Introduzione
Mi sono proposto di dare risalto ad alcuni elementi più
rilevanti della spiritualità dei Padri cosiddetti apostolici, che vissero
prossimi agli apostoli e alla loro epoca. Ritorniamo in questo modo alle
sorgenti dell’esperienza cristiana e possiamo confrontarci con le prime
generazioni che hanno accolto il Vangelo. Veniamo a conoscere figure di grande
spessore spirituale (quali Clemente di Roma, Ignazio d’Antiochia o Policarpo di
Smirne) ma anche arricchirci dei pensieri raccolti da testi molto densi e
significativi, sebbene talora non ne conosciamo neppure l’identità dell’autore
che li ha redatti (ad es. Didaché, la
seconda lettera che attribuita a Clemente, la lettera a Diogneto). Non è stato facile agli studiosi fissare una data
precisa a questi scritti e neppure, talora, il luogo di provenienza. Ignoriamo
gran parte della tradizione primitiva cristiana.
Nonostante queste lacune, veniamo presi da vero stupore
per il valore di tali testimonianze e catturati dalla forte personalità degli
autori che le hanno espresse. Ammiriamo in loro ciò che già l’autore della Lettera
di Barnaba apprezzava nei suoi
interlocutori: «Vedo veramente in voi che lo spirito della sorgente
inesauribile del Signore si è diffuso su di voi» (Barn 1,3)
Di solito questi testi sono affrontati dagli studi con
intento di carattere storico o teologico. Da parte mia ho ricercato in essi
suggerimenti di carattere spirituale per vivere meglio la fede. Tuttavia non è
possibile scindere nettamente un interesse dell’altro. Trarre ispirazione dai
testi senza collocarli nel loro ambiente storico e teologico favorirebbe una
cattiva comprensione.
Prima di iniziare l’esposizione della loro dottrina
pratica, li presento in modo sintetico, suggerendo la bibliografia essenziale
di cui mi sono servito per svolgere il mio lavoro.
Didaché. Documento
del 100 circa, probabilmente proveniente dalla Siria. Scoperto nel 1873 a
Costantinopoli, è l’ordinamento ecclesiastico più antico, con due titoli (Insegnamento
dei dodici apostoli; Insegnamento del Signore alle genti per
tramite dei dodici apostoli). La Didaché si articola in quattro parti: 1. Insegnamento morale
2. Insegnamento liturgico 3. Ordinamenti della comunità 4. Messaggio
escatologico. I temi teologici introdotti, sono trattati in modo così
sintetico, al punto da rendere difficile un’unanimità d’interpretazione da
parte degli studiosi.
In Seguendo Gesù. Testi cristiani delle origini. Volume I, a cura di Emanuela Prinzivalli e Manlio
Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, 2010, pp. 3-75.
La lettera di Clemente ai Corinzi. Documento tra il 91 e 101; luogo di provenienza:
Roma. Lettera invita dalla Chiesa di Roma alla Chiesa di Corinto tramite un
redattore anonimo, attribuita concordemente a Clemente sin dall’epoca di Dionigi
di Corinto (170 c.). L’autore è interessato a ricomporre la concordia nella
comunità in seguito ad un evento traumatico, ossia la deposizione di un gruppo
di presbiteri da parte di alcuni membri più giovani della comunità.
In Seguendo Gesù. Testi cristiani delle origini. Volume I, a cura di Emanuela Prinzivalli e Manlio
Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, 2010, pp.
77-275.
Le lettere di Ignazio.
Documento del 140/150. luogo di provenienza: Asia minore. È una parte della
corrispondenza tra Ignazio d’Antiochia, in viaggio verso Roma per ricevere il
martirio, e alcune Chiese dell’Asia Minore e con il vescovo Policarpo di
Smirne. È ritenuta autentica la collezione brevis, che consta di
sette lettere. Ignazio vuole rinnovare la fede nelle comunità che stanno
definendo la loro identità rispetto all’ambiente giudaico. Sollecitare a
conservare l’unità e ad accogliere l’istituto dell’episcopato monarchico che si
stava imponendo in quel periodo.
In Seguendo Gesù. Testi cristiani delle origini. Volume I, a cura di Emanuela Prinzivalli e Manlio
Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, 2010, pp.
277-425.
Lettera e Martirio di Policarpo. La lettera viene datata tra il 107 e 117. Luogo di
composizione: Smirne in Asia Minore. Il Martirio di Policarpo è
una lettera inviata dalla Chiesa di Smirne alla Chiesa di Filomelio e ad altre
Chiese dell’Asia Minore, dopo il 23 febbraio del 167 (data probabile della
morte di Policarpo).
In I Padri Apostolici,
a cura di Carlo dell’Osso, Città Nuova, Roma 2011, pp. 129-156.
Lettera di Barnaba.
Trattato teologico in forma epistolare, risalente ai primi tre decenni del II
secolo. Luogo di provenienza probabile: Alessandria d’Egitto. Il trattato pone
la questione del rapporto tra cristianesimo e giudaismo. La fede cristiana
accoglie la spiritualizzazione delle istituzioni ebraiche (sacrifici,
circoncisione, sabato, tempio) già previste nel Primo Testamento, col rischio
però di soppiantare l’antico popolo di Dio che perderebbe ogni significato.
In I Padri Apostolici,
a cura di Carlo dell’Osso, Città Nuova, Roma 2011, pp.175-209.
Seconda lettera di Clemente ai Corinzi. Omelia risalente alla metà del II secolo. Discusso
il luogo di provenienza. L’attribuzione a Clemente è sicuramente falsa e perciò
l’autore viene indicato come Pseudo-Clemente. È la più antica predica cristiana
rivolta a dei neofiti.
In I Padri Apostolici,
a cura di Carlo dell’Osso, Città Nuova, Roma 2011, pp. 211-228.
Il Pastore di Erma.
Il documento risale alla metà del II secolo e proviene da Roma. Si tratta di
un’esortazione pressante alla conversione, in forma di visioni, precetti e
similitudini avute e divulgate da Erma, un cristiano laico, che
le avrebbe ricevute da parte di un angelo apparsogli in sembianza di un pastore
(forse una raffigurazione di Cristo stesso).
In I Padri Apostolici,
a cura di Carlo dell’Osso, Città Nuova, Roma 2011, pp. 229-335.
A Diogneto.
Trattato (o protrettico) di un autore cristiano anonimo inviato ad un certo
Diogneto, un pagano di cui si ignora l’identità. Discusse la data d’origine e
il luogo di provenienza (probabilmente tra la fine del II e inizi del III
secolo ad Alessandria). È un invito (protrettico) ad aderire alla fede
cristiana, simile alla letteratura apologetica ormai contemporanea.
In I Padri Apostolici,
a cura di Carlo dell’Osso, Città Nuova, Roma 2011, pp. 337-354.
Altri testi:
A Diogneto. Introduzione, edizione critica e commento di H. I.
Marrou, Sources Chrétienne ed. italiana 4, Edizioni San Clemente- Studio domenicano
Bologna, Bologna 2008.
F. Bergamelli, Ignazio
di Antiochia. L’uomo proteso verso l’unità,
Las- Roma, 2013.
Dizionario di
letteratura cristiana antica, a cura di D.
e W. Geerlings, Urbaniana University Press-Città Nuova, 2006 (edizione italiana
a cura di C. Noce di un’opera edita in area tedesca nel 2002).
E. Prinzivalli - M.
Simonetti, La teologia degli antichi cristiani (secoli I-IV), Morcelliana, Brescia 2012.
B. Studer, Dio
Salvatore nei Padri della Chiesa, Borla,
Roma 1986.
M. Guidetti, Costantino e il suo secolo. L’editto di Milano e le
religioni; Jaca Book, Milano 2013.
H. Rahner, Chiesa e
struttura politica nel cristianesimo primitivo. Documenti della Chiesa nei
primi otto secoli, Jaca Book, Milano 2003.
SIGLE E ABBREVIAZIONI
Barn: Lettera di Barnaba
1 Clem: Lettera di Clemente
2 Clem: Seconda lettera di Clemente (Pseudo-Clemente)
D: Didaché
Diogn: A Diogneto
Erm: Il Pastore di Erma
Lettere di Ignazio: E (Efesini); M (Magnesii); R (Romani);
F (Filadelfesi); S (Smirnesi), P (Policarpo)
LP: lettera di Policarpo ai Filippesi
MP: Martirio di Policarpo
SG: Seguendo Gesù. Testi cristiani delle origini. Volume I, a cura di Emanuela Prinzivalli e Manlio
Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, 2010.
PA: I Padri Apostolici,
a cura di Carlo dell’Osso, Città Nuova, Roma 2011.
DENT: Dizionario esegetico Nuovo Testamento, a cura di H. Balz e G. Schneider, Paideia Editrice,
Brescia 2004.
Il cuore del messaggio
L’esperienza della vita eterna
Gesù Cristo, luce indicibile, crea nel mondo una novità
tale da suscitare stupore! I primi autori
cristiani, pensando alla venuta del Signore e alla diffusione del Vangelo, sono
presi da un sentimento di meraviglia e di riconoscenza. Sono persuasi che si
stia per aprire un’era nuova per l’umanità, contraddistinta dalla conoscenza
della verità e dalla possibilità di attuarla. Il male, pur continuando a mostrare la sua azione,
non sarebbe stato più dominante nelle persone, e sarebbe stato alla fine eliminato.
Finalmente per l’uomo la libertà è possibile!
La conoscenza della verità dipendeva dalla nuova
rivelazione che Dio aveva fatto di sé e il superamento del male, era il
risultato dell’essere stati costituiti figli di Dio, per grazia.
Un testo poetico di Ignazio d’Antiochia documenta questo stato
d’animo:
Una stella brillò nel cielo più di tutte le stelle, la sua luce era indicibile, la sua novità provocò stupore. Tutte le altre stelle col sole e la luna fecero coro in onore di questa stella, la cui luce superava quella di tutte le altre. Ci fu turbamento: donde proveniva quella novità tanto differente da loro? (E 19, 2-3).
La
venuta di Cristo viene presentata come l'apparizione di una stella che brilla con
un'intensità superiore a tutte le altre. È evidente il richiamo alla cometa
apparsa ai Magi. Osservando il nuovo astro, tutto il mondo è scosso in
profondità. A partire da Gesù, comincia una nuova era poiché il male è già stato
vinto ed ora si attende soltanto il suo completo annientamento:
Di qui fu dissolta tutta la magia, disparve ogni legame di malvagità, fu
eliminata l’ignoranza, fu distrutto l'antico regno, allorché Dio apparve in
forma umana per la novità della vita eterna: ebbe inizio ciò che presso Dio era
stato già realizzato. Per questo tutto il mondo era sconvolto, in quanto si preparava
la distruzione della morte (ivi)
Dio apparve in forma umana per la novità della vita
eterna.... Il contenuto caratteristico
della nuova fede è rappresentato dall'annuncio dell’apparizione della vita
eterna grazie alla resurrezione di Cristo: «Per questo tutto il mondo era
sconvolto, in quanto si preparava la distruzione della morte» (E 19,3).
Il tempo storico è racchiuso nel ritorno ciclico della
settimana ma ormai, in questo movimento limitante, si è inserito lo spazio
della vita eterna. In questo senso la Lettera di Barnaba annuncia l’ingresso dell’ottavo giorno. L’autore
reinterpreta un testo giudaico di carattere profetico (apocalittico) nel quale
Dio promette la fine del vecchio ordinamento e l’annuncio di un nuovo mondo:
«Non mi sono accetti i sabati, ma gradisco ciò che ho stabilito: ponendo fine a
tutte le cose, costituirò il principio dell’ottavo giorno». Dopo aver ricordato
questa profezia, Barnaba ricorda che essa si è adempiuta per coloro che credono
nella risurrezione di Cristo: «Per questo noi trascorriamo nella gioia l’ottavo
giorno in cui Gesù risorse dai morti» (Barn 15, 8-9).
Il farsi carne del Verbo
Con questo, ho enunciato soltanto una parte della novità
della fede. La risurrezione, vera essenza dell’annuncio cristiano, è stata causato
da un evento che è altrettanto capace di provocare stupore: il farsi carne del
Figlio di Dio al punto da partecipare alla sofferenza degli uomini: «Il vangelo
ha qualcosa di speciale: la venuta del Salvatore, la sua passione e
risurrezione» (F 9,2,6-8). «Per abolire la morte e provare la risurrezione dei
morti, doveva incarnarsi e sopportare tutte queste cose» (Barn 5,6).
È l’A Diogneto ad
esprimere meglio degli altri autori questa novità della fede: Chi di
noi se lo sarebbe mai aspettato? Leggiamo l’intero
passo:
[Dio] avendo pensato un piano grande e ineffabile lo comunicò solo al Figlio. Finché lo teneva nel mistero e custodiva il suo saggio volere, pareva che non si curasse e non pensasse a noi. Dopo che per mezzo del suo Figlio diletto rivelò e manifestò ciò che aveva stabilito sin dall’inizio, ci concesse insieme ogni cosa, cioè di partecipare ai suoi benefici, di vederli e di comprenderli. Chi di noi se lo sarebbe mai aspettato? (8,9-11)
Ora la sorpresa non dipende soltanto dal fatto che Dio abbia
assunto la nostra umanità ma piuttosto che questa assunzione sia stata così
concreta da sperimentare perfino la sofferenza della passione e della morte:
«Prese su di sé i nostri peccati; ha dato il suo Figlio in riscatto per noi: il
Santo per gli iniqui, l’Innocente per i malvagi, il Giusto per gli ingiusti….»
(9,2).
Il ricordo dei patimenti del Signore rimane indelebile nei
fedeli: «Teniamo fisso lo sguardo sul sangue di Gesù Cristo e consideriamo
quanto sia prezioso al Padre suo. Effuso per la nostra salvezza portò al mondo
la grazia del pentimento» (1 Clemen 7, 4). «Per questo il Signore sopportò di
dare la sua carne alla corruzione affinché fossimo purificati con la remissione
dei peccati, per mezzo dell’effusione del suo sangue», ricorda la Lettera di
Barnaba (5,1) ed aggiunge: «Il Figlio di
Dio, che è Signore e che giudicherà i vivi e i morti, ha patito, perché il suo
patimento ci vivificasse» (Barn 7,2).
La novità di cui godiamo e di cui facciamo parte è il
frutto della passione di Gesù: «Noi esistiamo grazie al frutto della passione
divinamente beata» (S 1,2,11). Dio, con il suo impegno e la sua sofferenza, ha
introdotto nel mondo il fermento di vita eterna. Questo è l'essenziale del
messaggio.
Una delle preoccupazioni primarie di Ignazio, come per
altri Padri dell’epoca, è quella di confutare il docetismo, una convinzione, serpeggiante nelle comunità del
tempo, che negava la realtà dell'umanità di Cristo. Secondo i doceti, il corpo umano di Gesù sarebbe stato soltanto
un'apparenza e non aveva mai sofferto realmente. Se questo fosse vero, la
novità della fede verrebbe distrutta (M 11; T 9,1-2). Ignazio, allora,
ribadisce la concretezza dei patimenti di Cristo: «Sotto Ponzio Pilato e il
tetrarca Erode è stato veramente inchiodato per noi nella carne» (S 1,2, 9-10).
Un secondo elemento è presupposto nel discorso sulla
solidarietà di Dio, quello del suo perdono gratuito: «Questo è veramente grande
e meraviglioso: consolidare non ciò che sta saldo, ma piuttosto ciò che va in
rovina. Così anche Cristo ha voluto salvare ciò che si perdeva ed ha salvato
molti, essendo venuto a chiamare noi che eravamo già perduti» (2 Clem, 2, 6-7). «Quando scelse gli apostoli, i futuri
annunciatori del suo vangelo, li scelse tra quelli che erano più gravati da
ogni peccato, per dimostrare che non era venuto a chiamare i giusti, ma i
peccatori (cf Mt 9,13)» (Barn 5,9). La novità del Vangelo è sì l’annuncio e
l’esperienza della vita eterna ma anche dell’impegno amoroso di Dio che l’ha
resa possibile e della sua misericordia che prescinde dal merito.
Alla base dell’annuncio della novità cristiana sta la
convinzione di aver conosciuto Dio in una nuova maniera e che questa sua
manifestazione di sé sia qualcosa di insuperabile. «Grazie a lui conosciamo il
Padre della verità» (2 Clem 3,1). «Una volta conosciutolo, hai idea di qual gioia
sarai colmato?» (Diogn 10,2-3)
Novità di vita del cristiano
I doni meravigliosi di Dio
L'uomo riceve la vita stessa di Cristo, un'esistenza piena
ed eterna. Se la risurrezione riguarda il compimento finale della storia, la
vita eterna, ci è donata già al presente, vivendo in Cristo: «Gesù Cristo,
nostra vera vita» (S 4,1, 6). La vita da risorti non riguarda solo Gesù. È vero
che in primo luogo interessa lui. Il titolo di Cristo-Vita, infatti, è uno di
quelli centrali assegnati a Gesù: «In morte Cristo è diventato vita vera» (E
7,2; cf. 9,3). Tuttavia la sua vita viene comunicata a tutti i credenti: Egli è
Vita nostra (E 3,2), Vita inseparabile (E 3,2). Per evidenziare il passaggio
della vita nuova da Cristo ai cristiani, Ignazio richiama il gesto dell'unzione
di Betania: «Per questo il Signore ha ricevuto l'unzione sulla testa, al fine
di infondere nella chiesa il soffio dell'incorruttibilità» (E 17,1). Il profumo
passa dalla testa a tutto il corpo, quindi da Cristo alla Chiesa. Il profumo
significa l'incorruttibilità che è liberazione dalla corruzione del male e
della morte.
Dal momento che la vita del Risorto si diffonde
nell’umanità, il cristianesimo appare anche un nuovo fermento: «Trasformatevi in
nuovo fermento che è Gesù Cristo» (eis nean zymên) (M 10,1,6). Il credo cristiano non è riducibile alla costituzione di
una nuova scuola filosofica e neppure ad una forma religiosa maturata da uomini
devoti ma un'azione che viene da Dio (cf. R 3,3). Irriducibile agli schemi
umani già imperanti, lo stupore può ottenere accoglienza entusiasta e stupita
oppure tramutarsi in rifiuto. È impossibile pensare di stabilire una
coesistenza pacifica permanente tra la fede cristiana e le potenze del mondo.
L'autore della Didachè,
pur non parlando in modo esplicito né di sorpresa, né di novità, è consapevole
che Dio, per mezzo di Cristo, abbia donato agli uomini dei doni incomparabili,
prima sconosciuti. Facendoci conoscere una preghiera di ringraziamento, forse
un'anafora eucaristica, in uso nella sua comunità, leggiamo: «Ti rendiamo
grazie, Padre santo, per il tuo santo nome, che hai fatto abitare nei nostri
cuori, e per la conoscenza, la fede e l'immortalità, che ci hai rivelato per
tramite del tuo servo Gesù...». In seguito aggiunge una seconda considerazione.
Dio, mentre dona a tutti gli uomini gli alimenti per la vita, ai cristiani,
oltre ai primi, dona «cibo e bevanda spirituale e vita eterna» (D 10,2-3). Di
nuovo, l'accento viene posto sul dono dell'immortalità, inteso meglio come vita
eterna. Si riconosce, quindi, anche in questo documento la rilevanza della vita
eterna come il contrassegno tipico del cristianesimo.
La lettera di Clemente sembra riecheggiare la preghiera
della Didaché quando presenta in questo modo
la sorpresa cristiana:
Quanto sono beati e meravigliosi i doni di Dio, o diletti! Vita
nell'immortalità, splendore nella giustizia, verità nella confidenza, fede
nella fiducia, continenza nella santificazione: e tutti questi sono diventati
alla portata della nostra mente. Quali doni allora sono stati preparati per
coloro che attendono? (35,1-3)
Un dono viene inserito in un altro come in un suo spazio
vitale, e il secondo amplifica il valore del primo. Il dono primario in
assoluto è un'esistenza di enorme valore
perché duratura: «la vita nell'immortalità» (zôê en athanasia). Questa si sviluppa in altre qualità che vengono
enumerate: il cristiano ora può godere di un'esistenza retta che è splendida,
nutrire una fede che diventa profonda confidenza in Dio e godere del dominio di
sé che rende possibile una totale trasformazione di vita. L'insieme di tali
benefici viene messo alla portata di tutti. Le proposte che la filosofia
presentava a pochi adepti, come tentativi incerti, perché condizionati dalle ridotte
capacità umane, ora vengono offerte a tutti come possibilità reale. In primo
luogo, infatti, non sono ottenuti come risultato degli sforzi dell'uomo ma sono
già un dono depositato in noi. Anche Clemente ritiene che la vita, quella
immortale, sia già un fatto presente, una realtà storica, verificabile nel
comportamento qualificato del cristiano.
È l’autore della Lettera a Diogneto a porre in risalto la novità del cristianesimo con
maggiore penetrazione. La fede cristiana usufruisce di una novità permanente
perché è assicurata dalla nascita continua di Cristo nei fedeli. È Cristo la
vera novità inesauribile, capace di rinnovare chi l’accoglie: «Nasce sempre
nuovo nel cuore dei santi» (11,4). Seguiamo per intero la riflessione del
nostro. Il Verbo esisteva dall’eternità e già si era manifestato agli uomini
del passato, - quindi da questo laro è antico -, ciò nonostante questo, al
presente non ha esaurito la sua energia rinnovatrice. «Egli era dal principio,
si è manifestato nuovo, è stato trovato antico e nasce sempre nuovo nel cuore
dei santi» (ivi).
Oltre a stabilire la vera origine del fatto cristiano, l’A
Diogneto precisa con acutezza il senso
della presenza cristiana nel mondo, tra gli uomini, in un passaggio divenuto meritatamente un classico (cf. 5 e
6). «Come l’anima è nel corpo, così sono i cristiani nel mondo» (6,1).
Riprenderò successivamente questa osservazione poiché merita davvero un’analisi
più approfondita.
Il rinnovamento penitenziale
Tutte queste dichiarazioni sembrano frutto d’ingenuità.
Oggi noi siamo eredi di diverse ideologie che hanno proclamato la certezza di
una trasformazione radicale della società e degli uomini; l’idea di una nuova
umanità compare nell’inno
dell’internazionale socialista. Siamo per istinto disillusi e sospettosi. Le
comunità cristiane primitive erano davvero una manifestazione compatta di
santità? Poteva annunciare seriamente una prospettiva tanto accattivante?
In realtà i primi documenti cristiani sono stati redatti
anche come risposta ad una situazione di crisi. Nessuno autore si illudeva che
tutti i battezzati vivessero la perfezione dell’ideale oppure fossero in grado
di farlo. I Padri contano su altre motivazioni di speranza. Ho riferito poco fa
la convinzione dell’A Diogneto: è Cristo
a nascere sempre giovane nel cuore dei fedeli. La Chiesa diventa in
permanenza un fermento di novità perché può contare sulla presenza del Signore
come sorgente inesauribile di rinnovamento. Mentre i cultori delle ideologie
devono contare su ciò che loro stessi o altri adepti riescono ad edificare,
mirando ad un risultato che è comunque incerto, i cristiani confidano sopra un
evento già avvenuto: la resurrezione di Cristo che coinvolge quella di tutta
l’umanità. Il risultato è stato ottenuto già all’inizio, alla partenza, e la novità
accompagna la Chiesa che, come appartenente alla comune umanità, tende ad
afflosciarsi. Tutto lo svolgimento del tempo è determinato da Gesù: «Il Signore
mediante i profeti ha fatto conoscere le cose passate e [ormai] presenti
facendoci assaporare le future» (Barn 1,7).
Nell’opera Il Pastore,
Erma presenta la Chiesa come una torre in costruzione e tale opera sicuramente
avrà termine e non resterà a mezzo. La torre poi è piantata nell’acqua. Si
tratta di un’allusione al battesimo. Questo significa che Dio accompagna
un’umanità indegna ma anche che la costruzione può avanzare grazie ad una
purificazione permanente. Erma deve riconosce che alcuni battezzati si sono
lasciati corrompere ma attesta anche che «Dio ha avuto pietà di voi, ha
rinnovato il vostro spirito e voi avete deposto le vostre debolezze. È tornata
in voi la forza e vi siete irrobustiti nella fede… quelli che si pentiranno
saranno completamente giovani» (Erm 19, 3 e 21,4). La comunità, apparsa come
una vecchia si manifesta in seguito come giovane, bella ed allegra (cf Erm
19-21). Le comunità, grazie al pentimento (che rinnova il battesimo), compiono
un cammino opposto allo scorrere naturale dell’età.
La Chiesa annuncia la possibilità di una nuova umanità
perché viene rifatta da Dio in continuazione: «Fin che siamo sulla terra,
pentiamoci. Siamo come l’argilla nella mano dell’artigiano. Il vasaio se gli si
sforma o gli si rompe il vaso che sta lavorando, lo plasma di nuovo. Finché il
vaso non è messo nella fornace, può essere sempre rifatto» (Erm 8,1-2).
La Parola nella Chiesa
La confessione del Cristo
Riconoscenza
Cristo si è sottoposto a tanta fatica e perciò merita e
suscita un amore intenso verso di Lui. Il cristiano che si rende conto di aver
ricevuto un favore così grande, s'apre ad una risposta d'amore che spinge al
dono totale di sé e stringe un legame fortissimo con Lui.
Gesù Cristo ebbe a patire per noi. Dunque, quale ricompensa gli daremo o
quale frutto degno di quello che egli stesso ci ha dato? …Tutta la nostra vita
non era niente altro che morte… Egli ebbe misericordia di noi e mosso a pietà
ci salvò, avendo visto in noi un grande errore e un’enorme rovina e che non
avevamo nessuna speranza di salvezza se non quella che proviene da lui (2 Clem
1,3-7)
Quale ricompensa gli daremo? Ignazio mostra un vivo
sentimento d’amore riconoscente per Cristo. Non scrivendo trattati ma delle
lettere, non ci costringe a seguire uno sviluppo di pensiero ma di percepire
ciò che gli sta più a cuore. Per lui Cristo non è il propugnatore d'un nobile pensiero
(c'erano tanti altri pensatori nobilissimi) ma Colui dal quale è stato rapito,
la persona vivente per la quale esiste, che ricerca di guadagnare quale tesoro
incomparabile e per il quale è disposto a subire qualsiasi prova. Esprime bene
il sentire che lo domina quando dichiara: «Come potremo vivere senza di
lui...?» (M 9, 2,7). Nelle lettere di Ignazio compare quanto possa e debba
essere forte il legame che unisce il cristiano con Gesù e la presenza della
carità è sempre accompagnata dalla presenza della gioia (M 1,1; F 5,1). Il suo
atteggiamento rievoca il rapporto del pio israelita con Dio e il rapporto di
san Paolo con Cristo.
Nel mistero di Cristo
In queste prime testimonianze della Chiesa, affiora una fede
viva ma una riflessione ancora embrionale. Come precisa bene C. dell’Osso, «non
si dovrà ricercare in queste opere le grandi e complete dottrine teologiche che
caratterizzeranno il prosieguo della letteratura cristiana antica, bensì si
dovrà avvertire l’esperienza di Cristo che gli autori si sforzano di
testimoniare con la vita. In altri termini, si è di fronte ad una teologia
vissuta e insegnata che ben si adatta agli uomini di ogni tempo e luogo, dal
momento che dall'esperienza di Cristo si ricava una lezione ricca di
motivazioni, condotta con umiltà e chiarezza, che da una parte rivela l'uomo a
se stesso, dall'altra lo innalza alla contemplazione dei grandi misteri del Dio
vivente. La tentazione dell'anacronismo è
sempre alle porte, quando si leggono le opere antiche…» (PA 7). Precisato
questo aspetto, vediamo i caratteri che emergono nella confessione di Cristo
vissuta da questi autori.
La Didaché rievoca
e celebra Gesù come si è presentato alle origini della sua missione. Viene onorato come l’annunciatore della piena volontà
del Padre e l’iniziatore del Regno di Dio. La comunità è in attesa del Signore
e del compimento del Regno già iniziato (cf. 16,7). Vivendo già nella vita
eterna, attende il compimento pieno della grazia ricevuta. La funzione
di Gesù è «quella di mediatore, intermediario, per
tramite del quale Dio ha fatto conoscere alla comunità la sua volontà e il suo
disegno salvifico. Il regno messianico è evocato più volte …, come realtà di
cui si auspica la realizzazione (D 9, 4; 10, 5) Dato che la realizzazione del
regno non può avvenire che per tramite di Gesù, la connessione Gesù-regno
messianico sembra effettuata» (SG 39).
Nella Lettera di Clemente viene evidenziato il ruolo salvifico del Signore Gesù. È il grande
soccorritore: rivela la piena conoscenza di Dio, mostrandone la vera identità,
e rende gli uomini capaci di accogliere la sua manifestazione:
Questa la strada, o beneamati, nella quale troviamo salvezza: Gesù Cristo… il
protettore e l’aiuto della nostra debolezza. Per mezzo suo fissiamo lo sguardo
sulle altezze dei cieli, per mezzo suo osserviamo come in uno specchio la sua
faccia immacolata e sublime, per mezzo suo si sono aperti gli occhi del cuore,
per mezzo suo la nostra mente ottusa e ottenebrata rifiorisce alla luce, per
mezzo suo il Signore ha voluto farci gustare la scienza immortale (1 Clem
36,1-2).
Per quanto riguarda l’identità di Gesù in se stesso, cita
una serie di testi biblici, seguendo da vicino la Lettera agli Ebrei:
“Egli, splendore della maestà divina, di tanto è superiore agli angeli di
quanto il nome che ebbe in eredita è più eccellente”. È scritto così: “Egli ha
fatto dei venti i suoi messaggeri e delle vampe di fuoco i suoi ministri”. Di
suo figlio così disse il Signore: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato.
Chiedi a me e ti darò le genti in tua eredità e tuoi saranno i confini della
terra”. E di nuovo gli dice: “Siedi alla mia destra finché io ponga i nemici a
sgabello dei tuoi piedi”. Chi sono i nemici? I malvagi e quelli che si
oppongono alla sua volontà (1 Clem 36,2-6).
Assai rilevante è la prima espressione: riverbero
(apaugsma) della grandezza divina. Si
tratta di una citazione o di un’espressione analoga a quella della Lettera agli
Ebrei (1,3). In questa lettera, il titolo, reso più chiaro dal successivo che
parla di Gesù come impronta della sostanza di Dio, indica in primo luogo la sua divinità, in tutto
conforme al Padre. Nella lettera di Clemente l’accento cade piuttosto su Gesù
quale rivelatore della grandezza di Dio e l’attenzione verte in modo prevalente
su Dio stesso (cf. O. Hofius, Apaugsma, DENT, c. 313).
In questi primi testi ecclesiali vediamo prevalere
l’attenzione sulla funzione salvifica di Gesù. Egli ha un ruolo di primario
valore: apre un’era nuova soprattutto per averci fatto conoscere il vero volto
di Dio. Quest’era nuova è anche chiamato Regno di Dio che però dovrà
manifestarsi in pienezza soltanto nel futuro. È evidente in questi scritti
l’attenzione a salvaguardare il monoteismo biblico, per non scivolare in una
sorte di diteismo (adorare due divinità
distinte).
Ignazio attesta chiaramente di credere come nell'unica
persona di Gesù siano presenti la dimensione divina ed umana. Riconosce la
divinità di Cristo senza alcuna esitazione, usando il titolo o Theos, riservato a Dio Padre (R 3,3; 6,3). Lo colloca,
quindi, allo stesso livello del Padre, ponendolo in una unità indissolubile con
Lui. Spesso, quando parla di Dio, è difficile stabilire a quale dei due si
riferisca o se a tutti e due insieme (cf T 11,1-2). Nello stesso tempo,
riconosce la sua umanità. Asserisce con forza la realtà della carne, cioé della
vera umanità di Cristo (T 9,1-2). Osservare l'insistenza sull'avverbio veramente. Cristo non è una verità astratta, una costruzione
razionale ma un essere vivo, concreto, storico, grondante sangue ma sfolgorante
di luce (cf F. Bergamelli, Ignazio di Antiochia…, 31). Cristo è infatti il vero, grande e unico
protagonista delle sue lettere. Egli viene onorato con molteplici titoli:
Medico (E 7,2); Maestro unico (M 9.1); Speranza nostra (E 21,2); Pensiero del
Padre (E 3,2); Conoscenza di Dio (E 17,2); Bocca del Padre (R 8,2); Porta del
Padre (F 9,1); Archivio, ossia contenuto ultimo della Sacra Scrittura (F 8,2);
Risurrezione nostra (S 5,3); Fermento nuovo (M 10,2).
Affermando la divinità del Figlio in pari dignità di
quella del Padre, Ignazio non incorre nel rischio del diteismo (ossia non afferma l'esistenza di due divinità in
concorrenza tra loro) perché colloca sempre il Figlio in relazione con il
Padre: Egli è la sua bocca, il suo pensiero, la porta che conduce a Lui. È
impensabile pensare e dire qualcosa di Cristo senza porlo in relazione con il
Padre.
Nella sue lettere affiora una confessione di fede che
riflette quella delle Chiese con le quali entra in relazione. È bello notare
come, molto tempo prima che si sollevasse e chiudesse il dibattito
cristologico, nell'esistenza comune e normale delle comunità, esistessero già,
nella loro essenza anche se non nella formulazione, le grandi convinzioni che
la Chiesa guadagnerà con sicurezza soltanto dopo il confronto faticoso condotto
nel quarto e quinto secolo, dalla crisi ariana fino al Concilio di Calcedonia.
Nella fede semplice ma profonda delle comunità si viveva tutto ciò che sarà
esplicitato e definito nei grandi Concili successivi.
L’A Diogneto mostra
come riconoscendo, in linea con la riflessione neotestamentaria, la grandezza
divina di Gesù, ne guadagna anche la potenza dello stesso annuncio salvifico.
Soltanto se il Verbo è Dio, noi vediamo in lui veramente il Padre Dio. Quanto
più il Verbo è considerato prossimo a Dio, tanto più la visione stessa del
Padre, diventa precisa. Ora la rivelazione che ci può fornire qualsiasi
creatura, anche la più santa e la più elevata, non può essere paragonata alla
manifestazione che Dio offre di stesso nella persona che è la sua immagine. È
quanto suggerisce il nostro. Gesù non è una scoperta (epinonia) degli uomini e neppure il più elevato dei mediatori
ma il Figlio stesso che ha creato il mondo insieme al Padre:
«…ma quello che è veramente signore e creatore di tutto e Dio invisibile,
egli stesso fece scendere dal cielo, tra gli uomini, la verità, la parola santa
e incomprensibile e l’ha riposta nei loro cuori. Non già mandando, come
qualcuno potrebbe pensare, qualche suo servo o angelo o arconte o uno di coloro
che sono preposti alle cose terrene o abitano nei cieli, ma mandando lo stesso
artefice e creatore di tutte le cose, … a lui obbediscono la luna che splende
nella notte e le stelle che seguono il giro della luna; … lui Dio mandò ad essi»
(Diogn 7,1-2).
Dopo aver garantito in questo modo la veridicità
dell’annuncio di Gesù, l’autore si preoccupa di precisare che la manifestazione
di Dio avviene per pura solidarietà:
Forse, come qualcuno potrebbe pensare, lo inviò per tiranneggiarci,
terrorizzarci e sbigottirci? No certo. Ma nella mitezza e nella bontà come un
re manda suo figlio, lo inviò come Dio e come uomo per gli uomini; lo mandò
come chi salva, per persuadere, non per far violenza. A Dio non si addice la
violenza (Diogn 7,3-4).
L’origine divina di Gesù offre la certezza della veridicità
del suo messaggio, in quanto Egli è un vero conoscitore di Dio Padre. Essa
garantisce però anche la radicalità della sua solidarietà. Gesù non è stato
come un uomo eroico che, venutosi a trovare in una situazione difficile insieme
ad altri, condivide la stessa sofferenza fino a dar luogo ad una liberazione.
Egli, come Verbo preesistente, stava fuori del mondo ed è entrato in esso,
liberamente, per pura generosità. Soltanto la pre-esistenza fonda l’estensione
della benevolenza divina.
«Dopo che la nostra ingiustizia giunse al colmo e fu dimostrato chiaramente che come suo guadagno spettava il castigo e la morte, venne il tempo che Dio aveva stabilito per manifestare la sua bontà e la sua potenza. O immensa bontà e amore di Dio. Non ci odiò, non ci respinse e non si vendicò, ma fu magnanimo e ci sopportò e con misericordia si addossò i nostri peccati e mandò suo Figlio per il nostro riscatto» (Diogn 9,2).
Il ricordo delle parole di Cristo
Provviste per il viaggio
Clemente descrive la situazione positiva in cui versava la
comunità di Corinto, prima dello scoppio della crisi che lo ha costretto a
scrivere loro. Tra i motivi di elogio compare anche la grande attenzione che
essa aveva nei confronti delle parole di Cristo. «Contenti degli aiuti di
Cristo nel viaggio e meditando le sue parole, le tenevate nel profondo
dell’animo (lett: viscere), e le sue sofferenze erano davanti ai vostri occhi»
(2,1). Le parole di Cristo
vengono denominate provviste (efodia), ossia scorte per il viaggio. Qui rappresentano il
viatico che sostiene la Chiesa nel suo cammino terreno e quest’ultima le
considerata un nutrimento sufficiente. Inoltre i fedeli tenevano queste parole
salde nelle loro viscere con grande cura (epimelôs). Clemente usa un neologismo per dire tenere saldo (enesterizo). La menzione delle viscere richiama il linguaggio
biblico. Nel salmo 40, il salmista dichiara: «Le tue parole sono nelle mie
viscere (LXX)». Questo significa che esse formano un tutt’uno con il credente;
egli ha mangiato la parola, l’ha gustata ed essa lo ha nutrito. Non si parla di
una conoscenza episodica e superficiale né di una conoscenza che non coinvolga
la sfera pratica. Il semplice sapere non giova quando è disgiunto dalla prassi.
Poco prima aveva precisato. «Camminavate secondo le prescrizioni
di Dio» (1,3). Lo stessa osservazione ritorna nel seguito della lettera: «Ornati
di una condotta virtuosa e venerata, compivate ogni cosa nel timore di Lui: i
comandamenti e i precetti del Signore erano scritti nella larghezza del vostro
cuore» (2,8). Ecco un’ulteriore citazione biblica fatta a memoria. L’iscrizione
dei comandamenti nel cuore richiama la speranza dei profeti e segnala il
compimento della Nuova Alleanza.
Curvarsi sulle Scritture
Il ricordo delle parole del Cristo non elimina la necessità
della conoscenza della Scrittura, al contrario. Clemente dichiara infatti: «Vi
siete curvati sulle sacre Scritture, quelle vere, quelle trasmesse mediante lo
Spirito» (45,2). La curvatura allude alla positura affaticata dell’anziano. I
Corinzi hanno cercato di leggere i testi con interesse al punto da acquisire
una positura scomoda e innaturale. La brama di conoscere i testi è entrata
nella loro carne come accade per certe professioni che segnano il corpo del
professionista. Per questo può aggiungere: «Voi conoscete, e conoscete bene le
Sacre Scritture, o diletti, e vi siete applicati alle parole di Dio. Pertanto
scriviamo queste cose soltanto per ricordo» (53,1). In realtà nel testo non
troviamo il verbo applicare ma di nuovo incurvare. Sembra che il nostro non
possa ricordare i Corinzi senza richiamare la loro positura.
Ciò che colpisce maggiormente nella lettera di Clemente,
però, non sono queste espressioni, pure così suggestive, ma il fatto che tutto
il testo della sua lettera sia cosparso a profusione di citazioni bibliche,
spesso ad interi passi. Egli non fa altro che far scorrere il testo e come
metterli a bagno nella Scrittura, nell’Antico Testamento. La sua istruzione è
autorevole perché è una eco fedele della Scrittura. Mentre esorta, divine lui
stesso discepolo della Parola annunciata, insieme ai suoi interlocutori (cf.
56,2).
Possedere le parole
Se Cristo risorto è fermento di un'esistenza nuova e di
una nuova umanità, allora è evidente che il cristiano deve di continuo
richiamarsi le sue parole, deve conoscerle, ricordarle e soprattutto
applicarle. Ignazio attesta agli Efesini che essi non soltanto devono conoscere
ma anche possedere la parola di Gesù (E
15,2), perché Egli ci parla di Dio Padre, anzi è la «conoscenza di Dio» (E
17,2). In un altro passaggio in cui sottolinea la stessa esigenza, ricorda che
gli insegnamenti di Gesù ci sono stati comunicati dagli apostoli. «Abbiate cura
di confermarvi negli insegnamenti del Signore e degli apostoli...» (M 13,1). La
conoscenza di Cristo, allora, ci viene offerta dalla tradizione degli apostoli
e la Chiesa avrà il compito di discernere e garantire gli scritti autentici di
origine apostolica.
Raccomandazioni simili, compaiono anche in altre
testimonianze di questo periodo storico. «Fratelli e sorelle, dopo che il Dio
della verità ha parlato, vi prego di applicarvi allo studio delle Scritture per
salvare voi stessi»: è la raccomandazione rivolta dalla 2 Clem (19,1). Chiede ai fedeli di non si limitarsi a
pregare o ad ascoltare la parola in modo esclusivo durante le riunioni
comunitarie presiedute dai presbiteri ma li esorta a fare lo stesso a casa
propria. Per vincere le passioni, bisogna ricordare con frequenza i precetti
del Signore: «Non solo allora dobbiamo credere e pregare quando siamo richiamati
dai presbiteri, ma anche quando ritorniamo a casa, ricordiamoci dei
comandamenti del Signore, e non facciamoci trascinare dalle passioni del mondo»
(17,3).
Secondo Policarpo di Smirne i cristiani che compongono la
comunità di Filippi sono esperti conoscitori della Bibbia: «Sono sicuro che voi
avete molta pratica delle Sacre Scritture e non ignorate nulla di esse…» (LP
12,1). L’osservazione, che sembra piuttosto un suggerimento
che una constatazione, testimonia l’importanza che veniva attribuita alla
conoscenza della Bibbia da parte dei fedeli.
La lettera di Barnaba
invita i battezzati ad unirsi alle persone che cercano Dio con sincerità:
«Unitevi a coloro che temono il Signore, a coloro che meditano nel cuore il
senso esatto della parola che hanno ricevuto, a coloro che annunciano i
comandamenti del Signore e li osservano, a coloro che sanno che la meditazione
dà gioia e che ruminano la parola del Signore» (Barn 10, 12). In questo testo
la comunità è caratterizzata da credenti che sono sempre alla ricerca di una
comprensione più profonda di ciò che vivono e manifestano la verità della loro
intenzione nella pratica concreta delle loro convinzioni.
Come accogliere la Parola?
Non troviamo soltanto delle sollecitazioni alla conoscenza
della Bibbia, ma anche dei suggerimenti che ci insegnano come ascoltare la
Parola. Ignazio propone un assiduo ricordo degli insegnamenti di Gesù ma, a suo
parere, non basta ascoltare o leggere. Perché l'ascolto sia proficuo, è
necessario creare una corrispondenza di sintonia tra annunciatore e ricettore.
Quando questo avviene, il maestro della parola ha un compito molto facile:
«Sapendo che siete pieni di Dio, vi ho esortato brevemente» (M 14).
Del resto, egli sa che esistono livelli diversi di
comprensioni come ci sono modalità diverse di attuazione del messaggio e quindi
di maturazione del credente. L'importante però non sta nella complessità dei
temi che si potrebbero svolgere o delle questioni che si potrebbero affrontare
ma nella radicalità della nostra risposta di amore. Finché non abbiamo
guadagnano la carità possiamo essere molto esperti in trattazioni teologiche ma
rimarremmo ancora privi dell'essenziale e mancanti della vera perfezione. «Io
del resto, non perché sono incatenato e posso concepire cose celesti, sedi angeliche,
schiere arcontiche..., non per questo sono già discepolo. Molto infatti ci
manca, affinché non ci manchi Dio» (T 5,2).
I Padri apostolici mostra in che modo la Chiesa leggeva la
Sacra Scrittura. In un tempo in cui il libro del Nuovo Testamento era ancora in
formazione, «la prima predicazione cristiana si
poggiava sulla Scrittura, che nelle opere dei Padri apostolici riveste una
particolare importanza perché è letta tutta in chiave cristolagica, pertanto in
queste opere la Bibbia è il libro di Cristo. In tal senso l'Antico Testamento
viene considerato parola di Dio, come aveva fatto Gesù Cristo, prediligendo le
profezie e le interpretazioni tipologiche di personaggi ed eventi
veterotestamentari. …Conoscevano Paolo e la tradizione evangelica subendone
l'influsso. Le parole di Gesù, diffuse con la predicazione orale e forse con
qualche scritto circolante ancor prima dei quattro Vangeli canonici, vengono
citate e riportate con grande venerazione. È ovvio che le opere del Nuovo
Testamento, ancora in fieri, dovevano
essere raccolte con somma cura, in quanto eco della predicazione viva degli
apostoli che ancora risuonava nelle orecchie dei cristiani come una parola viva
appena udita. Anche se, come traspare in un frammento di Papia di Gerapoli, la
tradizione orale a quei tempi aveva un'importanza tale da essere preferita a
quella scritta…» (PA 8-9).
La Bibbia viene considerata il libro di Cristo. I testi
vengono spiegati dando risalto a come si sono compiuti in Cristo e in che modo
si compiono ora nella Chiesa. Questo è detto in modo esplicito nella Lettera
di Barnaba: «I profeti, avendo ricevuto la
grazia da lui, hanno profetizzato su di lui» (Barn 5,6). «La Scrittura parla di
noi…» (Barn 6,12).
La 2 Clem mostra
come interpretare ex-novo i testi
profetici nell’attualità della vita ecclesiale:
Rallegrati, sterile, che non hai partorito, esulta e grida di gioia tu
che non hai sofferto i dolori del parto, perché i figli della donna nubile sono
più numerosi di quelli della sposata (Is
54,1). Colui che disse: Rallegrati, sterile che non hai partorito, intendeva riferirsi a noi; infatti, la nostra
Chiesa era sterile prima che le fossero dati dei figli. Colui che disse: Grida
di gioia tu che non hai sofferto i dolori del parto, vuol dire questo: innalzare con schiettezza le nostre preghiere a
Dio, senza nausearci come le partorienti. E quello disse: I figli
della donna nubile sono più numerosi di quelli della sposata, poiché il nostro popolo sembrava abbandonato da
Dio, invece ora, avendo creduto, siamo diventati di più di quelli che
simulavano di avere Dio (2 Clem 2,1-3).
I Padri sono interessati, quindi, ad applicare la
Scrittura a Cristo e alla Chiesa ma soprattutto amano offrire suggerimenti
pratici in vista della sua osservanza.
Il ruolo dei profeti
La parola non è soltanto quella trasmessa nei libri sacri.
La testimonianza scritta è stata preceduta o seguita da avvenimenti vissuti da
uomini di Dio che ci parlano grazie ai loro nobili esempi. Clemente ritiene che
non soltanto i profeti ma anche tutti i giusti dell’Antico Testamento possono
servirci d’istruzione e diventare nostri modelli di vita.
Guardiamo i ministri perfetti della sua grandezza e della sua gloria.
Prendiamo Enoch che fu trovato giusto nella sua ubbidienza e fu elevato dal
mondo senza morire. Noè fu trovato fedele. Mediante il suo ministero predicò al
mondo la rinascita ed il Signore, suo tramite, salvò gli animali che in
concordia erano entrati nell’arca. Abramo, chiamato l’amico, fu trovato fedele
nell’essere ubbidiente alle parole di Dio. […] Per la fede e l’ospitalità fu
salvata la meretrice Raab... Vedete, carissimi, che in questa donna non c’era
solo la fede, ma anche la profezia (1 Clem 9,3-12,1 passim).
Tra i giusti, vede soprattutto nei profeti gli
annunciatori della venuta di Cristo e i suoi prefiguratori (1 Clem 17,1).
Sorprende in Clemente che egli proponga come esempio di
vita anche dei pagani di vita retta. A fare questo passo forse è stato
sollecitato dalla figura di Raab, la meretrice di Gerico, aperta alla fede e
all’ospitalità: «Per riportare gli esempi dei pagani, molti re e capi, in tempi
di pestilenza, ammoniti dall’oracolo, si offrirono alla morte per salvare con
il loro sangue i cittadini. Molti abbandonarono le loro città perché cessasse
la sedizione. Sappiamo che molti tra noi si offrirono alle catene per liberare
gli altri; molti si offrirono alla schiavitù e con il prezzo ricavato davano da
mangiare agli altri. Numerose donne rese forti dalla grazia di Dio compirono
molte azioni virili» (55,1-3). In ultima analisi, gli uomini si distinguono tra
loro non per la confessione di fede ma per l’esercizio della carità: «Sono
passate tutte le generazioni da Adamo sino ad oggi, ma quelli che con la grazia
di Dio sono perfetti nella carità raggiungono la schiera dei più, che saranno
visti nel novero del regno di Cristo» (50,3). All'epoca di Ignazio le Sacre
Scritture era rappresentate dai libri dell'Antica Alleanza. Alcuni cristiani
che provenivano dal paganesimo ma che avevano conosciuto il giudaismo prima di
credere al Cristo erano rimasti ancorati all'osservanza della legge giudaica.
Vantavano orgogliosamente di restare fedeli agli archivi giudaici, cioè
all'Antico Testamento ma il Vangelo doveva restarne subordinato. A questi
Ignazio replica con un certo sdegno: «Per me gli Archivi sono Gesù Cristo». In
altri termini, per lui Gesù Cristo è tutto. «Lui solo da senso e vita a tutto.
Pertanto anche gli archivi dell'Antico Testamento vanno interpretati alla luce
di Cristo» (F. Bergamelli, Ignazio d'Antiochia…, p. 252).
Con ciò non dobbiamo pensare che egli disprezzasse le
Scritture. Al contrario, mostra grande venerazione per i profeti ma pensa che
essi siano stati soltanto una preparazione del Vangelo. I profeti confermano la
priorità di Gesù e questi, a sua volta, conferma i profeti. «Amiamo anche i
profeti perché anch’essi hanno annunciato il vangelo, hanno sperato in lui e lo
hanno atteso. Avendo avuto fede in lui sono stati salvati essendo nell’unità di
Gesù Cristo, santi degni di essere amati e ammirati, annoverati insieme con lui
nel vangelo della comune speranza» (F 5,2). La cosa decisiva per la fede è
riconoscere che Cristo sta al centro di tutte le Scritture, di quelle
profetiche e veterotestamentarie e di quelle tramandate dagli apostoli. Cristo
è la Bocca del Padre, la Porta del Padre, la Conoscenza di Dio. Tutto si
concentra sulla sua persona e sulla sua rivelazione.
L’autorità del vescovo
Io parola di Dio (ego
logos theou): l'affermazione comunque appare ed è molto audace. Ignazio che
tende a considerarsi un nulla, sembra ora una persona dall'orgoglio smisurato.
Dobbiamo situare l'affermazione nel contesto. Ignazio nutre una considerazione
grandissima nei confronti del ruolo di qualsiasi vescovo. Non dice di nessuno
che è parola di Dio, in modo così audace, ma afferma qualcosa di simile. Il
vescovo non solo annuncia ma è portatore della Parola di Dio. Gli Efesini
devono accogliere il loro vescovo, verso il quale si mostrano invece piuttosto
critici, «quasi fosse proprio il Signore» (E 6,1, 4-5). Al vescovo di Smirne,
Policarpo, suggerisce di imporre alla sua comunità che non venga intrapresa in
essa alcuna iniziativa pastorale senza la sua previa approvazione. Policarpo
forse era riluttante ad imporre la sua autorità fino a tal segno ma Ignazio gli
suggerisce di agire secondo il principio che ho menzionato non per soddisfare
il suo egocentrismo ma per porsi al servizio della comunione nella verità del
Vangelo. I vescovi non solo devono agire in spirito di servizio ma devono anche
considerare le loro decisioni, espresse in autorità, come un servizio
indispensabile, al quale non devono sottrarsi. Nel contempo essi devono non
imporre un loro punto di vista personale ma ciò che appare loro il volere di
Dio. Solo la verità può creare obbedienza e consenso. Riporto il versetto per intero:
«Nulla venga fatto senza la tua approvazione e tu non fare nulla senza Dio» (P
4,1).
La Didachè non si
esprime in modo così fermo riguardo all’autorità del vescovo ma usa espressioni
analoghe nei confronti di chi annuncia la parola: «Ti ricorderai notte e giorno
di colui che ti annuncia la parola di Dio, lo onorerai quasi fosse il Signore,
perché dove è proclamata la sua sovranità (kyriotes) là c'è il Signore» (D 4.1). Il valore va reso in
prima istanza non alla persona ma alla Parola che si rende viva nella sua
persona e la persona dell'annunciatore viene coinvolta nel rispetto che si ha
verso la Parola. Lo scritto mostra che la tradizionale autorità dei profeti
carismatici itineranti, dopo essersi composta con le autorità locali, stava
ormai per cedere il passo ad esse.
Il riconoscimento reso al profeta passava ora al vescovo.
In Clemente si nota come la sua autorità e quella degli
altri responsabili, non dipende dal loro prestigio personale ma dal valore
intrinseco del suo ruolo. I capi delle Chiese derivano la loro autorità dagli
apostoli come quest’ultimi l’avevano ricevuta da Cristo. Sta nascendo la
convinzione che il vescovo rappresenti, allora, l’apostolo.
Cristo fu inviato da Dio e gli apostoli da Cristo. Ambedue le cose
ordinatamente secondo la volontà di Dio. Ricevuto il mandato e pieni di
certezza nella risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo e fiduciosi nella
parola di Dio con l’assicurazione dello Spirito Santo, andarono ad annunziare
che il regno di Dio stava per venire. Predicavano per le campagne e le città e
costituivano le primizie del loro lavoro apostolico, provandole nello spirito,
nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli (1 Clem 42,1-4).
Ha scritto ai Corinzi una lettera ma, a suo giudizio,
questo scritto equivale ad un parlare. Clemente è persuaso che a parlare ai
fedeli, non sia stato soltanto lui ma, ricevendo le sue esortazioni i fedeli
abbiano ascoltato Cristo; è lui a pronunciare le parole espresse per suo
tramite (cf 1 Clem 59,1). Anche in questo caso, nell'annunciatore si deve
riconoscere la presenza del Signore che lo ha inviato.
Un comune discepolato
I vescovi sono maestri ma continuano ad essere discepoli
del Signore. Normalmente insegnano ma hanno bisogno di crescere nella fedeltà
al Signore e devono contare sull’aiuto offerto dai fratelli. Sono maestri ma
anche con-discepoli assieme a tutti gli altri.
Clemente richiama spesso la sua autorità. Attraverso di
lui ha parlato Cristo stesso (59,1); dichiara di aver scritto per mezzo dello
Spirito Santo (63,2). Dall’altra parte non dimentica che tutti, lui e i
Corinzi, devono imparare a vivere sottomessi a Dio (58,1). Preferisce
considerare il suo ammonimento come un consiglio (symboulê), un aiuto fraterno più che un’ingiunzione
autoritaria (58,2). Attesta di aver bisogno a sua volta di essere corroborato
nella fede dalla persone che egli cerca di rafforzare: «Accettiamo una
correzione per la quale nessuno deve indignarsi, o diletti. L’ammonizione che
ci facciamo reciprocamente è buona ed estremamente utile, poiché ci permette di
stare attaccati alla volontà di Dio» (1 Clem 56,2).
Dichiarando che a motivo del suo martirio egli stesso
diverrà parola di Dio, Ignazio non fa
altro che esercitare fino al suo culmine il ruolo di vescovo, ossia di
annunciatore della parola. Non farà altro che eseguire per primo ciò che ha
sempre raccomandato. Anzi sa che deve saldare questo debito alla sua Chiesa.
Egli da tempo è vescovo di Antiochia, una città di grande prestigio. Come tale
ha avuto il compito d'ammaestrare e consolidare i fedeli. Forse ha esercitato
il suo ufficio in modo non appropriato perché nelle lettere appare chiaro che,
alla sua partenza da quella metropoli, ha lasciato forti tensioni tra i
cristiani. Forse a suscitarle ha contribuito anch'egli in modo involontario. Quello
che può offrire ora, per riparare (?), è un insegnamento ancora più convincente
di qualsiasi esortazione. Dopo tanto parlare, forse non sempre del tutto
provvido, vuole smettere di essere voce per diventare una parola efficace.
Ignazio, nonostante l'audacia del suo proponimento, non è affatto un
presuntuoso. Vuole essere una persona autorevole ma non è autoritario. Forse lo
sarebbe d'istinto ma corregge la sua tendenza con accorgimenti opportuni.
Il primo consiste nel situare meglio il ruolo del vescovo
all'interno della comunità. Egli non potrebbe insegnare al di fuori della sua
Chiesa d'Antiochia ma d'altra parte la carità lo spinge ad occuparsi anche
della situazione di altre comunità. Il trovarsi incatenato per Cristo, gli
darebbe una certa autorità spirituale ma tuttavia egli non ha concluso il suo
itinerario processuale e non può essere considerato ancora veramente un
martire. Ignazio segue questa via: dichiara in modo aperto la sua
consapevolezza di trovarsi in una via di mezzo e suggerisce di pregare per lui
affinché rimanga fedele a Cristo. In sintesi, manifesta il motivo per cui
potrebbe vantare una certa autorità spirituale (l'essere prigioniero) e nella
stesso tempo confessa la sua situazione di incompiutezza, per la quale si
considera non un maestro ma un discepolo assieme agli altri fedeli. Compare
questo titolo di condiscepolo (syndidaskalitês: E 3,1). Non si tratta di un astuto escamotage. Sa che può istruire ma anche che deve ricevere
istruzione e sostegno dagli altri. Il vescovo detiene un ruolo di prestigio ma
non può prescindere dagli altri fedeli. Tutti siamo discepoli in cammino.
Perciò siete tutti compagni di viaggio, tutti portatori di Dio, portatori
del tempio, portatori di Cristo, portatori di cose sante, in tutto adorni dei
precetti di Gesù Cristo. Mi rallegro con voi
anche perché grazie a ciò che scrivo sono stato degno di entrare in rapporto
con voi e con voi rallegrarmi (E 9,2)
Nessuno ha raggiunto la maturità in maniera completa e
definitiva. «Non vi do ordini, come se fossi qualcuno. Anche se infatti sono
stato incatenato a causa del nome, non sono ancora perfetto in Gesù Cristo. Ora
comincio a istruirmi e vi parlo come a miei condiscepoli, perché sono io che
debbo essere unto da voi in fede correzione pazienza longanimità. L'amore per
altro non mi permette di tacere riguardo a voi...» (E 3,1, 1-6). Ai Romani
suggerisce: «Per me chiedete soltanto la forza di dentro e di fuori, che non
solo parli ma anche voglia, che non sia solo chiamato cristiano, ma che anche
sia trovato tale...» (R 3,1, 3-5). Ai Filadelfi ricorda che la sua situazione
reale: da una parte egli si trova in una posizione di vantaggio spirituale -
essendo in catene per Cristo - ma d'altra parte essendo esposto ad un pericolo
maggiore, si sente piuttosto fragile: «Temo ancora di più perché ritengo di
essere ancora imperfetto ma la vostra preghiera mi renderà perfetto per Dio» (F
5,1, 3-5). Ignazio con queste parole e con le altre che ho citato non solo non
mostra alcuna arroganza ma si situa in modo naturale all'interno della Chiesa.
Pur detenendo un ruolo d'autorità, si sente discepolo insieme agli altri e
bisognoso di istruzione, di conforto e d'intercessione.
Secondo la 2 Clem bisogna
che, nella comunità, tutti siano convinti di aver bisogno di ricevere istruzione
dagli altri. La considerazione della nostra fragilità ci spinge a mantenerci
umili e disponibili anche ad eventuali correzioni: «Non prendiamocela a male e
non irritiamoci da stolti, quando qualcuno ci corregge... Talvolta facciamo del
male senza accorgercene per la duplicità d’animo e l’incredulità che si annida
nei nostri cuori» (2 Clem 19,2).
Nessuno tra i Padri apostolici, come l’autore della Lettera
di Barnaba, si mostra cosciente della
propria povertà. Da una parte è consapevole di aver progredito nella
conoscenza, per grazia di Dio, dall’altra non pretende di fare da maestro ma
intende esortare gli altri come fratello. Di fronte all’unico Maestro, il
Cristo, restiamo tutti e sempre dei discepoli: «Io, non come un maestro, ma
come uno di voi, vi spiegherò poche cose…» (1,8 PA 184). Nel testo riaffiora
questo umile sentire: «Vi chiedo anche questo come fossi uno di voi, poiché vi
amo particolarmente…» e, poco dopo, ripete: «Mi affrettai a scrivere come
vostro umile servitore…» (4,6 e 9).
Erma non esita ad ammonire
con severità gli stessi presbiteri: «Ora dico a voi che siete i capi della
Chiesa e occupate i primi posti: non siate simili ai fattucchieri. I
fattucchieri portano i loro filtri nei vasetti, voi portate il vostro filtro,
il veleno, nel cuore. Siete induriti e non volete purificare i vostri cuori e
fondere il vostro sentimento nel cuore puro per ottenere misericordia» (Erm
17,7).
La prassi cristiana
La risposta riconoscente
Il battezzato riceve il dono di partecipare alla
risurrezione e alla morte del Signore Gesù. Vive questo mistero all’inverso del
suo Maestro. Gesù prima ha dovuto morire e poi risorgere. La sua glorificazione
è stata causata dalla sua umiliazione. Noi, al contrario, possiamo unirsi alla
sua morte solo dopo essere stati risorti con Lui. La vita nuova e il dono dello
Spirito ci rendono possibile il fatto di poter fare nostra la sua morte. Morire
con lui, significa, in sintesi, camminare nella sua immensa carità. «Se non
scegliamo liberamente di morire grazie a lui per partecipare alla sua passione,
la sua vita non è in noi» (M 5,2).
Detto questo, è stato detto l’essenziale ma noi abbiamo
bisogno di scendere nei dettagli. Come si configurerà l’agire cristiano?
Silenzio e parola
Comincio da una sintesi di carattere simbolico. Richiamo
la relazione tra il dire e l'operare (declinata anche come opposizione tra il
parlare e il fare silenzio), espressa da Ignazio d’Antiochia: «È meglio tacere
ed essere che parlare e non essere. Insegnare è efficace se chi parla fa» (E
15,1,1-2). Il detto evidenzia il
bene primario della coerenza.
Cristo è il modello di un agire silenzioso. «Uno solo è il
maestro che disse e fu fatto, e le cose che egli ha fatto nel silenzio sono
degne del Padre» (E 15,1, 3). Gesù viene visto come uno che opera e non
soltanto come uno che parla. Già questo è un monito fondamentale. Cristo compie
azioni degne di Dio tacendo (sigon).
L'espressione usata non è immediatamente chiara. A quali opere si riferisce?
Alla creazione del mondo o quelle realizzate sulla terra? Inoltre si dice che
il suo agire è avvalorato e deriva da un silenzio. Che significa questo silenzio?
Quanto alla prima domanda, Ignazio sembra riferirsi alla
creazione (richiamata dal versetto del salmo trenta due), ma l’osservazione si
può estendere anche alle altre azioni di Cristo. Più importante è capire il
valore del silenzio con il quale Cristo ha agito. Per coglierne il senso
dobbiamo riferirci ad un altro passaggio della stessa lettera là dove parla di
tre misteri clamorosi realizzati da Dio nel silenzio (E 19,1, 3-4). In questo
contesto, il silenzio divino, reso
nel termine esichia, denota l'agire
proprio di Dio. Parlando alla maniera umana, l'operare di Dio avviene in due
fasi: nella prima Egli pensa a ciò che vuole fare e nella seconda realizza ciò
che ha progettato. Qui a Dio viene applicata una norma che è sempre valida in
ogni circostanza: un’opera è affidabile in proporzione all'accuratezza della
sua progettazione. Ora, ritornando al nostro testo, possiamo rilevare questa
verità: nelle opere di Gesù si avverte il silenzio di Dio, ossia la profondità
del progetto preparato dal Padre, la sapienza amorevole della sua benevolenza.
Non è un fare che sconta la superficialità dell'immediatezza perché proviene da
una profondità abissale.
Osservando il contesto da cui emerge quest'osservazione,
possiamo apprezzarne meglio il valore. Ignazio sta difendendo Onesimo, vescovo
di Efeso, criticato per la sua taciturnità (E 6,1). Forse non era molto
comunicativo di carattere o forse non era un gran parlatore (l'abilità retorica
era molto apprezzata all'epoca). Egli, però, è riuscito a mostrare nel suo
agire un modello evangelico; la
qualità della sua predicazione sta nel suo operare. Chi opera bene in silenzio,
nonostante le scarse capacità espositive o comunicative, si attesta come
maestro di fede grazie al suo agire evangelico, trascorso nel silenzio. Nelle
opere del vescovo Onesimo i fedeli dovrebbero cogliere l'intensità della sua
fede, così come nelle opere di Gesù si intravedeva la grandezza del Padre. In
sintesi il cristiano è vero soltanto quando agisce in modo, conforme al suo
credere (cf E 14,2). C'è un modo di essere che è un vero parlare, un comunicare
ben oltre le parole. La 2 Clem rileva i
guasti di un’incoerenza troppo evidente:
I pagani sono pieni di ammirazione quando ascoltano dalla nostra bocca le parole di Dio perché buone e ammirevoli; ma, poi, accorgendosi che le nostre opere non sono coerenti con le parole che diciamo, allora si volgono alla bestemmia, dicendo che sono favole e inganno. Quando, infatti, ascoltano da noi che Dio dice: Non c’è merito per voi, se amate coloro che vi amano, ma avrete merito, se amate i nemici e coloro che vi odiano; quando ascoltano queste cose, si meravigliano di così elevata bontà; ma quando vedono che non solo non amiamo coloro che ci odiano, ma nemmeno quelli che ci amano, ci deridono e bestemmiano il nome del Signore (13,3-4).
Voce e parola
Ignazio non conosce soltanto la contrapposizione tra
silenzio e parola ma anche quella tra voce e
parola. Possiamo rendere il suo
ragionamento in questa forma sintetica: finché non abbiamo donato al Signore
tutto noi stessi, siamo soltanto voce; quando, al contrario, ci siamo dati a lui in pienezza, allora e soltanto allora, diventiamo veramente parola. Ogni cristiano è invitato a fare questo passaggio
dall'essere voce a divenire davvero parola. Sviluppa questa riflessione nella
lettera ai Romani. Chiede ai fedeli di quella città di non compiere alcun passo
presso le autorità nell'intento di preservarlo dalla condanna a morte: «Se
riguardo a me sarete silenzio [ossia se non farete alcun intervento], io sarò
parola di Dio». Subito dopo continua: «Se amerete la mia carne, al contrario,
sarò solo una voce» (R 2,1,4-6). A prescindere dell'opportunità di tale
richiesta, è chiaro il senso del suo ragionamento: soltanto chi diviene amore
totale, nel pieno dono di sé, diventa parola di Dio. Ignazio spera di diventare
parola perché una caratteristica fondamentale della parola divina è proprio
quella di essere efficace. Mentre la parola umana rimane sempre nell'incertezza
dal momento che ciò che l'uomo si propone può verificarsi ma anche restare
incompiuto, in Dio esiste una coincidenza tra parlare ed agire. Passando
realmente attraverso il martirio, Ignazio completa realmente un progetto che
non rimane incompiuto e in questo modo il suo agire partecipa all'efficacia
tipica della parola divina. Essere parola, infine, è offrire una testimonianza
persuasiva capace di istruire e consolidare nella fede ma significa anche
superare la transitorietà dell'essere umano per ottenere una consistenza
eterna. La parola di Dio rimane per sempre. Ignazio confida nella sua
partecipazione alla vita vera del Risorto.
L’occasione rappresentata dagli eventi
Agire a partire dal silenzio; divenire parola in una vita
coerente. Dopo questo richiamo più generale, cominciamo a tratteggiare lo stile
di vita cristiano. Comincio però da due elementi piuttosto impegnativi. In
questo modo possiamo mostrare come l’agire cristiano dipenda strettamente dalla
convinzione di fede.
Il cristiano ha verificato l'amore di Dio, in modo più
solido e sublime di quanto è accaduto nella prima alleanza. Allora, più ancora
del fedele israelita, dovrà imparare a fidarsi di Dio, come Padre. Questo
sentimento di fiducia ci consente di rispondere in modo positivo, con fede e
amore, al volere di Dio che si esprime nelle circostanze della vita. Il nostro,
come gli altri esponenti della Chiesa primitiva, si muovono all'interno della
prospettiva biblica. La Didaché offre
questo suggerimento: «Accetterai per buone tutte le vicissitudini che ti
capiteranno, sapendo che niente avviene che Dio non voglia» (3,10). Il
cristiano non ha più la padronanza della sua esistenza, e non vuole più
averla, ma si pone a totale
disposizione di Dio: «non ha più potere su di sé, ma è a disposizione di Dio»
(P 7,3).
Un'immagine simbolica presentata da Erma illustra bene
questa convinzione. Egli racconta che andando per strada vide davanti a sé una
bestia spaventosa. Poi soggiunge: «Rivestito della fede in Dio e memore delle
grandi cose che mi aveva insegnato, fattomi coraggio mi esposi alla belva».
Erma non si dispera, non si consegna, non cerca di fuggire ma si espone alla
belva, cioè l'affronta con fede in Dio. Che cosa avviene? Egli aggiunge: «La
bestia procedeva con strepito tale quale si schiantasse una città. Mi avvicino
e l'enorme cetaceo si stende per terra. Non si mosse per nulla sino a quando lo
oltrepassai». In seguito Erma riceve la spiegazione dell'accaduto. Una figura
celeste gli dice: «Le sei sfuggito perché ha i rimesso in Dio il tuo affanno e
hai aperto il tuo cuore al Signore, credendo che, mediante nessun altro
potresti essere salvato... Sei sfuggito a un grande pericolo per la tua fede e
per non essere stato incerto (dubbioso), vedendo un simile mostro. Racconta
agli eletti di Dio le sue meraviglie e di' loro che questa bestia è il simbolo
di una grande tribolazione che sta per venire» (Erm 22,5-23). Erma nel seguito
del discorso aggiunge un'osservazione decisiva: «Avete un'immagine della grande
prova che è imminente. Se volete, non sarà nulla» (Erm 24,6). Mentre noi siamo
propensi a valutare la difficoltà di una tribolazione per la valutazione che ne
diamo, Erma invita ad osservare il sentimento che nutriamo di fronte ad essa;
la difficoltà viene aggravata dalla nostra angoscia e il farsi trascinare da
quest'ultima può diventare l'elemento decisivo, al contrario «se volete, non
sarà nulla».
Il racconto illustra in modo egregio un principio basilare
della fede: se abbiamo compreso l’intensità dell’impegno di Dio e della sua
solidarietà verso di noi, allora dobbiamo rivolgerci a lui con grande fiducia e
confidenza in ogni circostanza ma soprattutto in quelle che avvertiamo come le
più negative o difficili. È quanto viene raccomandato da Erma:
Rimuovi da te l'incertezza e non dubitare assolutamente di chiedere a Dio,
dicendo in te stesso: come posso chiedere e ricevere dal Signore avendo io
peccato molto contro di lui? Non pensare così, ma con tutto il cuore rivolgiti
al Signore e pregalo con fermezza, e conoscerai la sua grande misericordia,
perché non ti abbandonerà, ma compirà la preghiera della tua anima. Dio, non è
come gli uomini che serbano rancore, ma egli non ricorda le offese ed ha
compassione per la sua creatura (Erm 39,1-3).
Questo per quanto
riguarda la nostra relazione con Dio. E per quanto riguarda la relazione col
prossimo? Richiamo la presenza di altre belve: dieci leopardi. Ignazio denomina
in questo modo i dieci soldati di scorta che l'accompagnavano nel suo viaggio a
Roma, come prigioniero, là dove avrebbe subito il martirio. I carcerieri erano
persone intrattabili. Per quanto cercasse di ammansirli, lo trattavano sempre
peggio. Il suo martirio comincia nel corso del viaggio. Allora dichiara: «Grazie ai loro soprusi ricevo una
migliore istruzione» (Rm 5,1, 4). Proprio per dover convivere con uomini
brutali, Ignazio impara l'umiltà, la pazienza, il perdono, l'abbandono in Dio.
Questo non significa che non possiamo cercare di migliorare la nostra
situazione, intavolando trattative con i nostri interlocutori più problematici.
Ignazio parla all'interno di una situazione senza sbocco. Questo significa
semplicemente che non esiste condizione nella quale al credente sia esclusa la
possibilità di vivere e annunciare la carità di Dio.
Scrivendo agli Efesini, estende a tutti l'esperienza che
sta vivendo. La prova di pazienza diventa una caratteristica del cristiano: «Pregate incessantemente per gli
altri uomini, perché c'è speranza che essi si pentano per arrivare a Dio.
Permettete loro di apprendere almeno dalle vostre opere. Siate miti di fronte
alla loro ira, umili di fronte alla loro superbia, opponete le preghiere alle
loro bestemmie, saldi nella fede di fronte al loro errore, pacifici di fronte
alla loro ferocia, senza cercare di imitarli» (E 10,1-2). Nel primo caso
(affrontare gli eventi) e nel secondo (affrontare le relazioni difficili),
l'arte è quella di trasformare il male in occasione di bene. Questa è l'arte
delle arti.
Ignazio accetta come cosa buona perfino la sua condanna a
morte, sebbene venga eseguita in modalità disumane, ed attesta con sentimento
di speranza: «Non avrò mai più, io, una simile occasione di raggiungere Dio» (R
2,1,2-3). Il cristiano non ha più la padronanza della sua esistenza, e non
vuole più averla, ma si pone a
totale disposizione di Dio: «non ha più potere su di sé, ma è a disposizione di
Dio» (P 7,3). Venuto a trovarsi a Troade, Ignazio pensava di scrivere ad altre
Chiese ma sopraggiunse l’ordine della partenza per Neapoli. Per lui l’ordine
non esprime tanto il comando della guardia che lo scorta, ma il volere stesso
di Dio (P 8,1). I disegni degli uomini possono essere malvagi e orientati ai
loro interessi ma Dio scrive il suo volere all’interno di qualsiasi trama. Il
vero credente rimane fermo sotto le sventure, come l’incudine resta sotto i
colpi (P 3,1). Da questo lato è come un atleta che vince soltanto se sa
sopportare.
Ciò che può fare ora è compiere un'azione trasformatrice
di ogni male in un bene. Il trovarsi in compagnia di soldati che perseguitano i
prigionieri, diventa per lui una scuola di pazienza. Ancora di più: diventa
un'occasione per imparare ad amare i nemici e trasmettere loro un messaggio di
rettitudine e bontà. La navigazione fino a Roma, diventa un'occasione per
incontrare i rappresentanti delle varie Chiese e consolidare i fedeli dell'Asia
nella fede. Il processo e l'esecuzione della condanna diverranno un'occasione
forte di testimonianza. La morte sarà un modo per andare a Dio e per guadagnare
Cristo. Il martirio sarà cambiato in un sacrificio a Dio e un riscatto per
tutti i cristiani. In una parola,
vuole cogliere i fatti che accadranno come occasione (kairòn). La capacità di trasformare ogni male in bene, in
occasione d'amore, dimostra che il cristianesimo non è «un'opera di persuasione,
ma di grandezza» (R 3,3,8-9). La diffusione della fede cristiana nel mondo non
è frutto di capacità retorica o altro ma dall'esperienza della potenza della
vera della carità.
Ignazio vede in questa testimonianza di perdono e di
benevolenza ad oltranza un modo egregio per imitare la passione di Gesù:
Dimostriamoci loro fratelli nella bontà, adoperiamoci a imitare il Signore
- chi ha patito più di lui l'ingiustizia? chi è stato più defraudato,
maltrattato? -, affinché non si trovi in voi l'erba del diavolo ma perseveriate
in tutta purezza e temperanza in Gesù Cristo secondo la carne e lo spirito (E 10,3).
È il modo migliore che ogni cristiano possiede per
introdurre nel mondo la novità del cristianesimo che prevede la dissoluzione di
ogni malvagità e la distruzione della morte. La Didaché offre istruzioni simili: «Non odierai nessuno, ma
alcuni riprenderai, per altri pregherai, altri amerai più della tua stessa
anima» (2,7).
Nel corso del processo e dell'esecuzione della sentenza,
come ho già riferito, ritiene che potrà diventare parola, raggiungere la maturità di discepolo. Definisce il
martirio in due modi come sacrificio (spondizomai; thysia; cf. R 2,2, 6 e 4,2,11) e come prezzo di
riscatto (antipsychon; cf. S 10,2,5).
Pacificazione del cuore
Il primo compito del battezzato è quello di convertire se stesso. Ognuno di
noi deve considerarsi il più difficile e il più duro davanti a Dio. In che modo
si manifesta il cristiano redento?
Risponde Erma: «Dalla vita distingui l'uomo che ha lo Spirito di Dio. Chi
ha ricevuto lo Spirito dall'alto è calmo, sereno, umile e lontano da ogni
malvagità e desiderio vano. Egli considera se stesso inferiore a tutti gli
uomini» (Erm 43,7-8). I Padri e, dopo di loro, altri autori spirituali,
insistono sul valore dell'essere pacificati. Questo implica un grande
sentimento d'umiltà, come anche l'assenza di collera e risentimento; l'assenza
d'interesse per i falsi valori imposti dalla cultura dominante che creano
smania ed inquietudine. La pacificazione implica il rifiuto del carrierismo, la
sottomissione e l'adattamento alle situazioni avverse.
Ignazio attesta: «Chi possiede veramente la parola di Gesù
può ascoltare anche il suo silenzio». Il silenzio di Cristo, come quello di
Dio, viene designato col termine esichia.
Si potevano usare altri termini più usuali (come sighe o siope).
L'esichia di Gesù manifesta
quella di Dio. Il termine esichia,
nell'uso tradizionale cristiano, richiama,
oltre che il silenzio fisico, anche il modo di essere di chi è pacifico,
tranquillo, colmo di benevolenza. Parlando di sé, Ignazio attesta: «Ho bisogno
di essere più mite, in modo da distruggere il principe di questo mondo» (T 4,2,
6).
Mitezza e pacificazione sono raccomandati di continuo in
questi antichi testi cristiani, poiché rappresentano il modo di vivere
dell'uomo nuovo che imita lo stile di vita di Cristo, i suoi modi di
comportamento (tous tropous Kyriou, D
4,8,15). Ecco come viene descritto dalla Didaché tale uomo evangelico: «Sii paziente misericordioso
benevolo tranquillo (esykios)
buono» (D 4,8,1-2). Bisogna manifestare una modalità di vita che richiami la
figura mite di Gesù. Le sue parole
erano e rimangono una manifestazione della sua esichia.
Volendo correggere il comportamento tenuto in quel momento
da Erma, differente da quello consueto, una figura celeste dice a lui: «Tu che
sei paziente, mite e sempre sorridente, perché appari tetro e non gioviale?» (Erm
2,2). All’opposto l’uomo che viene condotto dall’angelo della malvagità «prima
di tutto è irascibile, aspro e stolto» (Erm 36,4). Nell’esporre i precetti
morali, si sofferma a lungo sul valore della pazienza e dell’assenza di
collera. Lasciarsi andare dalla collera è come versare pochissimo assenzio in
un vaso di miele: il miscuglio lo renderà del tutto inservibile (33,5). Espone
la relazione tra la pazienza mite e la presenza dello Spirito Santo: «Se sarai
paziente lo Spirito Santo che dimora in te sarà puro e non offuscato da altro
cattivo spirito. Abitando in un luogo grande si rallegrerà ed esulterà col
corpo in cui abita e servirà il Signore con molta gioia… Se sopraggiunge una
collera, subito lo Spirito Santo, che è delicato, si angustia, non avendo più
il luogo puro e cerca di allontanarsi» (33,2-3). Elogia con forza il bene della
pazienza: «… è grande e forte e ha un vigore formidabile, saldo e prospero e si
estende largamente. La pazienza è gioiosa, contenta, senza preoccupazioni e
magnifica il Signore in ogni tempo. Nulla ha in sé di aspro e rimane sempre
calma e tranquilla» (34,3).
Solidarietà
L’amore più che un sentimento è una stile di vita. La più
grande forma di carità, come abbiamo visto, sta nella purificazione del cuore
che ci impedisce di odiare i persecutori. Oltre a questo, la carità esige
solidarietà e compassione. La disponibilità a trasformare il male in bene, il
fatto doloroso in un’esperienza positiva non trova un campo d’esercizio
soltanto nella pazienza o nella mitezza ma anche nella solidarietà concreta.
Clemente ricorda con ammirazione coloro che si erano sacrificati a favore di
altri: «Sappiamo che molti tra di noi si offrirono alle catene per liberare gli
altri; molti si offrirono alla schiavitù e con il prezzo ricavato davano da
mangiare agli altri» (55, 2; sul tema della liberazione dalla schiavitù cf. P
4, 3).
San Paolo aveva concepito la colletta organizzata a favore
dei poveri di Gerusalemme in primo luogo come un modo per soccorrere degli
indigenti nella ristrettezza, ma anche per stabilire almeno una certa
uguaglianza (isòtêtos) nel godimento dei
beni all’interno della comunità (2 Cor 8,13). L’uguaglianza non era intesa come
una distribuzione matematica dei beni, ma un modo per supplire all’indigenza,
particolarmente nei momenti di difficoltà. Non era sufficiente privarsi di
qualcosa ma bisognava impedire che mentre alcuni potevano vivere con
tranquillità, altri fossero privi del necessario. La carità interveniva per
creare giustizia. L’ideale cercato da Paolo rimane come costante nel modo di
pensare di questi autori. Riaffiora in modo più esplicito la dove potrebbe
essere messo a repentaglio con maggiore rischio:
Aiutatevi vicendevolmente e non godete da soli nell’abbondanza delle cose
create da Dio, ma datele anche ai bisognosi. Alcuni a causa dell'abbondanza dei
cibi si procurano delle malattie nella loro carne e corrompono la loro carne. Invece,
la carne di coloro che non hanno da mangiare si consuma poiché non hanno il
necessario nutrimento, e il loro corpo si distrugge. Questa intemperanza è
dannosa per voi che possedete e non date ai bisognosi. Prestate attenzione al
giudizio che si avvicina. Voi che avete di più cercate gli indigenti finché la
torre [ossia l’edificazione della Chiesa] non è ancora terminata; infatti dopo
che sarà terminata vorrete fare del bene e non ne avrete la possibilità. Fate
attenzione voi che vi vantate della vostra ricchezza, che i bisognosi non si
lamentino mai e il loro lamento non salga al Signore e voi non siate chiusi con
i vostri beni al di fuori della porta della torre [fuori della Chiesa e del
Regno] (Erm 17,2-6).
Clemente che insiste molto sulla collaborazione reciproca
nella comunità, estende questo stile anche sul piano economico: «Il forte si
prenda cura del debole e il debole rispetti il forte. Il ricco soccorra il
povero, il povero benedica Dio per avergli dato chi supplisce alla sua
indigenza» (38,2).
Nella Lettera di Barnaba, la solidarietà, che comprende in primo luogo l’elargizione del denaro
e una certa condivisione dei beni, è una virtù che è molto raccomandata: «Non
esitare nel concedere e non brontolare nel dare e conoscerai chi è il tuo buon
rimuneratore» (19, 9). L’ideale positivo può essere delineato in opposizione al
suo contrario: «[I malvagi] non si curano della vedova e dell’orfano… Sono
crudeli verso il povero, indolenti verso il sofferente, uccisori dei figli,
incuranti del bisogno, oppressori del tribolato, avvocati dei ricchi, giudici
cattivi dei poveri» (Barn 20, 2).
Ignazio osserva come la convinzione di fede interferisca
nel modo di rapportarci col prossimo. I doceti che rifiutavano di pensare che
Cristo avesse un corpo reale e che avesse sofferto nella sua carne, erano
portati a trascurare le sofferenze dei fratelli. «Osservate ora costoro che
hanno una diversa opinione riguardo alla grazia di Gesù Cristo che è venuta a
noi, quanto sono contrari al pensiero di Dio. Non si curano della carità: non
della vedova, non dell’orfano, non di chi è afflitto, non di chi è imprigionato
o libero, non di chi ha fame o sete» (S 6,2).
L’A Diogneto propone
al cristiano l’imitazione di Dio. L’ideale della conformazione al divino era
stato già proposto dalla filosofia: bisogna desiderare di raggiungere la
beatitudine, la tranquillità, l’impassibilità del divino. Il cristiano deve
piuttosto imitare la bontà di Dio e sapere che se egli può aprirsi ad
un’esperienza autentica d’amore, lo può fare grazie all’azione di Dio in lui. «Ad
amarlo diventerai imitatore della sua bontà, e non ti meravigliare se un uomo
può diventare imitatore di Dio: lo può volendolo lui (l’uomo)» (10,4). Un uomo dona
ad un altro ciò che egli ha ricevuto in precedenza da Dio. Con l’amore si
ottiene anche la gioia, la beatitudine e l’impassibilità.
«Non si è felici nell’opprimere il prossimo, nel voler ottenere più dei
deboli, arricchirsi e tiranneggiare gli inferiori. In questo nessuno può
imitare Dio, sono cose lontane dalla Sua grandezza! Ma chi prende su di sé il
peso del prossimo e in ciò che è superiore cerca di beneficare l’inferiore;
chi, dando ai bisognosi ciò che ha ricevuto da Dio, è come un Dio per i
beneficati, egli è imitatore di Dio. Allora stando sulla terra contemplerai
perché Dio regna nei cieli, allora incomincerai a parlare dei misteri di Dio…»
(10, 5-6)
Pensando a come ci si deve preparare al giudizio futuro, la
2 Clem mette a confronto tra loro tre beni,
elemosina, digiuno e preghiera, e fra i tre preferisce l’elemosina: «Bella è
l’elemosina come pentimento del peccato. Il digiuno è migliore della preghiera
e l’elemosina migliore di entrambi» (16,4). Nel Pastore di Erma
leggiamo questo suggerimento:
«Fa’ il bene e ciò che il Signore ti dà delle tue fatiche, elargiscilo con semplicità a tutti i bisognosi senza esitare a chi dare o a non dare. Da' a tutti; infatti, il Signore vuole che a tutti si diano opri beni. Quelli che ricevono daranno conto a Dio perché e a qual fine hanno ricevuto. Coloro che hanno ricevuto essendo nella necessità non saranno giudicati; invece, coloro che hanno ricevuto con ipocrisia, sconteranno la pena. Chi dà, è innocente, poiché, infatti, ha ricevuto da Dio il comando di compiere un servizio e lo ha svolto con semplicità senza discriminare a chi dare o meno. Un tale servizio compiuto con semplicità è ammirevole presso Dio. Dunque, chi serve con semplicità, vivrà in Dio. Osserva, dunque, questo precetto, come ti ho detto, affinché la penitenza tua e della tua casa nella semplicità sia trovata pura, schietta e incorruttibile» (17,4-6).
L’autore espone in seguito la similitudine della vite e
dell’olmo (51,1-10). La prima rappresenta i ricchi e il secondo i poveri. La
vite, che di per sé è fruttifera, ha bisogno di appoggiarsi all’olmo, una specie
che non produce alcun frutto commestibile. La collaborazione che si instaura
tra gli alberi, diventa un modello per gli uomini. I ricchi devono sovvenire ai
poveri, per non far marcire i loro frutti lasciandoli cadere a terra e i poveri
si assumono l’impegno di pregare per i ricchi che li soccorrono. «L’uno e
l’altro compiono un lavoro; il povero fa la preghiera, in cui è ricco, la
preghiera che riceve dal Signore e a lui rende per chi l’aiuta. Ugualmente il
ricco offre al povero, senza titubanza, la ricchezza ricevuta da Dio.
Quest’opera è grande e gradita a Dio» (51, 6-7).
I cristiani nel mondo
Non è un argomento trattato in modo diffuso ma questi
autori ci offrono buoni spunti. Ignazio suggeriva di non rispondere alla
violenza dei pagani con l’odio. La 2 Clem
era preoccupata che la comunità offrisse una testimonianza coerente.
Ho accennato alla dottrina più articolata dell’Ad Diogneto: i cristiani sono l’anima del mondo. Non sono un
genere d’umanità a parte ma sono presenti in ogni popolo e cultura. Condividono
gli usi culturali della popolazione a cui appartengono e assicurano la
prosperità dei loro concittadini ma vivono anche, nelle convinzioni etiche,
un’estraneità culturale che presenta la forma di segno o anticipazione
profetica: «Si trovano nella carne, ma non vivono secondo la carne» (5,8).
Sostiene il H. I. Marrou che uno dei pregi del passo sia
quello di creare una sintesi tra immanenza e trascendenza senza fermarsi ad una
giustapposizione antinomica (cf. A Diogneto,
Sources Chrétiennes…, 134). I cristiani, pur considerando la vita eterna la
loro vera paria, non abbandonano il mondo a se stesso ma se ne prendono cura.
L’A Diogneto realizza
un grande equilibrio, piuttosto difficile. Era più facile, ad esempio,
evidenziando la novità cristiana, accentuare l’incompatibilità con la cultura e
l’etica delle masse pagane. È quanto leggiamo nella 2 Clem:
Dice il Signore: Nessun servo può servire due padroni (Lc 16,13) Questo mondo attuale e quello futuro sono
due nemici. Questo predica l'adulterio, la corruzione, l'avarizia e l’inganno,
quello esclude queste cose. Dunque, non possiamo essere amici di tutt'e due;
occorre che noi escludendo l'uno, ci serviamo dell'altro. Riteniamo che è
meglio disprezzare le cose della terra, perché insignificanti, di breve durata
e corruttibili, ed amare, invece, i beni incorruttibili. Infatti, facendo la
volontà di Cristo troveremo la pace; se, invece, disobbediremo ai suoi
precetti, nulla ci sottrarrà alla punizione eterna (2 Clem 6,1).
Non bisogna trasformare lo spunto polemico in una dottrina
conclusa perché la 2 Clem non rifiuta di
per sé la creazione né la terra ma è più preoccupato a richiamare l’estraneità
del cristiano riguardo al mondo. Oltrettutto i cristiani del tempo pensavano
che la fine del mondo fosse imminente. «Venga la grazia, e passi questo
mondo!»: è l’implorazione che troviamo nella Didaché (10,6). È chiaro, comunque, che il credente deve
realizzare un equilibrio difficile tra amore alla terra e ricerca del Regno
trascendente.
Nei momenti di prova o di acuta sofferenza, poi, era
ancora più facile alimentare il senso di estraneità. Nel momento in cui sta per
affrontare il martirio, un certo Germano attira su di sé la belva aizzandola
«desideroso di allontanarsi al più presto da questa vita ingiusta e iniqua» (MP
3,1). È più probabile che non volesse cedere alle lusinghe del proconsole e
tradire la fede. Conservare la fede, infatti, presupponeva una lotta strenua
(cf. 2 Clem 7,1-5).
Come spiega l’A Diogneto il rifiuto che giunge fino alla persecuzione? Quest’ultima non insorge
a motivo della loro perversità (come credono gli oppositori), ma perché il
corpo talora si ribella all’anima. Fuori metafora i valori proclamati e vissuti
dalla comunità di fede diventano un monito per gli altri uomini. Accolti o
rifiutati che siano, i cristiani hanno comunque un compito decisivo da svolgere per salvaguardare la
creazione e preparare il mondo nuovo di Dio. Il dono della novità di vita,
ricevuto da Dio, non è soltanto un bene da godere ma anche un compito da svolgere
a favore di tutti. L’animazione del mondo non consiste in primo luogo o in modo
esclusivo nella testimonianza ma anche del culto sia di quello che corrisponde
ad un’esistenza santa, sia a quello offerto con le labbra. I cristiani,
minoranza perseguitata, rivolgevano la preghiera per tutti: «Pregate anche per
i re, le autorità e i principi e per coloro che vi perseguitano e vi odiano…» (LP
12,3).
È opportuno rilevare come questo compito di animazione del
mondo, assegnato dalla lettera al cristiano in quanto tale, in seguito verrà
ristretto soltanto a gruppi di cristiani considerati più conformi a questo
ideale rispetto alla massa (ad esempio i monaci). Benché sempre nella Chiesa ci
sia chi vive la fede con più radicalità e coerenza, non deve mai essere
dimenticato che il compito di animazione spirituale (e di testimonianza
profetica) appartiene a tutti i discepoli, i quali devono essere luce e sale
all’interno della società, in uno stile di rispetto verso tutti.
Il modello immaginato da questo autore presuppone una
Chiesa di minoranza all’interno di una società più vasta, tendenzialmente
diffidente. Esso però afferra qualche cosa che appartiene all’essenza del
cristianesimo. Quando la Chiesa svolge bene il suo compito diventa, anche in
modo percepibile, anima della società ed è questo l’apporto più significativo
che può offrire come servizio agli uomini e come strumento di dilatazione del
Regno di Dio.
A patire dal sec. IV a questo modello, se ne sovrapporrà
un altro molto differente. Dobbiamo metterli a confronto per poter comprendere
meglio il valore della proposta dell’A Diogneto. Secondo la teologia di Eusebio, vescovo di Cesarea, il Logos viene considerato l'immagine originaria,
l'imperatore la copia. «Come il salvatore ha sottomesso il regno superiore al
Padre, così l'imperatore, l'amico di Dio, prepara i suoi sudditi per il regno
del Figlio. Il Verbo combatte i nemici invisibili mentre l'imperatore combatte
i nemici visibili della verità, i pagani e gli eretici... La condizione di
immagine dell'imperatore corrisponde del resto al suo dovere di imitare in
tutto il suo modello. Mediante questa mimesis egli parteciperà del potere del Verbo. Questa
imitazione gli riesce tanto più facile, in quanto egli come amico di Dio è
continuamente ispirato dallo Spirito di Dio. Nella luce di questa teologia, o
meglio soteriologia politica, si capisce ora perché Cristo viene presentato a
partire da questo periodo come imperator, come Signore del mondo» (B. Studer, Dio Salvatore…, 184). Questa visione teologica, che auspica una
simmetria tra potere civile e religioso, poteva portare ad una subordinazione
della Chiesa all’Imperatore o viceversa. Le tensioni tra i vescovi con i
successori di Costantino (Costanzo, Giuliano), nella prima parte del sec IV,
impedirono l’assunzione pacifica di questo schema di pensiero. Con l’avvento di
Teodosio, invece, vi fu un avvicinamento della Chiesa al potere. Questo fatto
favorì una umanizzazione delle leggi, in spirito più cristiano, ma la esposse
alla mondanizzazione o ad essere strumentalizzata dal potere politico.
L’espressione più deteriore consisterà nell’intolleranza verso il paganesimo,
l’ebraismo o gli eretici (cf. M. Guidetti, Costantino e il suo
secolo….184-188; cf. H. Rahner, Chiesa
e struttura politica nel cristianesimo primitivo. Documenti della Chiesa nei
primi otto secoli, Jaca Book, Milano 2003).
Il regno del Signore Gesù non avrebbe
dovuto, di per sé, spaventare o danneggiare nessuno.
Unità della Chiesa
Rischi di frattura
Gli interventi dei Padri, riportati dai documenti che ci
hanno lasciato, sono spesso occasionali. Nascono in circostanze specifiche per
affrontare problemi legati al luogo e al tempo. La lettera di Clemente e le
lettere di Ignazio manifestano in modo chiaro la presenza di forti contrasti
nelle comunità con le quali sono in relazione e sperano, con le loro
esortazioni, di riportare un clima di pacificazione. A creare contrasto sono in
genere non tanto una diversità d’opinione e d’accento ma una vera frattura con
l’insegnamento della Tradizione. Ho accennato ai doceti che negavano la vera
umanità di Cristo; ai giudaizzanti che tendevano a mettere al primo posto la
legge mosaico piuttosto che la figura di Gesù.
Altri contrasti, di carattere disciplinare, insorgevano al
momento della nomina dei capi delle comunità. Non solo c’era una diversità di
vedute nella valutazione delle persone ma non mancavano neppure sentimenti
d’ambizione o di vanagloria. Per quanto riguarda la Didaché «siamo
evidentemente in un periodo di transizione, di passaggio da una gerarchia
primitiva, missionaria carismatica e itinerante, a una stanziale, per cui
quella, pur di fatto decaduta di prestigio, è ancora formalmente in vigore e
fruisce dell'autorità della tradizione, mentre si fa strada la nuova, pur non
senza contrasti, se il nostro autore, che la ritiene equivalente per autorità
all'antica (15,1), sente però l'esigenza di raccomandarla alla considerazione
della comunità (15, 2)» (SG 41).
La lettera a Clemente presuppone, invece, un evento
traumatico. Alcuni giovani della Chiesa di Corinto avevano in discussione il
gruppo degli anziani che esercitavano nella comunità il ruolo di guida. La
comunità vive in un grave disagio. La comunità di Roma, che aveva un legame
particolare con quella di Corinto, interviene nella questione per riportare un
clima di pacificazione e di collaborazione. Il caso acquista un valore anche
per le motivazioni teologiche implicate. «In
1Clem non si parla propriamente di successione apostolica, bensì di una
successione ministeriale stabilita dagli apostoli (il cui ruolo è quello di
evangelizzare, non di guidare la comunità), ma prelude passo ulteriore che si
compirà alla fine del II secolo, in quanto la dimostrazione proposta per
persuadere i Corinzi indurrà a vedere negli episcopi/presbiteri i successori degli
apostoli» (SG 105).
Ignazio, invece, sente il
dovere di garantire la bontà del passaggio da un episcopato collegiale ad uno
legato ad una sola persona, visto che talora l’autorità della nuova forma
d’episcopato non veniva accettata. Forse sembra questa l’origine dei contrasti.
È certo, in ogni caso, che gruppi di fedeli non partecipavano più alle riunioni
oppure celebravano eucarestie separate. Probabilmente, oltre alla questione
menzionata, le comunità erano divise a causa delle correnti dottrinali, eretiche,
che le percorrevano.
Per ricomporre l’unità era
necessario intervenire sul piano dottrinale e su quello etico. Bisognava
coltivare convinzioni di fede rispettose della tradizione degli apostoli ma
anche gli atteggiamenti interiori che favorivano la comunione. Visto che il
dibattito dottrinale si svilupperà nelle generazioni successive all’epoca che
stiamo esaminando, i Padri a cui ci riferiamo insistono soprattutto
sull’atteggiamento interiore. La comunità deve essere unita.
Ritrovarsi
La Didaché richiama
con forza un’esigenza espressa da Gesù: è vietato partecipare al culto senza
aver ricercato prima la riconciliazione con il fratello con il quale è avvenuto
uno screzio. È impossibile che non sorgano fraintendimenti, incomprensioni o attriti
ma questi devono essere ricomposti nel dialogo e nel perdono reciproco. Ogni
riunione inizia dal riconoscimento della propria responsabilità: «Riuniti nel
giorno del Signore, spezzate il pane e rendete grazie quando avete confessato i
vostri peccati, perché sia puro il vostro sacrificio. Chi è in lite con il suo
amico, non si unisca a voi, prima che non si siano rappacificati per modo che
non sia profanato il vostro sacrificio» (D 14,1-2).
Il riuscire a fare comunione presuppone che i membri della
comunità si ritrovino tra loro con una certa frequenza per sostenersi
reciprocamente: «Riunitevi spesso cercando ciò che conviene alle vostre anime»
(D 16,2). Questo vale nella prospettiva
di una grave prova della fede, come quella prevista negli ultimi tempi, considerati
allora imminenti. Rivolgendosi ai cristiani che non accettavano l’autorità del
vescovo, Ignazio ammonisce: «Chi non partecipa alla riunione è un orgoglioso e
si è giudicato» (E 5,3). In seguito aggiunge: «Impegnatevi a riunirvi più di
frequente nell’azione di grazie e di gloria verso Dio. Quando vi riunite
spesso, le forze di Satana vengono abbattute… Niente è più bello della pace» (E
13,1). Al vescovo Policarpo ricorda l’opportunità di un’attenzione personale a
tutti: «Le adunanze siano molto frequenti. Invita tutti per nome» (P 4,2).
«Radunandoci di frequente sforziamoci di progredire nei precetti del Signore,
perché tutti avendo gli stessi sentimenti, possiamo essere riuniti per la vita»
(2 Clem 17,3).
Collaborazione
Clemente insiste sulla reciproca collaborazione in una
relazione d’uguaglianza all’interno della comunità: «I grandi non possono stare
senza i piccoli e i piccoli senza i grandi; in tutte le cose c’è qualche
collegamento e in questo sta l’utilità. Prendiamo il nostro corpo. La testa non
può stare senza i piedi, né i piedi senza la testa. Le più piccole parti del
nostro corpo sono necessarie ed utili a tutto il corpo; ma tutte convivono ed
hanno una sola subordinazione per salvare tutto il corpo» (37,4-5). In base a
questo principio egli chiede la sottomissione ai presbiteri che erano stati
rimossi e chiedeva, come ho già rilevato, una vera condivisione delle risorse
economiche.
Comunione trinitaria
Ignazio fonda per primo una
spiritualità di carattere trinitario. In che senso? Il modello che suggerisce
ai cristiani per poter vivere nell’unità è quella manifestata da Gesù con il
Padre. Il passo più espressivo in questo senso lo troviamo nella lettera ai
Magnesi:
Come il Signore nulla fece senza il Padre col quale è uno, né da solo né
con gli apostoli, così voi nulla fate senza il vescovo e i presbiteri. Né
cercate che appaia lodevole ciò che fate a parte, ma tutto sia fatto in comune:
una sola preghiera, una sola supplica, una sola intenzione, una sola speranza
nella carità, nella gioia purissima che è Gesù Cristo, del quale nulla è
meglio.
Correte tutti come all’unico tempio di Dio, intorno all’unico altare,
all’unico Gesù Cristo che è proceduto dall’unico Padre e nell’unico Padre è e
ritorna (M 7,1).
Nel passo, iniziando dalla
frase conclusiva, ci viene detto che Gesù vive sempre in Dio: da lui è
proceduto, in lui continua a vivere e in lui ritornerà. Sono formule
paradossali per dire che Gesù è sempre strettamente unito a Dio. L’unità
proclamata in questa maniera si è manifestata nella vita terrena di Gesù. Nel
corso della sua missione nel mondo non fece nulla senza il Padre e abituò gli
apostoli a comportarsi alla stessa maniera. Ora Gesù, il Risorto, comunica a
tutta la Chiesa il suo stesso spirito d’unità. I fedeli non devono sottrarsi
alla comunione con il vescovo e i presbiteri.
Dal punto di vista pratico,
l’unione si acquista per mezzo della sottomissione che è l’atteggiamento interiore che anima l’obbedienza.
L’unità e l’amore rappresentano un bellissimo ideale ma un valore così significativo
viene ottenuto attraverso mezzi poco attraenti, come l’obbedienza e la
sottomissione. Tuttavia non è possibile agire diversamente. Cristo, secondo la
carne, ossia nei giorni della sua vita terrena, si è sottomesso al Padre e gli
apostoli si sono sottomessi a Cristo. I fedeli devono sottomettersi al vescovo
ma anche gli uni agli altri. Il fatto che la sottomissione venga richiesta
anche nelle relazione tra pari, e in senso scambievole, dimostra che essa non
viene intesa come rinuncia degradante ma come atto volontario d’amore: «Siate
sottomessi al vescovo e gli uni agli altri, come Gesù Cristo al Padre secondo
la carne, e gli apostoli a Cristo…» (M 13,2).
Per la Chiesa non c’è nulla
di meglio da fare che imitare e manifestare l’unità. Questa gli offre la
possibilità di superare le difficoltà a cui va incontro: «… auguro loro
[alle chiese] l’unione nella carne e nello spirito di Gesù Cristo, nostra
eterna vita, della fede e della carità, cui nulla è da preferire, e ciò che è
più importante l’unione con Gesù e il Padre. Se rimaniamo in questa ed evitiamo
ogni assalto del principe di questo mondo, raggiungeremo Dio» (M 1, 1-2).
La realizzazione della
comunione è sempre opera di Dio: «Se in poco tempo ho avuto tanta
familiarità con il vostro vescovo, che non è umana, ma spirituale, di più vi
stimo beati essendo uniti a lui come la Chiesa lo è a Gesù Cristo e Gesù Cristo
al Padre perché tutte le cose siano concordi nell'unità» (E 5,1).
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