lunedì 8 ottobre 2012

INNO ALL'AMORE (1 Cor 13)

Eremo del Garda da Sirmione
Leggendo o rileggendo ICor 13 non si può rimanere indifferenti. I paradossi appassionati della prima parte (13,1-3), l'esaltazione lirica della seconda (13,4-7), la prospettiva suggestiva e misteriosa che si apre verso la vita futura nella terza (13,8-13) esercitano su qualunque lettore un fascino che coinvolge e trascina. L'amore di cui tutto il brano ci parla appare in una prospettiva altissima, ma non lontana: si ha la sensazione netta di essere proprio noi i protagonisti attivi del brano, come se l’autore ci avesse letto dentro. Ci si sente compresi e in profondità nelle nostre aspirazioni più belle. Il brano è, indubbiamente, una delle pagine più vive e più sentite di tutto il nuovo testamento. Non fa meraviglia di sentirlo denominare un inno, addirittura un inno da primo amore. Ma Paolo non lo chiama così: «Vi mostro una via ancora di gran lunga migliore» (12,31b).

Il brano è, per lui, una «via», una pista da percorrere, come suggerisce, tra l'altro, la sua preferenza spiccata per l'immagine del cammino che egli dettaglia ed elabora con cura — parla appunto di «via», parla di «camminare», «correre», «inseguire» — per esprimere il dinamismo della vita pratica cristiana. L'amore per Paolo non è un bene che il cristiano possa credere di avere conseguito: è un valore da conquistare faticosamente, una meta da raggiungere. L'amore, insomma, è davvero un cammino e un cammino in salita.

A) AMORE PER L'UOMO CHE È AMORE DI DIO
Ma quale amore? È una domanda che si pone subito, fin da un primo contatto col brano, e alla quale, proprio per una comprensione adeguata, occorre tentare di dare una risposta. Si tratta, indubbiamente, dell'amore di cui è soggetto attivo il cristiano. Fin dalla prima espressione Paolo indica, senza mezzi termini, che l'amore di cui sta parlando compete a lui — e a ogni cristiano, come avremo modo di vedere approfondendo — come un elemento irrinunciabile. Soggetto attivo di amore, Paolo ama Dio e ama i fratelli. Non si tratta di strati diversi. Tutte le volte che Paolo usa «amore» (agape), «amare» (agapao) o altri termini affini ci da costantemente l'impressione netta di riferirsi a una globalità unitaria. Dio — si direbbe — non vuole essere amato da solo: ci chiede, se amiamo lui, di amare anche gli uomini, con lo stesso movimento di amore. E, d'altra parte, gli uomini non potrebbero essere amati seriamente da soli con un amore così coinvolgente. Una pura filantropia si arresta sulla soglia dell'amore cristiano. C'è un di più che spinge ad amare fino ad espropriarsi di sé, giungendo fino al dono della vita. Si raggiunge così un massimo, si sfiora un assoluto: siamo sulla linea di Dio.
Ma come è realisticamente possibile e come si spiega che un amore che parte in direzione di Dio debba discendere anche agli uomini, rimanendo sostanzialmente lo stesso amore, e, d'altra parte, un amore che parte in direzione dell'uomo riesca a raggiungere l'assoluto di Dio?
La risposta a questa domanda ci porta a un approfondimento. Il cristiano può amare a questo livello, perché Dio gli ha seminato nel cuore il suo stesso tipo di amore tramite il dono dello Spirito. È lo Spirito di Dio e di Cristo che, presente e attivo nella vita del cristiano, lo forgia e perfeziona dal di dentro. I tentativi di amore del cristiano non rimangono, così, a un livello dilettantesco e neppure
corinti la via per eccellenza dell'amore: i corinti sono gli ascoltatori ai quali è indirizzato il discorso. Ma Paolo non vuole fare un'esposizione astratta della via dell'amore. Per dimostrarla davvero, per renderla evidente al massimo, Paolo sposta l'attenzione su se stesso. I corinti sono al corrente di tanti dettagli della sua vita, lo conoscono di persona, lo stimano e lo ammirano. Paolo accetta il loro apprezzamento perché — lo sa bene lui come lo sanno i corinti — tale apprezzamento non si ferma a lui. Poche pagine prima ha scritto: «Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo» (ICor 11,1).
L'apprezzamento dei corinti è funzionale a loro vantaggio. Apprezzando Paolo, guardando alla sua vita, alla sua «via», essi trovano la «via» di Cristo. Che cosa apprezzano i corinti in Paolo? C'è in lui tutta una ricchezza di «doni di grazia». Paolo li ha chiamati poco prima charìsmata, «carismi», nel senso preciso di una benevolenza di Dio, chàris, che si è concretizzata in doni. Questi doni sono presenti come risultato nella persona che ne è portatrice. I doni di grazia concentrati in Paolo dovettero fare un'impressione enorme. Come lui stesso riconosce. Paolo aveva il cosiddetto «dono delle lingue», la «glossolalia»: sotto un influsso speciale dello Spirito, riusciva a esprimersi nell'assemblea in lingue sconosciute, che, proprio come tali facevano pensare a una comunicazione particolare con tutto il mondo di Dio, come se Paolo, uomo, parlasse anche le lingue «degli angeli». Non solo: Paolo aveva anche il dono della «profezia»: sapeva leggere nei cuori e parlare in nome di Dio; poteva riconoscere di avere avuto delle rivelazioni speciali, di averle penetrate, di essersi addentrato davvero nel mondo proprio di Dio. Più di una volta, specialmente quando vi sarà costretto dalla pressione indiscreta dei suoi avversar!, lo affermerà senza mezzi termini (cf. 2Cor 12,1-6). Era nota anche la sua fede, un
altro dono speciale di Dio, che permetteva a Paolo una visione tutta nuova e diversa del mondo, come se davvero avesse spostato le montagne: tale fede aveva trovato la sua espressione anche in prodigi veri e propri, come la guarigione dello storpio a Listra (cf. Atti 14,8-9), la risurrezione del giovinetto di Troade (cf. At 20,7-10). Soprattutto era nota la dedizione di Paolo al suo ministero proprio senza risparmio, in un contesto ricco di contrasti, di opposizioni, di difficoltà a non finire che costituivano quell'insieme di pressioni moleste che Paolo chiama «tribolazioni» (thlìpseis). Paolo, lungi dall'esserne schiacciato, le accetta e arriva perfino a gloriarsene (cf. 2Cor 11,23-30).
Tutto questo però non è il ritratto completo di Paolo. È solo la parte di lui, che era rilevabile dall'esterno, quella che più impressionava, ma non certo la più importante. C'è, dietro a tutti questi particolari, una dimensione segreta che li rende validi e senza la quale sarebbero tutti privi di significato. Il segreto di Paolo, della sua «via», come era stato il segreto della «via» di Gesù, è l'amore.
Tutti questi doni esaltanti, qualora si potessero realizzare in concreto a prescindere dall'amore, si risolverebbero in meno che niente. Anche il più vistoso di essi, la glossolalia, diventerebbe addirittura il suo contrario: lo strepito grottesco di alcuni strumenti di culto pagano:
pezzi di bronzo o tamburi che venivano percossi rumorosamente per impressionare la divinità.
Ne emerge una conclusione, ribadita e inculcata dal ritmo martellante delle quattro frasi tutte costruite con il medesimo schema letterario a tre elementi (1. se ho...; 2. ma non ho l'amore; 3. sono, ho nulla): l'amore è talmente necessario e determinante che, senza di esso, l'attività ecclesiale più brillante, anche quella di un apostolo come Paolo, si dissolverebbe nel nulla.
Ma come si esprime, come si realizza quest'amore?

2. la FISIONOMIA DELL'AMORE
Paolo sente il bisogno di dare subito una risposta a questa domanda che emerge spontanea proprio dalla sua esposizione.
«L'amore è longanime, è costruttivo l'amore» (13,4a).
È un'affermazione di principio che abbraccia in sintesi tutti i tratti tipici dell'amore cristiano. Merita di essere adeguatamente approfondita.
Paolo tiene presente, certo, la sua esperienza e quella della comunità a cui scrive, ma il suo discorso non è più riferito a se stesso come nella parte del brano che abbiamo esaminata. È un messaggio davvero universale, valido per tutti i luoghi e tutti i tempi.
L'amore è «longanime», letteralmente «ha un cuore grande» (makro-thyméi) 3 Come ci mostrano degli esempi interessanti che troviamo nella traduzione greca dell'AT, il verbo usato da Paolo esprime l'atteggiamento di bontà, di comprensione, di attesa e pazienza usato da Dio nei riguardi del popolo. È un tratto tipico dell'amore di Dio. Ed è un tratto tipico dell'amore di Cristo, che, nel vangelo, invita ad andare a lui, pronto sempre ad accogliere tutti.
Ma questa «grandezza di cuore» è solo il primo passo. Una volta che la persona dell'altro è stata accolta, si pone il problema di come migliorarla. È la parte costruttiva dell'amore che cerca l'utilità della persona. L'accoglienza permette un contatto in profondità, la bontà costruttiva si rende dono; l'accoglienza si realizza ad apertura completa di cuore, la bontà costruttiva esige una comprensione attenta, «induttiva», della persona al didentro della sua identità, per evitare il rischio di imporle degli schemi prefabbricati. Tale comprensione coinvolge la persona protagonista di amore in tutte le risorse: l'intelligenza, la creatività, la fantasia. Così come fa Dio: è lui che ci capisce fino in fondo, che ci ha progettati, ideati nel suo amore (Cf. Rm 8,28-30). Egli, che solo è buono, tende a costruirci momento per momento nella nostra vera identità. Realizzati in pieno in questa identità, saremo la sua gioia.
Paolo sente però il bisogno di una esemplificazione dettagliata. La lunga esperienza di vita ecclesiale gli ha insegnato ripetutamente quanto è facile illudersi di amare, anche quando se ne ha la buona volontà sincera. Occorre verificare la buona volontà su una serie di parametri concreti. Anzitutto si deve fare attenzione a ciò che l'amore non è, sfrondando così la scelta di fondo da quelle che ne sarebbero delle attuazioni illusorie o addirittura delle negazioni.
«(L'amore») non è invidioso, non gira a vuoto, non si gonfia, non va fuori posto, non cerca il proprio vantaggio, non si esaspera, non tiene conto del male, non si rallegra dell'ingiustizia, ma gode insieme della verità» (13,4-6).
È un prontuario di verifica davvero impegnativo, e, in più di un punto, tagliente. La bipolarità dell'amore del cristiano che abbiamo visto più sopra e che gli permette di partire o in direzione dell'uomo o in direzione di Dio ma senza arrestarsi ne all'uno ne all'altro, illumina e precisa — avremo modo di constatarlo subito — i dettagli di questo prontuario.
La scelta di fondo dell'amore non è compatibile con qualunque forma di invidia o gelosia: il bene degli altri non è un limite per la persona che ama. Al contrario:
costituisce, accolto ed amato, un arricchimento. Si somma col bene che già possediamo, ci rende gioiosi e ci libera. La gelosia invidiosa — intesa nel senso indicato — agli antipodi dell'amore di Dio. Dio ama donando, donando gratuitamente, felice di donare. Il nostro amore, per essere davvero sulla linea di Dio, dovrà fare altrettanto. E non si può amare Dio senza quest'apertura gioiosa, all'infinito, che ci rende entusiasti di lui.
L'amore non gira a vuoto. È una sferzata dura contro qualunque forma di dilettantismo. Quando l'amore si disperde in parole, quando si fa qualcosa per l'altro, giusto per fare qualcosa, quando in ultima analisi l'amore si risolvesse in hobby, saremmo agli antipodi dell'amore di
Cristo che ci chiede di amare come egli ha amato. Ed ha amato donando la propria vita. Quando parte in direzione di Dio, l'amore richiede l'accettazione e l'esecuzione della sua volontà. Il verbalismo di chi si limitasse a dire:
«Signore, Signore» porrebbe il cristiano nella categoria degli «operatori di iniquità» (cf. Mt 7,21-23).
L'amore non si gonfia. Si tratta di un'immagine cara a Paolo che la usa anche altrove.4 Nel nostro contesto, puntualizza un rischio a cui va incontro l'amore ed è la consapevolezza compiaciuta di se stesso. È Patteggiamento di chi prova ad amare anche sinceramente, ma ha bisogno di dirselo e di dirlo. È un'insidia sottile. Un amore del genere non riesce a diventare completamente transitivo. Raggiunge l'altro ma per ritornare al punto di partenza. Allora non merita neppure il nome di amore: è solo una forma mimetizzata e sofisticata di ricerca di sé che si muove nel circolo chiuso del proprio egoismo.
L'amore, inoltre, non è fuori posto, non è sregolato. Il termine usato (askèmonéi) si può riferire a sregolatezze sessuali che certo non erano infrequenti a Corinto. Si tratta, nel caso, di un amore che va fuori strada in misura vistosa. Ma il contesto dice di più: c'è una sregolatezza più sottile, meno appariscente, ma che rimane sempre una limitazione, quando l'amore, anche sincero, non tiene debitamente conto di tutti gli aspetti, delle esigenze della persona che si ama. È l'amore intempestivo, che vuole dare tutto e subito, un amore che opprime, che non sa aspettare, che non sa tacere. Nei riguardi di Dio, l'amore esce dal suo binario e diventa «sregolato» quando ne dimentica la trascendenza, quando banalizza Dio attendendosi da lui una risposta immediata e fatta su misura dell'uomo. Amare Dio significa, invece, sapere attendere, anche nel silenzio e nel buio, il suo momento: significa correre fino in fondo il «rischio» di Dio.
L'amore non cerca il proprio vantaggio (lett. «ciò che è proprio»), È un'affermazione evidente a prima vista, ma
che Paolo giudica opportuno richiamare. L'egoismo è il limite più serio di ogni amore, fino a costituire una negazione radicale, quella dell'uomo che prende se stesso come il proprio assoluto e diventa, nella terminologia caratteristica di Paolo, l'uomo-carne.5 Se il cristiano si lascia guidare dallo Spirito, è al di là del rischio di cadere nella carne nel senso radicale. Ma c'è anche una carne in senso minore: consiste nell'amare se stessi sia in Dio che negli altri. Amare Dio perché gratifica, amare gli altri perché ci fa comodo. Certo l'amore perfeziona l'uomo al punto da costituire il massimo della sua realizzazione: «Dio è amore» (IGv 4,16). Ma l'amore che perfeziona l'uomo e porta i tratti di Dio e di Cristo è un amore gratuito. L'uomo non potrà non essere felice di amare, ma lo sarà davvero in proporzione diretta dell'oblatività gratuita del suo amore.
L'amore non si esaspera, non arriva a quelle posizioni frettolosamente rigide e intransigenti che sono solo una copertura del nostro egoismo. La costruttività, caratteristica di fondo dell'amore del cristiano, gli richiede una capacità di attesa, serena e fiduciosa, nel rispetto cordiale del ritmo di crescita di ogni persona.
L'amore deve evitare di tendersi anche nei riguardi di Dio. Qualunque atteggiamento frettoloso, l'impazienza che ci porta a porre a Dio delle scadenze, tutto questo abbassa il livello della nostra fede, che esige un abbandono totale. L'amore verso Dio ci chiede di accogliere cordialmente Dio come è, non come lo vorremmo noi, programmandolo su nostra misura.
L'amore non tiene conto del male. Il male — si parla del male morale che deriva dalla malizia dell'uomo — è un fatto che, come tale, non può essere ignorato ne sottovalutato. L'amore del cristiano non chiude gli occhi davanti al male, qualunque forma questo possa assumere, ma non ne tiene conto, non si lascia determinare da esso. È l'amore proprio di Dio che «fa alzare il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). È l'amore di Gesù che
prega per i suoi crocifissori (cf. Lc 23,34). Paolo scrivendo ai romani riassumerà quest'atteggiamento costruttivo dell'a-more in una delle sue espressioni più belle: «Non ti far vincere dal male, ma vinci il male col bene» (Rm 12,21).
C'è un'ultima degenerazione dell'amore che Paolo segnala, sottolineando nello stesso tempo l'aspetto positivo corrispondente: l'amore non si rallegra dell'ingiustizia, ma condivide la gioia della verità. Sia l'«ingiustizia» che la «verità» toccano qui il rapporto dell'uomo con Dio. L'amore del cristiano, proprio perché partecipe di quello di Dio, tende a portare a Dio. Tutto ciò allora che, anche con l'apparenza immediata e tangibile del piacere e dell'ebbrezza, mette l'uomo in un rapporto sbagliato, di spareggio, di ingiustizia nei riguardi di Dio, tutto ciò che oggettivamente è male, che è «peccato» anche sotto l'aspetto illusorio della gioia, non sarà mai condiviso dal cristiano. Mentre l'amore del cristiano sarà costantemente aperto a condividere nei fratelli gli elementi costruttivi che lo portano a Dio e lo mettono in sintonia con lui. Tutto quello che appartiene alla «verità» dell'altro, intesa in questo senso profondo di rettitudine che unisce e collega l'uomo con Dio, non potrà lasciare il cristiano indifferente. Avrà la gioia di sentire suo e di condividere tutto quello che c'è di veramente positivo e che, proprio come tale, rientra nel quadro della verità di Dio.
B) L'ONNIPOTENZA DELL'AMORE
Come abbiamo avuto modo di constatare ripetutamen-te, il prontuario di verifica contiene a ogni dettaglio un qualche risvolto positivo. Dicendo ciò che non è l'amore, Paolo vuole mettere in evidenza, sottolineare per contrapposizione ciò che è. C'è un movimento, quasi una accelerazione in questa linea, e il discorso si sposta, anche letterariamente, dall'aspetto negativo a quello di una proposta positiva affascinante:
(«L'amore»)
sostiene tutto crede tutto spera tutto
attende tutto» (13,7)
II ritmo incalzante della frase, l'insistenza ripetuta sulla totalità — per ben quattro volte troviamo «tutto» (panta) — tradiscono un'emozione che Paolo quasi non riesce a contenere. Siamo al vertice lirico di tutto il capitolo. Ma l'espressione, analizzata da vicino nel suo contenuto, si presenta tutt'altro che facile: che significa — viene subito da chiedersi — e a chi si riferisce la capacità di una sopportazione, di una fede, di una speranza, di un'attesa senza limiti sempre a tal punto collegate con l'amore, da esserne addirittura dipendenti?
La struttura letteraria del versetto ci fornisce un primo orientamento. Esiste una corrispondenza, anche se non proprio una sinonimia, tra la prima e l'ultima frase:
«sopportare» (stégei) e «attendere» sotto pressione (hypo-ménei) si richiamano a vicenda. Tra le due frasi troviamo: «tutto crede» e «tutto spera». Ne deriva una precisazione per quanto riguarda il movimento del pensiero: la constatazione di una certa onnipotenza dell'amore nella sopportazione delle difficoltà sfocia nel campo della fede e della speranza; dalla fede e dalla speranza, alimentate dall'amore, deriva la capacità di attesa. La fede e la speranza occupano un posto centrale nella struttura del versetto. Quando si parla in Paolo di fede e di speranza ci si riferisce direttamente a Dio. L'amore, allora, che da alla fede e alla speranza la loro rispettiva pienezza, sarà anzitutto un amore che parte in direzione di Dio. Solo amando Dio con tutto il cuore, con tutte le nostre forze potremmo credere pienamente in lui, affidarci a lui senza riserva, aspettare con una fiducia incrollabile l'adempimento delle sue promesse. Anche nel rapporto con Dio la logica dell'amore è l’unica che persuade fino in fondo.
Preso da questo amore, che gli da la forza e la capacità
di credere e di sperare pienamente, il cristiano sarà anche in grado di sopportare ed attendere. E viceversa: più il suo amore si consoliderà nella sopportazione e nell'attesa, più la sua fede e la sua speranza diventeranno solide. L'amore è davvero un coefficiente che moltiplica tutto.
Anche se l'amore parte qui nella direzione di Dio, non si arresta a lui. Amando Dio e quindi credendo, sperando pienamente in lui, sopportando e attendendo, s'impara ad amare anche l'uomo. L'apertura totale e incondizionata della fede a un Dio «totalmente diverso» alimentata dall'amore, la capacità di sperare «contro ogni speranza» (cf. Rm 4,17) anch'essa alimentata dall'amore, dilata il cuore abilitandolo ad un amore che non conosce limiti. Quando l'uomo ha imparato ad amare un Dio che gli riserva sempre delle sorprese, quando si è sensibilizzato alla «novità» di Dio accolta e desiderata, allora è in grado di guardare gli altri uomini con un amore forgiato su misura di Dio.
Questo amore non darà al cristiano un atteggiamento di faciloneria credulona, che ignora le debolezze e difficoltà. Rimanendo sempre sul terreno solido della concretezza il cristiano prenderà coscienza, ammaestrato dalla sua esperienza dell'amore di Dio, che anche la persona umana ha un suo tipo di infinito e non cessa mai di sorprendere. Soprattutto si accorgerà con gioia della capacità creativa dell'amore. La persona sa dare il suo meglio, quando si sente amata.
L'amore induce a credere e a sperare nell'uomo senza gli schemi di limiti precostituiti: è pronto ad accogliere la «sorpresa» dell'uomo avendo imparato ad accogliere la «sorpresa» di Dio.
Allora acquistano un significato preciso e stimolante anche la prima e l'ultima delle quattro frasi del versetto riferite all'amore dell'uomo. Se uno crede e spera nell'uomo, saprà «sopportare», con lo stesso amore con cui crede e con cui spera, le sue debolezze e le difficoltà dell'ambiente in cui vive. Saprà anche «attendere», senza fretta e con lungimiranza, quei frutti migliori che l'uomo, amato davvero, un giorno darà.
Si ritrova anche in questo versetto la bipolarità nell'amore — direzione Dio, direzione uomini — che abbiamo rilevate a più riprese. Mai, però, come qui la bipolarità diventa unità: l'amore che tutto sopporta, tutto crede, tutto spera, tutto attende coinvolge, in un unico giro, sia l'uomo che Dio.
CONCLUSIONE: L'AMORE «NON CADE MAI»
A questo punto Paolo ha ùn'intuizione ardita: proprio perché sfiora l'assoluto di Dio, l'amore non può venir meno. Paolo pensa al traguardo finale. Ci sarà indubbiamente, anche nell'ambito dell'amore, una maggiorazione, ma, mentre tutti gli altri elementi tipici della vita ecclesiale di adesso — il dono delle lingue, la conoscenza, la profezia, la stessa fede e la stessa speranza — sono destinati a scomparire quando il nostro contatto con Dio e con gli altri avrà raggiunto la sua pienezza, l'amore rimarrà. Vedendo Dio «faccia a faccia» (13,12) lo comprenderemo in pieno, lo ameremo davvero come merita. Alla luce di Dio saremo in grado di vedere «faccia a faccia» anche l'uomo che avrà raggiunto la sua identità completa. Ci sapremo comprendere reciprocamente fino in fondo, capiremo davvero chi siamo e saremo in grado di realizzare il massimo di amore anche nei nostri riguardi.
Non fa meraviglia che Paolo, dopo questa dimostrazione della via dell'amore, riprenda il discorso diretto:
«Inseguite l'amore» (14,la).
La «via dell'amore» non è facile a percorrere. Richiede un impegno dinamico, protratto e rinnovato. Occorre «inseguire» l'amore. Ma inseguire l'amore per Paolo significa, in fondo, inseguire Cristo che ci mostra e ci dona l'amore del Padre. Paolo scriverà ai filippesi riflettendo la sua esperienza e quella di ogni cristiano impegnato nella via dell'amore:
«Inseguo per afferrare per il fatto che io stesso sono stato afferrato da Cristo» (Fil 3,12).

( Ugo Vanni)

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