Fu principalmente grazie all'opera di Esdra che la
comunità ebraica trovò la sua direzione permanente lungo la via che condusse a
quella forma di religione nota col nome di giudaismo. Attraverso le tenebre del
IV e in secolo, proseguirono gli sviluppi lungo le linee già tracciate e al
tempo della rivolta dei Maccabei, il giudaismo, per quanto ancora in
evoluzione, aveva assunto tutti i tratti essenziali che lo avrebbero
caratterizzato in seguito. Sebbene non rientri nel nostro scopo proseguire
ulteriormente la storia degli Ebrei, non possiamo terminare senza un accenno,
per quanto necessariamente sommario, agli sviluppi religiosi del periodo che
abbiamo trattato.
La natura e lo sviluppo del primo giudaismo
La comunità ebraica nel periodo postesilico: un riassunto
Per valutare in modo appropriato gli sviluppi religiosi
nel periodo postesilico è necessario considerare la natura della comunità
restaurata, i problemi che essa dovette affrontare e le soluzioni fornite a
questi problemi tramite le opere di Neemia ed Esdra. A questo punto potrebbe
rivelarsi utile una breve ricapitolazione delle cose già dette o accennate.
Il problema della nuova comunità
La restaurazione della comunità ebraica dopo l'esilio ovviamente
non significò anche una rinascita della nazione israelitica preesilica, con il
suo culto e le istituzioni nazionali. Quel sistema era stato distrutto e non si
poteva ricreare. La nuova comunità quindi dovette affrontare il problema, assai
più grande della mera sopravvivenza fisica, di trovare una forma esterna in cui
esistere, una qualche definizione di sé che potesse salvaguardare la sua
identità come popolo. Fino ad allora non vi era mai stato un tale problema,
perché "Israele" aveva sempre indicato un'unità
etnica-nazionale-cultuale ben definita. In origine esso era stato una lega
sacra di clan, con i suoi specifici culti, istituzioni, tradizioni e credenze;
tutti quelli che erano mèmbri di quella lega, che partecipavano ai suoi culti e
prestavano obbedienza alla sua legge sacra, erano Israeliti. In seguito,
Israele era divenuto una nazione, alla fine due nazioni, ognuna con i propri
culti e istituzioni; essere Israelita significava essere cittadino di una o
l'altra di queste nazioni. Dopo che la caduta dello Stato settentrionale aveva
lasciato la maggioranza degli Israeliti senza identità nazionale (sebbene
ancora entro una area geografica definita), la tradizione nazionale e il nome,
erano passati a Giuda, il cui culto alla fine, tramite le riforme del VII
secolo, si era concentrato esclusivamente a Gerusalemme. Perciò fino alla fine
Israele era rimasto un'entità definibile con limiti geografici e istituzioni
nazionali: "Israele" era la visibile comunità di cittadini che
prestava fedeltà al dio nazionale, partecipava ai suoi culti e sperava nella
realizzazione delle sue promesse.
La caduta di Gerusalemme, che spazzò via la nazione e le
sue istituzioni, pose fine a tutto questo. Nonostante il culto di Yahweh
proseguisse in vari luoghi in Palestina, non esisteva più una nazione che vi si
riunisse intorno, e migliaia di Israeliti, per motivi di distanza, non potevano
parteciparvi. Israele, ormai privo di una designazione geografica o nazionale,
era senza una chiara identità. In effetti, gli Ebrei deportati non avevano più
nulla che li distinguesse come Israeliti se non i loro particolari costumi,
niente a cui aggrapparsi per salvare le loro antiche tradizioni, le memorie e
la speranza che un giorno sarebbero tornati alla loro terra e avrebbero ripreso
la vita come popolo. A dire la verità, questa speranza si realizzò con la
restaurazione, ma venne al contempo frustrata. Coloro che ritornarono in
Palestina si consideravano il resto purificato d'Israele, che Yahweh aveva
liberato dalla schiavitù e aveva reso eredi della realizzazione delle sue
promesse. Ma quel futuro promesso, per quanto atteso a breve scadenza, non
arrivava; ne poteva ritornare il passato. La nuova comunità non poteva ridar
vita alle vecchie istituzioni nazionali ne vivere nell'antica speranza; quando
questa speranza fu riposta in Zorobabele, essa venne crudelmente delusa. Ancor
meno poteva la comunità, per quanto si aggrappasse alla finzione di una
struttura e di un'ascendenza tribale, ricreare le istituzioni ancora più
antiche della lega sacra. Sebbene varie di queste istituzioni fossero state
tramandate - anche se con adattamenti - l'ordine tribale non esisteva più ormai
da lunghissimo tempo. Non si poteva mettere indietro l'orologio.
Con la ricostruzione del Tempio, Israele - o piuttosto la
comunità ebraica che si considerava il vero resto d'Israele - divenne
nuovamente una comunità cultuale. Come abbiamo visto, questa fu la sua
salvezza. Un vero Israelita poteva ora essere identificato come membro di
quella comunità. Ma da sola questa non era una base adeguata per la
sopravvivenza d'Israele. Se la comunità fosse stata tenuta insieme
semplicemente dalla riattivazione delle tradizioni di culto ereditate
dall'antica religione di Stato, molte delle cui basi teologiche si erano perse
o forzatamente alterate, il risultato sarebbe stato, nella migliore delle
ipotesi, una fossilizzazione, nella peggiore, l'infiltrazione di elementi
pagani. Inoltre, gli Ebrei che vivevano lontano da Gerusalemme non potevano
partecipare attivamente al culto; se tale partecipazione fosse stata l'unica
caratteristica di un Ebreo, presto o tardi essi si sarebbero allontanati,
oppure, come era accaduto in Egitto, avrebbero istituito culti locali di dubbia
origine. In entrambi i casi non avrebbero più fatto parte d'Israele. Con le
antiche forme ormai dimenticate, le speranze frustrate e il morale a terra, se
voleva sopravvivere Israele doveva trovare un qualche elemento nel proprio
retaggio attorno a cui raccogliersi. E lo trovò nella sua legge.
La riorganizzazione della comunità attorno alla legge
La religione del periodo postesilico è contrassegnata da
un'enorme preoccupazione per l'osservanza della legge. Questo è in effetti il
suo tratto caratteristico e ciò che, più di ogni altra cosa, la distingue dalla
religione del periodo preesilico. Questo non vuoi dire che fosse una religione
nuova, o che rappresentasse l'importazione di nuovi elementi estranei alla fede
d'Israele. Piuttosto, essa era caratterizzata da una particolare enfasi, forse
unilaterale, ma inevitabile, posta su un elemento che era stato di importanza
fondamentale in tutti i periodi. Sin dai giorni della lega tribale la vita
collettiva d'Israele era stata regolata dalla legge del patto, la cui
osservanza era considerata obbligatoria. La monarchia non mutò la situazione e
la legge israelitica non fu mai una vera e propria legge di Stato, ma una legge
sacra, in teoria al di sopra dello Stato. Persino Giosia, introducendo la legge
deuteronomica come costituzione nazionale, non promulgò alcuna legge statale, ma
impegnò lo Stato all'osservanza della legge del patto. Inoltre, i profeti
avevano denunciato lo Stato proprio perché vedevano nel suo comportamento
amorale e nel paganesimo che esso promuoveva o tollerava una rottura delle
clausole del patto.
Naturalmente l'esilio accrebbe l'interesse in questo
elemento della religione. Poiché i profeti avevano spiegato la tragedia come
una-punizione per il peccato contro la legge di Yahweh, non deve sorprendere
che gli Ebrei devoti sentissero che il futuro d'Israele dipendeva da una più
rigorosa osservanza di questa legge. Inoltre, essendo ormai scomparsi nazione e
culto, c'era poco altro che li contraddistinguesse come Ebrei. Indubbiamente
questo contribuisce a spiegare il crescente rilievo di Shabbat, circoncisione e
purificazione rituale riscontrabile durante e immediatamente dopo l'esilio. E
in effetti, tutti i capi d'Israele, da Ezechiele tramite i profeti della
restaurazione fino a Neemia, dimostrarono grande interesse per lo Shabbat, il
pagamento delle decime, il Tempio e il suo culto, la purezza cerimoniale e
analoghi aspetti. Per loro queste cose non erano banalità esteriori, ma tratti
caratterizzanti del purificato Israele per cui essi lavoravano.
Nondimeno, la base della nuova comunità, compreso il
clero, non si distingueva per un particolare zelo rivolto alle regole cultuali
e cerimoniali. Al contrario, come indicano i rimproveri dei profeti (per es.
Malachia), molti erano assai negligenti in tali questioni, e continuarono a
esserlo anche dopo che Neemia conferì alla comunità un sicuro status politico.
Il nuovo Israele cercava disperatamente qualcosa che lo tenesse unito e che gli
desse un'identità distintiva. Questo fu fornito da Esdra con il libro della
legge che egli portò da Babilonia e che, con l'autorità concessagli dalla corte
persiana, impose alla comunità con un patto solenne. Quest'evento segnò una
grande svolta. Prese forma una comunità nuova e ben definita, composta da
coloro che erano sottoposti alla legge promulgata da Esdra. Questo, a sua
volta, significava un'essenziale ridefinizione del termine "Israele".
Israele non sarebbe più stato un'entità nazionale, non sarebbe stato legato ai
discendenti delle tribù israelitiche o agli abitanti dell'antico territorio
nazionale, ne a una comunità di coloro che in un modo o nell'altro
riconoscevano in Yahweh il proprio dio e gli tributavano il culto. Da ora in
poi, Israele sarebbe stato (come nella teologia del Cronista) quel resto di
Giuda che si era raccolto attorno alla legge. Sarebbe stato membro d'Israele (cioè
Ebreo) chi si assumeva l'onere di quella legge.
Ma questa ridefinizione d'Israele significava
inevitabilmente la nascita di una religione in cui la legge era fondamentale.
Questo, lo ripetiamo, non implicava alcuna rottura con l'antica fede d'Israele,
le cui caratteristiche principali erano mantenute, ma un profondo attaccamento
di quella fede alla legge. La legge non regolava più semplicemente gli affari
di una comunità già costituita; essa aveva creato la comunità! Come principio
organizzatore della comunità e linea di demarcazione, la legge assunse sempre
maggiore importanza. In origine definizione dell'azione sulla base del patto,
divenne essa stessa la base dell'azione, praticamente un sinonimo di patto e
summa e sostanza della religione. Il culto venne regolato e sostenuto dalla
legge; essere virtuoso e pio significava osservare la legge, le basi della
speranza futura risiedevano nell'obbedienza alla legge. Fu questa notevole
enfasi posta sulla legge a conferire al giudaismo il suo carattere distintivo.
I primi sviluppi del giudaismo: le fonti
L'evoluzione di cui abbiamo parlato, guidata dall'opera di
Esdra, procedette nel IV e III secolo finché, all'inizio del II, il giudaismo,
sebbene ancora in modo fluido, non cominciò ad assumere la sua forma caratteristica.
Tuttavia è difficile tracciare questo sviluppo. Poiché le nostre fonti sono
scarse, e poche di esse si possono datare con precisione, non si può seguire
un'esatta successione cronologica (se mai ve ne fu una). Ma se si mette a
confronto la comunità ebraica della fine del V secolo con quella che emerge
dalla letteratura del periodo maccabaico si percepisce una certa
solidificazione della fede: era nato il fenomeno del giudaismo. Con l'ausilio
delle fonti disponibili e una loro cauta interpolazione si può tentare di
ricostruirne i punti salienti.
Abbiamo a nostra disposizione la parti più recenti
dell'Antico Testamento e i primi scritti ebraici non canonici. Le fonti
bibliche per il periodo della restaurazione sono già state citate. Esse
comprendono i libri di Isaia (Capitoli 56-66), Aggeo, Zaccaria (Capitoli
1-8), Malachia e Abdia (probabilmente fine del VI o inizio del v secolo). A
questi si possono aggiungere l'opera del Cronista (400 ca.) e i libri di Gioele
e Giona (le date sono incerte, ma forse entrambi del IV secolo circa). Inoltre,
vi sono alcune sezioni più tarde del libro di Isaia (soprattutto la cosiddetta
apocalisse dei Capitoli 24-27) che, per quanto d'incerta datazione,
appartengono probabilmente all'inizio del periodo persiano; Zaccaria (Capitoli
9-14), una raccolta tarda ma contenente molto materiale antico; l'Ecclesiaste e
il libro di Estera nonché le parti più recenti dei libri dei Salmi e della
Sapienza (Proverbi); e infine, naturalmente, il libro di Daniele (166/5 ca.).
Quanto agli scritti ebraici non canonici, i primi fecero
la loro apparizione molto prima dello scoppio della rivolta dei Maccabei e
aumentarono durante la prima fase della lotta.
Sebbene alcuni, essendo di datazione incerta, debbano
essere considerati con cautela, resta un cospicuo corpus di materiale che offre
un quadro delle credenze del periodo. Tra i primi scritti non canonici vi sono
opere quali Tobia, che potrebbe risalire al IV secolo (frammenti scoperti a
Qumràn sono in "aramaico imperiale"), ma che utilizza fonti ancora
più antiche (la Saggezza di Ahiqar); l'Ecclesiastico (Saggezza di Ben Sira)
che, come indica il prologo, fu scritto intorno al 180; e forse il libro di
Giuditta che, per quanto spesso datato alla metà del il secolo, secondo alcuni
potrebbe risalire al IV.
Inoltre, sebbene ciò sia oggetto di disputa, il libro dei
Giubilei probabilmente risale al periodo precedente ai Maccabei (175 ca.), come
anche i più antichi elementi dei Testamenti dei dodici patriarchi 10 e il I
Enoc 11. Anche l'Epistola di Geremia (inserita nel libro di Baruc) potrebbe
risalire ali'inizio del li secolo, mentre alcune delle aggiunte alla versione
greca di Daniele (la Preghiera di Azaria) sembrano adattarsi al periodo dei
Maccabei (170 ca.). Infine il primo libro dei Maccabei, sebbene probabilmente
scritto alla fine del il secolo, è (come anche in misura minore il secondo)
un'ottima fonte per la storia e le credenze degli Ebrei dopo l'inizio della
lotta per l'indipendenza. Considerati insieme, questi scritti consentono di farsi
un'idea del giudaismo della fine del periodo veterotestamentario.
La religione e la Legge
Non si esagera l'importanza della legge nel giudaismo.
Essa fu il fattore fondamentale e unificante attorno al quale vennero
organizzati tutti gli altri elementi della religione. Con la sua esaltazione
alcune antiche istituzioni furono reinterpretate, altre persero rilevanza e ne
nacquero di nuove.
Lo sviluppo di un canone delle Scritture
Di somma importanza è il fatto che la comunità ebraica si
costituì sulla base di una legge scritta. A dire il vero, una legge in forma
scritta non era una novità per Israele, ne era la prima volta che un codice
legislativo aveva occupato ufficialmente una posizione normativa. Sotto Giosia,
il Deuteronomio aveva avuto questo ruolo nel regno di Giuda. Nondimeno, la
riforma di Esdra, sebbene seguisse il modello di quella di Giosia, differiva da
questa per un aspetto importante: la legge di Esdra non fu imposta a una
comunità nazionale già ben definita, ma funse da elemento costitutivo nella
definizione di una nuova comunità. Poiché l'intera vita della comunità si
fondava ed era regolata da quella legge, alla legge fu attribuito un ruolo
eccezionalmente importante.
Anche se non sappiamo con certezza quale legge Esdra lesse
al popolo, è possibile, come abbiamo già detto, che egli fosse in possesso del
Pentateuco completo, i cui principali elementi esistevano da lungo tempo. A
ogni modo, il Pentateuco completo era noto a Gerusalemme subito dopo la sua
epoca e veniva considerato con una stima superiore a quella di cui godevano le
singole parti che lo costituivano: fu presto visto, nelle sezioni sia legali
sia narrative, come la legge (Torah) per eccellenza e a esso venne accordato
praticamente uno status canonico. Non sappiamo con precisione come e quando ciò
ebbe luogo. Probabilmente non avvenne grazie a un unico atto ufficiale, ma a
poco a poco il Pentateuco e la legge s'identificarono nel pensiero della
comunità e vennero accolti come autorità ultima. Questo avvenne sicuramente nel
periodo persiano e prima del definitivo scisma samaritano, visto che i
Samaritani consideravano canonico il Pentateuco, ma non il resto dell'Antico
Testamento.
L'effettiva canonizzazione del resto dell'Antico
Testamento seguì quella del Pentateuco. I libri storici di Giosuè e dei Re (i
Profeti Anteriori della Bibbia ebraica) che, con il Deuteronomio, costituivano
un unico corpus che descriveva e interpretava la storia d'Israele da Mosè alla
caduta di Gerusalemme, devono esser stati presto redatti nel circolo delle Sacre
Scritture, senza dubbio sulla scia del Deuteronomio, che venne staccato e
collocato col Pentateuco. A essi si aggiunsero i libri profetici, a formare la
seconda grande divisione delle Scritture ebraiche (i Profeti Posteriori). I
discorsi dei profeti preesilici erano sempre stati considerati assai autorevoli
(Ezechia 38, 17; Zaccaria 1, 2-6; 7, 12) e come le loro parole, e quelle dei
profeti successivi, furono raccolte nei libri profetici, anche a questi fu
accordato status canonico. Questo processo era probabilmente ultimato alla fine
del periodo persiano, perché pochi dei discorsi profetici sono più tardi.
Sicuramente il canone profetico era già fissato prima del II secolo; ed è
questo il motivo per cui Daniele non fu inserito tra i Profeti nella Bibbia
ebraica, bensì tra gli Scritti.
Prima del II secolo verosimilmente esistevano anche tutti
gli altri libri dell'Antico Testamento (tranne Daniele e forse Ester). I Salmi
erano stati raccolti da lungo tempo, probabilmente prima della fine del periodo
persiano (nel Salterio non vi sono salmi maccabaici), così come i Proverbi.
Anche se erano ancora fluidi i limiti della terza parte del canone ebraico, e
se - come indica un confronto tra la Bibbia ebraica e la versione dei Settanta
- non esisteva ancora un'unica forma fissa del canone, è chiaro che entro la
fine del periodo veterotestamentario era emerso un corpus definito di Sacre
Scritture. Ma, sebbene tutti questi scritti fossero tenuti in gran conto, il
Pentateuco, come Libro della Legge, continuava a occupare una posizione
preminente ed eccezionalmente autorevole.
La canonizzazione della legge diede al giudaismo una norma
di gran lunga più assoluta e tangibile di quelle che l'avevano preceduta.
Poiché i comandamenti di Dio erano affermati nella legge una volta per tutte,
con validità eterna, il suo volere in ogni situazione si poteva determinare da
essa; altri mezzi che avevano lo stesso scopo vennero superati o soppressi.
Questo sicuramente spiega perché gradualmente cessò la profezia: la legge
aveva, di fatto, usurpato le sue funzioni rendendola superflua. Anche se i
profeti del passato venivano riveriti e le loro parole erano considerate
autorevoli, la legge in effetti non lasciava spazio a spontanee manifestazioni
profetiche del volere divino. La profezia avrebbe assunto la forma di
pseudoepigrafi (cioè profezie attribuite a eroi del lontano passato). Sebbene
gli Ebrei sperassero in un tempo in cui sarebbero riapparsi i profeti (1
Maccabei 4, 46; 14, 41), essi erano ben consci del fatto che l'età delle profezie
era terminata (1 Maccabei 9, 27): per apprendere il volere divino bisognava
consultare il Libro della Legge (1 Maccabei 3, 48).
Tempio, culto e legge
L'esaltazione della legge non implicava alcuna perdita
d'interesse nel culto, ma piuttosto aveva come conseguenza una grande diligenza
nella sua esecuzione: dopotutto, lo richiedeva la legge! Nondimeno la
situazione rendeva inevitabili certi adattamenti e mutamenti. Il Tempio non era
più il santuario dinastico della casa di Davide, in cui il re, per mezzo dei
suoi sacerdoti, eseguiva sacrifici e altri rituali secondo il costume e la
tradizione. Tranne per il fatto che era stato privilegiato dalla corte persiana
e obbligato a offrire preghiere per il benessere del re (Esdra 6, 10), non si
trattava in alcun senso di un culto di Stato. Ne era il santuario del popolo
d'Israele nel modo in cui era stato in passato, se non nella finzione. Esso
apparteneva, invece, alla nuova comunità d'Israele e del suo culto era
responsabile quella comunità nel suo insieme. Presumibilmente la tradizione
cultuale del Tempio preesilico venne proseguita con gli adattamenti e le
alterazioni resi necessari dalla nuova situazione. Di particolare importanza
era il giorno annuale dell'espiazione, che cadeva (Levitico 23, 27-32) cinque giorni
prima della Festa dei Tabernacoli e che divenne il vero inizio dell'anno
cultuale. Il suo rituale (Levitico 16), elaborato a partire da diversi riti
antichi, dava espressione a quel!'acuto senso del peccato che gli Ebrei
postesilici percepivano in un modo forse impossibile ai loro avi. Il grande
castigo dell'esilio e la condizione attuale d'Israele ricordavano costantemente
l'enormità della trasgressione dei comandi divini e, poiché l'accresciuta cura
per la legge aumentava il timore di violarla, producevano l'esigenza profonda
di una continua espiazione.
Al culto presiedeva il sommo sacerdote, che era capo
spirituale della comunità e, progressivamente, anche suo principe secolare.
L'uffìcio del sommo sacerdozio era ereditario nella casa di Sadoc, la stirpe
sacerdotale del Tempio preesilico che vantava discendenza diretta da Aronne
tramite Eleazaro e Finees (1 Cronache 6, 1-15). Anche altri sacerdoti si
dichiaravano discendenti di Aronne, sebbene sicuramente in molti casi le
genealogie fossero in gran parte inventate. La discendenza da Aronne era molto
importante perché la richiedeva la legge. Nel v secolo, i sacerdoti che non
potevano dimostrare il loro lignaggio (e dopo lo sradicamento dell'esilio
sicuramente erano in molti) correvano il rischio di essere esclusi dall'ufficio
(Esdra 2, 61 -63; Neemia 7, 63-65), e nei secoli successivi incontriamo il
dogma del sacerdozio di Aronne stabilito dall'etemo patto con Dio
(Ecclesiastico 45, 6-24; vedi 1 Maccabei 2, 54).
Accanto ai sacerdoti vi era il clero minore, che si
dichiarava discendente da Levi, anche se, ancora una volta, le origini erano
sicuramente miste". Senza dubbio alcuni dei suoi membri discendevano dai
sacerdoti dei templi dichiarati illegali da Giosia (2 Re 23, 8 sg.) che,
sebbene teoricamente avessero diritto a un posto di pari importanza tra il
clero del Tempio (Deuteronomio 18, 6-8), erano infine stati costretti ad
accettare una posizione subordinata come celebranti (vedi Ezechiele 44, 9-16).
Tra il clero minore vi erano anche cantori, portinai (1 Cronache 25 sg.) e
servitori (Esdra 8, 20; Neemia 3, 31 ecc.), in tutto quindi un clero di
notevoli dimensioni. Tutti, quali che fossero le loro origini, erano
considerati Leviti. Culto e clero erano sostentati da decime e doni, più una
tassa annuale per il Tempio (vedi Neemia 10, 32-39) integrati, almeno
periodicamente, con sovvenzioni statali. Tali cose erano state assai trascurate
prima dell'arrivo di Neemia, ma i suoi sforzi e quelli di Esdra presumibilmente
furono sufficienti a regolare la questione, in modo che fosse fornito un
supporto adeguato in conformità con la legge.
Come abbiamo detto, il culto era considerato con estrema
serietà. È difficile esagerare la devozione con cui gli Ebrei più pii lo
tenevano in conto, o la loro preoccupazione che esso fosse eseguito secondo la
legge (Tobia 1, 3-8; Ecclesiastico 7, 29-31; 35, 1-11). Prova sufficiente è la
loro tenace resistenza quando Antioco lo contaminò. Ciononostante, il culto non
era la forza che motivava il giudaismo. Esso trovava sostegno nelle clausole
della legge e da questa era regolato, invece che esserlo - come un tempo -dalla
tradizione e dalla consuetudine; occupava quindi una posizione subordinata
rispetto alla legge. La legge non descriveva, come un tempo, la pratica
esistente; essa prescriveva la pratica. Sebbene fosse svolto con gioia, il
culto non era tanto un'espressione spontanea della vita nazionale, quanto un
adempimento della legge. Inoltre, come la legge acquistava importanza, il
sacerdote, per quanto onorato fosse il suo ufficio, perdeva il suo ruolo
preminente. Ali'antica funzione levitica di dispensare la Torah (cioè
l'insegnamento sulla base della legge del patto) si sostituì l'ormai più
importante compito d'insegnare la legge stessa. Ma poiché questa funzione
poteva essere adempiuta da chiunque fosse esperto nella legge, essa non rimase
monopolio del clero. Il sacerdote, in quanto tale, divenne sempre più un
funzionario, la cui importanza, per quanto grande, passò in secondo piano
rispetto a quella del dottore della legge.
Sinagoga, scriba e maestro di saggezza
Il nuovo ruolo della legge represse certe antiche
istituzioni e funzioni, ma ne esaltò delle altre e ne creò di nuove. Una nuova
istituzione fu la sinagoga, un luogo per il culto pubblico, accanto al Tempio e
al suo culto, destinato a sopravvivergli. Sebbene la sinagoga sia chiaramente
attestata per la prima volta verso la fine del nostro periodo, le sue origini
sono sicuramente più antiche, per quanto oscure e impossibili da ricostruire.
Ma il fatto stesso che migliaia di Ebrei, per motivi di lontananza, non avevano
accesso al culto del Tempio e avevano la proibizione secondo la legge
d'instaurare culti locali, rese inevitabile lo sviluppo di una tale
istituzione. Persino in epoca preesilica si radunavano gruppi per udire
l'ammaestramento dei Leviti e i profeti attiravano cerchie di discepoli.
Durante l'esilio a quanto pare gli Ebrei si riunivano dove potevano per pregare
e ascoltare i loro maestri e profeti (Ezechiele 8, 1 ; 14, 1 ; 33, 30 sg.).
Possiamo supporre che tali riunioni proseguissero, poiché è inconcepibile che
gli Ebrei della Diaspora possano essere rimasti tali senza una qualche forma di
culto pubblico2'. E simili esigenze dovevano avere i seguaci della comunità
ebraica in Palestina, troppo distanti da Gerusalemme per partecipare
regolarmente al culto. Possiamo ipotizzare che, come la legge divenne canonica,
dei gruppi cominciarono a riunirsi a livello locale per udirne l'esposizione. A
poco a poco sorsero sinagoghe organizzate con culto regolare dello Shabbat, il
cui fulcro era la lettura e la spiegazione della legge. Alla fine dei secoli
precristiani esse si trovavano in ogni città.
Come la legge acquistava importanza, aumentava
l'importanza della sua corretta interpretazione e applicazione. All'inizio non
esisteva alcun testo standard del Pentateuco e quindi non sempre era possibile
essere certi di cosa richiedesse la legge22. Inoltre, una legge non sempre si
accordava a un'altra e la sua applicazione in casi particolari non era sempre
chiara. Questo richiedeva lo sviluppo di principi ermeneutici per un'ulteriore
definizione e interpretazione della legge, per poterla effettivamente applicare
a tutti gli aspetti della vita. Per rispondere a quest'esigenza sorse una
classe di scribi che si dedicava allo studio della legge e tramandava le
proprie conoscenze ai discepoli. L'origine di questa classe è ancora una volta
oscura, ma presumibilmente essa si sviluppò di pari passo con la canonizzazione
della Scrittura. Alla fine del nostro periodo è ben attestata la presenza di
scribi: Ben Sira era uno scriba con una scuola di discepoli (Ecclesiastico 38,
24-34; 51, 23). Anche se l'imponente legge orale dei Farisei è successiva, era
iniziato il processo per creare un "argine" attorno alla legge (Pirke
Aboth 1,1), per timore di violarla inavvertitamente. La Scrittura veniva
spiegata alla luce della Scrittura (Giubilei 4, 30; 33, 15 sg.) e alle sue
istruzioni venivano date definizioni dettagliate (come per la definizione del
precetto dello Shabbat in Giubilei 50, 6-13) e adattamenti a situazioni
particolari (come la sospensione del precetto dello Shabbat in caso di
autodifesa in 1 Maccabei 2, 29-41).
Allo zelo per la legge si accompagnò una viva
preoccupazione pratica i per un comportamento retto, ben illustrata nella letteratura
sapienziale. In verità, dobbiamo abbandonare l'idea che quella saggezza sia uno
sviluppo postesilico, o che vi fu in quel periodo un momento in cui la vita
d'Israele era dominata da una classe di maestri di saggezza. La tradizione
sapienziale in Israele è antichissima e risale almeno al X secolo. Tuttavia,
dopo l'esilio, essa godette di grande favore popolare e, nel periodo del
giudaismo emergente, ebbe come conseguenza la creazione di un considerevole
corpus letterario che esponeva la natura di una vita retta. La Bibbia ci offre
il libro dei Proverbi (redatto in questo periodo, anche se gran ( parte del suo
materiale è molto più antico), l'indagatore e leggermente scettico Ecclesiaste
e molti dei Salmi più tardi (Salmi I; 49; 112; 119, ecc.). Inoltre, vi sono
libri quali Tobia, Ecclesiastico (Saggezza di Ben Sira) e, oltre la fine del
nostro periodo, Sapienza.
Questa tradizione sapienziale era intemazionale, come era
sempre stata. Un ottimo esempio è il libro di Tobia, costruito sul racconto di
Ahiqar, una raccolta di saggezza aramaica forse risalente al VI secolo (era
nota a Elefantina nel V), con antecedenti ancora più antichi nella letteratura
gnomica accadica. Poco sorprendente, in considerazione delle sue origini
cosmopolite, è il fatto che molta sapienza ebraica appaia quasi secolare,
offrendo astuti consigli per ottenere il successo e la felicità senza alcuna
apparente motivazione religiosa. Ma quest'immagine è ingannevole, perché è
evidente che i maestri ebrei adattarono la tradizione sapienziale rendendola un
mezzo per descrivere la vita retta secondo la legge. Per loro, la summa della
saggezza era temere Dio e osservare la legge; la saggezza era un sinonimo della
legge. Quest'identificazione, esplicita nel rescritto concesso a Esdra (Esdra
7, 25) è espressa così tante volte e in maniera così sistematica che
documentarla sarebbe tedioso. Si trova nei Salmi (Salmi 1; 37, 30 sg.; Ili, 10;
112, 1; 119, 97-104; et passim), nei Proverbi (Proverbi 1, 7; 30, 2 sg., ecc.),
in altri punti della Bibbia (Giobbe 28, 28; Ecclesiaste 12, 13 sg.) e
ugualmente in Ben Sira (Ecclesiastico 1, 14, 18, 20, 26, et passim) e in altri
scritti ebraici. In effetti scriba e maestro di saggezza erano probabilmente
mèmbri della stessa classe; Ben Sira era sicuramente entrambi (Ecclesiastico
38, 24, 33 sg.; 39, 1-11). Lo scriba sapiente aveva una professione onorata di
cui essere orgoglioso (Ecclesiastico 38, 24-34). Studiare la legge, meditare su
di essa e applicarla nella vita era il più alto privilegio e la somma virtù (vedi
Salmi 1; 19, 7-14; 119).
Religiosità, rettitudine e la legge
Per l'Ebreo essenza di ogni rettitudine era osservare la
legge. Questo non significa che la religione fosse mero legalismo, perché si
osserva ovunque una profonda pietà devozionale, un grande senso etico e una
toccante fede e stupore dinanzi a Dio. La legge, dobbiamo ricordarlo, dava
espressione all'ideale di Israele come popolo santo di Dio; per realizzare
quell'ideale, per rispondere a quella chiamata, esso doveva osservare la legge
in ogni dettaglio. Non si può negare che in una tale enfasi sui particolari si
nascondesse il pericolo di una perdita di prospettiva, d'identificare il futile
con l'importante e di far divenire la religione semplice conformità alla regole
e il discorso religioso tedioso sofisma. Naturalmente il giudaismo non sfuggì
completamente a questo pericolo. Ma la conformità meccanica non fu mai lo scopo
dei migliori maestri della legge. Insistendo sui dettagli dell'obbedienza, essi
non intendevano conferire pari valore alle minuzie e alle questioni più gravi,
ma piuttosto sottolineare che qualsiasi trasgressione alla legge, per quanto
piccola, era seria (vedi IV Maccabei 5, 19-21). In ogni cosa - nelle questioni
capitali, in quelle d'affari, persino nelle maniere - bisognava ricordare Dio e
il suo patto (Ecclesiastico 41,17-23), vale a dire la legge.
La legge era profondamente etica e coglieva e conservava
quella nota morale fondamentale nella fede d'Israele sin dall'inizio. Questo si
potrebbe documentare all'infinito. I maestri ebrei esaltavano continuamente il
comportamento retto (Salmi 34, 11-16; 37, 28; Proverbi 16, 11; 20, 10; Tobia
4,14), il rispetto per i genitori (Tobia 4, 3; Ecclesiastico 3, 1-16), la
sobrietà, la castità e la moderazione (Tobia 4, 12, 14 sg.; Ecclesiastico 31,
25-31), la misericordia e le elemosine (per es. Proverbi 19, 17; 22, 22 sg.;
Tobia 4,10 sg.. 16; 12, 8-10; Ecclesiastico 4, 1-10; 29, 1, 8 sg.). Essi
invitavano gli uomini ad amare Dio e i vicini e a perdonare coloro che li
avevano offesi (T. Gad 6; T. Ben. 3, 3 sg.): «Ciò che non puoi soffrire tu, non
farlo a nessun altro» (Tobia 4, 15). Ben lungi dall'incoraggiare l'aspetto
esteriore della religione, essi dichiaravano i sacrifici dell'empio un abominio
per Dio (Salmi 50, 7-23; Proverbi 15, 8; 21, 3, 27; Ecclesiastico 1, 8 sg.; 34,
18-26), affermando che egli richiedeva innanzitutto uno spirito obbediente e
penitente (Salmi 40, 6-8; 51, 16 sg.; ecc.). Dobbiamo aggiungere che gli Ebrei
devoti non consideravano un peso l'osservanza della legge. Al contrario,
provavano per essa una gran gioia e amore (Salmi 1, 2; 19, 7-14; 119, 14-16, 47
sg., et passim; Ecclesiastico 1, 11 sg.). Essa forniva luce e guida nella vita
(Salmi 119, 105; ecc.); chi accettava il suo giogo trovava protezione, pace e
felicità (Ecclesiastico 6, 23-31). In effetti l'Ebreo, con immenso orgoglio,
considerava la legge il segno distintivo della propria identità (Salmi 147, 19
sg.). Quell'orgoglio, anche se non sempre gradevole, suscitava una lealtà tale
che un Ebreo sarebbe morto piuttosto che tradire e diede al popolo ebraico il
coraggio di resistere sotto lo scudiscio di Antioco.
Non si può osservare la pietà devozionale del primo
giudaismo e immaginare che la religione della legge fosse solo una cosa
esteriore. Ad esempio i Salmi più tardi (Salmi 19, 7-14; 25; 51; 106) abbondano
di umili confessioni di peccati, con una brama per la misericordia e il perdono
divino, il desiderio della purificazione del cuore dinanzi a Dio, insieme a
(Salmi 25; 37; 40; 123; 124) reiterate espressioni di pazienza nell'afflizione,
d'incrollabile fiducia nella salvezza di Dio e gratitudine per la sua pietà.
Altri testi del periodo rivelano le medesime caratteristiche: il senso del peso
dei peccati (Esdra 9, 6-15; Neemia 9, 6-37; Tobia 3, 1-6), il desiderio di
esserne liberati (Ecclesiastico 22, 27-23, 6), la devozione personale e la
fiducia nell'efficacia della preghiera (Tobia 8; Ecclesiastico 38, 1-15;
Preghiera di Avaria), insieme alla lode di Dio per le opere della creazione e
la provvidenza (Ecclesiastico 39, 12-35). Caratteristico della religiosità
postesilica è l'ideale di mansuetudine e umiltà: l'uomo pio è colui che, con
sottomissione e completa fiducia, accetta le prove che Dio gli impone. Forse il
concetto del Servo Sofferente contribuì notevolmente alla creazione di
quest'ideale. Esso è abbastanza evidente nei salmi più tardi, dove il devoto
fedele è «povero», «bisognoso», «umile», «mansueto» (Salmi 9, 18; 10, 17; 25,
9; 34, 2, 6; 37, 11; 40, 17; 69, 32 sg.; ecc.) e anche nella letteratura deuterocanonica
del periodo (Ecclesiastico 1, 22-30; 2, 1-11; 3, 17-20). Ciononostante, la
devozione ebraica non consisteva solo in atteggiamenti interiori, opere di
carità, o nella diligente esecuzione dei doveri religiosi, bensì nell'osservare
la legge: pietà, opere di bene e doveri religiosi dipendevano dalla legge.
L'essenza della religione era amare la legge e obbedirle (Salmi 1; 19, 7-14;
119; Ecclesiastico 2, 16; 39, 1-11); la persona che agiva in questo modo poteva
definirsi "religiosa".
L'assolutizzazione della legge
L'elevazione della legge appena descritta non rappresentò,
come abbiamo cercato di chiarire, una rottura con l'antica religione d'Israele,
ma un raccogliersi di quella religione attorno a uno dei suoi principali
elementi. Quest'enfasi provocò una diminuzione dell'importanza di altri aspetti
e un certo mutamento nell'intera struttura. In particolare, si nota una
tendenza a liberare la legge dal contesto del patto, a cui in origine
apparteneva, e a considerarla come qualcosa di eterno e immutabile. Questo
significava un certo indebolimento di quel vivace senso della storia così
caratteristico dell'antico Israele.
Nella letteratura più tarda si avverte una marcata
attenuazione del concetto di patto e una tendenza a separarlo da una specifica
connessione con gli eventi dell'esodo e del Sinai. Già nello strato sacerdotale
del Pentateuco il termine "patto" non è più limitato all'evento
costitutivo della storia d'Israele, sulla base del quale venne data la legge,
ma è utilizzato in riferimento a vari rapporti tra Dio e l'uomo; diventa
praticamente un sinonimo per alcune delle sue eterne e immutabili promesse.
Così leggiamo di patti eterni con Noè (Genesi 9, 1-17), Abramo (Genesi 17) e
Pinees (Numeri 25, 11-13). Nel racconto sacerdotale degli eventi del Sinai,
l'accento non è posto assolutamente sul patto, ma sulla concessione della
legge3". Analogamente, la letteratura più tarda conosce patti con Levi
(Malachia 2, 4 sg., 8), Aronne (Ecclesiastico 45, 6 sg.), Finees (1 Maccabei 2,
54) e, naturalmente. Àbramo e Noè (Ecclesiastico 44, 17-21). È evidente
un'attenuazione del concetto del patto.
La legge stessa, sebbene si ritenesse fosse stata concessa
tramite Mosè, era considerata come qualcosa di assoluto e di eterno. Si possono
osservare tracce di questo concetto nella più tarda letteratura biblica (per
es. Salmi 119, 89, 160) e in Ben Sira (Ecclesiastico 16, 26-17, 24), ma l'apice
si trova sicuramente nei Giubilei, in cui molte istituzioni disposte dalla
legge vengono fatte risalire a tempi primordiali. Così lo Shabbat era celebrato
dagli angeli e reiezione d'Israele annunciata al momento della Creazione
(Giubilei 2, 15-33); la legge levitica della purezza si applicava nel caso di
Eva (Giubilei 3, 8-14); la Festa delle Settimane era celebrata da Noè (Giubilei
6, 17 sg.) e quella dei Tabernacoli da Abramo (Giubilei 16, 20-31), che insegnò
il rituale sacrificale a Isacco (Giubilei 21, 1-20), e così via. La legge
appare quindi come una cosa eterna, dall'autorità assoluta, esistente prima del
Sinai e prima d'Israele. Tutto è scritto nelle tavole celesti (Giubilei 3, 10;
4, 5; 5, 13, ecc.).
Come abbiamo accennato, tutto ciò indica una liberazione
della religione dal contesto della storia. Non che, naturalmente, Israele
dimenticasse gli eventi storici che l'avevano fatto nascere! Al contrario, esso
li ricordava e li riaffermava ritualmente, come avviene ancora oggi. Ma la
legge, separata dal suo contesto originale e resa soprastorica e assolutamente
valida, da definizione degli obblighi della comunità sulla base del patto
storico si trasformò nella base stessa degli obblighi e nella definizione del
loro contenuto. La legge praticamente usurpò il posto del patto storico come
base della fede, o, piuttosto, divenne quasi un suo sinonimo (per es. 2
Cronache 6, 11 ; Ecclesiastico 28, 7; 1 Maccabei 2, 27, 50). Violare la legge
significava violare il patto (per es. 1 Maccabei 1, 14 sg.; Giubilei 15, 26);
osservare il patto voleva dire osservare la legge. Si trovano persino brani in
cui la legge è antecedente al patto: per esempio Ecclesiastico 44, 19-21, in
cui ad Abramo è concesso il patto e le sue promesse perché egli ha osservato la
legge ed è stato fedele (vedi i Maccabei 2, 51-60). Qui la legge cessa di
essere la definizione della risposta indispensabile agli atti benigni di Dio e
diventa lo strumento tramite cui gli uomini possono ottenere il favore divino e
diventare degni delle promesse.
Sicuramente questo generò una profonda serietà morale e un
gran senso della responsabilità individuale, ampiamente illustrati dall'eroismo
con cui gli Ebrei devoti resistettero ad Antioco. Ogni Ebreo si sentiva
obbligato a osservare il patto tramite la sua personale fedeltà alla legge. Ma
questo ebbe come conseguenza una grande enfasi sugli obblighi dell'uomo e
un'inevitabile diminuzione d'importanza della grazia divina. Nonostante la
grazia di Dio non venisse mai dimenticata e continuassero gli appelli alla sua
misericordia, in pratica la religione consisteva nell'adempiere agli obblighi
della legge. Questo significava che il giudaismo correva il pericolo di cadere
nel legalismo: cioè di diventare una religione in cui la posizione dell'uomo
dinanzi a Dio è determinata esclusivamente dalle sue opere.
Anche se è improbabile che un Ebreo serio si vantasse di
osservare la legge alla perfezione (vedi Ecclesiastico 8, 5), la rettitudine
tramite la legge era considerata un fine, ottenibile, a cui tendere. Inoltre,
si credeva che Dio avrebbe ricompensato con il suo favore coloro che a questo
riguardo fossero stati fedeli (una fede che, come vedremo, avrebbe suscitato
delle domande). Emerse anche il concetto che le buone azioni accrescevano il
proprio merito dinanzi a Dio. Anche se si possono trovare accenni di questo
pensiero nella letteratura biblica più tarda (per es. Neemia 13, 14, 22, 31),
essi divennero assai frequenti negli scritti non canonici (per es. Tobia 4, 9;
Ecclesiastico 3, 3 sg., 14; 29, 11-13; T. Levi 13, 5 sg.).
Non sta a noi discutere se questo indicasse una stima
troppo ottimistica delle capacità dell'uomo, oppure una comprensione insufficiente
della natura del peccato e delle richieste della legge. Sicuramente indica una
tendenza verso l'esteriorizzazione della rettitudine che il giudaismo,
nonostante la spiritualità dei suoi grandissimi maestri, non tenne mai a freno
efficacemente. Per inciso, fu proprio a questo punto che Paolo ruppe
radicalmente con la fede dei suoi padri.
Elementi della teologia del primo giudaismo
La comunità ebraica e il mondo
La situazione in cui si trovarono gli Ebrei
inevitabilmente suscitò questioni in precedenza mai particolarmente sentite.
Non ultima quella riguardante i rapporti tra la comunità e il mondo dei
Gentili. Da una parte, il giudaismo tendeva a ritirarsi dal mondo e richiudersi
in se stesso, mostrando talvolta un atteggiamento limitato e persino
intollerante. Dall'altra, si avverte una preoccupazione vivace e appassionata
per la salvezza delle nazioni, qualcosa di simile a un vero spirito
missionario, assente nell'Israele preesilico dove tali idee erano, al massimo,
latenti. Tra i due atteggiamenti esisteva una tensione che non venne mai
risolta in modo convincente.
Fonti della tensione
Questa tensione affondava le proprie radici nella
struttura della fede d'Israele e in sostanza non era nuova. Di fatto si
collocava tra la fede monoteistica e la nozione di elezione. Israele aveva
sempre ritenuto di essere un popolo speciale, scelto da Dio. Allo stesso tempo,
esso aveva accordato al suo Dio - per quanto in maniera poco sistematica - un
controllo sopranazionale, universale. Inoltre, credeva che il disegno di Dio
fosse di stabilire il proprio dominio sulla Terra. Il fatto che ben presto
questo trionfo implicasse la sottomissione di altre nazioni (per es. Salmi 2,
10 sg.; 72, 8-19) significava che era stata posta la questione del rapporto
d'Israele con il mondo nell'economia divina, questione resa ancor più
inevitabile dalla fede monoteistica. Ma, sebbene fosse abbastanza antica l'idea
che la chiamata d'Israele avesse una ripercussione sui popoli del mondo (Genesi
12, 1-3, ecc.), che alcuni immaginassero che Yahweh guidasse gli affari di
altre nazioni oltre a Israele (per es. Amos 9, 7) e altri cercassero persino di
convenire gli stranieri al suo culto (1 Re 8, 41-43), in epoca preesilica la
questione non era stata seriamente affrontata. Israele era una nazione con un
culto nazionale; per quanto i residenti stranieri potessero essere assorbiti,
non esisteva un impulso attivo al proselitismo.
Come abbiamo detto, l'esilio costrinse a una
reinterpretazione della fede d'Israele e a un chiarimento della sua posizione
di fronte alle nazioni del mondo e ai loro dèi. Abbiamo descritto come il
Deuteroisaia proclamasse l'imminente trionfo del regno divino, invitasse le
nazioni ad accettarlo e chiamasse Israele a essere testimone dinanzi al mondo
del fatto che Yahweh era Dio. Sebbene egli non immaginasse assolutamente che
Israele potesse essere privato della propria posizione eletta, il suo messaggio
faceva posto ai Gentili tra il popolo di Yahweh e aveva un carattere
decisamente missionario. Questo nobile ideale, ben lungi dall'essere accolto
universalmente, non morì, ma venne perpetuato, come vedremo, dai discepoli del
grande profeta. La restaurazione, tuttavia, non fornì un clima a esso
favorevole. La situazione era troppo deludente e precaria per ammettere una tale
larghezza di vedute. La comunità doveva lottare per la propria identità come
"Israele" contro la gente di Samaria e altri residenti nel paese, la
cui purezza religiosa era dubbia. Un mare di popoli pagani o semipagani la
circondava da ogni lato. Era necessario tracciare delle evidenti linee di
demarcazione perché la piccola comunità non si dissolvesse perdendo il suo
carattere distintivo, come correva già il pericolo di perdere la propria
lingua. Come abbiamo visto, era stato questo pericolo a spingere Neemia ed
Esdra alle loro energiche misure separatistiche.
Da un punto di vista superficiale, potrebbe sembrare che
la riorganizzazione della comunità voluta da Esdra ponesse il sigillo
dell'esclusivismo e condannasse il giudaismo a un irrevocabile ritirarsi in se
stesso. Sì e no. Essa servì a ridefinire più nettamente che mai la posizione
d'Israele di fronte al mondo, ma al contempo la rese più fluida. Il nuovo
Israele era contemporaneamente più ristretto e più vasto di quello antico: più
ristretto, perché non tutti i discendenti dell'antico Israele potevano
dichiarare di farne parte, ma solo quelli che osservavano la legge promulgata
da Esdra; più vasto, perché - visto che la legge non lo proibiva, ma anzi ne
teneva conto - fondamentalmente nulla vietava ai non Israeliti desiderosi di
assumersi l'onere della legge di entrare nella comunità. La tensione tra
universalismo e particolarismo, quindi, continuò, con l'appassionato desiderio
per la conversione finale dei Gentili che andava di pari passo con quello di non
dover mai trattare con loro. Questa tensione non sparì mai, ma quest'ultimo
atteggiamento, forse comprensibilmente, ebbe in parte la meglio.
Tendenze particolaristiche: l'ideale del popolo santo
La natura stessa della comunità ebraica rese inevitabile un
rigido separatismo. Il fatto che essa si fondasse sulla legge e s'impegnasse a
dimostrarsi il vero Israele tramite l'osservanza della legge, poneva limiti
alla tolleranza. Un tale ideale non avrebbe mai potuto realizzarsi se gli Ebrei
avessero iniziato a mescolarsi agli stranieri o ad assimilarli in maniera
troppo tollerante. Il problema che dovette affrontare la comunità non fu mai in
pratica quello di cercare una strategia per realizzare le implicazioni
universali della sua fede, ma piuttosto di stare alla larga dal mondo per
proteggere la propria identità. Perché, se vi erano Ebrei limitati nel loro
atteggiamento verso gli stranieri, esistevano anche Ebrei di mente aperta nel
modo sbagliato. Molti di questi gradualmente soccombettero al fascino della cultura
greca e vennero strappati dai loro ormeggi religiosi. E in effetti l'intera
storia della comunità, culminante nella crisi dei Maccabei, dimostrava
chiaramente che essa doveva restare separata, rimanere ebraica, o acconsentire
alla scomparsa del giudaismo come entità a sé stante. Considerando ciò che
avevano sofferto, non c’è da stupirsi che vi fossero Ebrei che odiavano i
Gentili e li consideravano nemici di Dio e della religione.
L'accento sulla separazione domina tutta la letteratura
del giudaismo. Si credeva fosse meglio che gli Ebrei evitassero il più
possibile i contatti con i Gentili e che non diventassero assolutamente come
loro (Epistola di Geremia, v. 5); soprattutto, non si doveva far sposare il
proprio figlio o la propria figlia con uno di loro (Tobia 4, 12 sg.), perché
questo non era diverso dalla fornicazione (Giubilei 30, 7-10). Vi era,
comprensibilmente, il forte sentimento che gli Ebrei dovessero restare uniti
come Ebrei se si volevano vincere le macchinazioni dei nemici (vedi Ester). Analogo
all'avversione per gli stranieri era il disprezzo con cui gli Ebrei
consideravano gli altri Israeliti che si erano allontanati dalla legge. Questi
sono i «malvagi», gli «empi», i «derisori», con cui non si debbono aver
rapporti (per es. Salmi); sono i «senza legge» che sono venuti a patti con i
modi dei Gentili (per es. 1 Maccabei 1, 11). Gli ebrei devoti li guardavano con
violenta indignazione mista a dolore (per es. Salmi 119, 53, 113, 136, 158) e
li consideravano maledetti (per es. Ecclesiastico 41,8-10); alcuni affermavano
persino che dovesse essere loro negata la carità (Tobia 4, 17). Ma era ai
Samaritani che gli Ebrei riservavano il loro più profondo disprezzo. Ben Sira
(Ecclesiastico 50, 25 sg.), collocandoli con spregio al di sotto di Edomiti e
Filistei come gente particolarmente aborrita da Dio, esprime forse quelli che
erano diventati i tipici sentimenti ebraici.
Accanto a questa chiusura nei confronti del mondo esterno
si avverte un enorme orgoglio di sé. Gli Ebrei erano profondamente consci della
loro posizione particolare e se ne vantavano. Senza dubbio come il Cronista (la
cui narrazione ignora la storia del nord d'Israele), essi sentivano che
l'ideale teocratico del retaggio d'Israele si era realizzato in loro. Erano
orgogliosi di possedere la legge (per es. Salmi 147, 19 sg.; Tobia 4, 19), del
loro status privilegiato come popolo di Dio (per es. Ecclesiastico 17, 17), di
parlare la lingua usata da Dio nella creazione (Giubilei 12, 25 sg.) e che la
loro Città Santa fosse il centro della Terra (Giubilei 8, 19; 1 Enoc 26).
Quest'orgoglio, per quanto apparentemente sgradevole,
nasceva da un'appassionata preoccupazione per l'ideale del popolo santo e dalla
convinzione che Israele non sarebbe mai potuto diventare ciò che doveva essere
se si fosse mescolato tra le nazioni (per es. Giubilei 22, 16; vedi Aristea 128
sgg.). In qualunque modo lo si voglia considerare, fu un orgoglio che generò
responsabilità; esso servì a tenere in vita la fede d'Israele, come mai avrebbe
potuto uno spirito più tollerante. Ma contribuì a creare un clima poco
interessato al benessere di pagani e peccatori. Sembra che l'atteggiamento
predominante fosse di abbandonarli al loro meritato destino: un atteggiamento
condannato, ma probabilmente senza alcun esito, dal libro di Giona.
La salvezza delle nazioni: tendenze universalistiche del giudaismo
Quella che abbiamo descritto, però, è solo una parte della
verità, perché mai si perse completamente in Israele il senso di missione nel
mondo -soprattutto dopo la chiara enunciazione delle implicazioni della fede
monoteistica da parte del Deuteroisaia - ne si poté mai sopprimere il problema
della posizione della nazioni all'interno dell'economia divina. Il Deuteroisaia
aveva i suoi seguaci. I profeti del periodo della restaurazione, preoccupati
com'erano della purezza religiosa della comunità, attendevano il tempo in cui
gli stranieri si sarebbero affollati in Sion (per es. Isaia 56, 1-8; 66, 18-21;
Zaccaria 2, 11; 8, 22 sg.; Malachia I, 11). Inoltre, la legge, ben lungi dal
porre alcuna barriera, contemplava l'accoglienza di proseliti e accordava loro
pari trattamento (Levitico 24, 22; vedi Ezechiele 47, 22). Per questo motivo,
neppure il clima di separatismo diffuso dopo la riforma di Esdra bastò ad
attutire l'interesse per radunanza delle nazioni. Nella letteratura del periodo
è ripetutamente espressa la credenza secondo cui le nazioni del mondo - o
almeno i loro sopravvissuti - si volgeranno infine al Dio d'Israele, e nel
culto del secondo Tempio veniva proclamata la sovranità universale di Yahweh e
il suo trionfo escatologico su tutti i popoli (per es. Salmi 9, 7 sg.; 47; 93;
96-99)". Non mancavano coloro che sentivano l'obbligo di convertire alla
loro fede i Gentili e che erano irritati dalla limitatezza dei loro confratelli
e dal fatto che essi non prendessero sul serio la loro missione nel mondo.
L'autore del libro di Giona ne era uno, e altri non erano da meno (per es.
Isaia 19, 16-25; Salmi 87). E vi erano Ebrei, consci dei propri peccati e della
necessità del perdono, che desideravano insegnare ai peccatori e portarli al
servizio del loro Dio.
Lo spirito sopravvisse anche quando il giudaismo si ritirò
progressivamente in se stesso sotto l'impatto della cultura dei Gentili. Si
mantenne la fede che le nazioni un giorno si sarebbero volte al culto di Dio
(per es. Tobia 13, 11; 14, 6 sg.; i Enoc 10,21 sg.); Dio le avrebbe visitate
con la sua tenera misericordia (T. Levi 4, 4) e avrebbe salvato i Gentili retri
insieme a Israele (7: Nef. 8, 3). Vi era chi sentiva l'obbligo di testimoniare
la propria fede dinanzi alle nazioni (per es. Tobia 13, 3 sg.) e che
comprendeva che un comportamento indegno disonorava Dio ai loro occhi (per es.
T. Nef. 8, 6). E vi era anche chi, quale che fosse l'orgoglio per la propria
condizione di Ebreo, non attribuiva alla sua razza alcuna intrinseca
superiorità (per es. Ecclesiastico 10, 19-22), vedendo persino nei buoni
Gentili delle qualità che potevano giovare agli Ebrei (7: Ben. 10, 10). E,
nonostante il giudaismo non divenisse mai una religione missionaria con un
programma attivo di proselitismo, vi erano Ebrei che erano felici di accogliere
adepti (vedi Giuditta 14, 10). Lo attesta il fatto che vi furono dei proseliti
(prima del periodo del Nuovo Testamento un po' ovunque).
Riflessioni teologiche nel primo giudaismo
Nella letteratura del primo giudaismo si incontra la
tendenza alla riflessione teologica e a un certo grado di sofisticazione del
pensiero sconosciuti all'antico Israele. Sebbene questa tendenza sia più
evidente in seguito, essa è osservabile nel periodo che stiamo trattando. La
situazione della comunità ebraica, per non parlare dell'esperienza personale di
molti individui, era tale da suscitare problemi inevitabili. Inoltre, la
diffusione dell'ellenismo generò un fermento di nuove idee e un nuovo modo di
pensare che inevitabilmente lasciarono il segno nel pensiero ebraico. Gli Ebrei
furono portati a esplorare aree fino ad allora mai toccate. E facendo ciò,
prendendo spesso in prestito per i loro scopi concetti di origine greca o
iranica - o, nel caso di gruppi con tendenze escatologiche, derivati dalla
letteratura fenicia e aramaica - sicuramente credenze prima sconosciute
ottennero un posto nella teologia ebraica.
Il regno e la provvidenza di Dio
Nel giudaismo trionfava il monoteismo. La polemica dei
profeti contro gli idoli aveva portato i suoi frutti e la legge vi aveva posto
il sigillo. Quali che fossero le sue mancanze, la religione della legge era
solidamente monoteistica; non faceva alcuna concessione all'idolatria e
considerava con disprezzo gli dèi pagani (per es. Salmi 135, 15-21; Epistola di
Geremia; Giubilei 21, 3-5). A giudicare dalla letteratura del periodo del
secondo Tempio, l'idolatria cessò presto di essere un problema all'interno
della comunità. Nonostante gli Ebrei siano aspramente rimproverati per ogni
sorta di peccato, morale e sociale, e sia ripetutamente denunciato il lassismo
nell'osservanza della legge, mancano le accuse di idolatria. I culti pagani non
erano ammessi in Giuda dopo la restaurazione; gli Israeliti che vi partecipavano
non erano considerati Ebrei. Gli Ebrei potevano dilettarsi di astrologia, o
credere nella magia, ma adorare gli idoli, mai. E in effetti al tempo in cui
l'idolatria tomo a essere un problema, con le persecuzioni seleucidi, si può
dire che la battaglia era già stata vinta internamente. Sebbene singoli
individui potessero apostatare, il giudaismo stesso non poteva temporeggiare
con gli idoli, come talvolta aveva fatto la religione ufficiale dell'antico
Israele; l'asprezza con cui resistette ad Antioco ne è una prova. Il monoteismo
ebraico era intransigente. Persino quanto s'insinuarono tendenze dualistiche,
esse non poterono concretizzarsi perché nel giudaismo e'era posto solo per un
Potere Supremo che era sopra tutte le cose.
Il giudaismo affermava in modo sistematico che tutte le
cose si manifestavano sotto il dominio e la provvidenza di Dio, che è
onnipotente e giusto e le cui vie sono imperscrutabili (per es. Ecclesiastico
18, 1-14; 39, 12-21; 43, 1-33). Egli governa tutto secondo la sua legge, che è
valida in eterno, immutabile e sicura (per es. Giubilei, passim); per mezzo di
quella legge egli ricompensa ognuno secondo i propri meriti (per es.
Ecclesiastico 35, 12-20; 39, 22-27). Tutti gli eventi hanno luogo nella sua
prescienza (per es. Ecclesiastico 42, 18-21) e sono portati a compimento
secondo i suoi eterni disegni. Il giudaismo riuscì davvero a combinare un
rigidissimo concetto di predestinazione con la convinzione che ogni individuo è
al tempo stesso pienamente responsabile delle proprie scelte (per es.
Ecclesiastico 15, 11-20).
Soprattutto verso la fine del nostro periodo, diventano
sempre più evidenti le speculazioni sui misteri divini. Sebbene gli Ebrei più
razionali dichiarassero che le vie di Dio non potevano essere comprese (per es.
Ecclesiale 3, 11; 5, 2; 8, 16 sg.; Ecclesiastico 3, 21-24), ve n'erano altri
con tendenze fortemente escatologiche (pensiamo soprattutto al libro dei
Giubilei e alle sezioni più antiche di 1 Enoc). Così il libro dei Giubilei
organizza la storia secondo il modello ordinato degli Shabbat dell'anno, mentre
l'Apocalisse delle Settimane (1 Enoc 93, 1-14; 91, 12-17) divide in dieci
settimane l'intero corso degli eventi dalla creazione al giudizio universale
(vedi anche i periodi del mondo nel libro di Daniele). I Giubilei ed Enoc
riferiscono come vennero rivelati ad Enoc i segreti celesti. Le elaborate
descrizioni (1 Enoc 12-36) dei viaggi di Enoc ai confini della Terra, nello
Sheol e in Paradiso, nel corso dei quali egli apprende i misteri del cosmo,
attingono a piene mani da concetti in origine diffusi nella mitologia dei
vicini d'Israele. Ma queste speculazioni, per quanto fantastiche, sono la prova
di uno spirito indagatore profondamente interessato ai problemi fondamentali
della divina Provvidenza.
Angeli e intermediari
La progressiva esaltazione di Dio portò con sé una serie
di interessanti conseguenze teologiche. Tanto per cominciare gli Ebrei non si
avvicinarono al loro Dio con familiarità. Si parlò sempre meno di Dio in
termini antropomorfici. Poiché Dio veniva elevato al di sopra dei contatti
personali con le vicende umane, si accentuò il ruolo di angeli e intermediari e
crebbe persino una sorta di riluttanza a pronunciare il nome divino. Non si sa
con certezza quando cessò di essere pronunciato il nome di Yahweh, ma sembra
che nel III secolo fosse già diffuso un pregiudizio generale. Al suo posto si
svilupparono una serie di surrogati, così tanti che elencarli tutti
risulterebbe noioso. Si faceva riferimento alla divinità chiamandola Dio o
Signore, o Dio del Cielo o Re del Cielo (per es. Tobia 10, 11; 13,7) o
semplicemente Cielo (per es. 1 Mc 3,18 sg; 4,40), o Signore degli Spiriti (1
Enoc 60, 6, ecc.). Signore dei Giorni (1 Enoc 60, 2; vedi Daniele 7, 9, 13), la
Grande Gloria (1 Enoc 14, 20), ecc. L'appellativo più diffuso, però, sembra che
fosse quello di Altissimo. Si sviluppò anche la tendenza a sostituire al suo
nome alcuni aspetti o proprietà della divinità: per es. la Divina Sapienza, la
Divina Presenza, il Verbo Divino.
Da questa tendenza deriva a volte la personificazione -
talvolta praticamente l'ipostatizzazione - della proprietà in questione. Nel
nostro periodo, è frequentemente personificata la Sapienza, soprattutto nei
Proverbi e in Ben Sira. Sebbene spesso non si tratti che di un artificio
poetico, vi sono punti in cui bisogna intenderla in modo abbastanza letterale
(vedi in particolare Proverbi 8; 9 [8, 22-31]; Ecclesiastico 1, 1-10; 24, 1-34;
anche, di un periodo leggermente posteriore, Sapienza 7, 25-21 ; 9, 9-12; 1
Enoc 42, 1 sg., ecc.). La sapienza personificata non ha nulla di essenzialmente
ellenico, ma, vista la sua attestazione nei Proverbi di Ahiqar (circa vi
secolo), in definitiva deriva dal paganesimo cananeo-aramaico. Il testo di
Proverbi Capitoli 8 e 9 deve risalire a un originale cananeo del VII secolo
circa, che affonda le sue radici in una tradizione ancora più antica: la
Sapienza personificata ha preso il posto di un'antica dea della sapienza37. Questo non offendeva gli Ebrei
ortodossi, dal momento che essi interpretavano il concetto in modo simbolico e
non consideravano assolutamente la Sapienza una divinità subordinata; difatti,
in alcuni brani (per es. Ecclesiastico 24 e Proverbi, passim), la Sapienza è
chiaramente un sinonimo per la legge eterna. Vi era tuttavia un pericolo. Nella
Sapienza gradualmente considerata un'emanazione della divinità (per es.
Sapienza 7, 25-27), essa stessa contrapposta alla materia, si può vedere
l'inizio dello gnosticismo ebraico. Dobbiamo aggiungere che nel concetto
parallelo di Verbo Divino (ancora una volta di antichissima origine semitica, e
non ellenica), che svolse un ruolo minore nel pensiero ebraico ma che è
attestato dopo il nostro periodo (Sapienza 18, 15 sg.), possiamo forse vedere
una parte del contesto del Logos cristiano.
Come Dio era elevato al di sopra del contatto diretto con
le sue creature, veniva attribuito un importante ruolo ai suoi agenti angelici.
Si sviluppò un'elaborata angelologia. Naturalmente si era sempre immaginato
Yahweh circondato da servitori celesti, ma il giudaismo sviluppò questa
caratteristica come mai prima d'allora. Gli angeli appaiono come personalità
specifiche dotate di nomi. Compaiono ripetutamente (Tobia 3, 17; 5, 4; Daniele
8, 16; 10, 13; 1 Enoc 9, 1, ecc.) quattro arcangeli (Michele, Gabriele,
Raffaele, Uriele). Apparentemente in seguito (ma già in Tobia 12, 15) il loro
numero salì a sette; 1 Enoc 20 ne elenca sette, ognuno con una ben definita
funzione, e li definisce «gli angeli che vigilano» (vedi Daniele 4, 13, 17, 23;
ma in Giubilei, i Enoc, ecc. I Vigilanti sono gli angeli caduti). Sebbene
l'idea di sette angeli principali sia forse di origine iranica, poiché i nomi
dei quattro originari sono di un tipo comune nella nomenclatura del X secolo, e
anche prima, le personalità di questi angeli presumibilmente derivano da
antiche credenze popolari che non possiamo ricostruire. Sotto gli arcangeli vi
era un'intera gerarchia di angeli -«migliaia di migliaia e diecimila volte
diecimila» (per es. 1 Enoc 60, 1) - tramite cui (vedi Giubilei, passim) Dio
trattava i suoi affari con gli uomini. Nonostante quest'angelologia non
rappresentasse un travisamento della fede d'Israele, ma piuttosto uno sviluppo
esagerato di uno dei suoi elementi primitivi, introdusse il pericolo, come
sempre avviene con simili credenze, che nella religione popolare esseri minori
s'insinuassero tra l'uomo e il suo Dio.
Il problema del male e la giustizia divina: Satana e i demoni
II problema del male e del suo rapporto con la giustizia
divina fu, assai comprensibilmente, particolarmente vivo dal periodo
dell'esilio in poi. L'umiliazione della nazione e le sofferenze degli individui
richiedevano una spiegazione. Nell'antico Israele si supponeva che il male
fosse il castigo per una colpa; e, come abbiamo visto, in quella luce i profeti
avevano spiegato il crollo della nazione. A dire il vero, il Deuteroisaia era
andato oltre e aveva invitato Israele ad accettare le proprie sofferenze come
parte del disegno di redenzione di Yahweh. Possiamo tuttavia immaginare che
questa spiegazione fosse troppo rarefatta per attrarre le masse, anche se, come
abbiamo notato precedentemente, s'impose l'ideale di una religiosità umile e
sottomessa. Tutto Israele aderì all'equazione ortodossa nella sua più rigida
forma: il peccato porta al castigo fisico, la rettitudine al benessere
materiale, in questa vita. Ma questa netta ortodossia, sebbene non priva di una
sua verità, non era adeguata a risolvere la questione, come indica assai
chiaramente quel profondissimo turbamento relativo al problema che il mondo
antico ci ha trasmesso con il libro di Giobbe. Ma lo sapevano anche uomini di
minore importanza, e se ne lamentavano (Malachia 2, 17; 3, 14).
Ciononostante, il giudaismo in generale era incline ad
accontentarsi della spiegazione ortodossa. Dal Cronista (400 ca.), con il suo
senso di una rigida relazione causale tra colpa e castigo, fino alla fine del
nostro periodo, nonostante le esperienze più amare, è ripetutamente espressa la
fiducia nel fatto che Dio ricompenserà i giusti con cose buone e punirà i
malvagi. Ma alcuni erano consci del problema e vi lottavano fino ai limiti
della soluzione ortodossa, se non oltre (Salmi 49; 73); altri vedevano nelle
loro sofferenze una punizione o una prova e ringraziavano Dio per essa (Salmi
119, 65-72; Proverbi 3, 11 sg.; Giuditta 8, 24-27). Naturalmente, gli Ebrei
sapevano che gli innocenti spesso soffrivano. E se l'avessero dimenticato,
glielo avrebbe ricordato Antioco! I fatti della vita mettevano continuamente
alla prova la teodicea ortodossa. Il Qoelet (Ecclesiaste) arrivò persino a metterne
in dubbio l'intera validità (Ecclesiaste 2, 15 sg.; 8, 14 sg.; 9, 2-6)"'.
Questo, a dire il vero. non era un atteggiamento tipico. Ma per quanto Ben Sira
(Ecclesiastico 3, 21-24) potesse consigliare ai suoi seguaci di non tormentarsi
con cose al di là della loro comprensione, il problema sussisteva.
Mentre gli Ebrei erano alle prese con questo problema,
s'iniziò a porre grande enfasi sul ruolo di Satana e dei suoi servitori.
Tradizionalmente, Israele taceva risalire la buona e la cattiva sorte - e, a
volte, le azioni umane considerate peccaminose (per es. 1 Samuele 18, 10 sg.; 2
Samuele 27) - al volere di Dio. Nel periodo postesilico, tuttavia, crebbe la
tendenza ad attribuire il male a Satana. La figura di Satana sviluppò l'antico
concetto dell'accusatore angelico, la cui funzione era di agire, per così dire,
in qualità di "pubblico ministero" alla corte celeste (vedi / Rè 22,
19-23); nelle prime citazioni {Giobbe 1; 2; Zaccaria 3) Satana non è un nome
proprio, ma "il Satana" (avversario). In seguito, però. Satana
compare come un essere angelico che tenta gli uomini (/ Cronache 21, 1 ; e vedi
2 Samuele 24, 1 !) e, ancora dopo, come il capo degli invisibili poteri che si
oppongono a Dio (così nel libro dei Giubilei, ma soprattutto nei Testamenti dei
dodici patriarchi ), variamente denominato Satana, Mastema, o Beliar (Belial).
Alleate di Satana erano le schiere di angeli caduti
(chiamati Vigilanti nei libri dei Giubilei, di Enoc e nei Testamenti dei dodici
patriarchi), alcuni dei quali erano diventati nella credenza popolare
personalità distinte, con dei propri nomi: per es. Asmodeo (Tobia 3, 8, 17) o
quelli elencati con il loro capo Semyaza in 1 Enoc 6. La funzione di questi
angeli caduti era di tentare gli uomini, condurli al peccato e contrastare i disegni
di Dio (vedi Giubilei, passim). Nei Testamenti dei dodici patriarchi emergono
precise tendenze dualistiche. Dio lotta contro Beliar, luce contro tenebre, lo
spirito dell'errore contro lo spirito della verità, lo spirito dell'odio contro
lo spirito dell'amore (per es. T. Levi 19; T. Giuda 20; T. Gad 4). Due vie si
presentano all'uomo: seguire la buona inclinazione ed essere governato da Dio,
oppure seguire quella malvagia ed essere guidato da Beliar (per es. T. Aser 1).
Questa tendenza dualistica potrebbe derivare indirettamente da un'influenza
iranica, ma non è certo. A quanto pare non fu ben accolta da alcuni maestri
ortodossi e la sua importanza diminuì nel giudaismo più tardo. Ma essa godette
di grande popolarità nei circoli settari, come dimostrano i testi di Qumran, ed
esercitò sulla teologia cristiana un'influenza particolarmente evidente nella
letteratura giovannea e nelle lettere di Paolo.
La giustizia divina: giudizio e ricompense dopo la morte
Il primo giudaismo offre una chiara testimonianza di
un'emergente fede nella resurrezione dei morti non attestata nella letteratura
preesilica. Questa fede era indubbiamente necessaria se la giustizia divina
doveva accordarsi ai brutali fatti dell'esperienza umana. I più attenti, che
non potevano fare a meno di osservare che - quale che fosse l'insegnamento
ortodosso - il male spesso restava impunito e che la rettitudine non veniva
ricompensata in questa vita, furono spinti sempre più a cercare una soluzione
del problema oltre la tomba. Il concetto di ricompensa e castigo dopo la morte
potrebbe derivare in parte dall'antica religione iranica, dove erano diffuse
tali credenze. Ma l'influenza di antiche credenze popolari connesse al culto
dei morti fu probabilmente maggiore di quanto è stato finora supposto. L'antico
Israele sicuramente conosceva una serie di credenze e pratiche legate alla
venerazione dei defunti, alla divinazione e simili. Anche se queste furono
drasticamente soppresse dalla reazione profetica perché contenevano elementi
incompatibili con lo yahwismo normativo, quasi sicuramente esse proseguirono
nel sottosuolo per ricomparire in seguito in forma differente e con una
giustificazione logica completamente diversa, fornendo cosi l'humus per la
crescita della fede popolare in una vita futura. A ogni modo, l'idea di una
resurrezione iniziò ad apparire sporadicamente e in via sperimentale nella più
tarda letteratura biblica e nel il secolo era una credenza ormai radicata.
Tuttavia, nell'Antico Testamento le tracce di una tale
credenza sono poche e in gran parte ambigue. Alcuni ne hanno trovate nei salmi
(Salmi 49, 14 sg.; 73, 25-25, ecc.). Sebbene questo non sia accertato e le
opinioni si dividano, considerando ciò che abbiamo detto, non si dovrebbe
negare troppo alla leggera una tale interpretazione42.
La resurrezione dei giusti defunti (Isola 26, 19) è probabilmente insegnata nel
1'Apocalisse d'Isaia, sebbene anche
questo sia messo in dubbio43.
Solo nel libro di Daniele (Daniele 12, 1 sg.) vi è la prova della credenza che
i giusti e i malvagi risorgeranno a una vita eterna o a perpetua vergogna,
rispettivamente; e anche in questo caso la resurrezione è selettiva, non
universale. Fino al li secolo altri autori o non sapevano nulla di una tale
fede o la negavano esplicitamente. Tra questi sono lo scettico Qoelet
(Ecclesiaste 2, 15 ss.; 3, 19-22; 9, 2-6) e gli ortodossi Antigono di Socho
(secondo il Pirke Aboth 1, 3) e Ben Sira (Ecclesiastico 10, 11; 14, 11-19: 38,
16-23) che, inoltre, dichiara che l'immortalità di un uomo è nei suoi figli
(Ecclesiastico 30, 4-6).
È chiaro, quindi, che alla fine del periodo
veterotestamentario la credenza in una vita futura non era per nulla unanime. I
tradizionalisti protosadducei come Antigono e Ben Sira la contrastavano,
sicuramente perché la consideravano un'innovazione senza alcun precedente nella
tradizione, mentre altri, da questo punti di vista antenati dei Farisei, erano
spinti ad accettarla perché solo così la giustizia di Dio, che rifiutavano di
mettere in discussione, si accordava ai fatti dell'esperienza umana. Le
persecuzioni di Antioco sicuramente diedero il voto decisivo: degli uomini
giusti venivano brutalmente messi a morte, o perdevano la vita lottando per la
fede e la credenza che Dio avrebbe fatto valere la sua giustizia oltre la tomba
divenne una necessità assoluta per la maggioranza degli Ebrei. Nel II secolo, e
dopo, come vedremo da 1 Enoc, dai Testamenti dei dodici patriar-chi e da altri
scritti, ebbe il sopravvento la fede in una resurrezione universale e in un
giudizio finale. Era una nuova dottrina, ma era necessaria per completare la
struttura della fede d'Israele, se si voleva che questa fosse sostenibile.
Nonostante i Sadducei non vi acconsentissero mai (vedi Marco 12, 18-27), essa
si diffuse tra gli Ebrei e venne trionfalmente riaffermata nei vangeli
cristiani.
La speranza futura del primo giudaismo
Caratteristica del giudaismo emergente, accanto
all'esagerata enfasi posta sulla legge, era la sua intensa preoccupazione per
l'imminente conclusione del disegno divino. Sebbene questa naturalmente
proseguisse la tradizione della promessa inerente alla fede d'Israele, anche
qui, come in altri casi, si osservano sviluppi significativi. La speranza
nazionale d'Israele preesilico, liberata dagli antichi modelli e proiettata nel
futuro, alla lunga si mutò in un'escatologia perfettamente formata, anche se
non elaborata in maniera coerente. Nel corso del processo, vennero
reinterpretate vecchie forme e ne furono accolte di nuove.
L'esilio e la reinterpretazione della speranza d'Israele
Descrivere la speranza d'Israele preesilico come
un'escatologia o meno è solo questione di definizione, ma la fede d'Israele
aveva sempre avuto una tendenza escatologica, per il fatto che essa attendeva
con ansia il trionfo del disegno e del regno di Yahweh. Tuttavia, in Israele
preesilico, la speranza era legata alla nazione esistente ed era vista come la
continuazione e la fine della storia nazionale. Si credeva che Yahweh avrebbe
stabilito fermamente Israele, gli avrebbe concesso la vittoria sui nemici e una
felicità eterna sotto il suo benefico dominio. Tali erano le speranze popolari
attribuite al Giorno di Yahweh e alla teologia ufficiale dello Stato davidico,
in cui affonda le radici il concetto del Messia. Sebbene i profeti, condannando
la nazione per i suoi peccati e facendone dipendere il benessere
dall'obbedienza, spingessero la speranza oltre l'ordine esistente e l'imminente
giudizio, la speranza popolare continuò finché durò la nazione.
Tuttavia, l'esilio pose fine a tutto questo. Non fu più
possibile la speranza in una perpetua esistenza della nazione, o nell'arrivo di
un ideale davidico - forse il prossimo - che avrebbe ristabilito le sorti del
paese. Con il crollo della nazione la speranza fu strappata dalle sue radici
nel culto nazionale e nella teologia dinastica, ma non avendo avuto origine con
la monarchia, non finì con essa. I profeti dell'esilio la alimentarono
individuando un nuovo e definitivo intervento, un nuovo esodo, tramite cui
Yahweh avrebbe liberato il suo popolo dalla schiavitù e lo avrebbe nuovamente
posto sotto il suo dominio. Sebbene in questa visione siano presenti echi
dell'antica speranza dinastica (per es. Ezechiele 34, 23 sg.; 37, 24-28), essi
non sono fondamentali e nel Deuteroisaia sono assenti quasi del tutto. Gli
esuli ebrei attendevano il gran giorno della disfatta di Babilonia e della
liberazione d'Israele (per es. Isaia 13, 1-14, 23; 34; 35; 63; 64). Perciò il
Giorno di Yahweh, un tempo giorno della giustificazione della nazione,
trasformato dai profeti nel giorno del giudizio nazionale, assumeva nuova
importanza come giorno in cui Yahweh, nel contesto della storia, avrebbe
giudicato il potere dei tiranni e avrebbe ristabilito il suo popolo nella
propria terra.
Ma la restaurazione, che portò la realizzazione di questa
speranza, recò anche frustrazione. Come abbiamo notato in precedenza, essa non
corrispondeva neanche lontanamente alle brillanti promesse dei profeti.
Nonostante il ritorno in Palestina e la ricostruzione del Tempio, la
realizzazione della speranza risiedeva ovviamente nel futuro. Ne poteva essa
manifestarsi in un revival dell'antica teologia dinastica, come la vicenda di
Zo-robabele aveva crudelmente chiarito. La speranza non avrebbe mai più assunto
le vecchie forme, ne sarebbe stata paga del presente o di sviluppi del
presente. Doveva trovare nuove forme o arrendersi. Ma sebbene alcuni volessero
forse considerare la teocrazia postesilica una realizzazione sufficiente del
disegno divino nella storia e non curarsi del futuro, il giudaismo nel suo
insieme non poteva seguire questo corso, che avrebbe significato rinunciare a
un elemento fondamentale delle fede ancestrale d'Israele, privandola di ogni
senso della storia e snaturandone così il carattere essenziale. Anche se
l'assolutizzazione della legge conferì al giudaismo una certa staticità, esso
non arrivò mai a questi estremi. Il giudaismo mantenne la speranza futura e la
intensificò, non aspettandosi più uno sviluppo dalla situazione attuale, ma
piuttosto un cambio radicale e l'inserimento nel presente di un nuovo e diverso
futuro.
Sviluppi escatologici alla fine del periodo veterotestamentario
Nel periodo postesilico, molte forme in cui la speranza si
era espressa in precedenza svolsero un ruolo minore. Il Messia (re davidico) è
scarsamente menzionato nell'Antico Testamento dopo Aggeo e Zaccaria. A dire il
vero, l'escatologia ebraica, essendo fondamentalmente nazionalistica, si rifece
abbastanza naturalmente all'ideale di Davide. Così, ad esempio, Abdia cercava
una restaurazione nel Giorno di Yahweh più o meno entro i confini davidici
(Abdia 15-21); e persino il Cronista, per quanto poco escatologo, desiderava un
ripristino delle istituzioni cultuali nazionali «secondo le prescrizioni di
Davide» (Esdra 3, 10; Neemia 12, 45, ecc.). Ma a parte brani quali Zaccaria 9,
9 sg.; 12, 1-13, 6, manca un legame specifico tra la speranza e una figura
regale o della casa di Davide. Questo non significa che cessasse l'attesa di un
Messia. Nei Testamenti dei dodici patriarchi si attende un re originario di
Giuda, sebbene questo venga offuscato in dignità dal sommo sacerdote di Levi
(la setta di Qumran era ugualmente in attesa di un Messia di Aronne e di un
Messia di "Israele", il primo dei quali aveva posizione preminente).
E, naturalmente, continuò forte ai tempi del Nuovo Testamento la speranza in un
Messia politico. Ma il Messia non svolge un ruolo fondamentale nell'escatologia
ebraica. E anche dove sono presenti specifiche speranze messianiche, esse non
sono collegate all'ordine esistente, come nell'antico Israele, ma riguardano
una figura inviata da Dio per introdurre un nuovo ordine. Nella letteratura
apocalittica, la figura del Messia tende a confondersi con quella di un
redentore celeste che giungerà negli ultimi giorni.
Altri antichi modelli svolsero un ruolo ugualmente poco
importante. Molti probabilmente ritenevano che la comunità della legge fosse il
resto purificato d'Israele a cui era stato dato il nuovo patto: gli Ebrei
devoti costituivano la comunità al centro di cui era la legge (Salmi 37, 31 ;
40, 8; vedi Geremia 31, 31-34), A dire il vero, alcuni non erano soddisfatti di
questa visione: ad esempio i mèmbri della setta di Qumràn, che ritenevano di
essere loro il popolo del nuovo patto; e i cristiani, che affermavano che il
nuovo patto era stato dato da Gesù Cristo. Ma nonostante gli Ebrei guardassero
oltre la loro era malvagia, a un futuro di più perfetta obbedienza alla legge
(per es. Giubilei 23, 23-31), la speranza di un nuovo patto svolse in generale
un ruolo minore nel loro pensiero. Sentiamo parlare ancor meno del Servo di
Yahweh. In effetti la letteratura del periodo presenta scarsissime tracce di un
mansueto e umile redentore. Sebbene Israele comprendesse chiaramente di doversi
mostrare servo di Dio anche nelle sofferenze, e sebbene facesse di umiltà e
sottomissione l'ideale della sua devozione, non sembra che esso vide mai nel
Servo di Yahweh il modello della redenzione futura.
In tutto il periodo postesilico, il modello dominante di
speranza è quello del Giorno di Yahweh di cui abbiamo parlato precedentemente.
Una descrizione sistematica di questo evento, evidenziato in tutta la più tarda
letteratura profetica, è impossibile viste le diverse forme in cui si presenta.
Talvolta implica la restaurazione della nazione (Abdia), altre volte è visto
come il giudizio purificatore di Dio sul suo popolo (per es. Malachia Capitoli
3; 4), altre volte ancora come ringiovanimento della nazione dopo il giudizio
(per es. Isaia 65 sg.), altrove come un riversarsi di doni carismatici insieme
a terribili prodigi (per es. Ciocie 2, 28-32). Particolarmente importante è
l'immagine del conflitto escatologico tra Dio e i suoi nemici presente in
diversi brani (per es. Ezechiele Capitoli 38; 39; Ciocie 3; Zac-caria 14).
Comune a tutti questi è il concetto di un attacco finale
delle nazioni contro Gerusalemme, in cui Dio interviene con cataclismi e
portenti, sconfìggendo il nemico con un tremendo massacro e ristabilendo il suo
popolo per sempre in pace. Simile è la cosiddetta apocalisse di Isaia Capitoli
24-27. Qui, il Giorno di Yahweh giunge con tutta la forza distruttrice di un
nuovo diluvio {Isaia 24, 18), annientando i malvagi; dopo che i nemici di
Yahweh, celesti e terrestri, sono stati incatenati (Isaia 24, 21 sg.), segue
l'intronizzazione di Dio e la festa per l'incoronazione (Isciiu 24, 23; 25.
6-8); la morte è abolita, i giusti risorgono (Isaia 26, 19) e il nemico, il
mostro Leviatano (Isaia 27, 1), ucciso.
Quindi, l'atteso eschaton, per quanto ancora visto nel contesto della storia,
non era concepito come una continuazione, o un radicale miglioramento
dell'ordine esistente, come era anticamente, bensì come un'intervento divino
catastrofico che avrebbe generato un ordine nuovo e differente.Anche se questo
nuovo ordine ricatturava tutte le glorie del passato, reali o immaginarie,
non era tuttavia una semplice ricreazione del passato, ma una nuova era che
sarebbe emersa dopo il giudizio come conclusione dei disegno divino nella
storia. Gli ebrei attendevano quest'acme e non solo quelli con tendenze
escatologiche, ma tutti. Persino una persona così moderata come Ben Sira si
rivolge a Dio perché affretti il giorno dell'adunanza d'Israele, quando Sion
sarà glorificata, tutte le profezie realizzate e Dio riconosciuto come Dio di
tutte le nazioni (Ecclesiastico 36,1 -17).
La comparsa dell'apocalittica
Mentre si concludeva il periodo veterotestamentario,
l'escatologia ebraica iniziò a esprimersi in una nuova forma nota col nome di
apocalisse ed entrò in una nuova fase. Il genere apocalittico godette di enorme
popolarità, almeno in certi circoli, tra il II secolo a.C. e il I dell’era
cristiana. Sebbene la Bibbia contenga solo due esempi di letteratura
apocalittica - Daniele e l’apocalisse - venne prodotta una serie di scritti
simili non ammessi nel canone. Nonostante il grosso di questi scritti sia
databile dopo il periodo che stiamo trattando, è necessario dire qualche parola
se vogliamo che la nostra descrizione dell'escatologia del primo giudaismo
risulti completa.
Apocalisse significa "rivelazione". Essa si
propone in un linguaggio esoterico di svelare i segreti ed esporre il programma
degli ultimi eventi, ritenuti imminenti. Non è possibile una descrizione
sistematica dell'apocalittica, perché essa stessa non fu sistematizzata, come
sa bene chi abbia studiato con attenzione gli pseudoepigrafi. Gli autori di
questi scritti erano convinti che quell'era stesse volgendo al termine e che
eventi del loro tempo indicassero che la lotta cosmica tra Dio e il male, di
cui la storia mondana era il riflesso, stava per raggiungere il proprio apice.
Essi si preoccupavano di descrivere l'imminente epilogo, il giudizio finale, il
riscatto degli eletti e la loro felicità nella nuova era che stava per sorgere.
L'apocalittica è caratterizzata dall'artificio della pseudonimia. Poiché l'era
delle profezie era terminata, gli autori apocalittici, essendo le loro opere di
natura profetica, furono costretti a mettere le loro parole in bocca ai profeti
di un tempo. Essi amavano descrivere bizzarre visioni in cui le nazioni e i
personaggi storici apparivano come bestie misteriose. Cercavano, manipolando
numeri, di calcolare il momento esatto della fine, comunque imminente.
Reinterpretavano le parole degli antichi profeti per dimostrare come esse si
fossero realizzate o fossero sul punto di esserlo. Si osserva una marcata
tendenza dualistica. La lotta della storia è vista come il riflesso della lotta
cosmica tra Dio e Satana, luce e tenebre. Il mondo, traviato da angeli caduti e
contaminato dal peccato,deve essere giudicato: è un mondo malvagio, un mondo in
rivolta contro Dio, un mondo secolare, quasi un mondo demoniaco. Ma non si
dubitava che Dio controllasse la situazione e che presto sarebbe venuto a
giudicare il mondo, consegnando al castigo eterno Satana, i suoi angeli, e
tutti coloro che gli avevano obbedito, e salvando i propri seguaci. Qui
l'escatologia compare in una nuova dimensione. Non si attende più una svolta
nella storia, per quanto drammatica, bensì un nuovo mondo (età) oltre la
storia.
Gli antecedenti dell'apocalittica sono vari e complessi.
Dal punto di vista teologico, le sue radici principali affondano nella speranza
futura d'Israele, particolarmente in quella sviluppala nella predicazione dei
profeti della fine del periodo veterotestamentario. Ma poiché la profezia
dell'An-tico Testamento e priva dei distintivi (ratti apocalittici appena
osservati, è evidente che ebbe luogo qualche altro imperlante prestito.
Pensiamo, in particolare, alla tendenza al dualismo, al concetto di un giudizio
universale e alla fine del mondo col fuoco, alla divisione della storia in
periodi del mondo, nonché ai numerosi elementi presenti nelle descrizioni dei
segreti cosmici come quelli, ad esempio, del 1 di Enoc. Alcune di queste
caratteristiche (per es. le tendenze dualistiche) potrebbero rappresentare
concezioni iraniche assorbite dalla religione popolare ebraica e ulteriormente
elaborate. Altre sembrerebbero risalire ad antichi motivi mitologici, forse
perpetuati nel culto regale di Giuda preesilico, mentre altri ancora sono di
origine incerta. Si può immaginare che, poiché le speranze erano state
ripetutamente frustrate e l'amara esperienza dimostrava che il mondo era
irrimediabilmente malvagio, la fede nella salvezza divina, che non poteva
assolutamente cessare, si proiettasse progressivamente oltre l'era presente e
la storia. Con il prestito di forme che dessero nuova espressione a questa
speranza, nacque il genere apocalittico.
Nell'apocalittica incontriamo per la prima volta la figura
del Figlio dell'Uomo. In Daniele 7, 9-14, leggiamo che «uno come un figlio
d'uomo» riceve un regno eterno dall'Antico di Giorni (Dio). Gran parte degli
studiosi considera il Figlio dell'Uomo una figura collettiva che rappresenta i
«santi dell'Altissimo» (come le quattro bestie simboleggiano le forze malvagie
della Terra), anche se alcuni hanno l'impressione che s'intenda qui uno
specifico redentore. In seguito, però, nelle sezioni più tarde di 1 Enoc
(Capitoli 37-71), il Figlio dell'Uomo appare chiaramente come un liberatore
celeste preesistente. Sebbene la specifica identificazione del Figlio dell'Uomo
con il Messia davidico sia oggetto di disputa, almeno il suo ufficio era
interpretato messianicamente, perché egli è chiamato l'«Unto» (1 Enoc 48, 9
sg.) ed è rappresentato a capo del regno dei santi (1 Enoc 51; 69, 26-29). Le
origini di questo redentore cosmico, per quanto solitamente considerate
iraniche, potrebbero anche risalire ad antichissime figure della mitologia
orientale, fuse nel pensiero popolare con quella dell'escatologico redentore
davidico. L'importanza del Figlio dell'Uomo nel pensiero del Nuovo Testamento -
e, ritengo, di nostro Signore - è ben nota.
Il genere apocalittico illustra brillantemente la capacità
d'Israele di prendere in prestito e adattare, fino a renderle sue, forme
diverse. Esso rappresentò un'espressione legittima, se pur bizzarra, della sua
fede nel Dio sovrano della storia. Non si può negare che ciò generò
speculazioni sfrenate e inutili e diede vita a ogni sorta di speranze vane e
impossibili. Ma sostenne la speranza quando tutto sembrava disperato,
affermando che Dio regna, e regnerà il Giorno del giudizio universale alla fine
della storia. Non c'è da stupirsi che l'apocalittica rinnovi la propria
popolarità in tutti i periodi di crisi, compresa l'era atomica. Sostenuti dalla
loro escatologia, gli Ebrei attendevano la fine. E, nel frattempo, osservavano
la legge, che era lo strumento divino di governo nel mondo presente. Solo
obbedendole, essi potevano dimostrare di essere il popolo di Dio ed essere
sicuri del suo favore in questo mondo e in quello a venire.
J. B.
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