Capitolo 3. L’esperienza della parola
Come accostare la Sacra Scrittura
La Sacra Scrittura incise in profondità in Gregorio; lo fece passare da una fede debole ad una solida, caratterizzata da un forte impegno a favore dei fratelli. È quanto abbiamo osservato nel capitolo precedente.
In questa sezione, vorrei mostrare in che modo egli si sia
accostato alla Bibbia, con quale spirito l’abbia accolta, meditata e
annunciata; in quali maniere abbia cercato di comprenderla e spiegarla.
L’apprendimento della Sacra Scrittura era considerato un
impegno normale per tutti i battezzati. Clemente di Roma (un autore del I
sec.), rivolgendosi ai cristiani di Corinto, osserva: «Le provviste di Cristo
vi bastavano e custodivate con cura le sue parole, le tenevate salde
nell’intimo» (2,1 p. 183); ancora: «Vi siete curvati sulle sacre Scritture,
quelle vere, quelle trasmesse mediante lo Spirito santo» (45,2 p. 245). Da
parte sua, Origene, un maestro di Alessandria d’Egitto, così si rivolgeva ai
fedeli: «Se vieni con frequenza in Chiesa, porgi l’orecchio alle letture
divine, ricevi la spiegazione dei
comandamenti celesti, lo spirito si rafforzerà per le parole e i pensieri
divini» (Origene, Omelie sul Levitico IX, 7, CTP 221-222). In questi passi la lettura divina coincide con la proclamazione della parola in ambito
liturgico ma Origene non s’accontenta di chiedere assiduità alla predicazione
ma esorta i fedeli a riprendere la lettura della Bibbia a livello personale: «Auspichiamo
che, dopo aver ascoltato queste cose, vi applichiate non solo ad ascoltare in
chiesa le parole di Dio, ma anche a metterle in pratica nelle vostre case e a
meditare giorno e notte la Legge del Signore; là c’è il Cristo e ovunque è
presente a chi lo cerca» (Origene, Omelie sul Levitico IX, 5, CTP 216-217). Potremmo moltiplicare
testimonianze di questo genere.
La forza della Sacra Scrittura
Perché veniva data tanta importanza alla Sacra Scrittura?
La Bibbia, purché accostata in modo adeguato, non era considerata un semplice
strumento culturale. Si era certi che essa non comunicasse delle semplici
informazioni, ma la grazia di Dio.
Esiste un’analogia tra l’opera di Gesù, Parola di Dio
fatta carne, e l’azione che la Scrittura Santa opera in noi. Le grazie che il
Signore ci concede nell’ascolto della sua parola, sono simili ai benefici che
Egli ha compiuto a favore degli uomini nel corso della sua esistenza terrena. I
segni prodigiosi che il racconto evangelico attribuisce a Gesù, corrispondono
ad opere attuali compiute nella Chiesa dal Risorto. Allora guariva ed oggi la
sua parola guarisce. La Parola è energia creativa: non si limita a comunicare informazioni ma opera cambiamenti. Nel Cantico
dei Cantici, il giovane invita la sua amata
ad alzarsi e recarsi da lui; ora lo stesso invito il Cristo lo rivolge sempre
alla sua Chiesa, quindi ad ogni persona che ne fa parte, e il Signore è sempre
in grado di attuare ciò che si propone.
Il Verbo, per rianimare gli affranti, si
accosta alle finestre [della casa] e grida alla Chiesa: «Alzati dalla tua
caduta tu che sei precipitata nel vischio del peccato, catturata nei lacci del
serpente, stesa a terra, prostrata dalla disubbidienza. Alzati! Rimettiti in
piedi dalla tua caduta ma fa' anche molto di più, avanza crescendo nel bene
impegnandoti nella gara della virtù» (CC V, p. 99).
Il Signore ci ridesta, ci stimola a procedere verso il
meglio, ad avanzare superando di continuo nuove tappe di maturazione.
Nella vita, spesso, siamo nella condizione di quel
paralitico che fu rimesso in piedi da Gesù; a volte siamo desiderosi del bene
ma incapaci di compierlo, altre volte invece siamo stanchi e presi da
sconforto. Gesù, con il suo comando, che è «asserzione efficace», diventa
capace di guarirci dall’abbattimento e di rimetterci in piedi:
Il Signore non solo gli fece sollevare quel
lettuccio pesante, ma gli ordinò anche di camminare. Mi sembra che il Verbo
suggerisca di procedere verso la perfezione e di avanzare superando di continuo
nuove tappe. Gli disse: «Alzati e vieni!». Con quanta energia egli comanda!
Veramente la parola di Dio è asserzione efficace, come attestano i salmi «Ecco
tuona con voce potente», oppure: «Egli parla e tutto è fatto, comanda e tutto
esiste». Anche in questa circostanza egli ordina alla sposa prostrata: «Alzati,
vieni» e il comando si realizza immediatamente. Non appena ha accolto la forza
di quella parola, si alza, avanza, si avvicina alla luce come viene indicato
dalle parole di Colui che la chiama (ivi).
Il raffronto con il paralitico guarito ci fa comprendere
come la Parola ci accompagni in tutto il corso della vita, ci consenta di
guadagnare la nostra umanità. Ogni nostra ripresa dipende in primo luogo dalla
sua azione solidale.
Meditare sulla
Sacra Scrittura era un avvicinarsi a Dio e un farsi illuminare da lui. Gregorio
condivide questo modo di pensare. «La Scrittura ispirata da Dio, come la chiama
il divino apostolo, è Scrittura dello Spirito Santo, e l'intento di essa è
l’utilità degli uomini. Dice: “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio ed è
utile”, e svariata e multiforme è l’utilità, come dice l'apostolo: essa
concerne l’ammaestramento, la riprensione, la correzione, l’educazione nella
giustizia» (CE III, 69, 8.9.11, p. 449). Subito dopo, però, precisa: «Ma
ottenere siffatto guadagno non lo può, ad una prima lettura, il primo che
capita…» (ivi).
Come ottenere allora il
guadagno sperato? Come evitare la sorte che accade al primo che capita?
Povertà e splendore della Sacra Scrittura
Cosciente del carattere
religioso della lettura biblica, Gregorio vive due atteggiamenti che sembrano
porsi in una certa tensione tra loro, quello dell’accessibilità estrema e
quello della segretezza; troviamo un Dio pronto a rendersi conoscibile e a
familiarizzare con noi, e nel contempo, un Dio che ci trascende e di fronte al
quale possiamo sentirci smarriti.
Vediamo un esempio. Nel commentare il libro del Cantico
dei Cantici, Gregorio proclama un aspetto
qualificante del mistero di Dio: «Sembra che la bellezza divina, pur provocando
anche terrore, eserciti una mirabile attrazione…» e subito aggiunge: «… quella
Bellezza pura appare come una forza tremenda e inesorabile!» (VI, p. 120). Sono
enunciate due caratteristiche del Sacro fra quelle che verranno individuate da R. Otto. Nell’udire la Parola,
dovremo sentirci attratti perché Dio è bellezza pura ma anche pieni di rispetto nei suoi confronti perché
Egli è una forza tremenda. A Mosè
che s’avvicina al roveto in fiamme con eccessiva franchezza, Dio chiede di
togliersi i calzari perché sta calcando una terra santa (Cf Es 3,5). Ai miseri
che erano stati convocati dalla strada ed erano stati spinti ad entrare alla
festa di nozze, il padrone chiede che indossino un abito nuziale adeguato
(Cf Mt 22,10-12). Non si può
procedere nel mondo di Dio con la disinvoltura con la quale percorriamo il
nostro. Non ne siamo i padroni e neppure, di per sé, abbiamo il diritto che ci
venga messo a disposizione.
Il credente, che è abbastanza sensibile da avvertire la
trascendenza divina, è preso da vertigine, come capita a chi osserva un abisso
ai propri piedi:
Ora, ciò che
sente normalmente colui che con la punta del piede tasta la barriera di roccia
inclinata verso l'abisso, e non vi trova né un appoggio per il piede né un
appiglio per la mano -, ecco, questo è ciò che, a mio parere, prova l'anima che
oltrepassa la zona accessibile dei concetti propri della dimensione temporale,
nella ricerca della natura che precede il tempo ed è oltre la dimensione
temporale. Non avendo nulla a cui aggrapparsi, … essa è presa da vertigine, si
trova priva di qualunque mezzo e ritorna a ciò che le è affine (Qo VII, 8, p.
397).
Ciò che si prova nei confronti del mistero di Dio, lo si
può avvertire anche al semplice annuncio della parola di Dio. Commentando la
sesta beatitudine – Beati i puri di cuore perché vedranno Dio – Gregorio ricorre di nuovo all’esperienza delle
vertigini:
Lo stesso senso
di vertigine, tipico di chi da un tale punto di osservazione si sporga in
basso, da quella grande altezza, a vedere il mare nell'abisso, prova ora la mia
anima, trovandosi sospesa in alto sopra questo grande detto del Signore: Beati
i puri di cuore, perché vedranno Dio. (Beat
VI, I, p. 289).
Ascoltando le parole di Dio, Gregorio prova fascino ma
anche imbarazzo e per questo invita i suoi fedeli ad avvicinarsi con rispetto,
con quello dovuto a qualcosa di grande e di per sé inaccessibile. Bisogna
lasciare ogni eccessiva confidenza. Il provare un senso di vertigine non è
forse un’esperienza traumatica che spinge piuttosto ad evitare il contatto con
il Signore? Non è questo lo scopo a cui mira Gregorio ma vuole soltanto
impedire, come ho detto, che si nutra un’eccessiva confidenza che sconfina
nella presunzione.
Come mai corriamo il rischio di comportarci con eccessiva
disinvoltura? Questo accade perché la Sacra Scrittura si presenta in un aspetto
familiare, perfino dimesso, ed è priva di radiosità esteriore. Dio non si
manifesta in segni strabilianti ma, nel comunicarsi, si adegua alla nostra
limitata capacità di comprensione.
Rievoca la vicenda di Mosè al roveto: «Dio infatti è la
verità che allora si manifestò a Mosè grazie a quella indicibile,
soprannaturale illuminazione». Egli tuttavia non sperimentò soltanto lo
splendore della parola ma anche la sua umiltà, perché essa si abbassa (kàteisi)
fino all’uomo. Tale abbassamento viene segnalato dal fatto che lo splendore
della verità proviene da un «cespuglio terreno» (VM II, 19-20, p. 73). Il
credente non deve guardare alla povertà del cespuglio ma farsi illuminare dalla
luce che lo pervade. La Scrittura è nello stesso tempo uno strumento misero e
luminoso.
La Parola ha
detto quanto corrispondeva alla mia capacità di comprendere, non quanto è la
realtà che è manifestata dalla Parola…. I discorsi su Dio della Sacra
Scrittura, che ci vengono esposti da quanti sono ispirati dallo Spirito Santo,
sono sublimi e grandi in proporzione alla nostra intelligenza, anzi sono al di
sopra di ogni grandezza, ma non attingono la vera grandezza (Beatit VII, 1, p.
325).
Esiste infatti un’analogia tra la povertà della Scrittura
e il carattere di umiliazione volontaria attuata dal Signore nella sua
incarnazione. «La Parola condiscende (synkatabàinei) al basso livello del nostro ascolto, la Parola che
è discesa fino a noi perché noi non eravamo capaci di innalzarci fino a lei. Attraverso
le parole e i nomi a noi noti, esprime i misteri divini, con l’ausilio delle
voci proprie della lingua di tutti i giorni» (Beat II, 2.1, p. 169).
Un velo viene posto sul volto dei presuntuosi mentre a
coloro che s’accostano con lo spirito adeguato, è rivelata la gloria divina.
«Davanti ai sensi dell'anima di coloro che con atteggiamento troppo corporeo si
accostano alla Scrittura l'apostolo dice che è stato posto il velo, mentre ai
sensi di quelli che volgono il loro esame alla realtà intelligibile viene
rivelata la gloria riposta nello scritto» (CE III, 69, 8.9.11, p. 449).
Intento ad affermare la necessità di una nuova
disposizione d’animo, Gregorio si serve molto di frequente dell’immagine della salita (ánodos).
Ogni volta che ci predisponiamo all’ascolto, dobbiamo essere propensi ad
affrontare una salita verso un
monte al quale Dio ci chiama. Il salire implica l’abbandono di una prospettiva
abituale dentro la quale siamo immersi e la graduale disponibilità ad uscirne
fuori; implica la volontà di esporsi alla luce, lasciando l’ombra del peccato;
il desiderio di farci guarire dal Signore che ci attende come medico: «Se
potremo salire sulla cima, troveremo colui che cura ogni malattia e ogni
debolezza, colui che assume le nostre infermità e prende su di sé le malattie»
(Beat I, 1, p.133). Chi intraprende questa salita, trova il Signore come medico
e non come giudice. Allora non dobbiamo rinunciare atterriti o accampando la
scusa della nostra indegnità ma «aggrapparci saldamente alla parola che ci tiene
per mano» (Beat VI, 1 p. 291). Anziché respingerci, il Signore ci accompagna
all’interno del suo mistero tenendoci per mano.
Vi può essere chi, al contrario, preferisce rimanere
immerso nell’ombra del peccato senza nutrire alcuna disponibilità ad accoglierne
il messaggio. Questi non soltanto non alimenterà quel senso di rispetto di cui
ho parlato, ma troverà addirittura strane o ridicole le parole del Signore e il
contenuto della Scrittura (cf. Beat III, 2, p. 193).
A motivo del suo stile dimesso, la Parola spesso non viene
colta e stimata nel suo valore e diventa, perfino, oggetto di disprezzo.
Diffidenza e rifiuto però non diminuiscono la Parola in se stessa ma denunciano
piuttosto la nostra meschinità (CF. Beat III, 2, p. 195). Il Signore infatti parla
sempre in modo umile, mai in modo meschino. «Sforziamoci piuttosto di vedere il
più possibile la ricchezza nascosta in profondità nella Parola, in modo che
appaia chiaramente quale grande differenza esiste tra la mente carnale e
terrena e quella sublime e celeste» (ivi).
A sua volta, il credente non ancora maturato nelle fede,
non giungerà al punto di disprezzarle o deriderle, ma sarà tentato di coglierle
come paradossali o impossibili, al punto da rimanere perplesso e incredulo di
fronte alle loro richieste. Ciò nonostante, nessun suggerimento della Bibbia
oltrepassa la misura della capacità umana. Dio «né ordina di volare agli esseri
cui non ha dato per natura ali, né di vivere sott’acqua a quanti ha assegnato
in sorte la vita sulla terraferma» (Beat VI, 2, p. 295).
Atteggiamenti spirituali
Per ottenere una lettura proficua della Bibbia, non basta
leggerla come si fa con qualsiasi libro. È un libro dello Spirito e per
ricevere l’illuminazione dello Spirito è necessario creare una sintonia
spirituale tra il lettore e il testo. Il problema della mancanza di sintonia è
avvertito già nella Bibbia. Il profeta Geremia così segnala: «Gli esperti della
Legge non mi hanno conosciuto» (Ger 2,8). Altro è la competenza biblica e altro
è il vero spirito di ricerca di Dio. Lo stesso problema riaffiora
nell’esperienza di Gesù. Discutendo con gli avversari, dice loro: “Voi scrutate
le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che
danno testimonianza di me. Ma voi non volete venire da me per avere la vita”
(Gv 5,39-40). Si può essere grandi conoscitori del testo, ma, ciò nonostante,
persone lontane da Dio. Gregorio è cosciente di questa problematica.
Riconosce che il primo passo verso una comprensione
proficua lo può compiere soltanto il Signore: «Le nostre orecchie hanno bisogno
delle dita di Gesù affinché, al tocco del vero Verbo, la capacità di ascolto
della nostra anima sia liberata da ogni sozzura» (Qo 8, 1 p. 405). Il credente
ha bisogno di vedere e di ascoltare il Signore ma la vista può essere attenuata
e l’udito affievolito. In entrambi i casi, l’impedimento dipende dal cattivo
comportamento. Il peccato deve essere eliminato perché la sensibilità dello
spirito possa attivarsi in modo corretto e proficuo. Senza una purificazione
permanente, il credente non avverte la forza della parola e la meditazione
della Scrittura perde efficacia.
Invocazione
L’accoglienza vera della Parola presuppone allora due
atti: la preghiera e il desiderio di conversione.
Ecco un passo significativo che attesta la necessità della
preghiera:
Ci siamo proposti
di meditare il significato spirituale del libro ispirato del Cantico dei
cantici, ma esso contiene messaggi
inesprimibili a parole, nascosti nella tenebra, difficili a comprendersi.
Dobbiamo perciò prestare un'attenzione intensa o, meglio ancora, abbiamo
bisogno di un aiuto più consistente ottenuto dalla preghiera e dall'assistenza
dello Spirito Santo, affinché, dinnanzi alla profusione di tante meraviglie,
non ci accada lo stesso inconveniente in cui incorriamo normalmente quando
osserviamo le stelle: mentre stiamo ammirando da lontano la loro bellezza non
possiamo disporre di nessun congegno per poterle possedere; ci rimane solo la
possibilità di godere del loro splendore contemplandole con ammirazione (CC X,
p. 169).
L’immagine usata da Gregorio mi sembra molto efficace. Un
conto è ammirare le stelle, un conto è possedere la loro luce. Soltanto il
Signore, nel corso della lettura può toccare il nostro cuore al punto che essa
diventi esperienza d’illuminazione e di compunzione del cuore. Lo stesso vale
della predicazione. L’argomentare ricco di Gregorio, sebbene sia capace di
sfruttare le tecniche della retorica, diventerebbe vano se la grazia non
illuminasse il cuore degli ascoltatori. La Bibbia non è un libro di letteratura
ma un progetto d’esistenza. La preghiera è necessaria non soltanto poter
comprendere un testo ma anche per poterlo attuare. Le azioni della nostra vita,
se non vengono precedute da una preghiera intensa, difficilmente saranno esenti
dal peccato (cf. PN, 1, 1-3). «È con questo che ci è dato di custodire
inviolato il nostro buon possesso, col fare di Dio il custode dei nostri beni.
Quando i miei occhi sono continuamente al Signore, allora diventano inefficaci
i lacci dell’avversario, con i quali egli si industria di attentare a quanto di
prezioso c’è nell’anima» (Qo VII, 6, p. 383).
Pentimento e apertura del cuore
Insieme alla preghiera, è necessario alimentare uno
spirito di pentimento e soltanto tale sentimento permette di comprendere, ossia
d’essere afferrati e coinvolti. La spiritualità di Gregorio, come lo è ogni
spiritualità autentica, ha un carattere pratico. Come non offre nessuna utilità
essere informati su come vivere in modo sano, se poi di fatto si è malati, così
non serve nulla sapere molte cose su Dio, senza ospitarlo in se stessi: «Non il
conoscere qualcosa su Dio è cosa beata, ma l’avere in se stessi Dio» (Beat VI,
4, p. 303).
Questa prospettiva modifica in profondità il metodo di
approccio alla Scrittura perché se è vero che non possiamo cambiare vita
soltanto dopo aver accolto l’annuncio della Parola, è anche vero che la nostra
comprensione di Dio sarà proporzionale alla radicalità della messa in pratica
della sua parola. Soltanto l’attuare, fa comprendere. «La misura che tu puoi
contenere della comprensione di Dio è dentro di te» (Beat VI, 4, p. 305);
ossia, potremmo dire «dipende da te». «Colui che vuole veramente occuparsi di
teologia in modo appropriato deve avere una condotta di vita consona in tutto
alla sua fede» (ST, II,14, p. 176).
Questo rimane un principio basilare per quanto riguarda la comprensione
autentica della Bibbia.
Osserviamo un altro testo, dove si ripresenta lo stesso
avvertimento:
Quando il
pensiero in te non è mescolato ad alcun male, è libero dalla passione e
separato da ogni bruttura, tu sei beato per la tua vista acuta, perché,
essendoti reso puro, hai compreso ciò che non è visibile a coloro che non si
sono resi puri, e, tolta la caligine materiale dagli occhi dell’anima, nella
pura luminosità del cuore vedi con chiarezza la visione beata (Beat VI, 4, p.
307).
In questo passo il pensiero (loghismòs) ossia la riflessione razionale che chiunque può
elaborare a partire dal testo deve corrispondere al possesso di una vista
acuta (oxyôpia) la quale presuppone una purificazione di carattere
etico. Il raziocinio può comprendere bene il significato storico o letterale
del testo, ma solo la vista acuta
dispone a convertirsi e a santificarsi grazie alla compunzione.
Gregorio richiama l’atto della respirazione. Chi respira,
assume una quantità d’aria quanto può essere accolta nei suoi polmoni e quanta
ne assorbe con la sua capacità di inspirazione. Allo stesso il credente assorbe
l’ispirazione della Scrittura in base alla forza della sua religiosità. «Coloro
che respirano l'aria lo fanno ciascuno secondo la capacità dei propri polmoni,
uno inspira più aria, l'altro meno, e neppure colui che ha inspirato molta aria
ha messo la totalità dell'elemento aria dentro di sé, ma anche questi ha preso
dal tutto quanto ha potuto e il tutto continua a sussistere» (Beat VII, 1, p.
325). L’immagine è efficace. La massa d’aria rappresenta la pienezza
dell’ispirazione e il nostro respiro la capacità personale di attingere ad
essa.
Ne La vita
di Mosé, Gregorio propone lo stesso
insegnamento servendosi di un’altra immagine suggestiva. Quando il profeta
saliva verso il monte Sinai, man mano si trovava più alto sull’erta, avvertiva
in maniera sempre più forte gli squilli di tromba che riecheggiavano sul monte.
Quale messaggio dischiude questo ascendere? Il monte rappresenta la teologia, ossia la conoscenza vitale di Dio. Ora la gente
comune raggiunge con difficoltà le falde del monte. Questo non avviene per la
difficoltà dei concetti ma per la mancanza di sintonia con il modo di pensare
di Dio. Se una persona diventa matura nella fede come lo fu Mosé, salendo il
monte grazie alla continua purificazione del cuore, avverte la voce di Dio come
se parlasse o agisse in lui con maggiore acutezza.
Il monte, che è
veramente scosceso e di difficile accesso, indica la teologia, di cui la gente
comune con difficoltà raggiunge le radici. Ma se uno come Mosè, può salire per
lungo tratto, sostenendo con l'udito le voci delle trombe che, come dice il
racconto, diventavano più forti durante la salita. Infatti è veramente una
tromba, che percuote l'orecchio, il messaggio sulla natura divina, già forte
all'inizio e che alla fine raggiunge l'orecchio con forza molto maggiore. (VM
II, 158, p. 151)
Di nuovo la misura della comprensione dipende da noi, non
dal nostro acume intellettuale ma dal livello raggiunto per quanto riguarda la
nostra vicinanza con Dio. Più saliamo grazie al nostro comportamento di vita,
meglio avvertiamo la voce di Dio.
Una locuzione caratteristica ci aiuta a fare sintesi del
discorso che ho fatto. Gregorio afferma che l’uomo è dotato dalla nascita dalla
capacità di ascoltare la parola di Dio. Egli possiede una potenza d’ascolto (akoustikê
dynamis) insita in lui ma questa funzione
viene attenuata a misura della lordura del peccato che vi si accumula. La
grazia, lavando ogni sporcizia, riattiva in pienezza l’esercizio del nostro
udito interiore (Cf. Qo VIII,1 P. 405).
I frutti della Parola di Dio
«Infuse più forte il desiderio della libertà»
In che cosa consiste la forza che ci viene infusa dalla
parola, la volontà di camminare, anzi di correre o di volare? Gesù si comporta
con noi come fece Mosè quando si propose di convincere il popolo ad abbandonare
la terra della schiavitù, un luogo che era avvilente ma anche rassicurante; un
luogo che umiliava le persone ma offriva loro sicurezze. Avendo visto che il
popolo desiderava essere libero ma temeva i rischi della libertà, infuse in
loro «più forte il desiderio della libertà» (VM II, 89, p. 109).
Il profeta mise in campo la strategia tipica del
desiderio. Il desiderio è ben diverso da un obbligo. Un’ingiunzione, anche se è
considerata molto opportuna, proprio perchè costringe, è rifiutata. Il
desiderio può essere più esigente ancora di un’imposizione, ma non viene
percepito come un fattore estraneo. Inoltre un desiderio, per attuarsi, perdura
nel tempo, elabora strategie, supera difficoltà, libera una grande energia. Il
bene primario dell’uomo consiste nella sua razionalità ma la forza di un
desiderio può soffocare e contraddire qualsiasi istanza razionale, oppure, al
contrario, rinvigorirla nel modo più idoneo. Allo stesso modo si comporta con
noi la Parola inducendoci a desiderare ciò che sarebbero opportuno che noi
facessimo e che potrebbe imporci come semplice obbligo.
La vita umana è una congerie di istanze e aspirazioni.
Ogni uomo si trova quindi di fronte a due esigenze di grande rilevanza pratica;
deve capire in che cosa consista il bene da perseguire e rimanere costante nel
desiderio di ottenerlo. È necessario operare un discernimento tra i beni della
vita in modo da individuare quale sia quello autentico, ma questo esercizio di
ponderazione spesso viene invalidato da bisogni inconsci di chi vuole valutare.
Allora ecco intervenire la Parola!
Dio agisce nell’uomo a cominciare dalla creazione stessa
della persona. In che cosa consiste il suo agire? Egli infonde negli uomini il
desiderio del vero bene. Potremmo dire: gli stimoli che ci indicano la
direzione da seguire sono già stati depositati dentro di noi. Parlando ad un
gruppo di asceti, Gregorio spiega che il desiderio di santità che essi hanno
manifestato nel scegliere un certo tipo di vita, era in realtà presente in loro
da sempre:
«Chi, almeno un poco, si distoglie dagli
interessi immediati, e non si fa condizionare dalle forti pulsioni che lo
dominano e da una vita vuota, scoprirà la dimensione più autentica della sua
persona, purché osservi se stesso con uno sguardo libero ed onesto. Scorgerà
l'amore di Dio per noi e il senso della sua creazione. Osservandoti, troverai
deposto in te, alla radice del tuo essere, un desiderio vivo per la bellezza e
per il valore più grande: diventare simile a quel Prototipo di santità e di
felicità del quale ogni uomo è un'imitazione. In noi vibra questa felice e
innocente ispirazione d'amore» (FC 1).
Ecco la prima e più forte traccia della parola di Dio in
noi: il desiderio della bellezza e del bene. I due valori coincidono in questo
senso: il bene ci appare provvisto di una forte attrattiva, come una
manifestazione di bellezza. Le altre parole di Dio, quelle che Egli pronuncerà
in seguito, ossia la parola della Legge o la stessa manifestazione della Parola
nella carne, hanno sempre come primo obiettivo quello di risvegliare questa
aspirazione originaria che può assopirsi e disperdersi.
La strategia del desiderio, attivando gli impulsi
spirituali più profondi presenti nel cuore dell’uomo, realizza in pienezza la
nostra umanità e ci permette di guadagnare la nostra libertà che è il potere
d’avere ciò che vogliamo. Nel pensiero di Gregorio il ripristino della libertà
è un bene primario. L’uomo deve diventare padrone di se stesso, attuando il
bene a cui aspira.
«Colui che fece l’uomo a sua immagine, pose
nella natura della sua creatura l’origine di tutte le cose buone, in modo che
nessun bene dovesse essere introdotto dall’esterno in noi, ma fosse dentro di
noi il potere di avere ciò che vogliamo, traendo il bene dalla nostra natura
come da una dispensa interna» (Beat V, 5 p. 269).
Ecco la nostra situazione originaria: riuscire a fare il
bene che desideriamo compiere. Non dover più subire il contrasto rilevata da
tanti uomini giusti, ed infine da Paolo: non faccio il bene che voglio ma il
male che detesto (Cf. Rm 7,18-23). L’uomo diventa libero, e si sente liberato,
quando riesce a far emergere ed attuare la sua ispirazione più profonda e
dominante. Ecco allora perché il Verbo continua a rivolgere alla Chiesa il suo
potente richiamo:
Egli ordina alla sposa prostrata: «Alzati,
vieni» e il comando si realizza immediatamente. Non appena ha accolto la forza
di quella parola, si alza, avanza, si avvicina alla luce come viene indicato
dalle parole di Colui che la chiama (CC V, p. 99).
Il bene, a sua volta non ha padroni, ossia non viene
attuato per costrizione, ma per il suo valore intrinseco e per volontà
spontanea.
Diventare liberi significa saper dispiegare tutte le
potenzialità e le ricchezze comunicate a noi da Dio. Egli è tanto lontano da
essere invidioso degli uomini o concorrente della loro libertà, da essersene
stato il creatore e il primo garante di essa. Tutta la spiritualità biblica del
Nisseno ruota attorno a questa convinzione: l’uomo è nobile proprio perché Dio,
a motivo di un amore gratuito e non comprensibile, vuole renderlo partecipe di
tutto ciò che possiede. L’uomo di per sé è un nulla ma diventa una creatura
estremamente elevata perché Dio lo ammette alla familiarità con sé e lo colloca
erede di tutti i suoi beni:
… l'uomo, che è considerato nulla tra le
realtà esistenti, cenere, erba, vanità, diviene familiare, venendo adottato in
qualità di figlio dal Dio dell'universo. Che cosa si può escogitare che sia
degno di questo dono per rendere grazie? L'uomo esce dalla propria natura,
divenendo immortale da mortale, incorruttibile da corruttibile, eterno da
effimero, e insomma Dio da uomo qual era. Infatti colui che è stato ritenuto
degno di diventare figlio di Dio avrà in sé in assoluto la dignità del padre, e
diviene erede di tutti i beni paterni. Per amore dell'uomo porta la natura
umana, disonorata dal peccato, a essere quasi del suo stesso valore (Beat VII,
2, p. 327)
La convinzione più paradossale ma anche la più normale per
Gregorio è proprio questa: per amore dell'uomo porta la natura umana,
disonorata dal peccato, a essere quasi del suo stesso valore (homótimon eautô schedòn). Se mi si chiedesse con
quale espressione si potrebbe condensare la spiritualità di Gregorio,
richiamerei proprio questa frase.
La parola della Scrittura fa emergere ciò che noi siamo in
profondità. Detto questo, abbiamo colto il traguardo del nostro percorso umano.
Lo possiamo definire variamente: attuazione della nostra aspirazione
esistenziale più profonda; conquista della nostra libertà; conformazione a
Cristo, assimilazione a Dio. Sono tutti modi diversi di prospettarsi lo stesso
bene che è quello del dispiegarsi in noi del disegno creatore di Dio.
Il fenomeno delle passioni
Ora che abbiamo individuato il traguardo, dobbiamo fare
attenzione alle tappe da percorrere per conseguirlo e agli eventuali ostacoli
da superare. Possiamo riprendere il discorso dall’inizio: chi riceve l’invito
di camminare è un uomo infermo come il paralitico. In che cosa consiste, fuori
metafora, la nostra malattia diagnosticata come paralisi e come possiamo
guarire?
Dentro di noi non dimora soltanto il desiderio del bene ma
una molteplicità di aspirazioni e d’impulsi. Ci troviamo nella necessità di
operare un discernimento e un certo riordino. Il linguaggio usato da Gregorio
per parlare di queste energie purtroppo si presta all’equivoco. Egli chiama
passioni sia gli impulsi vitali di per se stessi, sia le manifestazione
negative di queste energie vitali; possono essere considerate quali
“particolarità della nostra natura” oppure “malattia della nostra volontà” (cf
CE III, 63, 29, p. 437). Nonostante l’imprecisione del linguaggio, egli mostra
una chiarezza di fondo per quanto riguarda l’analisi del fenomeno. Gli impulsi
non sono di per sé negativi perché l’istinto passionale appartiene alla nostra
umanità concreta. Possono trascinarci al male ma anche confermare le nostre
scelte positive. Del resto Gregorio non poteva disprezzare e condannare la
passionalità in se stessa perché, come riconosce, era stata vissuta da Gesù (Qo
VII,5, p. 377). Il Vangelo gli attribuisce varie passioni. Esse poi confermano
e consolidano il bene a livello della nostra umanità. Bisogna quindi evitare
ogni estremismo che nega la passionalità, né proporsi un ideale astratto:
Il Signore chiama beati non coloro che
vivono al di fuori della passioni - non è infatti possibile nella vita
materiale realizzare una vita immateriale in tutto e per tutto e senza
passione.... Non prescrive infatti l'assoluta assenza di passione alla natura
umana; neppure si addice a un giusto legislatore ordinare quanto supera il
limite della natura: sarebbe come se uno trasferisse gli esseri acquatici a
vivere nell'aria o, al contrario, nell'acqua quanto vive nell'aria; è giusto
invece che la legge si adatti alla capacità propria dell'uomo e secondo natura
(Beat II, 3.3 p. 183).
Tuttavia la presenza in noi delle passioni costituisce da
sempre la sfida per chi Fsi propone un comportamento maturo e delle relazioni
positive con gli altri. A questo livello, Gregorio si muove come cristiano ma
anche come è un uomo civilizzato del mondo tardo antico. Una delle cure
principali del filosofo era quella d’insegnare a discernere le passioni non
soltanto in modo teorico ma anche aiutando il discepolo a riconoscerle nel loro
emergere. Non è strano allora che egli, a sua volta, cerchi di educare o
guarire i suoi fedeli. La sua comunità è la sua scuola filosofica e la sua
clinica; il cristianesimo diventa filosofia per le masse. L’insegnamento del
Vangelo è allora una medicina.
Quando la collera ribolle all'interno, o, a
causa del rancore, sfibra il vigore e i pensieri dell'anima, oppure quando una cattiva
condotta di vita fa nascere la belva dell'invidia o qualche altro male del
genere, colui che sente che la sua anima nutre dentro di sé una belva si serve
al momento opportuno del farmaco che distrugge le passioni. Questa medicina è
l'insegnamento del Vangelo, affinché, uccisi questi mali,
subentri la guarigione per chi era malato. (Qo VI,7 p. 341)
In questo passo, come fa altrove, utilizza le sue nozioni
di medicina. Il tema del dominio delle passioni (apatheia, impassibilità) è strettamente collegato a quello della libertà che
ho trattato in precedenza.
Lotta nobile e gravosa
La ricerca di questo stato non è una semplice opportunità
lasciata alla libera scelta ma un’esigenza basilare. A seconda di come ci si
rapporta nei confronti di esse, la nostra umanità impoverisce o s’arricchisce,
fino a superare se stessa. L’uomo in balia delle passioni subisce un vero
stravolgimento della sua persona: «Chi si lascia prendere dall’ira, finisce col
diventare un tutt’uno con essa; chi si lascia vincere dal desiderio, si consegna
al piacere; chi viene preso dalla viltà o dalla paura o da qualche altra
passione, si conforma ad esse» (CC. IV p. 76). Fortunatamente è vero anche il
contrario: «chi acconsente alla pazienza, alla purezza, allo spirito di
pacificazione… imprime nella sua personalità ognuna di queste doti e trova la
pace nell’assenza di ogni turbamento, grazie alla stabilità della sua persona»
(ivi). Se l’uomo si lascia abbandonare del tutto alle passioni negative,
finisce con l’annientare la sua stessa umanità. Su questo argomento, il Nisseno
è estremamente serio: «Quando ci si sia assimilati alla passione e ci sia
trasformati nel male che si sta impadronendo di noi, persa la nostra forma
naturale, diventiamo fiere» (ST, II, 14, p. 183).
La ricerca dell’impassibilità non soltanto distingue
l’uomo maturo dalla persona che si trova ancora in uno stato di formazione, ma
distingue anche il vero credente dal sedicente tale. Il vero spirito di fede
non si esprime soltanto nel compiere opere positive, nel fornire delle prestazioni
encomiabili ma, prima di tutto, nella trasformazione di se stessi. Senza la
correzione di se stessi, condotta in modo continuo, la persona che pur aveva
dato una buona immagine di sé, non soltanto smetterà di agire in modo etico ma
diventerà operatrice di male. Nel Commento al Pater, immagina che Dio dica all’orante che lo invoca come
padre: «Se tu fossi mio figlio, avresti dovuto manifestare le mie qualità
divine nella tua vita. In te non ritrovo l’immagine della mia natura; tu ne sei
agli antipodi» (PN 2, 4 p. 77).
Sebbene il contenuto di questa dichiarazione sia piuttosto perentorio, il suo
significato di fondo è vero. Il cristiano diventa una persona animata dalla
carità non quando compie delle gesta encomiabili, ma quando elimina da sé il
male. Nel valutare le persone, gli uomini danno grande importanza alle abilità
professionali o alle prestazioni nel campo della solidarietà o della cultura.
Dio dà importanza soltanto alla presenza in noi della vera carità la quale
implica, come condizione necessaria, l’eliminazione di ogni sentimento che si
contrappone ad essa:
Come la luce in una caverna scaccia le
tenebre, la tua volontà in me [o Dio] fa finalmente sparire ogni moto
pernicioso o traviato, la temperanza arresta lo smodato slancio dello spirito verso
le passioni, l'umiltà scaccia la superbia, la modestia guarisce la malattia
dell'orgoglio, l'amore, bene supremo, espelle tutti i mali nemici dell'anima.
Così spariranno avversione, invidia, risentimento, tendenza alla collera,
suscettibilità, macchinazione, ipocrisia, ricordo delle offese, desiderio di
ferire, il ribollire del sangue nel cuore, lo sguardo malvagio: tutta questa
ridda di mali abbandona colui che comincia ad amare. (PN 4, 2, p. 95).
Rigenerazione personale e sociale
L’ottenimento della libertà esige una morte per una nuova
nascita. Il cammino verso la libertà interiore non presuppone soltanto la
capacità di contrastare in qualche misura il nostro ego, trascinato dalle
passioni, ma esige una vera morte interiore in vista di una vera risurrezione.
«Come mettere insieme bontà e crudeltà, benevolenza ed efferatezza, ciò che si
oppone al male e il suo contrario? I contrari sono inconciliabili: scegliere
l’uno vuol dire rifiutare l’altro. Chi è morto non è più in vita, chi gode
della vita non conosce la morte. Per avvicinarsi alla bontà divina bisogna
assolutamente aver bandito dal cuore ogni durezza» (PN 5, 1 p. 107). «Chi vuole
dedicarsi al servizio divino non potrà essere un incenso offerto a Dio se prima
non sarà diventato una mirra, vale a dire, se non avrà fatto morire le sue
membra terrene» (CC VI, p. 118).
La morte di se stesso non significa l’impossibile
annientamento della passionalità. Inoltre la cura delle passioni non comporta
neppure in modo esclusivo l’impegno del dominio degli impulsi. L’obiettivo
soddisfacente sta nel realizzare una vera trasformazione grazie alla quale la
persona può dare corso alla passione in modo positivo. «[Salomone nel Cantico]
non ci obbliga a soffocare gli impulsi della carne, a uccidere le nostre membra
terrene o a eliminare dal nostro linguaggio le parole che sono attinenti ai
nostri istinti» (CC I, p. 38). Nessuno può vivere in maniera umana senza essere
trascinato da un amore. Il credente non rinuncia alla passione ma la orienta
verso un bene adeguato. Il problema non è la passione in se stessa e neppure la
sua intensità ma l’oggetto che diventa il nostro interesse più vivo. L’amore
puro s’accorda con la passione. Di conseguenza, «se a rivolgerti questo invito
è la stessa Sapienza, amala quanto lo puoi, con tutto il cuore e con tutta la
forza, desiderala quanto ne sei capace! Anzi aggiungo un invito ancora più
audace: amala con passione» (CC I, p. 35). Il dominio sulla passionalità
rimarrà sempre precario e, almeno in parte, mortificante, finché la persona non
avrà trovato un oggetto tale da meritare di convogliare tutta l’energia
d’amore. La forza della volontà si mostra inadeguata; solo una passione
positiva ne vince un’altra negativa.
L’impegno per il dominio delle passioni non è cosa facile
anche perché assistiamo sempre, per così dire, ad un allargamento degli oggetti
sui quali esse s’affissano. La vittoria su una passione, può aprire il varco
all’ingresso di altre. Ad esempio, può accadere che chi ha rinunciato alla
gratificazione affettiva della relazione sessuale percepisca un vuoto dentro di
sé e tenti di colmarlo mirando ad ottenere ruoli che ci forniscono una certa
soddisfazione. Vengono evidenziate due modalità di gratificazione: il desiderio
di potere e lo sfoggio di un ascetismo rigido, dove l’uomo diventa addirittura
«schiavo del dolore».
...bisogna correggere per quanto è possibile
le abitudini più in voga: coloro che pur reagendo con vigore contro i piaceri
più turpi ricercano il piacere per altre vie, come ad esempio negli onori e nel
desiderio di comandare, si comportano pressappoco come il domestico che,
desiderando la libertà, non cerca di liberarsi dalla servitù ma si limita a
cambiare i suoi padroni, confondendo questo scambio con la libertà. Anche se
non hanno gli stessi padroni, costoro sono tutti schiavi in uguale misura,
finché c'è qualcuno che li domina e li comanda esercitando su di loro il suo
potere (Virg XVII).
Non bisogna credere che Gregorio, come avevano già fatto
altri Padri, sottolineando l’urgenza primaria e costante del dominio di sé,
abbia spostato l’attenzione dalla trasformazione del mondo, collegato
all’annuncio del Regno, al riscatto esclusivo dell’individuo. La lotta per
conseguire la libertà personale non è un abbandono della ricerca del bene
collettivo tutto a favore di quello individuale. Al contrario è la persistenza
delle passioni scomposte nelle persone a creare gravi squilibri e ad impoverire
la società nella sua globalità. Dichiara ad esempio: «Non la naturale
condizione umana, bensì la prevaricazione, ha scisso l’umanità in schiavi e
padroni» (PN, 5, 9 p. 116). Se gli uomini accogliessero, con il Vangelo, la
misericordia proposta da Cristo, il mondo cambierebbe aspetto:
Se questo accadesse, non ci sarebbe più
motivo di concepire odio: inerte sarebbe l'invidia, bandito il rancore, la
falsità, l'inganno, la guerra, tutte cose che derivano dal desiderio di essere
superiori. Una volta scacciata quella incapacità di simpatia, con essa, come
una cattiva radice, sono escluse le piante della cattiveria. Con l'eliminazione
dei mali subentra il catalogo delle cose buone, pace e giustizia e tutta la
serie dei concetti che fanno capo al bene. Che cosa ci sarebbe di più beato che
condurre così la vita, non affidando più la sicurezza della nostra vita a
catenacci e chiavistelli, ma sentendoci sicuri l'uno dell'altro? Come infatti
chi è duro e disumano si rende ostili coloro che ne hanno sperimentato la
crudeltà, così al contrario tutti, senza eccezione, diventano benevoli con chi
è misericordioso, perché la misericordia genera per natura l’amore in coloro
che la ricevono… Che cosa si potrebbe concepire, nella vita, che offra una
sicurezza maggiore di questa? (Beatit V, 4, p. 266-267)
Gregorio sogna una società che fonda la sua sicurezza non
sulla violenza o sull’autodifesa, ma sull’intensificazione dell’esercizio della
solidarietà.
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