Vangelo, che hanno preso il dominio di tutta la terra! «Per tutta la terra si è
sparsa la loro voce», si dice (Sal 18,5); e ancora : «Siederanno su dodici
seggi e giudicheranno le dodici tribù di Israele » (Mt 19,28). Se si interpretano
i padri della sposa nel senso de i patriarchi,
anche così intesa la frase non è aliena da poter essere adattata agli Apostoli.
Infatti, in luogo di quelli, le nacquero dei figli per mezzo di Cristo, che
compirono le opere di Abramo, e furono onorati come quelli, per aver compiute
opere eguali alle loro, e per merito delle quali i padri furono resi degni di
grandi onori.Sono principi di tutta la terra anche i fedeli, per la loro
familiarità con il bene, poiché la natura stessa del bene conferì loro il
primato, come conferì a Giacobbe il potere su Esaù. «Diventa - dice - signore
del tuo fratello» (Gn 27,29). Coloro dunque che sono divenuti eguali ai loro
padri in dignità, e che hanno acquisito il primo posto su tutti attraverso
l'esercizio della virtù, sono figli della sposa di Cristo, e dalla loro madre
sono costituiti principi su tutta la terra. Considera poi, ti prego, qual è il
potere che ha la regina su di essa: di costituirli principi su tutta la terra.
Mi ricorderò del tuo nome di generazione in
generazione. Perciò i popoli ti celebreranno in eterno e di secolo in secolo».
Nella sua conclusione il discorso appare pronunciato dalla bocca della Chiesa: Mi ricorderò del tuo nome di generazione in
generazione. E in che cosa consiste il ricordo della Chiesa? Nella
celebrazione che ne faranno i popoli.
Salmo 62
Il salmo 62 fa parte di una breve raccolta (Salmi 60-63)
nella quale si condensa l’esperienza di fede d’Israele: il popolo, trovandosi
in una situazione angosciosa, rinnova la sua fiducia in Dio, unico vero
rifugio: «Confida in Lui o popolo, in ogni tempo; davanti a lui aprite il
vostro cuore» (61,9); «Il tuo amore vale più della vita» (62,4).
L’implorazione individuale si confonde con quella
collettiva: ogni singolo rappresenta l’intero popolo. In questa linea
interpretativa và letta l’implorazione per il re, più volte menzionato nella
raccolta. Egli rappresenta il destino di tutti: in 62,12 si dice: «il re
troverà in Dio la sua gioia» e in 63,11, invece: «Il giusto gioirà nel
Signore». Il destino del singolo giusto, quindi, è identico a quello del re.
Ora passando direttamente al salmo 62 troviamo espresso,
dapprima, il desiderio di incontrare Dio alimentato soprattutto dal ricordo
degli incontri avuti con Lui nel tempio (2-3); poi la conferma dell’adesione a
Lui (4-9) ed infine un’imprecazione contro i nemici che nasce da una situazione
di pericolo che è lo sfondo di tutta la raccolta, come ho evidenziato.
O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora ti cerco, ha sete di te l’anima mia,
desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua.
Il versetto è passibile di due interpretazioni. L’una,
basandosi sul sottotitolo («Di Davide, quando era nel deserto di Giuda») così
ritiene: il salmista desidera Dio, come chi risiede nel deserto (in questo caso
il re Davide) desidera trovare acqua da bere. È l’interpretazione tradizionale.
La troviamo espressa in modo chiaro, ad esempio, in Teodoreto di Cirro che
precisa: l’assetato desidera un’acqua dolcissima [ēdistòn] e molto trasparente [dieidèstaton][97].
L’altra interpretazione, - in realtà si tratta di una
sfumatura di senso -, così intende: pur sperimentando un’acuta sete a livello
fisico, la vera sete del salmista è quella di ritrovare la comunione con Dio.
La vera aspirazione dell’orante è Dio; la sete per Lui, quindi, supera ogni
altra.
O Dio, tu sei il mio Dio: La ripetizione del nome indica l’intensità dell’affetto del salmista[98].
Ti cerco intensamente. C’è una stretta somiglianza tra il verbo cercare e il termine ebraico
per indicare l’aurora (shachàr) e
quindi di solito si traduce: dall’aurora ti cerco (così la LXX ha ορτριζω e le traduzioni in latino il verbo vigilo).
Cercare dall’aurora o vigilare implica la rinuncia al
sonno, secondo la prassi del sapiente che anticipa l’aurora per poter dedicarsi
alla lettura della Sacra Scrittura. Nel libro della Sapienza si dice che chi
vigila, viene preceduto dalla Sapienza: «Nel farsi conoscere previene coloro
che la desiderano. Chi si alza di buon mattino, ... la troverà seduta alla sua
porta» (Sap 6,13-14).
I desideri spirituali possono prevalere sui bisogni
fisici: per questo si veglia, si digiuna, ci si astiene dall’atto sessuale o si
affronta la tortura del persecutore. Nell’uomo dello Spirito, la forza dello
Spirito prevale sopra ogni aspirazione o paura. La vigilanza più che una
questione d’orario, è piuttosto un traguardo spirituale. Chi è che vigila realmente si domanda Cassiodoro? Colui che dorme alle
aspirazioni mondane[99].
Tutte le volte che le brame terrene vengono domate, allora si risveglia il
desiderio del Signore. Da questo punto di vista. Cassiodoro non fa che
riprendere il messaggio della Bibbia, come leggiamo in Giobbe : «Se tu
cercherai Dio e implorerai l’Onnipotente, se puro e integro tu sarai, allora
egli veglierà su di te... piccola cosa sarà la tua condizione di prima e quella
futura sarà molto più grande» (8,5-7). In questo passo, cercare significa
implorare ma anche conservarsi puri ed integri. La veglia dell’uomo rende
possibile il dispiegarsi della veglia di Dio su di lui.
Di te ha sete l’anima mia. Dalla vigilanza, il salmista passa alla sete. Cassiodoro rievoca la
promessa di Gesù alla Samaritana: «Se tu conoscessi il dono di Dio..., ti
avrebbe dato dell’acqua viva».
Avere sete di Dio, significa, per questo autore, bramare di
osservare i suoi comandamenti e acquisire le sue qualità divine. Dissetarsi
dell’acqua viva è l’assimilazione a Dio per il tramite dell’obbedienza[100].
Già Eusebio di Cesarea aveva proposto lo stesso messaggio: aver sete è
desiderare ciò che piace ed è gradito a Dio. All’opposto, chi non assume
l’acqua che emana da questa fonte, viene meno (ekleìpein) e si esaurisce
(ektēkesthai), perché soltanto presso il Signore è la fonte della vita[101].
Secondo l’insegnamento dei Padri, quindi, dissetarsi è deificarsi.
Così nel santuario, ti ho contemplato per vedere la tua potenza e la tua
gloria.
Il significato del versetto sembra sia questo: dal momento
che da sempre ti ho riconosciuto come l’unica Fonte di vita, già mi sono
presentato a Te nel tempio per poter godere dei doni della tua potenza gloriosa
e così porre rimedio alla mia miseria e continuerò a farlo in seguito. Di
solito i Padri favoriscono questa interpretazione. La verifica della nostra
miseria ci obbliga ad uscire da noi stessi per volgerci a Dio. Lo attesta
Agostino: «Chi non sperimenta la sete nel deserto, ossia non viene afflitto dal
male in cui vive, non se ne rende consapevole, non giunge mai a conoscere il
bene che è Dio»[102].
L’uomo dipende da Dio. Lo attesta con forza il libro di Giobbe secondo il quale
l’uomo, privo di Dio, è come un papiro rimasto senz’acqua. «Cresce forse il papiro
fuori della palude e si sviluppa forse il giunco senz’acqua? Ancora verde…,
inaridirebbe prima di ogni altra erba. Tale è la sorte di chi dimentica Dio»
(Gb 8,11-13). In questo caso la sete di Dio proviene dalla verifica della
nostra miseria.
Un’altra lettura, invece, pensa che la sete di Dio derivi
dalla stessa esperienza di Dio. A provocarla non è la nostra povertà ma la
magnificenza di Dio. Menachem Arton interpreta tutta la strofa in questo modo: Ho
sete viva del Signore a motivo dell’esperienza che ho avuto di Lui nel
santuario, essendo stato là presente quando Egli aveva rivelato la sua potenza
gloriosa. In questo caso non è la nostra
povertà a suscitare la sete, ma l’intensità dell’esperienza di Dio. Nel
rivelarsi, Dio suscita il desiderio di Lui e il salmista vuole rinnovare
l’esperienza positiva vissuta[103].
Quanto era grande il mio desiderio di te, mentre ti stavo
contemplando nel tempio! L’appagamento
sperimentata in quel momento, suscita il desiderio di sperimentarlo ancora.
Eusebio offre un suggerimento interessante: il tempio, nel
suo valore essenziale, può essere ricostruito sempre ed ovunque. Infatti, chi
desidera Dio, può presentarsi davanti a Lui con la sua preghiera e meditazione:
«Il trovarmi nel deserto non lo avverto come un danno [un’impossibilità] poiché
posso offrirti [qui ed ora] la mia lode come se mi trovassi nel tempio... Ti
rendo presente a me stesso ammirando la tua potenza ineffabile»[104].
Comincia la seconda parte del salmo, nel corso della quale
il salmista, in seguito all’esperienza positiva vissuta in precedenza, conferma
di voler aderire a Dio.
La tua grazia vale più della vita. «È meglio godere della tua bontà che vivere!»[105].
La vita è un grande dono ma essa è insufficiente all’uomo. Anche quella più
fortunata, rimane incompiuta. Soltanto la speranza dell’amore di Dio sostiene
la nostra esistenza fino a darle senso compiuto: «È un grande dono di Dio
venire alla luce ma, poiché la nostra esistenza è tutta piena di ansietà e
sofferenze, c’è maggiore speranza nella misericordia di Dio che nella vita»[106].
Spesso i Padri aggiungono una considerazione escatologica:
la grazia dispiegherà tutta la sua forza nel mondo futuro. Soltanto allora
sperimenteremo come l’amore di Dio nei nostri confronti valga di più della
vita, ossia dell’esistenza attuale dal momento che può donarcene un’altra
migliore[107].
Certamente ti benedirò per tutta la mia vita, nel
tuo Nome alzerò le mie mani, la mia persona gode di te come si saziasse di
grasso e con labbra giubilanti ti loderà la mia bocca.
Il salmista spera, in futuro, di rivivere ancora
un’esperienza di beatitudine gratificante già vissuta nel passato.
La comunione con Dio raggiunge il massimo d’intensità
nell’esperienza della preghiera, soprattutto nell’orazione di lode, pervasa
d’ammirazione nei confronti di Dio. La comunione con Lui è sazietà profonda,
giubilo, lode ammirata. Il salmista «dimostra quale sia il guadagno di coloro
che sperano in Dio. Come il corpo si dilata per aver assimilato cibi grassi, lo
stesso avviene per l’anima, grazie all’effusione dello Spirito e alla gioia
[che proviene da Lui]. Il profeta chiede proprio di essere saziato da questo
cibo; nutrito dal cibo spirituale, sarà in grado di lodare il Signore con
grande esultanza. Ogni volta che mi ricordo di te, [Signore], proprio ogni
volta, ogni volta divento colmo di gioia»[108].
La sazietà è, in questa lettura, l’esperienza dei doni dello Spirito, infuso
soprattutto nella preghiera. In Teodoreto, ad imbandire questo cibo abbondante
non è soltanto la preghiera ma la lettura meditata dei testi biblici: «La
meditazione delle tue parole (meletē) è prelibatezza sicura (Chlidē mònimos) e
vero soddisfacimento (tryfē)»[109].
A te si stringe l’anima mia... Per quanto riguarda questa strofa, i Padri hanno
dato molta importanza al verbo dbq
(v. 62,9) il quale, più che stringere, significa essere attaccati [a qualcuno/a
o a qualcosa]. La versione dei LXX introduce il verbo κολλαω, tradotto bene in
latino con adhaesit. Si può
tradurre: la mia persona è attaccata a te. Il termine indica
un’unione molto stretta ed inseparabile. Ciò che vale in questa immagine è
sopratutto l’idea di una impossibilità a staccarsi da ciò a cui si è aderito.
Inoltre il termine indica la volontà di seguire la persona amata, in una
fedeltà assoluta. La causa dell’inseparabilità sembra derivare dalla fedeltà di
Dio come pare suggerito dal seguito del versetto: la tua destra mi ha
sostenuto.
Cirillo evidenzia meglio di altri il valore di questa
adesione (kollesis) mostrando tre
caratteristiche: un pensiero fisso a Dio (pepēgòs frònēma), desiderio di vita
retta (tò ektenès eis aretēn), amore incessante (tò adiàspaston eis agapēn)[110].
Eusebio richiama la necessità dell’intervento della
grazia, appena accennato nel testo biblico: «Vedendo il mio desiderio di te e
accogliendolo, ti sei degnato di stendermi la destra per sollevarmi e trarmi in
alto, verso di te. Non avrei potuto raggiungere in alcun modo una tale altezza,
se non mi avesse accolto la tua destra»[111].
Cassiodoro ha colto bene, a sua volta, il senso del
versetto che implica la continuità dell’adesione, l’aver subito un’attrazione
fatale, dovuta ad un grande amore. «La Chiesa non dice di essersi avvicinata al
Signore ma di aver aderito a lui; questo verbo, come si sa, indica l’essere
incollati, per cui chi aderisce a Dio non
può più desistere da questo buon proposito. Un grande amore, provoca una grande
attrazione: se una volta abbiamo aderito a Dio, sempre possiamo restare uniti a
Lui, come dice l’apostolo: chi aderisce al Signore, diventa con lui
un solo spirito (1 Cor 6, 17)»[112].
Il tema dell’adesione al Signore verrà ripreso sopratutto
dalla mistica successiva, in epoca bizantina. L’unione mistica verrà intesa
come l’attuazione piena di questo aderire e rimanere incollati a Dio. Riporto
un testo significativo di Niceta Stethatos: «Il
mistero della preghiera non si compie in un tempo e in luogo determinati,
giacché se definisci, per la preghiera, ore momenti e luoghi, il tempo che
resta fuori da questi trascorre oziosamente in altre cose vane. La definizione
della preghiera, piuttosto, è questa: movimento continuo dell’intelletto
intorno a Dio. La sua opera è il volgersi dell’anima intorno alle cose divine,
e il suo fine è l’aderire della mente
a Dio e l’essere chiamato «un solo spirito con lui», secondo la definizione e la
parola dell’Apostolo (1 Cor 6,17)»[113].
[1] Basilio, Omelie sui Salmi, Paoline, Alba 1968, pp. 39-40 (passim): PG 29 212 C-D - 213 A («yalmὸj gἀr kaˆ ™k liq…nhj kard…aj d£kruon ἐkkαλεῖtai:
yalmὸj tὸ tçn £γγέλων œrgon, tὸ our£nion pol…teuma, tὸ pneumatikὸn qum…ama»).
[Riporto il passo intero: «Il salmo è tranquillità dell'anima,
arbitro di pace, allontana il tumultuare e l'ondeggiare dei pensieri. Reprime
infatti l'ira dell'animo, corregge e modera la sfrenatezza. Il salmo concilia
l'amicizia, riconcilia coloro che sono separati, dirime le inimicizie. Chi
infatti può ancora ritenere come nemico colui col quale ha elevato a Dio un
unico, comune canto? Così la salmodia procura anche il massimo dei beni,
l'amore, in quanto introduce l'uso del canto comune, come una specie di vincolo
di concordia, e in quanto fonde armoniosamente la moltitudine nella sinfonia di
un solo coro. Il salmo fuga i demoni, richiama l'aiuto degli angeli. E' scudo
nei timori notturni, è pausa nelle fatiche diurne; è sicurezza dei fanciulli,
ornamento di coloro che sono nel nome dell'età, consolazione ai vecchi. E'
l'ornamento più adatto per le donne; rende abitabili i deserti, modera le
comunità umane. E' la base per coloro che muovono i primi passi sulla via della
perfezione, incremento di coloro che progrediscono in questo cammino, sostegno
di coloro che giungono alla meta.E' voce della Chiesa. Esso allieta i giorni
festivi, esso crea quella gravita che piace a Dio. Il salmo infatti trae
lacrime anche da un cuore di pietra. Il salmo è opera degli angeli, creazione
celeste, spirituale profumo. O sapiente invenzione del Maestro, che fa in modo
che noi possiamo, insieme, cantare e imparare quello che ci è utile, cosicché
ancor più si fissino nell'animo gli insegnamenti! Infatti un insegnamento impartito
a forza non può dare frutti duraturi; ma quello che penetra con grazia e
piacevolezza nel nostro animo, vi si insedia più durevolmente. Che c'è dunque
che tu non possa imparare di lì? Forse lo splendore della fortezza, o la
perfetta giustizia, o la saggezza veneranda, o la perfezione della prudenza?
Non forse il modo del pentimento? Non la perfezione della pazienza e di tutti i
beni che tu potresti elencare?»].
[2] Kurt Appel, Apprezzare
la morte. Cristianesimo e nuovo umanesimo,
EDB, Bologna 2015, pp. 73-74.
[3] Detti dei Padri, Serie anonima N 96, cf. Il Cammino del monaco, Edizioni Qiqajon, Magnano 2009, p. 735.
[7]
Teodoreto di Cirro, Interpretatio in Psalmos,
Praefatio, PG 80, 858 A: «οἱ
τὸν ἀσκητικὸν ἀσπαζόμενοι βίον νύκτωρ ταύτην καὶ μεθ' ἡμέραν διὰ τῆς γλώττης
προφέρουσι· τὸν τῶν ὅλων ὑμνοῦντες Θεὸν, καὶ τὰ τοῦ σώματος κατευνάζοντες πάθη»
(TLG 5-6 di 393-466).
[8] Girolamo, Ep. CXXV,11, Le Lettere/4, Città Nuova, Roma 1983, pp. 252-253: «Numquam de
manu et oculis tuis recedat liber, discatur Psalterium ad verbum; oratio sine
intermissione; vigil sensus, nec vanis cogitationibus patens. Corpus pariter ed
animus tendatur ad Dominum. Iram vince patientiam: ama scientiam Scripturarum,
et carnis vitia non amabis [Non allontare il Libro dalla tua mano e dal tuo
occhio; impara il salterio parola per parola, prega senza posa, sii vigilante e
chiuso ai pensieri vani. Dedicati a Dio con il tuo corpo e la tua mente. Domina
l’ira con la pazienza. Se amerai conoscere la Bibbia, vincerai i vizi della
carne]», PL 22 c.1078 (939).
[9] Tommaso da Kempis, La solitudine e il silenzio, San Paolo, Milano 2015, pp, 27-29 : «Inibi gaudebis
in Domino: er confabulaberis ei, et ille respondebit tibi. Appropinquabit cordi
tuo lux eius: et veritas manifestabitur tibi amplius. … Et dices. Domine quis
similis tibi? Quam verus sermo quem legi. In lumine tuo videbimu lumen. Et nunc
Domine Deus illuminatio mea et salus mea, in lumine tuo ambulabo: et in nomine
tuo exultabo tota die», Thomas Hemerken a Kempis, De solitudine et silenzio, in Opera Omnia, IV, Herder, Friburgo in Brisgovia,
1902.
[10] Eusebio di Cesarea, Commento ai Salmi/1, Città nuova, Roma 2004, p. 269: Commentaria in
Psalmos 38,1 PG 23 346 C «Μανθάνομεν
δὲ διὰ τῶν προκειμένων, ὡς ἄρα προσήκει ἕκαστον ἑαυτῷ διαλέγεσθαι, μηδὲ
περιμένειν τοὺς ἔξωθεν διδασκάλους, αὐτὸν δι'ἑαυτοῦ προσομιλοῦντα τῷ λογισμῷ
καὶ τῇ διανοίᾳ». Manthànomen de
dià tōn prokeiménōn, os ara prosēkei ékaston eautō dialégesthai, mēdè
periménein tous éxōthen didaskalòus, auton di’eautou prosomilounta to logismō
kai tē dianoia.
[11] Basilio, Omelie sui Salmi, 45,1, Edizioni Paoline, Alba 1978, p. 229: Homiliae
in Psalmos PG XXIX 416 B. «Genόmenoς
dὲ ™ν τοῖς
katὰ mέroς
rhτοῖς τοῦ yalmοῦ, maqήseiς τὸ kekrummέnon τῶν
lόgwn καὶ ὅti ou tοῦ tucόntoς estὶn enidεῖν τοῖς
qeiοῖς muster…oiς,
ἢ mόnou τοῦ dunamέnou genέsqai
τῆς ˜paggel…aς
˜narmόnion ὅrganon, ìste antὶ yalthr…ou kinεῖsqai autοῦ tὴn yucὴn upὸ τοῦ energοῦntoς autῇ ag…ou Pneύmatoς».
[12] Atanasio di Alessandria, L’interpretazione dei
Salmi (Ad Marcellinum in
interpretationem psalmorum), Testi dei Padri della Chiesa 14, Qiqajon, Magnano 1995 : PG 27,12-45.
[14] Masora
significa trasmissione. Con questo termine si indica l’azione dei rabbini, tra
il VII e il X secolo, volta a tramandare la corretta lettura dei testi biblici
mediante note critiche apposte ai manoscritti della Sacra Scrittura. L’attività
masoretica raggiunse il suo apice sulle rive del lago di Tiberiade ad opera
della famiglia Ben Asher (intorno
anno 1000). La più importante testimonianza è rappresentata dal Codice di
Leningrado (1008 d.C.), sul quale è
basata l’edizione più seguita attualmente della Bibbia ebraica, la Stuttgartensia.
[16] Cf. N. F. Marcos, Septuaginta. La bibbia degli
ebrei, Morcelliana, Brescia 2010. C.
Martone, “La questione filologica“, in La Bibbia dei Settanta (a cura di P. Sacchi e L. Mazzinghi), 1. Pentateuco,
Morcelliana, Brescia 2012, pp. 31-61.
[17] Cf. N. F. Marcos, Septuaginta. La bibbia degli
ebrei, Morcelliana, Brescia 2010. C.
Martone, La questione filologica, in La Bibbia dei Settanta (a cura di P. Sacchi e L. Mazzinghi), 1. Pentateuco,
Morcelliana, Brescia 2012, pp. 31-61.
[18] Cfr. E. Tov, “The Evaluation of the Greek Scripture
Translations in Rabbinic Sources”, in Interpreting Translation. Studies on
the LXX and Ezekiel in Honour of Johan Lust, University Press-Peeters, Leuven-Paris-Dudley, Mass. 2005, pp.
385-399.
[19] R. Höffner, Aquila, in Dizionario di letteratura cristiana antica, Urbaniana University Presss – Città Nuova 2002, pp.
90.
[20] K. Balke, Simmaco, il traduttore, in Dizionario di letteratura cristiana antica, Urbaniana University Presss – Città Nuova 2002, pp.
778-779.
[21] C. Markschies, Teodozione, in Dizionario di
letteratura cristiana antica,
Urbaniana University Presss – Città Nuova 2002, pp. 815-816.
[22] E. Schulz-Flügel, Vulgata, in Dizionario di letteratura cristiana antica, Urbaniana University Presss – Città Nuova 2002, pp.
870-872. B. M. Metzger – D. Ewert, “Testi, versioni, manoscritti, edizioni”, in
Il Dizionario della Bibbia (a cura di P. J. Achtmeier e della Society of
Biblical Literature, Zanichelli,
Bologna 2003, pp. 866-873.
[23] Cf. Il Salterio della tradizione, a cura di Luciana Mortari, Piero Gribaudi Editore,
Torino 1983.
[24] Roberto
Reggi, I Salmi, EDB, Bologna 2004, p.84.
[25] I Salmi, a cura di G. Santambrogio, La vita felice, Milano
2012, p. 169.
[26] Teodoreto
di Cirro, Interpretatio in Psalmos, PG
80, 1387 C e D : ἀμφότερα
δὲ γεγένηνται. Λαμβάνων γὰρ παρὰ τῶν προσιόντων τὴν πίστιν, δωρεῖται τὴν χάριν.
.. Τοῦτο σαφέστε ρον ὁ Ἀκύλας ἡρμήνευσε, καίπερ ἀπειθεῖς τοῦ κατα σκηνῶσαι. Οὐκ
ἀπέβλεψας, φησὶν, εἰς τὴν προτέ ραν αὐτῶν ἀπείθειαν· ἀλλὰ καὶ ἀντιλέγοντας
ὁρῶν, ἐπέμεινας εὐεργετῶν, ἕως αὐτοὺς οἰκητήριον οἰκεῖον ἀπέφῃνας.
[27] Eusebio di Cesarea, Commento ai Salmi/1, Città Nuova, Roma 2004, p. 269: Commentaria in
Psalmos, PG 23 348 A.
[29] Didimo il cieco, Lezioni sui Salmi, Paoline, Roma 2004, p. 675-677 : Expositio in
Psalmos PG 39, 1348 D.
[30] Agostino, La Trinità, XV, 13, Bompiani, Milano 2012, pp. 902-903: «Ex me
quippe intellego quam sit mirabilis et incomprensibilis scientia tua qua me
fecisti quando nec me ipsum comprehendere valeo quem fecisti, et tamen in
meditatione mea exardescit ignis ut quaeram faciem tuam semper». La traduzione
latina del versetto in greco è stata avvalorata dalla liturgia anche in tempi
più recenti. Il Graduale della Messa di san Filippo Neri riportava proprio
questo versetto: Concaluit cor meum intra me et in meditatione mea
exardescet ignis. In questo caso si
pensa all’ardore di carità che animò san Filippo.
[33] Teodoreto di Cirro, Interpretatio in Psalmos, 118,131 PG 80, 1861 B-C : Στόμα
ἐν ταῦθα καλεῖ τῆς διανοίας τὴν προθυμίαν. Αὕτη γὰρ ἕλκει τὴν χάριν τοῦ
πνεύματος. Καὶ γὰρ ἀλλαχοῦ φησι· Πλάτυνον τὸ στόμα σου, καὶ πληρώσω αὐτό… Τοῦτο
καὶ ἐνταῦθα ἔφη, Τὸ στόμα μου ἤνοιξα, καὶ εἵλκυσα πνεῦμα, ὅτι τὰς ἐντολάς σου
ἐπεπόθουν. Γλιχόμενόν με γὰρ τῶν σῶν ἐντολῶν θεασάμενος τῆς σῆς ἠξίωσας
χάριτος, TLG 04852 - 04861].
[34] Agostino, Ennationes in psalmos, Discorso XXVII sul Salmo 118 (v.131), PL 37, 1581
(4): «Quid desiderabat, nisi facere mandata divina? Sed non erat unde facere
infirmus fortia, parvulus magna: aperuit os, confitens quod per se non faceret,
et attraxit unde faceret: aperuit os petendo, quaerendo, pulsando; et sitiens
hausit Spiritum bonum, unde faceret quod per seipsum non poterat».
[35] Perilypos
in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, a cura di H. Balz e G. Scneider, Paideia, Brescia
2004, c. 898.
[37] Origene, I Princìpi, I, Prefazione, 1, Utet, Torino 2002, pp. 118-119;
CF. H. Crouzel, M. Simonetti, Origène, Traité des Principes, Sources Chétiennes, 252.253.268.269.312, Paris
1978.1984.
[41] M. A. Cassiodoro, Expositio in psalmos, XVII,17, Corpus christianorum, serie latina, XCVII
(I-LXX), Brepols, Turnholti 1958, p. 158.
[43] PG 80, 895 B.
[44] A. Agostino, Enarrationes in Psalmos, CI,I,1 PL 37, 1293-1294. In realtà la sua esitazione
sembra avere una motivazione pedagogica. Vuole far capire ai suoi ascoltatori
che in qualche salmo alcuni versetti possono prefigurare la vicenda di Gesù, ma
altri riguardano direttamente noi perché non tutto ciò che lì si dice può
essere attribuito a Gesù.
[45] Prospero d’Aquitania, Poesia davidica, Città nuova, Roma 1996, p. 34: «Iste ergo pauper
Christus est (qui formam servi accipiens, nostra indutus est paupertate: et cum
sit mediator Dei et hominum, homo Christus Jesus, idem est in humilitate
corporis, qui est in gloria Patris, ut quorum suscepit naturam, exequatur et
causam). Ne avertas autem faciem tuam a me, dicit pro humilitate membrorum. Nam
quando Pater a Filio, quando Deus averteretur a Christo? Et ideo petit se in
quacumque die tribularetur, exaudiri: quia pietas capitis cum omni corporis
portione compatitur; et labor omnium, qui et locis et temporibus variatur,
numquam sine illo est, qui omnium miseretur», PL 61, 279 B-C.
[47] «Hic pauper sine nomine introducitur ad loquendum;
scilicet ut cum uni datur, omnes sibi pauperes Christi conoscerent attributum»,
Expositio psalmorum, CI,1, cit., p. 897.
[48] «Omnis autem homo in eo pauper est, in quo alieno
indiget servitio. Est igitur haec oratio omnium illorum, qui in suis
necessitatibus divinum auxilium implorant», Expositio in psalmos, CI PL 164, 1081 C.
[49] Atanasio d’Alessandria, Explanationes in Psalmos, 44,10 PG
27 212 BC. [èchei dè kaì èteron imàtion lampròteron, ton Christòn autòn]
[50] Eusebio di Cesarea, Commento ai Salmi/1, Città Nuova, Roma 2004, p. 312 : Explanatio in
Psalmos, PG 23 401 C: «Τίς δ' ἂν εἴη αὐτὴ ἀλλ' ἢ πᾶσα
καθολικὴ Ἐκκλησία, ἡ ἀπὸ περάτων γῆς ἕως περάτων ἐκ πάντων ἐθνῶν
συνειλεγμένη; ἣν αὐτὸς ἑαυτῷ
ᾠκοδόμησεν ἐπὶ τὴν πέτραν, πρὸς τὸ μὴ πύλας ᾅδου κατισχύειν αὐτῆς».
[51] Ut supra.
[52] «Omnis anima fidelis... sciat qualem illi in terris debeat
exhibere reverentiam, quam in caelo sic intelligit honoratam», Expositio
psalmorum, XLIV, 10, cit., pp.
409-410.
[53] Cirillo Alessandrino, a sua volta, vede nella Regina
la Chiesa universale: «Benché disperse per tutto il mondo, [il samista] dice
che le Chiese sono unica realtà, perché tutte appartengono all’unico Cristo,
confessano la medesima fede, e un solo battesimo. Non sono scisse da divisioni
nella dottrina e perciò, per quanto siano molto numerose, vengo considerate
come una sola cosa» : Explanatio in Psalmos, 44,10 PG 69, 1042 C : «Dispersae per universum orbem
Ecclesias, nunc unam appelat, propterea quod ad unum Dominum pertinent, unam
habent fidem, unumque pariter salutare baptismum. Non enim ambiguitate
dogmaticum scinduntur; ita ut, quamvis sint innumera, una tamen appeletur».
[54] Girolamo, Lettere XII,1, vol. I, Città Nuova, Roma 1983, p. 173: «Deus ad
animam loquitur humanam, ut secundum exemplar Abrahae, exiens de terra sua, et
de cognatione sua, relinquat Chaldeos qui quasi daemonia interpretantur, et
habitet in regione viventium», PL 22, 88, c. 394.
[59] Eusebio di Cesarea, Commento ai Salmi/1, p. 317: Commentaria in Psalmos,
45,5 PG 23 408 D : «Θεοῦ
δὲ πόλις τὸ τῶν κατὰ Θεὸν πολιτευομένων σύστημα· …ἥτις, τὸν οὐράνιον ἔχουσα
λόγον πηγάζοντα ἐν αὐτῇ καὶ ἀνομβροῦντα, πάσης θεϊκῆς εὐφροσύνης πληροῦτα».
[64] Eusebio di Cesarea, Commento ai Salmi/1, p. 317: Commentaria in Psalmos, 45,6 PG 23 409 B : «Ἕτερος δὲ πάλιν φησίν· Οἶμαι αὐτὸν αἰνίττεσθαι
τὰς πρωϊνὰς συνόδους, ἐν αἷς εἰώθαμεν κατὰ τὰς ἁπανταχοῦ γῆς ἐκκλησίας
συγκροτεῖσθαι. Καὶ ἄλλως δὲ διεγείρει ἡμᾶς τὸ λόγιον καὶ παρορμᾷ ἐπὶ τὰς
ἑωθινὰς προσευχάς· ἵν' ὥσπερ τὰς ἀπαρχὰς τῆς ἑαυτῶν ζωῆς ἀναφέροιμεν αὐτῷ· κατὰ
γὰρ τούτους τοὺς καιροὺς ἀτάραχος οὖσα μάλιστα κεκαθαρμένη διάνοια, ἱερέως
τρόπον λειτουργεῖν εἴωθε τῷ Θεῷ».
[66]
Teodoreto di Cirro, Interpretatio in Psalmos,
Praefatio, PG 80 858 A : «Τῇ
γὰρ ἡδονῇ τῆς μελῳδίας τὴν ὠφέλειαν ἡ θεία χάρις κεράσασα, τριπόθητόν τε καὶ
ἀξιέραστον τοῖς ἀνθρώποις διδασκαλίαν προτέθεικε. Καὶ ἔστιν ἰδεῖν τῶν μὲν ἄλλων
θείων Γραφῶν ἢ οὐδαμῶς, ἢ ὀλίγα, τῶν ἀνθρώπων μεμνημέ νους τοὺς πλείστους· τῶν
δὲ πνευματικῶν τοῦ θεσπεσίου Δαβὶδ κρουμάτων πολλοὺς πολλάκις κἀν ταῖς οἰκίαις,
κἀν ταῖς ἀγυιαῖς, κἀν ταῖς ὁδοῖς ἀπο μεμνημένους, καὶ τῇ τοῦ μέλους ἁρμονίᾳ
σφᾶς αὐτοὺς καταθέλγοντας, καὶ διὰ ταύτης τῆς θυμηδείας καρπουμένους τὴν
ὠφέλειαν»(TLG 7-9 di 393-466).
[67] Atanasio di Alessandria, L’interpretazione dei
Salmi, Ad Marcellinum in
interpretationem psalmorum, Testi dei
Padri della Chiesa 14, Qiqajon, Magnano 1995: PG 27,12-45.
[68] Atanasio, L’interpretazione dei Salmi, 1, cit. p. 11 : PG 27,12 A: «ἔμαθον πρὸς μὲν πᾶσαν τὴν θείαν
Γραφὴν ἔχειν σε τὴν σχολὴν, πυκνότερον δὲ μάλιστα τῇ βίβλῳ τῶν Ψαλμῶν
ἐντυγχάνειν, καὶ φιλονεικεῖν τὸν ἐν ἑκάστῳ ψαλμῷ νοῦν ἐγκείμενον καταλαμβάνειν».
[69] Atanasio, L’interpretazione dei Salmi, 2, cit. p. 11 : PG 27 12 C: «Ἡ δέ γε βίβλος τῶν Ψαλμῶν, ὡς
παράδεισος τὰ ἐν αὑτῇ φέρουσα μελῳδεῖ, καὶ τὰ ἴδια δὲ πάλιν μετ' αὐτῶν ψάλλουσα
δείκνυσι».
[71] Atanasio, L’interpretazione dei Salmi, 10, cit. p. 17 : PG 27, 20 C: «πρὸς γὰρ τοῖς ἄλλοις, ἐν οἷς
πρὸς τὰς ἄλλας βίβλους ἔχει τὴν σχέσιν καὶ κοινωνίαν, λοιπὸν καὶ ἴδιον ἔχει
τοῦτο θαῦμα, ὅτι καὶ τὰ ἑκάστης ψυχῆς κινήματα, τάς τε τούτων μεταβολὰς καὶ
διορθώσεις ἔχει διαγεγραμμένας καὶ διατετυπωμένας ἐν ἑαυτῇ».
[72] Atanasio, L’interpretazione dei Salmi, 10, cit. p. 18 : PG 27, 21 B: Καὶ ἐφ' ἑκάστου δέ τις οὕτως ἂν
εὕροι τὰς θείας ᾠδὰς, πρὸς ἡμᾶς καὶ ἡμῶν κινήσεις καὶ καταστάσεις κειμένας.
[73] Atanasio, L’interpretazione dei Salmi, 11, cit. p. 18 : PG 27, 21 C: συνδιατίθεται τοῖς τῶν ᾠδῶν ῥήμασιν,
ὡς ἰδίαν ὄντων αὐτοῦ.
[77] I Padri esicasti, L’amore della quiete. L’esicasmo
bizantino tra il XIII e il XIV secolo,
Edizioni Qiqajon, Magnano 1993, p.71.
[84] Cf. Atanasio, L’interpretazione dei Salmi, 10, cit. p. 17 : PG 27 20 C «ἴδιον ἔχει τοῦτο θαῦμα, ὅτι καὶ τὰ ἑκάστης ψυχῆς κινήματα, τάς τε τούτων
μεταβολὰς καὶ διορθώσεις ἔχει διαγεγραμμένας καὶ διατετυπωμένας ἐν ἑαυτῇ».
[85] Atanasio, L’interpretazione dei Salmi, 23 cit. p. 28 : PG 27 36 B «τότε γὰρ παραδοθεὶς ὁ Κύριος ἐκδικεῖν ἤρξατο τὴν
κατὰ τοῦ θανάτου δίκην, καὶ θριαμβεύειν αὐτὸν παῤῥησίᾳ».
[86] Interpretazione analoghe in Bruno di Würzburg (Bruno
Herbipolensis): «Perfectum est odium,
homines dirigere, et eorum vitia sempre odire», Expositio Psalmorum, PL 141 500
D; Remigio d’Auxerre (Remigius Antissiodorensis), Enarrationes in Psalmos, PL 131 809 A-B; Bruno di Colonia (Bruno
Carthusianorum), Expositio in
psalmos, PL 152 1371 B.
[87] Atanasio, L’interpretazione dei Salmi, 25, cit. pp. 28-28: PG 27 37
A : «Ἐχθρὸς τύραννος ἐπανέστη τῷ λαῷ
καί σοι, ὥσπερ Γολιὰθ τῷ Δαβὶδ, μὴ πτήξῃς· ἀλλὰ πίστευε καὶ σὺ, ὡς ὁ Δαβὶδ, καὶ
λέγε τὰ ἐν τῷ ρμγʹ».
[88] Bruno di Segni, Expositio in Psalmos, CXLIII, PL 164 1211 B : «Praelium David adversus
Goliath, praelium Ecclesiae adversus diabolum significat, qui, quamvis
potentissimus esse videatur, quotidie tamen a Cristiano popolo prosternitur,
conculcatur er jugulatur».
[89] Cf. Bruno di Segni, Expositio in Psalmos, CXLIII, PL 164 1211 C. Interpretazioni analoghe in
Remigio d’Auxerre, Enarrationes in Psalmos, PL 131 823 B; Bruno di Colonia, Expositio in psalmos, PL 153 1389 C.
[90] Bernardo, Liber ad milites templi. De Laude novae
militiae, XIII (De Bethania), 31, Pl
182 940 B.
[91] Progresso in Origene. Dizionario, a cura di Adele Monaci Castagno, Città Nuova, Roma
2000, pp. 379-392.
[92] Cfr.
Cirillo Alessandrino, PG 1027 A-B
[93] «Πνευματικοῖς γὰρ ἐντρεφόμενος λόγοις, τοιαύτας ἐρυγὰς ἀναπέμπω, καὶ
τοιούτους λόγους προΐεμαι», Interpretatio in Psalmos, PG 80, 1188 C.
[94] Martin M.
Linter, La riscoperta dell’eros, EDB,
Bologna 2015, 54-63.
[95] Teodoreto, Storia
del monaci della Siria, Messaggero, Abbazia
di Praglia, Padova1986, p. 53.
[96] Interpretatio in Psalmos, PG 80 1192 C : Μέτοχοι δὲ αὐτοῦ εἰσὶ, καὶ ἑταῖροι, καὶ ἀδελφοὶ,
κατὰ τὴν
ἀνθρωπότητα, οἱ πιστεύσαντες. Οὕτω
καὶ ὁ θεῖος
Ἀπόστολος λέγει, Μέτοχοι γὰρ
γεγόναμεν τοῦ Χριστοῦ,
ἐάνπερ τὴν
ἀπαρχὴν τῆς
ὑποστάσεως μέχρι τέλους βεβαίαν κατάσχωμεν. Καὶ πάλιν, Εἰς
τὸ εἶναι αὐτὸν
πρωτότοκον ἐν πολλοῖς ἀδελφοῖς. Οὕτω
καὶ τῷ παναγίῳ
κέχρισται Πνεύματι, οὐχ
ὡς
Θεὸς, ἀλλ'
ὡς
ἄνθρωπος. Ὡς
γὰρ Θεὸς,
ὁμοούσιον ἔχει τὸ Πνεῦμα· ὡς δὲ ἄνθρωπος, οἷόν
τι χρίσμα λαμβάνει τοῦ Πνεύματος τὰ χαρίσματα. Οὕτω
καὶ ἠγάπησε δικαιοσύνην, καὶ ἐμίσησεν ἀνομίαν. Γνω μικῆς γὰρ
ταῦτα αἱρέσεως, οὐ φυσικῆς δυνάμεως· ὡς δὲ Θεὸς,
ῥάβδον εὐθύτητος ἔχει τὴν
ῥάβδον τῆς
βασιλείας.
[98] Magno
Aurelio Cassiodoro, Expositio Psalmorum,
LXII,2 Corpus christianorum, serie latina, XCVII (I-LXX) Brepols, Turnholti
1958, p. 550.
[99] Ut supra. L’orante
assetato rappresenta la Chiesa «quod dilucolo ad Dominum vigilat Ecclesia»: già
alla prima luce del giorno, la Chiesa è intenta al Signore. È l’ora che ricorda la Resurrezione del Signore,
quando, in unità con quella, tutta l’umanità riprende vita.
[100]
«Sitit ergo anima fidelium Deum, quando mandata eius et virtutes eximias
concupiscit…».
[101]
Eusebio di Cesarea, Commentaria in Psalmos,
PG 23, 605 B.
[102]
«Nisi quis primo sitiat in isto deserto, id est malo in quo est, numquam
pervenit ad bonum quod est Deus», PL 36, 753 (9)
[104]
Eusebio di Cesarea, Commentaria in Psalmos
PG 63, 605 B. [Analoga interpretazione in Atanasio PG 27, 277 C].
[106]
Ilario di Poitiers, Commento ai Salmi/1, Città
Nuova, Roma 2005, p. 329.
[107]
Cassiodoro Expositio pasalmorum/I,
LXII,4.
[108]
Cirillo d’Alessandria, Explanatio in Psalmos, PG 63, 1121 C.
[109]
Teodoreto di Cirro, Interpretatio in Psalmos, PG 80, 1337 C.
[112]
Cassiodoro LXXII,9 p. 553.
[113]
Niceta Stethatos, II Seconda Centuri, Capitoli
naturali, 77, Filocalia 3, Gribaudi, Torino 1985.
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