martedì 9 aprile 2019

Cooperare con Dio?


Appunti da Maria-Ecclesia “Collaboratrice di Dio”; in Gisbert Greshake, Maria-Ecclesia, Queriniana, Brescia 2017, 483-506

La cooperazione degli uomini all’opera di Dio compare già nelle prime pagine della Bibbia.
Abramo riceve il ruolo di essere benedizione per tutti i popoli della terra. Il dono della fede non viene dato ad esclusivo vantaggio personale ma chiama  al servizio degli altri. Il patriarca rimane sempre un riferimento perché la comunità d’Israele supplica Dio contando sulla mediazione di Abramo: «Non ritirare da noi la tua misericordia, per amore di Abramo, tuo amico» (Dn 3,35). Una funzione simile viene esercitata da Geremia (2 Mc 15,14), anzi Dio cerca un uomo che si ponga sulla breccia di fronte a Lui e interceda per altri (Ez 22,30).
Paolo definisce se stesso e i propri collaboratori come collaboratori di Dio (2 Cor 6,1). A partire da questa base deve essere compresa anche la posizione di Maria come mediatrice. Nella communio sanctorum ogni credente è unito ad ogni altro credente, ognuno può sostenere l’altro e intercedere per lui. Ciò che viene detto in merito a Maria, riguarda tutta la rete della comunione dei santi come mediazione vicendevole della salvezza: ognuno/a è per l’altro chiesa, ognuno/a è per l’altro Maria (492-493).


Concorrenza tra Dio e l’uomo?


Non si pone così una concorrenza tra Dio e l’uomo?
Non si toglie nulla alla sovranità di Dio (anzi essa diventa più grande ancora), se Egli dona alla creatura la dignità di un suo operare proprio e se conserva questa dignità anche nel peccato.
Dio vuole e crea l'operare proprio della creatura, anzi il suo co-operare al suo piano di salvezza. Sminuire la creatura significherebbe sminuire la grandezza di Dio poiché questa si dimostra nel modo più grande possibile nel concedere un agire proprio e un cooperare con Lui. La gloria di Dio consiste appunto nel far esistere e far agire la creatura stessa, nel suo libero dono della libertà. Dio non si mostra un'origine concorrente accanto alla libertà umana, ma come la libertà che concretamente rende possibile, fa essere e libera la libertà umana, che viene così posta in una autonomia altissima. Grandezza di Dio e libertà e forza dell’uomo crescono in modo direttamente e non inversamente proporzionale. La differenza fondamentale tra Creatore e creatura è insormontabile. Eppure: Dio è tanto più grande quanto più rende grande e fa essere grande l'uomo. (487)
Come il Figlio eterno di Dio si unisce intimamente alla natura umana e in questo modo è il mediatore tra Dio e l'umanità, così lo Spirito si unisce alla chiesa al fine di realizzare di volta in volta, dentro la contemporaneità dello spazio e del tempo, degli individui e delle comunità, la redenzione realizzatasi una volta per tutte nel Figlio di Dio.
In questo modo lo Spirito Santo (e mediante lui il Signore glorificato ripieno dello Spirito) è il vero soggetto di ogni mediazione salvifica. È lo Spirito colui che rende presente sempre di nuovo («media») e porta al compimento l’opera di Cristo nel suo insieme, la sua parola e il suo esempio, le sue azioni liberanti e salvifiche, «per la crescita del corpo». Egli lo fa appunto mediante l’essere e l'agire della chiesa. Così la chiesa è sia sacramento di Gesù Cristo, in quanto Cristo porta avanti la sua opera salvifica mediante la chiesa, sia - in altro modo - sacramento dello Spirito Santo, in quanto lo Spirito, come «mediazione» dell’unico mediatore Gesù Cristo, ne rende presente l’azione in modo sempre nuovo. (489)
Come esercita la sua opera nella Chiesa, così lo Spirito la esercita anche in Maria, nella Maria-Ecclesia.

In che modo Gesù Cristo, salvezza del mondo, arrivi agli uomini di oggi, in una società secolarizzata? Attraverso persone che credono, nelle quali Cristo è presente secondo le parole di Paolo: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20), di più ancora: nelle quali Cristo «nasce di nuovo» e «ha preso nuova forma».
Chi vive nella fede in mezzo a persone che non credono, porta a loro Cristo. E Cristo le santifica, allo stesso modo in cui, in un matrimonio, il coniuge credente «santifica» il non credente, come scrive espressamente Paolo: «II marito non credente, infatti, viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente» (1 Cor 7,14). Quindi, per portare ad altri Cristo e la sua salvezza non servono atti «aggiuntivi» di evangelizzazione e di missione, che oggi di fronte a un rifiuto ampiamente diffuso da parte dei destinatari sono in ogni caso piuttosto controproducenti. Una vita che in modo risoluto è condotta a partire dalla fede è essa stessa «evangelizzazione».
Dobbiamo rendere attraente la fede cristiana per coloro che non credono attraverso l'esempio, la bontà, il contatto» ed essere con il nostro esempio una predica vivente: la differenza tra la loro vita e quella dei non cristiani deve attirare la loro stima. [...] Dobbiamo essere un vangelo vivente.


Sostituzione e rappresentanza


L’idea della rappresentanza vicaria, vale a dire la convinzione che uno possa presentarsi davanti a Dio per gli altri e che Dio dia valore a questo intervento l'uno per l'altro, appare di frequente lungo la storia della salvezza veterotestamentaria. Nella relazione di alleanza è attestata la convinzione che ogni individuo, possa diventare «punto di irruzione» della salvezza (o della perdizione) per le altre persone. Dio fa dipendere la salvezza, che solo lui può donare, anche da noi uomini, di modo che ciascuno sia responsabile, a modo proprio, degli altri, anzi di tutto il popolo. Uno può e deve avere il compito di essere «amministratore della grazia» (1 Pt 4,10) per gli altri, e questo fino al punto che uno sia chiamato e sia messo in grado di rappresentare davanti a Dio gli altri uomini o addirittura tutto il popolo.
Lo stesso Israele si riconosce nell’immagine del servo di Dio, sentendosi chiamato a rappresentare i «popoli» intervenendo a loro favore affinchè siano anch'essi accolti dentro la comunione con Dio (e tra di loro), per arrivare infine a Gesù Cristo, nel quale la rappresentanza vicaria giunge al suo compimento.
In tutti questi esempi la rappresentanza vicaria è qualcosa di totalmente diverso dal fare qualcosa che «sostituisce materialmente» ciò che doveva fare un altro.
Si deve distinguere attentamente tra essere un rappresentante ed essere un sostituto. Un esempio: in una fabbrica metallurgica per motivi di salute è assente un lavoratore di cui c'è urgente bisogno nella catena di montaggio. Che cosa si deve fare? Deve andarci qualcun altro! Costui è un rappresentante? No, egli è un sostituto, qualcuno che adesso fa il lavoro che normalmente è eseguito da un altro. Fondamentalmente, chi sia questo sostituto non fa nessuna differenza, la cosa importante è che il lavoro sia fatto, che la catena non si fermi, che il montaggio possa andare avanti.
Totalmente diverso è il caso del rappresentante. Un rappresentante prende il posto di un altro o di molti altri in modo totalmente personale. Egli vuole intervenire per loro, desidera che siano presenti nelle sue azioni e che grazie ad esse possano ricavarne un bene e un vantaggio. Colui che rappresenta è interessato alla persona, a questo altro (a questi altri). Nel fare questo egli considera le sue azioni letteralmente come provvisorie, come qualcosa che provvede. Egli non ha desiderio più grande se non che l'altro, per il quale interviene, possa assumere personalmente e liberamente il posto che è stato pensato per lui. Chi svolge questa rappresentanza vicaria procede quindi nella speranza che l’altro poi arrivi nel posto nel quale egli lo ha preceduto. Così egli - a differenza del sostituto - è colui che procede, che provvede, che in un certo modo risponde «provvisoriamente» per l'altro o gli altri e che prende il loro «posto» fino a quando loro stessi lo occuperanno e adempiranno il loro compito.
Chi è rappresentato fa parte, prende parte o (dapprima) «passivamente» all'azione di colui che esercita la rappresentanza oppure può cercare «attivamente» di arrivare al «posto» nel quale egli viene rappresentato «provvisoriamente».



Maria e la rappresentazione vicaria


Già con il suo ruolo di «resto santo di Israele», Maria ha un posto di rappresentanza per tutto il popolo di Dio, anzi per tutta l'umanità. Per essa ella è liberamente disponibile ad accogliere la venuta del Figlio di Dio, che in lei assume la natura umana per mettersi «all'ultimo posto» come nostro fratello, abbracciando e sostenendo così tutto il mondo e portandolo al Padre.
Nel suo sì «rappresentante», che Maria ha detto all'incarnazione e che ha portato avanti in tutte le sue conseguenze (fino alla croce e alla venuta dello Spirito Santo [At 1,14]), lei ha detto implicitamente sì anche ali'opera redentrice e salvifica di Cristo. Non è lei stessa ad essere la Redentrice e la Santifìcatrice, ma è colei che per prima si è aperta alla redenzione e alla santificazione portate da Cristo, che le ha «fatte accadere» e le ha lasciate operare in se stessa. Ella non è neanche la Mediatrice della salvezza (anche se, con molte precisazioni che ne delimitano il significato, è stata ed è chiamata così), ma è colei che - in riferimento all'evento «oggettivo» della salvezza e della redenzione - ha detto sì all'unica mediazione della salvezza in Gesù Cristo, facendo così entrare la salvezza nel mondo e in questo senso mediandola al mondo. Maria ha così un ruolo di rappresentanza (nel senso indicato) per tutti noi, per tutta l'umanità: lei è eletta da Dio come suo dono che precede ed è da lui chiamata come colei che precede e precorre, che si rende presente per gli altri fino a quando tutti prenderanno il proprio posto e si apriranno ad accogliere il dono e il compito della salvezza.
Un compito analogo di rappresentanza a favore dell'umanità è proprio della chiesa. Anch'essa è il grande dono che precede, dono di Dio al mondo per mezzo del quale la fede e il frutto della redenzione sono trasmessi, permettendo così a ogni singolo individuo di appropriarsene. Finché ciò non avviene, la chiesa occupa il proprio posto di rappresentante nella fede, nella speranza e nella carità, e non da ultimo nella lode di Dio per tutti, per tutta l'umanità. In questa prospettiva, il cristianesimo delle origini, mostrando una grande «autocoscienza», ha compreso la propria esistenza come un «pro-essere» a favore del mondo.
La cooperazione deve essere visibile e sperimentabile e prendere, perciò, la forma di segno. Ciò avviene mediante il ruolo insostituibile del ministero ordinato. Nel ministero della Chiesa non avviene quindi la sostituzione di Cristo da parte di un’autorità umana, ma è lui stesso che si rende efficace, attuando la presenza irrevocabile della sua azione nel segno efficace che rimanda a lui.


Azione produttiva e azione espressiva


Per quanto riguarda la chiesa nel suo insieme, nelle nazioni dell'Occidente, l’agire della chiesa sta non di rado sotto il primato della prestazione e dell'efficienza. Il fare ha in mente l’efficienza e la produzione di oggetti, istituzioni o processi. In una simile prassi la persona si impadronisce, come causa efficiente, della realtà esistente e la «sottomette» alle proprie idee e ai propri scopi. Nell'epoca moderna l’agire umano sta quasi esclusivamente sotto il segno di questa prassi produttiva. Non è però possibile che questo sia il modo in cui l’essere umano coopera all’azione di Dio. Egli non può catapultarsi con le proprie forze dentro la relazione con Dio e con il prossimo, non può neppure riunire e dare sostegno al popolo di Dio, ne può ottenere il futuro del regno di Dio che è stato promesso.
Nondimeno, attualmente ampi segmenti della vita ecclesiale e della prassi pastorale sono connotati da questa specie di «agire produttivo». Di fronte a ciò si deve sottolineare con forza che la prassi ecclesiale, che è prassi della fede, non può e non deve muoversi nelle dimensioni dell’agire produttivo; essa richiede un'altra modalità che brevemente può essere detta «agire espressivo». Qui con agire si intende qualcosa di totalmente diverso: si tratta di «compiere» qualcosa che già c’è prima di noi o che ci è dato in precedenza. Si tratta di praticare un agire nel quale qualcosa che è dato in precedenza si «da corpo», si «esprime», si «simboleggia», sviluppandosi così «nella pienezza della sua essenza». Un esempio semplice di questo tipo di prassi può essere il gesto di porgere una rosa tra due persone che si amano. Si tratta, infatti, indubbiamente di fare qualcosa, una prassi, però è un fare che non produce qualcosa, ne costruisce, ne trasforma un oggetto. Qui viene piuttosto espresso l’amore reciproco che già c’è, che in questo modo può sviluppare
Ogni coopcrazione del singolo o della chiesa con Dio può appartenere soltanto al genere della prassi espressiva nella quale si rappresenta, si da corpo a ciò che Dio stesso fa nell'essere umano, con lui e per mezzo di lui. Infatti, ogni agire umano, ogni agire pastorale della chiesa da se stesso non può operare nulla «per la salvezza» - qui ogni operazione è, come dice giustamente la dogmatica, grazia pura, indisponibile - e non può ne deve dunque costituirsi sotto la parola programmatica «efficienza». L agire che nasce dalla fede è autentico solamente quando da corpo all'agire di Dio e lo rende visibile nel segno, in modo del tutto semplice e calmo, senza pressione della prestazione o del successo. Di questo modo di agire si può dire con Paolo: Ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me (1 Cor 15,10), e anche: È Dio, che opera tutto in tutti (1 Cor 12,6; cf. anche Eb 13,21). In una simile prassi espressiva - ne è un criterio la rinuncia all’efficienza in grande stile e l’attenzione amorosa verso i poveri, i piccoli e tutto ciò che «non porta niente» - in questa prassi l’agire di Dio stesso arriva alla «pienezza della sua essenza» poiché in tal modo il suo amore gratuito - il suo piano di ricapitolare in Cristo tutte le cose e di introdurci nella sua vita - appare visibilmente e concretamente nelle strutture del mondo e risplende nel segno della coopcrazione umana.
Maria rappresenta proprio questo genere di «prassi». Ella non fa niente da se stessa. Ella è totalmente aperta per Dio e per la sua azione. Ella «da corpo» a ciò che le è donato. Ella è - per riprendere l'immagine appena usata - un «mazzo di rose» in persona, con il quale viene donato ad altri il dono di Dio che già c'è e che al contempo rimanda alla sua origine e al suo autore. Le grandi cose che avvengono per mezzo di lei sono per lei soltanto occasione e motivo di lodare Dio (Magnificat) e di indicare verso di lui. Così ella tiene davanti agli occhi della chiesa lo specchio nel quale questa può scoprire e deve sempre nuovamente riscoprire la sua essenza: aver trovato grazia e per grazia poter cooperare. 

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