Appunti da Maria-Ecclesia “Collaboratrice di Dio”; in Gisbert Greshake, Maria-Ecclesia, Queriniana, Brescia 2017, 483-506
La cooperazione degli uomini all’opera di Dio compare già
nelle prime pagine della Bibbia.
Abramo riceve il ruolo di essere benedizione per tutti i
popoli della terra. Il dono della fede non viene dato ad esclusivo vantaggio
personale ma chiama al servizio
degli altri. Il patriarca rimane sempre un riferimento perché la comunità
d’Israele supplica Dio contando sulla mediazione di Abramo: «Non ritirare da
noi la tua misericordia, per amore di Abramo, tuo amico» (Dn 3,35). Una
funzione simile viene esercitata da Geremia (2 Mc 15,14), anzi Dio cerca un
uomo che si ponga sulla breccia di fronte a Lui e interceda per altri (Ez
22,30).
Paolo definisce se stesso e i propri collaboratori come
collaboratori di Dio (2 Cor 6,1). A partire da questa base deve essere compresa
anche la posizione di Maria come mediatrice. Nella communio sanctorum ogni credente è unito ad ogni altro credente, ognuno
può sostenere l’altro e intercedere per lui. Ciò che viene detto in merito a
Maria, riguarda tutta la rete della comunione dei santi come mediazione
vicendevole della salvezza: ognuno/a è per l’altro chiesa, ognuno/a è per
l’altro Maria (492-493).
Concorrenza tra Dio e l’uomo?
Non si pone così una concorrenza tra Dio e l’uomo?
Non si toglie nulla alla sovranità di Dio (anzi essa diventa
più grande ancora), se Egli dona alla creatura la dignità di un suo operare
proprio e se conserva questa dignità anche nel peccato.
Dio vuole e crea l'operare proprio della creatura, anzi il
suo co-operare al suo piano di salvezza. Sminuire la creatura significherebbe
sminuire la grandezza di Dio poiché questa si dimostra nel modo più grande
possibile nel concedere un agire proprio e un cooperare con Lui. La gloria di
Dio consiste appunto nel far esistere e far agire la creatura stessa, nel suo
libero dono della libertà. Dio non si mostra un'origine concorrente accanto
alla libertà umana, ma come la libertà che concretamente rende possibile, fa
essere e libera la libertà umana, che viene così posta in una autonomia
altissima. Grandezza di Dio e libertà e forza dell’uomo crescono in modo
direttamente e non inversamente proporzionale. La differenza fondamentale tra
Creatore e creatura è insormontabile. Eppure: Dio è tanto più grande quanto più
rende grande e fa essere grande l'uomo. (487)
Come il Figlio eterno di Dio si unisce intimamente alla
natura umana e in questo modo è il mediatore tra Dio e l'umanità, così lo
Spirito si unisce alla chiesa al fine di realizzare di volta in volta, dentro
la contemporaneità dello spazio e del tempo, degli individui e delle comunità,
la redenzione realizzatasi una volta per tutte nel Figlio di Dio.
In questo modo lo Spirito Santo (e mediante lui il Signore
glorificato ripieno dello Spirito) è il vero soggetto di ogni mediazione
salvifica. È lo Spirito colui che rende presente sempre di nuovo («media») e
porta al compimento l’opera di Cristo nel suo insieme, la sua parola e il suo
esempio, le sue azioni liberanti e salvifiche, «per la crescita del corpo».
Egli lo fa appunto mediante l’essere e l'agire della chiesa. Così la chiesa è
sia sacramento di Gesù Cristo, in quanto Cristo porta avanti la sua opera
salvifica mediante la chiesa, sia - in altro modo - sacramento dello Spirito
Santo, in quanto lo Spirito, come «mediazione» dell’unico mediatore Gesù
Cristo, ne rende presente l’azione in modo sempre nuovo. (489)
Come esercita la sua opera nella Chiesa, così lo Spirito la
esercita anche in Maria, nella Maria-Ecclesia.
In che modo Gesù Cristo, salvezza del mondo, arrivi agli
uomini di oggi, in una società secolarizzata? Attraverso persone che credono,
nelle quali Cristo è presente secondo le parole di Paolo: «Non vivo più io, ma
Cristo vive in me» (Gal 2,20), di più ancora: nelle quali Cristo «nasce di
nuovo» e «ha preso nuova forma».
Chi vive nella fede in mezzo a persone che non credono,
porta a loro Cristo. E Cristo le santifica, allo stesso modo in cui, in un
matrimonio, il coniuge credente «santifica» il non credente, come scrive
espressamente Paolo: «II marito non credente, infatti, viene reso santo dalla
moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente»
(1 Cor 7,14). Quindi, per portare ad altri Cristo e la sua salvezza non servono
atti «aggiuntivi» di evangelizzazione e di missione, che oggi di fronte a un
rifiuto ampiamente diffuso da parte dei destinatari sono in ogni caso piuttosto
controproducenti. Una vita che in modo risoluto è condotta a partire dalla fede
è essa stessa «evangelizzazione».
Dobbiamo rendere attraente la fede cristiana per coloro che
non credono attraverso l'esempio, la bontà, il contatto» ed essere con il
nostro esempio una predica vivente: la differenza tra la loro vita e quella dei
non cristiani deve attirare la
loro stima. [...] Dobbiamo essere un
vangelo vivente.
Sostituzione e rappresentanza
L’idea della rappresentanza vicaria, vale a dire la
convinzione che uno possa presentarsi davanti a Dio per gli altri e che Dio dia
valore a questo intervento l'uno per l'altro, appare di frequente lungo la
storia della salvezza veterotestamentaria. Nella relazione di alleanza è
attestata la convinzione che ogni individuo, possa diventare «punto di
irruzione» della salvezza (o della perdizione) per le altre persone. Dio fa
dipendere la salvezza, che solo lui può donare, anche da noi uomini, di modo
che ciascuno sia responsabile, a modo proprio, degli altri, anzi di tutto il
popolo. Uno può e deve avere il compito di essere «amministratore della grazia»
(1 Pt 4,10) per gli altri, e questo fino al punto che uno sia chiamato e sia
messo in grado di rappresentare davanti a Dio gli altri uomini o addirittura
tutto il popolo.
Lo stesso Israele si riconosce nell’immagine del servo di
Dio, sentendosi chiamato a rappresentare i «popoli» intervenendo a loro favore
affinchè siano anch'essi accolti dentro la comunione con Dio (e tra di loro),
per arrivare infine a Gesù Cristo, nel quale la rappresentanza vicaria giunge
al suo compimento.
In tutti questi esempi la rappresentanza vicaria è qualcosa
di totalmente diverso dal fare qualcosa che «sostituisce materialmente» ciò che
doveva fare un altro.
Si deve distinguere attentamente tra essere un
rappresentante ed essere un sostituto. Un esempio: in una fabbrica metallurgica
per motivi di salute è assente un lavoratore di cui c'è urgente bisogno nella
catena di montaggio. Che cosa si deve fare? Deve andarci qualcun altro! Costui
è un rappresentante? No, egli è un sostituto, qualcuno che adesso fa il lavoro
che normalmente è eseguito da un altro. Fondamentalmente, chi sia questo
sostituto non fa nessuna differenza, la cosa importante è che il lavoro sia
fatto, che la catena non si fermi, che il montaggio possa andare avanti.
Totalmente diverso è il caso del rappresentante. Un
rappresentante prende il posto di un altro o di molti altri in modo totalmente
personale. Egli vuole intervenire per loro, desidera che siano presenti nelle
sue azioni e che grazie ad esse possano ricavarne un bene e un vantaggio. Colui
che rappresenta è interessato alla persona, a questo altro (a questi altri).
Nel fare questo egli considera le sue azioni letteralmente come provvisorie,
come qualcosa che provvede. Egli non ha desiderio più grande se non che
l'altro, per il quale interviene, possa assumere personalmente e liberamente il
posto che è stato pensato per lui. Chi svolge questa rappresentanza vicaria
procede quindi nella speranza che l’altro poi arrivi nel posto nel quale egli
lo ha preceduto. Così egli - a differenza del sostituto - è colui che procede,
che provvede, che in un certo modo risponde «provvisoriamente» per l'altro o
gli altri e che prende il loro «posto» fino a quando loro stessi lo occuperanno
e adempiranno il loro compito.
Chi è rappresentato fa parte, prende parte o (dapprima)
«passivamente» all'azione di colui che esercita la rappresentanza oppure può
cercare «attivamente» di arrivare al «posto» nel quale egli viene rappresentato
«provvisoriamente».
Maria e la rappresentazione vicaria
Già con il suo ruolo di «resto santo di Israele», Maria ha
un posto di rappresentanza per tutto il popolo di Dio, anzi per tutta
l'umanità. Per essa ella è liberamente disponibile ad accogliere la venuta del
Figlio di Dio, che in lei assume la natura umana per mettersi «all'ultimo
posto» come nostro fratello, abbracciando e sostenendo così tutto il mondo e
portandolo al Padre.
Nel suo sì «rappresentante», che Maria ha detto
all'incarnazione e che ha portato avanti in tutte le sue conseguenze (fino alla
croce e alla venuta dello Spirito Santo [At 1,14]), lei ha detto implicitamente
sì anche ali'opera redentrice e salvifica di Cristo. Non è lei stessa ad essere
la Redentrice e la Santifìcatrice, ma è colei che per prima si è aperta alla
redenzione e alla santificazione portate da Cristo, che le ha «fatte accadere»
e le ha lasciate operare in se stessa. Ella non è neanche la Mediatrice della
salvezza (anche se, con molte precisazioni che ne delimitano il significato, è
stata ed è chiamata così), ma è colei che - in riferimento all'evento
«oggettivo» della salvezza e della redenzione - ha detto sì all'unica
mediazione della salvezza in Gesù Cristo, facendo così entrare la salvezza nel
mondo e in questo senso mediandola al mondo. Maria ha così un ruolo di
rappresentanza (nel senso indicato) per tutti noi, per tutta l'umanità: lei è
eletta da Dio come suo dono che precede ed è da lui chiamata come colei che
precede e precorre, che si rende presente per gli altri fino a quando tutti
prenderanno il proprio posto e si apriranno ad accogliere il dono e il compito
della salvezza.
Un compito analogo di rappresentanza a favore dell'umanità è
proprio della chiesa. Anch'essa è il grande dono che precede, dono di Dio al
mondo per mezzo del quale la fede e il frutto della redenzione sono trasmessi,
permettendo così a ogni singolo individuo di appropriarsene. Finché ciò non
avviene, la chiesa occupa il proprio posto di rappresentante nella fede, nella
speranza e nella carità, e non da ultimo nella lode di Dio per tutti, per tutta
l'umanità. In questa prospettiva, il cristianesimo delle origini, mostrando una
grande «autocoscienza», ha compreso la propria esistenza come un «pro-essere» a
favore del mondo.
La cooperazione deve essere visibile e sperimentabile e
prendere, perciò, la forma di segno. Ciò avviene mediante il ruolo
insostituibile del ministero ordinato. Nel ministero della Chiesa non avviene
quindi la sostituzione di Cristo da parte di un’autorità umana, ma è lui stesso
che si rende efficace, attuando la presenza irrevocabile della sua azione nel
segno efficace che rimanda a lui.
Azione produttiva e azione espressiva
Per quanto riguarda la chiesa nel suo insieme, nelle nazioni
dell'Occidente, l’agire della chiesa sta non di rado sotto il primato della
prestazione e dell'efficienza. Il fare ha in mente l’efficienza e la produzione
di oggetti, istituzioni o processi. In una simile prassi la persona si
impadronisce, come causa efficiente, della realtà esistente e la «sottomette»
alle proprie idee e ai propri scopi. Nell'epoca moderna l’agire umano sta quasi
esclusivamente sotto il segno di questa prassi produttiva. Non è però possibile
che questo sia il modo in cui l’essere umano coopera all’azione di Dio. Egli
non può catapultarsi con le proprie forze dentro la relazione con Dio e con il
prossimo, non può neppure riunire e dare sostegno al popolo di Dio, ne può
ottenere il futuro del regno di Dio che è stato promesso.
Nondimeno, attualmente ampi segmenti della vita ecclesiale e
della prassi pastorale sono connotati da questa specie di «agire produttivo».
Di fronte a ciò si deve sottolineare con forza che la prassi ecclesiale, che è
prassi della fede, non può e non deve muoversi nelle dimensioni dell’agire
produttivo; essa richiede un'altra modalità che brevemente può essere detta
«agire espressivo». Qui con agire si intende qualcosa di totalmente diverso: si
tratta di «compiere» qualcosa che già c’è
prima di noi o che ci è dato in
precedenza. Si tratta di praticare un agire nel quale qualcosa che è dato in
precedenza si «da corpo», si «esprime», si «simboleggia», sviluppandosi così
«nella pienezza della sua essenza». Un esempio semplice di questo tipo di
prassi può essere il gesto di porgere una rosa tra due persone che si amano. Si
tratta, infatti, indubbiamente di fare qualcosa, una prassi, però è un fare che
non produce qualcosa, ne costruisce, ne trasforma un oggetto. Qui viene piuttosto
espresso l’amore reciproco che già c’è, che in questo modo può sviluppare
Ogni coopcrazione del singolo o della chiesa con Dio può
appartenere soltanto al genere della prassi espressiva nella quale si
rappresenta, si da corpo a ciò che Dio stesso fa nell'essere umano, con lui e per mezzo di lui. Infatti, ogni agire
umano, ogni agire pastorale della chiesa da se stesso non può operare nulla «per la salvezza» - qui ogni
operazione è, come dice giustamente la dogmatica, grazia pura, indisponibile -
e non può ne deve dunque costituirsi sotto la parola programmatica
«efficienza». L agire che nasce dalla fede è autentico solamente quando da
corpo all'agire di Dio e lo rende visibile nel segno, in modo del tutto
semplice e calmo, senza pressione della prestazione o del successo. Di questo
modo di agire si può dire con Paolo: Ho faticato più di tutti loro,
non io però, ma la grazia di Dio che è con
me (1 Cor 15,10), e anche:
È Dio, che opera tutto in tutti (1 Cor 12,6; cf. anche Eb 13,21). In una simile
prassi espressiva - ne è un criterio la rinuncia all’efficienza in grande stile
e l’attenzione amorosa verso i poveri, i piccoli e tutto ciò che «non porta
niente» - in questa prassi l’agire di Dio stesso arriva alla «pienezza della
sua essenza» poiché in tal modo il suo amore gratuito - il suo piano di
ricapitolare in Cristo tutte le cose e di introdurci nella sua vita - appare
visibilmente e concretamente nelle strutture del mondo e risplende nel segno
della coopcrazione umana.
Maria rappresenta proprio questo genere di «prassi». Ella
non fa niente da se stessa. Ella è totalmente aperta per Dio e per la sua
azione. Ella «da corpo» a ciò che le è donato. Ella è - per riprendere
l'immagine appena usata - un «mazzo di rose» in persona, con il quale viene
donato ad altri il dono di Dio che già c'è e che al contempo rimanda alla sua
origine e al suo autore. Le grandi cose che avvengono per mezzo di lei sono per
lei soltanto occasione e motivo di lodare Dio (Magnificat) e di indicare verso di lui. Così ella tiene davanti
agli occhi della chiesa lo specchio nel quale questa può scoprire e deve sempre
nuovamente riscoprire la sua essenza: aver trovato grazia e per grazia poter
cooperare.
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