Ritorno al Centro
Giunto in India, il p. Bede, vivendo da sannyasin, si calò nella cultura di quella regione per conoscerla sempre
meglio. Studiò il sanscrito con R. Pannikar (MO 20) e si propose di stabilire
un ponte tra Induismo e Cristianesimo. Non si nascondeva che tra le due
religioni esistessero delle divergenze profonde ma, cercò di individuare,
comunque, forme di raccordo. Il tentativo si concretizzò nell’opera Ritorno
al centro, pubblicato a Londra nel 1976, dopo quasi
vent’anni di permanenza in India.
La
rivelazione del Mistero
Ritorno al Centro
Giunto in India, il p. Bede, vivendo da sannyasin, si calò nella cultura di quella regione per conoscerla sempre
meglio. Studiò il sanscrito con R. Pannikar (MO 20) e si propose di stabilire
un ponte tra Induismo e Cristianesimo. Non si nascondeva che tra le due
religioni esistessero delle divergenze profonde ma, cercò di individuare,
comunque, forme di raccordo. Il tentativo si concretizzò nell’opera Ritorno
al centro, pubblicato a Londra nel 1976, dopo quasi
vent’anni di permanenza in India.
Egli rileva come in tutte le culture, da
sempre, era stata avvertita la necessità di restare in comunione con la
divinità, onorata come il centro della persona e della comunità (RC 31 Mircea
Eliade). «Lo vogliamo o no, tutti gli uomini sono continuamente attratti da
questa Verità trascendente. L'intelletto… è alla ricerca dell’Assoluto. Anche
la volontà è mossa dall'amore dell'Infinito. In ogni amore umano c'c una
tensione verso l’Infinito, il desiderio di trascendere se stessi. Questa
tendenza è presente nell’ateo e nell’agnostico, nell'ignorante e nello stupido
come nel saggio. È ciò che da un valore infinito alla persona umana. Ogni sforzo
volto a negare questa tendenza, a confinare la vita umana nel finito e nel
temporale è destinato a fallire, perché è voler combattere contro natura» (RC
93)
P. Bede sostiene che ad accomunare tutte le religioni sia la
medesima esperienza del Mistero Sacro, inconoscibile e inesprimibile, esperito
come Tenebra Luminosa (RC 39-40; 142-162). Qui c’imbattiamo in un punto
nevralgico della sua teologia. Sarebbe stato opportuno, allora, distinguere,
meglio, tra conoscibilità e incomprensibilità di Dio. Dio può essere conosciuto
(altrimenti nessuna religione ne parlerebbe) (RC 40), ma la sua essenza,
essendo infinita, non può essere afferrata appieno dal pensiero umano. Egli
rimane sempre, perciò, incomprensibile ed inesprimibile.
Secondo la fede cristiana, l’Abisso della divinità si è rivelato
come Padre poiché «Gesù stesso lo ha conosciuto come Abba, Padre» (RC 42). Nel
cristianesimo, quindi, l’incomprensibilità di Dio (o ineffabilità) dipende
dalla profondità abissale di ciò che ci è stato rivelato, non dalla radicale
ignoranza su di Lui.
Connessa all’esperienza del mistero ineffabile, sta la questione
della personalità o impersonalità di Dio. Per il cristianesimo Dio ha un
carattere personale, nell’Induismo viene affermata l’una e l’altra
caratteristica, ma per lo più è pensato come una realtà impersonale. Ciò
nonostante, P. Bede valorizza quei luoghi della letteratura religiosa quegli
autori che sostengono una concezione personale della divinità (RC 145).
Emanazione e creazione
L’Induismo pensa che tutto il cosmo sia un’emanazione dell’essere
divino, impersonale (Brahman), mentre il
Cristianesimo ritiene che esso sia stato creato da un Dio, personale.
L’emanazione presuppone un atto involontario, che avviene di necessità, mentre
la creazione avviene per un atto volontario.
Il mondo, in quanto è emanazione, non ha un vero essere ma si mostra
in una realtà apparente (maya), illusoria, e si
trova in uno stato di degradazione rispetto all’unità con l’Assoluto. P. Bede,
pur pensando che il mondo è stato creato, cerca di recuperare in parte la
concezione di esso come illusione, dal momento che sulla terra facciamo
esperienza del male: «Il peccato è il fallimento nel realizzare il Sé, è il
cadere in un sé separato e diviso, che è essenzialmente illusorio dal momento
che ha perso il contatto con il suo essere reale» (RC 43). Inoltre afferma: «Il
mondo reale è quello che esiste eternamente in Dio» (RC 43); è quello
recuperato da Cristo Risorto: «Egli è andato oltre lo spazio e il tempo e oltre
i limiti della nostra attuale esistenza e coscienza. Nel fare ciò ha realizzato
questo mondo nella sua totalità, nel suo essere nel Verbo» (RC 45). Qui, p.
Bede pur rilevando una diversità di concezioni, cerca di trovare un punto di
vista, con quale sia possibile valorizzare in qualche modo la convinzione del
diverso.
L’induismo ha scoperto il Sé, una
concezione della persona molto apprezzata da p. Bede (RC 30). Il Sé va
descritto più che definito. Corrisponde alla capacità dell’io «di trascendere
se stesso, la capacità di poter donare totalmente se stesso ad un altro, di
trascendere se stesso donandosi ad un Io superiore, l’Atman, lo Spirito
interno» (RC 29).
Dal punto di vista cristiano, «Cristo è il
Sé dell’umanità redenta» (RC 46). Il Sé può corrispondere all’uomo interiore di
cui parla Paolo, oppure allo spirito dell’uomo che comunica con lo Spirito di
Dio (RC 155). Su questo punto le differenze sembrano conciliabili più
facilmente. L’uomo redento, che ritiene di essere una creatura e non una
particella divina, può, anzi deve sperimentare il Sé.
Nell’Induismo l’esperienza di salvezza per la persona consiste in un
ritorno alla sua origine essenziale. Ogni uomo è una particella dell’essere
divino e, come tale, trova la la salvezza lasciandosi assorbire da esso.
Nella religione cristiana, l’Unico che esiste senza essere stato
creato, è Il Verbo, divenuto poi, nell’incarnazione, il Cristo. Riguardo a
questa Ipostasi divina, non si dice che è stato emanato ma generato
dall’eternità.
Mentre il fedele indù anela all’assorbimento con l’Assoluto da cui
deriva, la vita cristiana è pensata come una vera partecipazione all’essere o
alla vita del Dio Verbo. In entrambi i casi, la salvezza corrisponde alla
conformazione alla vita divina; usando un termine ardito, ad una deificazione.
P. Bede non approverebbe che si parli d’assorbimento (come ho fatto
io) perché ha rilevato che, anche in alcune scuole induiste, nell’unione
massima con l’Assoluto, l’individuo conserva la sua identità (RC 157) ma altri
interpreti preferiscono interpretano in modo diverso, e parlano di un
assorbimento dell’anima individuale nella divinità.
Nell’esporre il mistero cristiano, egli riprende il linguaggio
biblico, più vitale rispetto a quello filosofico usato dai Padri e più vicino
alla cultura indiana.
«Gesù fece esperienza di se stesso in
relazione a Dio come di un figlio con il Padre ma questa figliolanza non era
semplicemente temporale, bensì eterna. Egli conobbe se stesso come veniente dal
Padre, non solo nel tempo, ma da tutta l’eternità. Egli conobbe se stesso come
uno eternamente col Padre, come dimorante nel Padre ed il Padre in lui. Inoltre
conobbe se stesso come comunicante nello Spirito, che viene dal Padre ed è
comunicato al mondo; anche questo non è solo nel tempo, ma fin dall’eternità.
Per capire il mistero della Trinità è necessario partecipare alla esperienza di
Gesù. È necessario ricevere lo Spirito di Dio, condividerne la vita» (RC 134).
Dopo aver richiamato la preesistenza del Verbo e la sua figliolanza
eterna, menziona lo Spirito per rendere possibile la nostra partecipazione al
rapporto che Gesù ha con Dio Padre:
«Se noi vogliamo conoscere il mistero,
dobbiamo condividere l’esperienza di Gesù, ci dobbiamo conoscere come figli di
Dio, eternamente venienti dal Padre, come parola che esprime la mente del
Padre. Noi ci dobbiamo riconoscere come Dio, Dio per partecipazione nella
divinità di Cristo, come partecipiamo alla sua umanità» (RC 136).
Con queste parole, ci invita a fare esperienza: non dobbiamo
soltanto sapere che siamo figli, ma sperimentare e riconoscere che di fatto
cresce in noi questo essere figli. Riguardo alla deificazione, usa un
linguaggio ardito ispirandosi alla mistica renana, soprattutto ad Eckhart (Cf.
RC 150, nota 20).
Affermando questo, tuttavia, non intende annullare la differenza
(ontologica) che esiste tra il Verbo, che è Dio, e il cristiano, che è uomo e
creatura. «Una persona umana è un essere finito, che possiede un intelletto
finito ed una volontà finita» (RC 165). Tuttavia il termine del viaggio di ogni
uomo (non solo del cristiano) prevede un passaggio dell’umano nel divino, del
temporale nell’eterno, del finito nell’infinito (RC 167).
P. Bede ha avuto l’indubbio merito di aver valorizzato l’esperienza
mistica nella vita cristiana.
Cosmologia e storia
Il cristianesimo è uno sviluppo dell’ebraismo, una religione che si
basa sulle azioni storiche di Dio, compiute a favore del suo popolo. Il popolo
ebreo era animato, poi, dalla speranza d'un intervento escatologico di Dio che
avrebbe introdotto una nuova creazione, un tempo messianico. Gesù, inserendosi
in questa prospettiva d’attesa, dichiarò di essere venuto a inaugurare i tempi
nuovi.
L’Induismo non si basa su eventi storici ma sulla rivelazione di Dio
nel cosmo e nell’anima dell’uomo religioso.
«Mentre l’Induismo appartiene alla
rivelazione cosmica (la rivelazione di Dio attraverso il cosmo e l'anima umana)
Gesù appartiene alla rivelazione storica, la rivelazione di Dio nella storia di
un particolare popolo. Una caratteristica di questa rivelazione è che essa non
avviene nel tempo ciclico e mitologico ma nel tempo storico. Le discese di Dio (Avatara) nell'Induismo sono un evento ricorrente; per principio ogni età ha
la sua avatara. In Israele la storia è vista come qualcosa che ha una fine, un
escaton. Gesù è stato visto come colui che arriva alla fine della storia» (RC
104; cf. )95-98).
P. Bede torna più volte a rilevare il
carattere escatologico dell’evento Cristo; la sua venuta modifica determina un
mutamento decisivo nell’umanità:
«Gesù era un uomo in cui il corpo e l’anima
erano puri strumenti per lo spirito che li inabitava. In lui è giunto a
compimento il destino umano. Mentre nell’universo c'è conflitto ad ogni
livello, e l’anima e il corpo sono in conflitto l’una contro l’altro, in Gesù
questo conflitto è stato superato. Corpo e anima sono stati restaurati in unità
con lo spirito, ed il potere di unificazione è stato liberato e immesso nel
mondo» (CU 28).
Nella stessa pagina, aggiunge di seguito, un secondo rilievo: la
morte di Cristo è paragonabile ad uno di quegli eventi cosmici che determinano
un mutamento critico nel processo evolutivo cosmico: «Così noi possiamo
guardare alla morte di Gesù e alla libera restituzione della sua vita al Padre
sulla croce, come ad un evento cosmico. Alcuni eventi cosmici, cioè l’emergere
della vita su questo pianeta, il destarsi della coscienza nell’uomo,
contrassegnano dei mutamenti critici nella evoluzione del mondo. La morte di
Gesù fu un evento di questo genere» (CU 28-29).
È molto efficace l’idea che Cristo, dopo aver superato il conflitto
tra anima e corpo, abbia messo a disposizione di tutta l’umanità la sua
vittoria, immettendo nel mondo questa capacità. La riflessione evoca un passo
paolino: «(Dio) mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del
peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato (=vinto) il peccato nella
carne, perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo
non secondo la carne ma secondo lo Spirito» (Rm 8,3-4).
Nell’immagine, invece, del mutamento critico, del resto molto
interessante e suggestiva, il valore dell’evento escatologico viene attenuato.
La croce, infatti, viene vista come uno dei molteplici passaggi qualitativi,
non come l’unico decisivo che determina il verificarsi tutti gli altri
mutamenti, prima e dopo.
La redenzione di Gesù, culmine della storia della salvezza, possiede
un valore universale. P. Bede parla di un Cristo cosmico che ha operato ed
opera in tutti gli uomini (CU 40-41; FD 228; MO 44-45).
Già i Padri della Chiesa si erano interrogati sull’universalità
della salvezza compiuta da Cristo. In particolare si chiedevano: quale fu il
destino degli uomini che lo avevano preceduto nel tempo? I pagani obiettavano:
perché Cristo è venuto così tardi, tralasciando di prendersi cura delle
generazioni passate?
S. Paolo aveva sostenuto che Cristo s’era già fatto conoscere nella
storia d’Israele anche prima d’incarnarsi. Ad esempio, come roccia spirituale,
accompagnava già Israele che camminava nel deserto (cf. 1 Cor 10,4); è Lui che
ha rivolto la sua parola a Mosè e ai profeti (cf. Gv 5,46). La legge
dell'Antico Testamento è dello Spirito (Rm 7,14); essa è stata per noi
pedagogo, fino a Cristo (Gal 3,24), avendo così una funzione propedeutica verso
di lui. I Padri, a loro volta, dissero che Cristo si era già fatto conoscere
agli uomini d’Israele, in modo misterioso, ancora prima di manifestarsi nella
carne.
P. Bede completa questa
riflessione: se Cristo ha visitato in modo invisibile gli antichi Israeliti,
può essere venuto in soccorso anche di tutti gli altri uomini: «Possiamo vedere
il Cristo Cosmico che opera negli e attraverso gli Israeliti, che parla
attraverso i patriarchi e i profeti. In modo simile possiamo vedere l’Essere
Cosmico che avanza nelle e attraverso le grandi religioni di ogni età… Cristo è
certamente l’Alpha e l’Omega, il primo e ultimo, colui che abbraccia tutta la
storia dandole senso e direzione» (CU 40 e 41). Quindi, se i teologi insegnano
che, in ogni tempo, ci sono state persone che hanno potuto dire il loro sì a
Dio e lo hanno potuto realizzare in una vita redenta, egli aggiunge che non solo in ogni tempo ma
anche in ogni luogo si è verificata questa salvezza.
Cristo non ha riversato la sua grazia pasquale, in modo anticipato
soltanto su Israele ma su tutto il cosmo. La creazione, che è stata creata in
Cristo, per mezzo di lui e verso di lui orientata, di lui che è la pienezza (Ef
1,23), è di fatto segnata, sostenuta e avvolta dalla grazia di Dio in Gesù
Cristo.
Anzi, osserva G. Greshake, «Dio poteva «rischiare» la creazione poiché
egli a priori poteva affrontare tale rischio
alla sola condizione di coinvolgere se stesso in esso e di aprire, prendendo se
stesso come punto di partenza, una via attraverso un intrico impenetrabile. E
ciò è avvenuto mediante la passione del suo proprio Figlio - che ha patito il
male attraversandolo. In questo senso, anche per
Hans Urs von Balthasar, come per Karl Rahner, tutta la creazione è già da
sempre pre-redenta, e precisamente già prima della sua creazione e quindi anche
prima della sua possibile e reale caduta» (Greshake, 275).
Tuttavia, nonostante questa azione concomitante del Cristo in
Israele e nelle genti, rimane anche una profonda differenza poiché la storia
d’Israele prepara in modo diretto la venuta di Cristo (Cf. Il Cristianesimo
e le Religioni, Commissione teologica
internazionale, 1997, n. 85).
L’evento della Croce
Il confronto più serrato cristianesimo e l’induismo, avviene quando
mette a confronto Cristo e Krishna, una delle maggiori divinità dell’Induismo;
l’Uno e l’Altro sarebbero manifestazioni del Mistero divino in termini umani,
con la differenza che il secondo presenterebbe in modo prevalente un carattere
leggendario. A prescindere dalla sua storicità, Krishna rimane ugualmente un
simbolo dell'amore divino in sembianza umana; per mezzo di lui l'Essere
Supremo, si rivela come amore e domanda amore in contraccambio. «L'amore di
Krishna è un amore ideale, che si manifesta a Vrindabhan, la città celeste del
mondo mitico. È un amore estatico capace di strappare una persona a se stessa
ed attirarla a sé in un atto di totale dedizione. Soprattutto è un amore pieno
di gioia. Si dice che Krishna è venuto nel mondo per divertirsi, per
manifestare il gioco di Dio, lila, la felicità
dell'amore ananda» (RC 100).
Nonostante alcune analogie tra le due figure, secondo il Nostro, tra
l’amore di Cristo e quello di Krishna esiste «un contrasto impressionante
(striking)».
Gesù ha vissuto da uomo
concreto, come servo, nell’umiliazione e nel dolore: «L'amore di Dio è rivelato
in Cristo non nella poesia ma nella storia ed è mostrato nell'autodonarsi agli
altri, nel rinunziare alla propria vita sulla croce. “Il Figlio dell'Uomo è
venuto per servire non per essere servito e per dare la sua vita come riscatto
per molti” (Mt 20,28). Infine questo amore si è rivelato non in un gioco ma in
un'agonia di sangue e sudore, nella sofferenza non nella gioia» (RC 101).
Avendo notato questa profonda differenza, egli si pone una domanda
che ritiene cruciale: «Ma ha l'Induismo un posto
per un Dio che soffre e muore sulla croce? Per
un Dio che entra nella storia? Per un amore che è sperimentato nella sofferenza
e nell'abbandono? Forse questa è la domanda cruciale» (RC, 101).
P. Bede cerca di mettere a fuoco il significato della croce di
Cristo. Ricorre all’immagine di due movimenti opposti che, però, alla fine
s’incontrano: il movimento di ascesa verso Dio, tentato dall’uomo e il
movimento di discesa verso il mondo, realizzato da Dio. Il punto d’incontro tra
i due movimenti avviene proprio sulla croce di Cristo. «Il movimento di Dio
autodonantesi in amore all’uomo si incontrò in una persona, e la salvezza del
mondo fu compiuta. Questa fu compiuta al limite estremo della sofferenza umana,
nel punto dove tutte le potenze dell'inferno erano concentrate» (RC 110).
Nella riflessione di p. Bede, tra i due
movimenti rilevati, l’ascesa e la discesa, prevale il primo: Gesù è l’uomo che,
aprendosi in modo totale a Dio e rinunciando a se stesso nel modo più completo,
rivela quale sia il compito dell’uomo e la sua più alta realizzazione. È
l’umanità che ascende a Dio, che corrisponde in modo pieno al suo disegno. In
Gesù Crocifisso la risposta dell’uomo a Dio è perfetta (Cf. CU 74). «In questo
punto si incontrarono cielo e inferno… Qui si è rivelata la totale realtà della
situazione umana, il suo totale esporsi alla Verità ultima» (RC 110).
Non dimentica, però, il movimento più significativo, quello della
discesa. Infatti nella decisione di farsi carne del Verbo, Dio ha rivelato
pienamente se stesso, ha mostrato la caratteristica più paradossale dell’essere
divino che consiste nella volontà e nella capacità di “svuotarsi” pur di
salvare gli uomini. Sulla terra, Gesù vive uno stile di servizio che aveva
progettato come Dio, insieme al Padre. Non rivela in primo luogo la serietà di risposta
data all’uomo a Dio, ma la serietà della volontà di donazione da parte di Dio.
Qui sta la differenza, la novità radicale della concezione di Dio dell’annuncio
cristiano rispetto ad ogni altra religione.
L’Essere supremo, il Mistero sacro, il Brahman si rivela nel mostrare nel cosmo le sue qualità divine (Potenza,
Sapienza, Beatitudine). Su questo aspetto convengono con facilità Induismo e
Cristianesimo. Tuttavia la rivelazione di Dio nella croce di Cristo, acquista
un’intensificazione dal carattere nuovo, unico e paradossale, impensabile da
parte della saggezza umana, anche da quella più acuta e più religiosa. «La
novità cristiana è che non si può più conoscere Dio senza il suo diventare uomo
e senza la sua morte in croce in Gesù Cristo… la quale è il fallimento e il
superamento dell’idea stessa di Dio» (P. Coda, 411-412). Dichiara Paolo a
questo proposito: «Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero,
che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra
gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero
conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma, come sta
scritto: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono
in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (1 Cor 2,7-9).
Riletture cristiane dell’Induismo
1. Che cosa può significare per un cristiano il concetto di
non-dualità, un attributo che l’Induismo applica alla Realtà divina? Per
spiegarlo, traccia un percorso di trasfigurazione del mondo e dell’uomo, in
prospettiva evoluzionistica, accogliendo la convinzione indù secondo la quale
solo l’assoluto possiede la pienezza dell’essere e, a suo confronto, l’uomo e
le cose sono non-essere.
Come avviene il processo evolutivo? Prima fase contempla il
passaggio dalla materia alla coscienza. La materia inerte si organizza come
cellula vivente e poi, in seguito, appare come coscienza umana. Sono tutte
forme in cui il cosmo acquista realtà, passando dal non-essere ad una vita
sempre più vera.
La seconda fase osserva tre modi di
estensione della coscienza: lo scienziato, il poeta e il mistico: «…nella
coscienza umana ordinaria, il mondo è solo parzialmente reale; il mondo della
scienza è un mondo di astrazioni di certi aspetti parziali della realtà, gli
aspetti che possono essere misurati in spazio e tempo, ed astratti dal tutto;
il poeta è più vicino ad una visione globale, il mondo comincia ad essere
trasfigurato in lui; ma è solo il mistico che è presente alla trasfigurazione
finale ed intravede la visione del mondo trasfigurato nella luce divina» (RC
56).
La terza fase immagina la risurrezione
finale. Allora «la coscienza umana sarà trasformata dalla luce divina, non più
condizionata dal tempo e dallo spazio e la materia sarà trasformata in noi. Noi
vedremo tutta la creazione nella sua Verità eterna quando noi stessi saremo
così cambiati da essere diventati uno con la eterna Verità» (RC 56).
In questa condizione ultima, escatologica, viene superata la
dimensione del tempo perché l’eternità è «tota simul»: tutto il tempo sarà
presente (RC 57). Appare, soprattutto, come esperienza di profonda unità:
«Nell’eternità i molti sono contenuti nell’uno senza perdere la loro
individualità» (RC 57).
P. Bede si preoccupa di precisare che l’unità o non-dualità non
significa affatto un assorbimento nella divinità che annulla l’individualità: «La
creazione perde il suo significato se non vi è distinzione nello stato finale,
se ciascuno e ciascuna cosa è persa in Dio e Dio è perso nell'Uno, l'Assoluto,
l’Essere non-duale. Dio stesso rimane eternamente Creatore, tutte le creature
provengono da Lui eternamente nella Parola. Esse sono conosciute e volute,
ciascuna nella loro particolarità come espressioni finite dell’Essere infinito»
(RC 58).
Per garantire il rispetto delle differenza nell’unione completa con
la divinità, richiama il Mistero Trinitario, dove l’unità di Dio è vissuto come
una relazione di Ipostasi distinte: «… nella Divinità, benché non ci sia
dualità, vi è una relazione» (RC 58). Tuttavia, successivamente, riconoscerà
che nella concezione induista il rischio di pensare ad un annullamento
nell’Assoluto stesso di tutto ciò che non è l’Assoluto, è molto alto (MO 194 e
196).
2. Vediamo ora un secondo caso. Come recuperare il concetto di
non-essere (maya) che l’Induismo attribuisce al
mondo?
L’uomo in se stesso è nulla, è desiderio di essere ma non ha essere
in se stesso. A motivo di questa mancanza è semplice creatura, distinta da Dio,
il quale è, invece, l’essere in se stesso. Questa assenza di essere è maya.
La creatura «non è assoluto non-essere,
nulla assoluto, dal momento che è potenzialità ad essere, tuttavia questa
potenzialità non ha l'essere in se stessa. L'essere della creatura viene
totalmente da Dio, e la creatura non è Dio appunto per questa limitazione di
essere. La creatura è limitata, è un essere finito nel quale l'Essere infinito,
Dio, si riflette» (RG 59).
In questi due esempi, egli rivisita
l’Induismo e lo adatta alla concezione cristiana. La non-dualità viene
ammorbidita grazie al concetto di relazione, con cui vengono contrassegnate le
Ipostasi della Trinità. Il non-essere delle creature viene rivisto e
considerato alla stessa maniera con cui nella metafisica classica (cristiana)
si parla di finitezza o di contingenza dell’essere relativo.
3. Nell’ultimo capitolo di Ritorno al
Centro, constata una profonda continuità tra la via
dell’unione con Dio prevista dallo Yoga con quella cristiana. Dopo aver
accennato alle consuete divergenze tra varie scuole indù (RC 161), dichiara che
lo Yoga (termine che significa via, giogo, vita impegnata) presuppone il
movimento acensionale dell’uomo verso Dio, ma anche il movimento di discesa
delo Spirito nella profondità della materia. Dal punto di vista cristiano ciò è
avvenuto nella Risurrezione di Gesù e nella persona di Maria (RC 162-163).
Richiama lo schema classico di Patanjali che prevede otto stadi di
trasformazione. Dopo l’ascetismo e l’autocontrollo, altri stadi sono dedicati
alla pratica del controllo del corpo e del respiro; la meditazione, infine,
permette di raggiungere lo stato finale (samadhi), che è una perfetta
concentrazione della mente.
Ricorda che esistono altre forme di Yoga:
la via dell’azione, della devozione, della conoscenza. Nella via dell’azione, è
importante il distacco (o gratuità); in quella della devozione, la
sottomissione all’amore divino; nella via della conoscenza, l’accoglienza
dell’ispirazione che viene dall’alto. Il risultato è entrare nel Mistero
ultimo, un’esperienza di carattere ineffabile (RC 167). Queste vie sono
attestate anche nel Cristianesimo e le due religioni sostengono la possibilità
dell’esperienza dell’Assoluto, al di là di come è concepito. L’esperienza vale
più delle opinioni. P. Bede richiama, infine, la possibilità della
deificazione, annunciata dai Padri (Sant’Atanasio), riconosciuta anche da altri
mistici (Francesco di Sales) (RC 169).
Un primo bilancio
«Tutte le religioni hanno insegnato qualcosa della
via della salvezza, ma c’è una sola Via assoluta. Cristo è la Via, la Verità e
la Vita, e senza di Lui nessun uomo viene al Padre» (FD 228). Questa era la sua
convinzione riguardo alle religioni nel momento in cui divenne cattolico.
Nel frattempo, nell’ambito della teologia cattolica,
il tema delle religioni, aveva suscitato un interesse più ampio rispetto al
passato. Nel 1963, il teologo Heinz Robert Schlette pubblicò, a Friburgo in
Brisgovia, il libro Die Religionen als Thema der
Theologie. In quest’opera, per la prima volta, le
religioni erano poste come argomento della teologia e dichiarava che avevano un
valore salvifico. Schlette andava oltre a quello che sarebbe stato il dettato
del Concilio, due anni dopo.
La dichiarazione
del Concilio Vaticano II (1965) attestò che le religioni contengono elementi di
verità, in preparazione al Vangelo (Nostra Aetate, 2). Dopo questa dichiarazione che, pur bandendo ogni forma di
esclusivismo rimaneva piuttosto restrittiva, i teologi cominciarono a discutere
se le religioni, oltre a presentare qualche verità, non fossero istituzioni
salvifiche, con riti efficaci, pari o almeno simili ai sacramenti cristiani.
Ciò venne sempre escluso dalle dichiarazioni ufficiali e la discussione perdura
anche al presente.
In Ritorno al Centro p. Bede appare convinto che le religioni «non sono
che differenti espressioni dell’unica Verità e ciascuna ha la sua particolare
intuizione» (RC 129). Esse, sarebbero allora molto di più di semplici raggi «di
quella verità che illumina tutti gli uomini», ma possederebbero una loro verità
di grande valore.
Consapevole delle radicali differenze esistenti tra
Induismo e Cristianesimo, continuava ad approfondire la conoscenza della
religione indù, per vedere come fosse possibile coniugarla con quella
cristiana. Del resto aveva scritto: «Le rivelazioni dei
Veda, delle Sutre buddhiste, del Corano devono essere vagliate alla luce della
rivelazione biblica e tra loro» (RC 134).
Nel confronto
non usa soltanto il criterio vero o falso, ma là dove riscontra un messaggio
che, a suo giudizio, non è condivisibile del tutto, cerca di scoprire il motivo
per il quale è sorta una certa opinione e si sforza di salvaguardare almeno la
verità parziale presente in ogni opinione. «Non dobbiamo limitarci a rifiutare
l’errore, ma dobbiamo anche imparare la verità dalla quale l’errore ha preso
vita» (FD 227).
Matrimonio tra Oriente e Occidente
L’opera Matrimonio tra Oriente e Occidente, pubblicato a Glasgow nel 1982, è il testo in cui compare con
maggiore chiarezza l’utopia e il messaggio di p. Bede: integrare l’Oriente con quell’Occidente, il primo visto nel simbolo
della femminilità (contemplazione, intuizione), il secondo in quello della
mascolinità (azione, ragione).
Per favorire quest’unione, per così dire, cerca di migliorare
l’aspetto della sposa (l’Induismo) per renderla più attraente al marito occidentale,
ben consapevole che, tra gli induisti esistono diversità consistenti
nell’interpretazione della loro religione e che alcuni pensatori indù hanno
cercato di riformarla (MO 24-25).
Diversità rilevanti
In una sintesi, mette a fuoco le differenze tra la concezione
biblica e quella induista. Nella Bibbia «… Dio è rappresentato come il trascendente, signore della
creazione… separato e superiore alla natura, che non deve mai venir confuso con
essa; nella tradizione orientale, Dio o l'Assoluto (qualunque sia il nome che
gli si da) è immanente a tutta la creazione: il mondo non esiste separato da
Dio, ma in Dio.
Il pericolo di questa posizione è che Dio può facilmente venir confuso con la
natura; l'aspetto trascendente dell'Essere può venire dimenticato e, conseguentemente,
si può cadere nel panteismo. Inoltre, dato che si concepisce Dio presente in
tutto, nel male come nel bene, la distinzione tra bene e male può facilmente
svanire.
Ma
forse la più grande debolezza della tradizione orientale è che il mondo materiale
tende ad essere Considerato come un'illusione, maya, il prodotto dell'ignoranza,
avidya. Si considera il mondo materiale come avente solo una realtà apparente:
nell'ultimo stato della conoscenza (paravidya) tutte le differenze scompaiono e
amane solo l'Uno, la Realtà assoluta. La prima volta che venni in India trovai
che quasi tutte le persone colte indù seguivano questa teoria e tutti
pretendevano di seguire gli insegnamenti del grande Sankara. Ma l'esperienza e
gli studi seguenti mi hanno foavuto che non è questo l'insegnamento delle
Upanishad della Bhagavad Gita…» (MO
24).
Il valore del mito
Nella
nuova ricerca abbandona l’uso del termine biblico mistero a favore del termine mito, che pure
aveva già usato anche in precedenza (RC 94-99). Come mai compie questa
operazione?
Vuole recuperare le migliori intuizioni che aveva avuto nel periodo
giovanile, quando era profondamente toccato dal mistero della Natura, e s’era
fatto sostenere dai poeti romantici (Wordsworth, Shelley, Keats) (MO 55; del
resto il cristiano, e il cristianesimo in generale, devono saper accogliere
tutte le istanze religiose e culturali positive presenti nell’umanità (MO 219;
cf RC 89-90).
Il mito aiuta a comporre insieme ragione e immaginazione; ad
assegnare il primato all’esperienza piuttosto che alle concezioni razionali (MO
169-189). «Prima di rivelarsi come ragione, la verità si fa conoscere
attraverso l’immagine… La Bibbia usa abitualmente il linguaggio del mito e del
simbolo; anche quando vi è una base storica, tutto è elaborato
dall’immaginazione... è uno sbaglio pensare che il linguaggio astratto della
ragione ci porti più vicino a Dio o alla realtà… Il linguaggio del mito, della
poesia, dell’immaginazione concreta fa presa sui sensi, sui sentimenti, sugli
affetti, sulla volontà, come anche sulla ragione, e così porta alla
trasformazione di tutto l’uomo» (MO 117).
Il mito permette di superare le ristrettezze del metodo
storico-critico nell’ambito dell’esegesi biblica. P. Bede rivaluta l’esegesi
dei Padri (particolarmente Origene) i quali, dopo aver ammesso l’esistenza di
un senso storico del testo, cercavano di renderlo più ricco e completo
accogliendo altri sensi, come l’allegorico e l’anagogico. «Solo ora, con una
più profonda comprensione del senso e del valore del mito… saremo capaci di
recuperare qualcosa del senso più profondo della Bibbia» (MO 124).
Ritiene necessario porre a confronto racconti mitici ed eventi
storici. Il mito senza storia non ha valore perchè si perde nella pura
immaginazione, così pure la storia senza l’elaborazione mitica, perchè si
smarirebbe nella contingenza, ma «quando gli eventi storici sono visti come
fatti che rivelano l’ultimo significato della vita, allora mito e storia si
incontrano». Nelle religioni orientali talora il mito prevale al punto da
rendere impossibile una separazione tra fatti e invenzione (fact and fiction
can no longer be separated) (RC 96).
La rivelazione biblica rappresenta un caso unico perchè altri
popoli, come gli indù, svilupparono una mitologia ricca, dalla quale ricavarono
una profonda filosofia della vita, ma non dettero alcuna rilevanza alla
storicità dei fatti. I greci, al contrario, ebbero il senso della storia ma non
la misero in relazione con la mitologia (RC 97). Ora «in Gesù, mito e storia si
incontrano» in modo perfetto (RC 96). Gli eventi storici della sua vita ebbero
un ampio significato, superarono la contingenza della cronaca in quanto erano
rivelazioni di un progetto divino. Se di lui si fossero narrati soltanto fatti
mitici, privi di consistenza storica, questi non sarebbero altro che
manifestazioni della psiche. Avrebbero magari un significato umanistico ma non
sarebbero stati redentivi e la venuta sullaterra non avrebbe trasformato il
mondo.
Le caratteristiche della religione indù
Nel cuore dell’opera, si sforza di mostrare che le intuizioni
portanti della religione induista, così come sono interpretati da alcuni
teologi indù, sono compatibili con la teologia biblica.
Nel presentare, come primo passo, la visione cosmica dei Veda (MO 55-67), fa notare che l’importanza di questa concezione sta
tutta nel sottolineare il valore deciso che ha per ogni uomo la relazione con
Dio: «… oltre il corpo e l’anima, integrato con essi c’è lo spirito, punto di
contatto con lo Spirito universale… Questo è il punto dell’umana trascendenza,
il punto nel quale il finito e l’infinito, il temporale e l’eterno, il
molteplice e l’uno, s’incontrano e si toccano» (MO 66).
In un secondo momento, nel confronto con la rivelazione delle
Upanishad (68-86), apprezza la scoperta del Sé e riscontra la medesima
esperienza nei mistici cristiani (68-86). Cita Francesco de Sales (MO 85). [Sul
tema della cima dell’anima, cf. Mino Bergamo, L’anatomia dell’anima. Da
François de Sales a Fenelon, Il Mulino, Bologna
1991, 63-141]
Nella terza parte sostene che nell’Induismo è presente l’idea di un
Dio personale nella Baghavad-Gita e nella
contemporanea Svetasvatara Upanishad (MO 87-95).
Può essere compresa meglio anche la dottrina della non-dualità (MO
96-102). A questo proposito, nega che l’induismo affermi la concezione
dell’assorbimento in Dio dell’uomo: «Non c’è dubbio che l’individuo perda ogni
senso di separazione dall’Uno e sperimenti una totale unità con esso. Ma ciò
non significa che l’individuo cessi di esistere» (MO 101). Tuttavia riconosce
che nella religione induista è molte forte il rischio di pensare ad un
annullamento nell’Assoluto di tutto ciò che non è l’Assoluto (MO 194 e 196).
Dopo aver sostenuto che l’Induismo accoglie anche il concetto di un
Dio personale, si propone di mostrare che Egli, come il Dio biblico, è amante
degli uomini (MO 103-107). A questo scopo, ricorre alla Bhagavad-Gita.
Qual è l’esperienza comune che tutte le religioni avrebbero
conosciuto, lo scopo unico a cui tutte mirerebbero, grazie alla quale
potrebbero riconciliarsi e considerarsi ognuna una via per raggiungere la
medesima meta? La risposta sembra semplice: l’unione con l’Assoluto (Cf. RC
92). Così aveva scritto in Ritorno al Centro:
«Lo scopo di ogni religione è identico. È lo stato trascendente e assoluto,
l’unica Realtà, l’eterna Vertà, che non può essere espressa o concepita, ed è
lo scopo non solo di ogni religione ma di tutta l’esistenza umana» (RC 92).
In questo passo, l’Assoluto è identificato con una Perfezione
impersonale, che non può essere conosciuta né espressa. Anzi è la
partecipazione ad uno stato di beatitudine, eterna e senza limiti. La metà non
è quindi l’unione con Dio (in termini cristiani) ma raggiungere uno stato di
appagamento completo. In questo passo, allora, si parla dell’Assoluto in
termini indù e tale esperienza non è affatto universale come presupponeva.
In MO si esprime con maggior precisione.
Avverte, intanto, una difficoltà. «C’è sempre il pericolo che l’essere divino o
la realtà assoluta venga concepita in termini statici. È infinito, eterno, non
mutevole oltre il flusso del tempo e le divisioni dello spazio, oltre ogni
immaginazione e ogni pensiero… » (MO 103).
Che cosa manca a questo genere di Assoluto
per diventare più dinamico? «Ma quest’essere divino, questa realtà assoluta, è
anche amore comunione, autodonarsi nell’amore» (MO 105).
P. Bede, alla fine, menziona la Trinità:
«L’amore cerca di comunicarsi. Questo scopo rimarrebbe insoddisfatto, se non ci
fosse uno col quale condividere quest’amore. Ma significa questo che nella
divinità c’è dualità? Qui entra in gioco il concetto di relazione, sviluppato
nella dottrina cristiana della Trinità» (MO 107). L’esistenza della Trinità è
la migliore rassicurazione contro il pericolo dell’impersonalità di Dio e
dell’assorbimento in Lui ( Cf. RC 54).
Il mito di Cristo
Nell’opera ritorna ad esprimere in modo
compiuto (senza talune esitazioni precedenti), la singolarità di Gesù come
evento escatologico. La “rivelazione” di Dio donata a tutti gli uomini è
avvenuta sempre per la grazia di Cristo: «Dio si rivela in tutti i tempi, a
tutti gli uomini, in tutte le circostanze. Non ci sono limiti alla grazia di
Dio, rivelata in Gesù… Il dono della vita eterna è offerta in qualche modo a
tutti gli uomini senza eccezione» (MO 45). In Cristo compare una santità unica:
«È stata tolta da lui ogni ambivalenza morale. Gesù rivela l’uomo nella
perfezione morale per la quale è stato creato e rivela Dio come la perfezione
dell’amore, senza la concupiscenza di Krishna o Shiva…» (RC 96). Krisna e Shiva
sono ambivalenti dal punto di vista morale (morally ambivalent); sono figure
che emergono dall’inconscio umano (RC 94-95).
Gesù è l’unica rivelazione di Dio in
senso proprio: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha
rivelato» (Gv 1,18). Egli non è un uomo che ascende verso Dio divinizzandosi (o che è
stato divinizzato, come nell’adozionismo), ma un essere di condizione uguale a
Dio, mandato nel mondo per salvare.
In genere, p. Bede preferisce pensare al
movimento di ascesa. «In Gesù questo movimento della materia e della
consapevolezza verso la vita dello Spirito ha raggiunto il suo culmine… E
questa consumazione dell’unione di Dio con l’uomo in Gesù, necessariamente
influisce su tutta la creazione» (MO 212). La discesa di Dio nell’umanità, è
anch’essa affermata: «La Parola si fece carne e lo Spirito entrò nella
profondità della materia… Ha rialzato questo mondo decaduto a una nuova vita»
(MO 213). L’aver privilegiato il movimento evoluzionistico di progresso e
salita verso Dio, non significa affatto, quindi, che abbia sostenuto una
concezione adozionista. Seguendo l’evoluzione dei discepoli, testimoniata nel
Nuovo Testamento, ricorda come la divinità di Gesù sia stata confessata dai
discepoli dopo la sua Risurrezione (MO 200) e rievoca la riflessione compiuta
dalla Chiesa, nel dibattito trinitario, per spiegare la presenza di due
autorità in cielo, di uguale dignità (MO 204).
Il cristianesimo, pur fondandosi sopra un
evento storico, dal carattere unico e definitivo, recupera anche il movimento
ciclico, amato da tutte le culture, scoperto nel ritmo della natura: «Proprio
come il pagano, che contemplava il corso della natura, il movimento delle
Stelle, la morte della vegetazione d'inverno ed il suo riprendere vita in
primavera, si sforzava di partecipare al mistero divino e di condividere la
vita divina, così il cristiano, che contempla la vita di Cristo, desidera
partecipare a questa vita, morire con lui e risorgere ad una vita nuova ed
immortale. Questo è il mistero che sta alla base della sacra liturgia. È un
mezzo mediante il quale il cristiano può partecipare alla vita, alla morte e
alla risurrezione di Cristo» (FD 206-207).
Il mito della Chiesa
Vincolata al mito di Cristo, è quello della Chiesa (MO 210-221).
Invita perciò ad allargare lo sguardo oltre alla Chiesa visibile, alla Chiesa
cosmica, universale. Essa è formata da tutti gli uomini retti, dai cristiani
virtuosi e dai membri di ogni religione, operatori della verità (Cf CU 42-43 e
49-50).
È possibile assegnare alla Chiesa un’estensione del genere? Agostino
parlava di una Chiesa che esiste a partire da Abele: «Tutti insieme siamo
membra e corpo di Cristo: non solo noi che ci troviamo qui in questo luogo, ma
tutti su tutta la terra. E non solo noi che viviamo in questo tempo, ma che
dire? dal giusto Abele sino alla fine del mondo, fino a quando ci sarà
generazione umana. Qualsiasi giusto faccia il suo passaggio in questa vita,
tutta l'umanità presente e non solo di questo luogo, e tutta l'umanità futura,
tutti formano l'unico corpo di Cristo e ciascuno ne è membro» (Serm 341,9).
Cristo esercita una funzione salvifica universale, rivolta a tutti
gli uomini d’ogni tempo e luogo; è giusto, allora, che tutti i salvati possano
essere considerati come appartenenti all’unica Chiesa. Agostino e i Padri
pensavano che gli uomini retti (anche se non battezzati) venissero aggregati,
in modo invisibile, all’unico Corpo di Cristo che è la Chiesa visibile, fondata
sugli apostoli. Non parlavano di un Corpo cosmico di Cristo, per non dissolvere
l’identità dell’unica Chiesa; il termine Chiesa cosmica, se viene usato per
significare l’insieme dei non-battezzati che vengono approvati da Dio a
motivo della loro giustizia,
possiede una sua legittimità e pregnanza. P. Bede non intende dissolvere il
segno della Chiesa perchè ogni uomo che risponde alla chiamata di Dio «è membro
di quel corpo di umanità redenta che è la chiesa» (MO 45).
Bilancio conclusivo
P. Bede ha vissuto con grande coerenza la
sua missione, vivendo in India in in grande povertà e santità di vita, per
circa quarant’anni. Ha cercato con continuità ammirevole un dialogo con le
religioni, soprattutto con l’Induismo. Avendo osservato che, in questa
religione, affiora una molteplicità di forme, che si esprimono in modalità
contrastanti, ha scelto, allora, tra le varie visioni, quelle più vicine alla
spiritualità cristiana, cercando un arricchimento reciproco.
Soprattutto ha continuato a testimoniare
che l’uomo realizza se stesso solo se vive in comunione profonda con Dio «….tutti
gli uomini sono continuamente attratti da questa Verità trascendente.
L'intelletto è alla ricerca dell’Assoluto. È stato fatto per l'Essere, per la
Verità, per la Realtà, e non può trovare riposo in alcuna verità parziale, in
alcuna costruzione della mente umana. È sempre trascinato oltre se stesso verso
l’ultima Verità» (Rc 93).
Dio, infatti, «nelle generazioni
passate, ha lasciato che tutte le genti seguissero la loro strada; ma non ha
cessato di dar prova di sé beneficando…» (At 14,16-17); «…creò da uno solo
tutte le nazioni degli uomini, perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là
come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi»
(At 17,26-29).
Osserviamo ora
alcune questioni particolari:
1. Talora p. Bede sembra pensare che Dio
sia soltanto il segno massimo di una Realtà assoluta, superiore a Lui stesso
ma, in un ripensamento opportuno, si è allontanato da questa opinione: «Sarebbe
uno sbaglio affermare, come hanno fatto alcune scuole filosofiche indù, che
questo Dio creatore e personale è inferiore all’essere Supremo. Varie volte
infatti viene ripetuto che Krishna, come Dio, è identico con Brahman e l’Atman»
(MO 94). Nonostante questa correzione, in un altro tratto della sua opera,
sembra ribadire il medesimo pensiero: «Dio stesso, per quel tanto che può
essere nominato, sia Jahvé, Allah o semplicemente Dio, è un segno, il nome
della realtà ultima che non può essere nominata» (MO; cf. RC 39). In un altro
passaggio ancora precisa, al contario, che il Dio sconosciuto si è rivelato
come il Padre, conosciuto ed annunciato da Gesù (RC 42).
Queste incertezze rinviano ad un problema
reale provocato già dalla teologia scolastica. Il fatto che l’esistenza e
l’essenza di Dio potessero essere conosciute dalla ragione filosofica già prima
della rivelazione, spinsero i teologi a pensare che i predicati [su Dio]
fossero desunti dalla dottrina filosofica generale su Dio e non dalla
rivelazione che Egli fece di sé nel corso della storia della salvezza. In altre
parole, argomentavano su Dio a prescindere dalla Sacra Scittura, basandosi
soltanto sulla riflessione metafisica e solo in seguito si parlava delle
Ipostasi Trinitarie, come se fossero derivate da quest’unico Dio. Invece, «il
discorso degli attributi divini deve partire direttamente dal Dio che nella sua
azione si è rivelato come Padre» (Müller, 300). Questo Padre si è fatto
conoscere in pienezza quando «ha tanto amato il mondo da dare il Suo Figlio
Unigenito» (Gv 3,16). Parlare di un Dio, dietro e superiore a Dio Padre, è come
venerare un fantasma.
È vero tuttavia che, anche dopo la sua
rivelazione, Dio rimane inesprimibile, perché Egli è «il beato e unico Sovrano,
il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita
una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo»
(1 Tm 6,15-16). Il Nuovo Testamento dichiara, dunque, che Dio si è fatto
conoscere in Gesù, «l’irradiazione della sua gloria e l’impronta della sua
sostanza» (Eb 1,3) ma anche che continua ad abitare in una luce inaccessibile.
L’inaccessibilità divina, che rimane nonostante la sua manifestazione di sé,
non deve essere interpretata come se un aspetto di Dio fosse rimasto ignoto.
Inaccessibile, caso mai, è la sua stessa rivelazione perché possiede una
profondità che rimane sempre inesauribile nel suo fluire e quindi sempre
sorprendente per noi. Paolo la verifica quando rimane sorpreso della fedeltà e
della misericordia che Dio riversa sugli uomini: « O profondità della
ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i
suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 8,33). La misteriosità di Dio
corrisponde alla inesauribilità sorprendente della sua grazia. Da una parte Dio
ce l’ha svelata ma dall’altra dobbiamo sempre approfondirla. Dello svelamento,
ne parla la Prima lettera ai Corinzii: «Così anche i segreti di Dio nessuno li
ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. Ora, noi abbiamo ricevuto lo
Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato» (1 Cor 2,11-12). Sull’inesauribiltà
del dono, ci riferisce la Lettera agli Efesini: «Che il Cristo abiti permezzo
della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in
grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza,
l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni
conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19).
2. Riguardo all’insegnamento di p. Bede sulla Chiesa, ci si può
chiedere: l’azione di Cristo nella Chiesa Sacramento ha lo stesso valore di
quella che Egli esercita negli uomini salvati ma che non appartengono in modo
visibile ad essa?
Egli non affronta mai in modo diretto questa questione. Sembra
suggerire la parità tra le religioni ma sul punto di dichiararla, si ritrae. In
modo aperto sostiene soltanto che tutte le religioni (e tutte le Confessioni
cristiane) «non sono che differenti espressioni dell’unica Verità e ciascuna ha
la sua particolare intuizione» (RC 129). Queste differenti espressioni sono di
uguale valore? Più che rispondere a questo interrogativo, p. Bede è preoccupato
a cercare la riconciliazione tra esse; bisogna «…imparare a distinguere tra
questi punti di vista contrastanti e parziali il principio che li unisce, che
trascende le loro differenze e riconcilia i loro conflitti» (RC 129).
P. Bede ha mostrato le diverge dell’Induismo con la fede cristiana,
la disparità di visioni che accoglie in se stesso; ha riconosciuto l’immoralità
del comportamento delle sue divinità. Può essere considerato una rivelazione
alla pari di quella biblica? Se non ci fosse alcuna differenza qualitativa tra
la Chiesa e altre esperienze religiose, dal punto di vista salvifico, per quale
motivo Dio avrebbe voluto creare il segno della Chiesa, affidandole il mandato
di aggregare a sé tutte le genti?
Per trovare una risposta più chiara, dobbiamo farci aiutare da
Jacques Dupuys, un teologo attento al dialogo con le religioni.
Le religioni sono realtà salvifiche? Dupuis sostiene che le
religioni sono salvifiche perché sono espressioni della ricerca dell’uomo
compiuta da Dio. Non sono in primo luogo tentativi dell’uomo di salire fino a
Dio, ma tentativi, da parte di Dio, di raggiungere l’uomo che tenta di
sfuggirgli. Nessuno cercherebbe Dio se Egli non ci avesse cercato per primo. La
religione è sempre una risposta ad una grazia che la precede.
Hanno tutte pari valore? Egli esclude in modo netto questa ipotesi:
«Nella Chiesa, la comunità escatologica, [Cristo] è presente [agli uomini]
apertamente ed esplicitamente, nella piena visibilità della sua completa
mediazione, attraverso la proclamazione della Parola, del Vangelo, e attraverso
l’economia dei sacramenti al cui centro è l’Eucaristia. In altre tradizioni
religiose è presente il medesimo mistero di salvezza in Gesù Cristo, ma lo è in
maniera implicita, nascosta, in virtù di un modo incompleto di mediazione
costituito da queste tradizioni» (Alle frontiere del dialogo, EMI, Verona 2018, pp. 45-46).
La risposta data dal Dupuis, relativamente
a questo punto, è analoga al parere espresso dalla Comissione teologica
internazionale: «Nelle religioni agisce lo stesso
Spirito che guida la chiesa; tuttavia la presenza universale dello Spirito non
si può equiparare alla sua presenza particolare nella chiesa di Cristo. Anche
se non si può escludere il valore salvifico delle religioni… Soltanto la chiesa
è il corpo di Cristo, e soltanto in essa è data con tutta la sua intensità la
presenza dello Spirito: perciò non può essere affatto indifferente
l'appartenenza alla chiesa di Cristo e la piena partecipazione ai doni
salvifici che si trovano soltanto in essa» (Il Cristianesimo e le Religioni, 1997, n. 85).
Un’appendice al discorso
Le religioni sono dunque equivalenti?
Abbiamo già visto il giudizio del Dupuis ma qual è il modo di pensare degli
autori del Nuovo Testamento riguardo a questo argomento?
1. Nella lettera ai Romani, Paolo confronta tra loro ebrei e pagani.
I primi hanno ricevuto la Legge da Dio tramite Mosé; i secondi, invece, una
legge scritta nei loro cuori. Il contenuto essenziale delle due Leggi è
identico o almeno molto simile. Perciò «quando i pagani, che non hanno la Legge
(mosaica), per natura agiscono secondo la Legge (mosaica), essi, pur non avendo
Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto
nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai
loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2,14-15).
L’apostolo, nutrito del pensiero greco, oltre di quello ebraico, conservò
sempre una grande ammirazione per i suggerimenti etici proposti dai pensatori
pagani.
Dopo aver fatto risaltare questo elemento di uguaglianza tra le due
religioni, per quanto riguarda l’etica, Paolo dichiara che l’ebraismo,
tuttavia, gode d’un grande vantaggio sul paganesimo: «Che cosa dunque ha in più
il Giudeo? E qual è l’utilità della circoncisione? Grande, sotto ogni aspetto.
Anzitutto perché a loro sono state affidate le parole di Dio….» (Rm 3,1-2). In
un altro passo precisa meglio: «Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli,
la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro
appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che
è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen» (Cf. Rm 9,4-5).
Dio, si è rivelato a tutti gli uomini nella creazione ma si è fatto
conoscere con maggior chiarezza mediante le grandi opere compiute a favore del
popolo lungo la storia.
Secondo Paolo, quindi, Dio ha aperto due strade: l’una è più
vantaggiosa e preferibile (la Legge mosaica e le esperienze storiche vissute
dal popolo); l’altra, pur essendo meno ricca, può condurre ugualmente alla
meta. Decisiva per la salvezza, non è l’appartenenza ad una religione, ma la
rettitudine della singola persona.
2. Nel Nuovo Testamento troviamo un confronto anche tra Ebraismo e
Cristianesimo. Cristo rappresenta la nuova rivelazione di Dio. S’inserisce
nella storia d’Israele, e la porta a pienezza: «Dio, che molte volte e in
diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente,
in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio... Egli è irradiazione
della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua
parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla
destra della maestà nell’alto dei cieli…» (Eb, 1,1-4).
Dio ha fatto conoscere agli uomini un’altra strada di ricerca di
Lui, una via nuova (ossia di qualità insuperabile) e vivente, cioè il Cristo
(Cf. Eb 10,9). L’esperienza ebraica, pur così ricca, è un nulla rispetto alla
grazia che ricevono i credenti in Cristo (Cf. Fil 3,7-8). I cristiani che
accolgono il Cristo si trovano in una posizione più vantaggiosa ancora anche di
quella che gli ebrei avevano sui pagani.
Dio ha provveduto all’uomo in tre modi: con la legge del cuore e la
rivelazione cosmica; con la Legge del Sinai e le rivelazioni storiche; con la
rivelazione del Cristo. Egli è l’unico fondatore che, essendo nella condizione
divina, si è incarnato, non in apparenza ma in realtà, manifestando il volto di
Dio «efàpax» una volta per sempre. In Lui compare una santità unica: «… è stata
tolta da lui ogni ambivalenza morale. Gesù rivela l’uomo nella perfezione
morale per la quale è stato creato e rivela Dio come la perfezione dell’amore,
senza la concupiscenza di Krishna o Shiva…» (RC 96).
Il Verbo ha illuminato ogni uomo, anche
chi è venuto al mondo prima che Egli si facesse carne, in considerazione della
sua passione e morte. Non ci sono state, quindi, due rivelazione parallele ma
ogni illuminazione viene dalla Pasqua. Prima di essa, gli uomini, anche se
soccorsi dalla grazia, hanno cercato Dio «tastando qua e là come ciechi» (At 17,27).
Stando a questi suggerimenti, la Scrittura, prevede strade
diversificate, di valore e di qualità diseguali. Il confronto non riguarda le
persone ma il valore delle diverse istituzioni volute da Dio. Giungere alla
salvezza, dipende dall’apertura del cuore del singolo credente.
3. Perché Dio ha voluto non solo la differenza tra le religioni ma
una disparità di valore tra esse?
Il Nuovo Testamento non affronta questa questione in modo diretto.
Dobbiamo servirci di suggerimenti impliciti. San Paolo insegna che Dio, per
comunicare salvezza a tutti, sceglie dei collaboratori particolari e affida a
qualcuno un compito più rilevante rispetto a quello d’un altro (Cf Rm 9 e 11).
All’inizio sceglie Abramo tra i pagani e lo prepara a diventare una benedizione
per tutti gli uomini. Tra i due figli del patriarca, sceglie Isacco anziché
Ismaele; tra i figli di Isacco, elegge Giacobbe, anziché Esaù. Nonostante il
linguaggio semitico che sembra suggerire il contrario, il personaggio che non
viene scelto, non viene rifiutato, umiliato o destinato alla perdizione (Cf Rm
9,12). Soltanto non sarà investito d’un compito rilevante pari a quello
dell’eletto. La scelta poi non dipende dai meriti dell’eletto ma dalla grazia
di Dio (Cf Rm 9,16), che esegue un suo disegno formulato secondo criteri
misteriosi, per noi imperscrutabili.
Qualcuno riceve una responsabilità maggiore rispetto ad altri e la
sua chiamata poi lo pone a servizio di tutti. La scelta particolare avviene
sempre a vantaggio degli altri. Come si vede dagli esempi dedotti, il metodo
della scelta viene esercitato per lo più all’interno d’Israele, per cui degli
Israeliti acquistano un rilievo maggiore di altri. Dio sceglie però anche dei
pagani per compiti specifici. L’elezione non è quindi un procedimento usato per
incrementare l’orgoglio nazionalistico.
Differenze e disparità di valore emergono anche all’interno della
Chiesa. Paolo la paragona ad un corpo che è composto di molte membra, le quali
rappresentano i vari tipi di servizio che vengono donati dalla Spirito ai
diversi membri della comunità. Descrive alcune di queste funzioni procedendo in
ordine gerarchico: le membra più importanti sono costituite dagli apostoli (1
Cor 12,28), poi dai profeti, dai maestri, dai guaritori, dalle guide ecc. Il
Nuovo Testamento presuppone quindi che si possano dare una molteplicità di
funzioni, delle quali alcune certamente sono più importante delle altre; tutte
però sono necessarie al buon funzionamento dell’organismo.
Anche le varie religioni potrebbero essere concepite come le membra
d’un organismo cosmico, ognuna con un compito particolare. Questo concorso
solidale in vista d’un unico scopo, non esclude che a qualcuna sia stato
assegnato un valore più determinante.
Scriveva p. Bede a conclusione del
suo viaggio di ritorno alla fede cristiana: «Cristo è la bellezza assoluta,
manifestata in una forma umana, in un carattere umano» (FD 189). Cristo è come
la Luce che, pur apparendo soltanto di uno splendido colore bianco, possiede in
realtà, tutta la gamma completa dei colori: infatti «se crediamo che in Cristo
si trovi la rivelazione della Verità stessa, dobbiamo riconoscere che tutta la
verità, ovunque la si incontri, è contenuta implicitamente nel cristianesimo»
(FD 226)
A volte, gli volgiamo le spalle e vediamo
la sua luce riflessa sul volto di chi, invece, lo sta contemplando con
dedizione, magari senza sapere che quel bagliore che lo ha affascinato proviene
dal Signore. A volte ammirando, all’esterno del Vangelo, questo o quell’altro
colore, possiamo riscoprire meglio ciò che avevamo rifiutato di scorgere in
esso. Se osservando le singole religioni, dobbiamo apprezzarle perché ammiriamo
in esse le opere compiute da Cristo oltre i nostri confini culturali (MO
44-45), non capiterà mai che esse portino al Vangelo qualcosa che non aveva e
che sarebbe stato necessario per ottenere la salvezza. Tuttavia «la Chiesa
ancora attende la sua perfezione sulla terra. Deve essere diffusa fra tutti i
popoli per poter manifestare tutte le ricchezze di Cristo» (FD 227). Le potrà
manifestare, quando saprà integrare nella sua teologia gli apporti particolari
che provengono da ogni cultura: «Ci dobbiamo aprire alla rivelazione del
mistero divino, avvenuta in Asia nell'induismo, nel buddhismo, nel taoismo, nel
confucianesimo, nello shintoismo. Ne possiamo dimenticare la sapienza intuitiva
dei popoli primitivi, come gli aborigeni dell'Australia, gli abitanti della
Polinesia, i boscimani dell'Africa, gli indiani d'America e gli esquimesi. In
tutto il mondo lo Spirito ha lasciato i segni della sua presenza. Il mistero
cristiano è il mistero della presenza di Dio nell'uomo. Non possiamo trascurare
alcun segno di questa presenza» (MO 219).
Egli rileva come in tutte le culture, da
sempre, era stata avvertita la necessità di restare in comunione con la
divinità, onorata come il centro della persona e della comunità (RC 31 Mircea
Eliade). «Lo vogliamo o no, tutti gli uomini sono continuamente attratti da
questa Verità trascendente. L'intelletto… è alla ricerca dell’Assoluto. Anche
la volontà è mossa dall'amore dell'Infinito. In ogni amore umano c'c una
tensione verso l’Infinito, il desiderio di trascendere se stessi. Questa
tendenza è presente nell’ateo e nell’agnostico, nell'ignorante e nello stupido
come nel saggio. È ciò che da un valore infinito alla persona umana. Ogni sforzo
volto a negare questa tendenza, a confinare la vita umana nel finito e nel
temporale è destinato a fallire, perché è voler combattere contro natura» (RC
93)
P. Bede sostiene che ad accomunare tutte le religioni sia la
medesima esperienza del Mistero Sacro, inconoscibile e inesprimibile, esperito
come Tenebra Luminosa (RC 39-40; 142-162). Qui c’imbattiamo in un punto
nevralgico della sua teologia. Sarebbe stato opportuno, allora, distinguere,
meglio, tra conoscibilità e incomprensibilità di Dio. Dio può essere conosciuto
(altrimenti nessuna religione ne parlerebbe) (RC 40), ma la sua essenza,
essendo infinita, non può essere afferrata appieno dal pensiero umano. Egli
rimane sempre, perciò, incomprensibile ed inesprimibile.
Secondo la fede cristiana, l’Abisso della divinità si è rivelato
come Padre poiché «Gesù stesso lo ha conosciuto come Abba, Padre» (RC 42). Nel
cristianesimo, quindi, l’incomprensibilità di Dio (o ineffabilità) dipende
dalla profondità abissale di ciò che ci è stato rivelato, non dalla radicale
ignoranza su di Lui.
Connessa all’esperienza del mistero ineffabile, sta la questione
della personalità o impersonalità di Dio. Per il cristianesimo Dio ha un
carattere personale, nell’Induismo viene affermata l’una e l’altra
caratteristica, ma per lo più è pensato come una realtà impersonale. Ciò
nonostante, P. Bede valorizza quei luoghi della letteratura religiosa quegli
autori che sostengono una concezione personale della divinità (RC 145).
Emanazione e creazione
L’Induismo pensa che tutto il cosmo sia un’emanazione dell’essere
divino, impersonale (Brahman), mentre il
Cristianesimo ritiene che esso sia stato creato da un Dio, personale.
L’emanazione presuppone un atto involontario, che avviene di necessità, mentre
la creazione avviene per un atto volontario.
Il mondo, in quanto è emanazione, non ha un vero essere ma si mostra
in una realtà apparente (maya), illusoria, e si
trova in uno stato di degradazione rispetto all’unità con l’Assoluto. P. Bede,
pur pensando che il mondo è stato creato, cerca di recuperare in parte la
concezione di esso come illusione, dal momento che sulla terra facciamo
esperienza del male: «Il peccato è il fallimento nel realizzare il Sé, è il
cadere in un sé separato e diviso, che è essenzialmente illusorio dal momento
che ha perso il contatto con il suo essere reale» (RC 43). Inoltre afferma: «Il
mondo reale è quello che esiste eternamente in Dio» (RC 43); è quello
recuperato da Cristo Risorto: «Egli è andato oltre lo spazio e il tempo e oltre
i limiti della nostra attuale esistenza e coscienza. Nel fare ciò ha realizzato
questo mondo nella sua totalità, nel suo essere nel Verbo» (RC 45). Qui, p.
Bede pur rilevando una diversità di concezioni, cerca di trovare un punto di
vista, con quale sia possibile valorizzare in qualche modo la convinzione del
diverso.
L’induismo ha scoperto il Sé, una
concezione della persona molto apprezzata da p. Bede (RC 30). Il Sé va
descritto più che definito. Corrisponde alla capacità dell’io «di trascendere
se stesso, la capacità di poter donare totalmente se stesso ad un altro, di
trascendere se stesso donandosi ad un Io superiore, l’Atman, lo Spirito
interno» (RC 29).
Dal punto di vista cristiano, «Cristo è il
Sé dell’umanità redenta» (RC 46). Il Sé può corrispondere all’uomo interiore di
cui parla Paolo, oppure allo spirito dell’uomo che comunica con lo Spirito di
Dio (RC 155). Su questo punto le differenze sembrano conciliabili più
facilmente. L’uomo redento, che ritiene di essere una creatura e non una
particella divina, può, anzi deve sperimentare il Sé.
Nell’Induismo l’esperienza di salvezza per la persona consiste in un
ritorno alla sua origine essenziale. Ogni uomo è una particella dell’essere
divino e, come tale, trova la la salvezza lasciandosi assorbire da esso.
Nella religione cristiana, l’Unico che esiste senza essere stato
creato, è Il Verbo, divenuto poi, nell’incarnazione, il Cristo. Riguardo a
questa Ipostasi divina, non si dice che è stato emanato ma generato
dall’eternità.
Mentre il fedele indù anela all’assorbimento con l’Assoluto da cui
deriva, la vita cristiana è pensata come una vera partecipazione all’essere o
alla vita del Dio Verbo. In entrambi i casi, la salvezza corrisponde alla
conformazione alla vita divina; usando un termine ardito, ad una deificazione.
P. Bede non approverebbe che si parli d’assorbimento (come ho fatto
io) perché ha rilevato che, anche in alcune scuole induiste, nell’unione
massima con l’Assoluto, l’individuo conserva la sua identità (RC 157) ma altri
interpreti preferiscono interpretano in modo diverso, e parlano di un
assorbimento dell’anima individuale nella divinità.
Nell’esporre il mistero cristiano, egli riprende il linguaggio
biblico, più vitale rispetto a quello filosofico usato dai Padri e più vicino
alla cultura indiana.
«Gesù fece esperienza di se stesso in
relazione a Dio come di un figlio con il Padre ma questa figliolanza non era
semplicemente temporale, bensì eterna. Egli conobbe se stesso come veniente dal
Padre, non solo nel tempo, ma da tutta l’eternità. Egli conobbe se stesso come
uno eternamente col Padre, come dimorante nel Padre ed il Padre in lui. Inoltre
conobbe se stesso come comunicante nello Spirito, che viene dal Padre ed è
comunicato al mondo; anche questo non è solo nel tempo, ma fin dall’eternità.
Per capire il mistero della Trinità è necessario partecipare alla esperienza di
Gesù. È necessario ricevere lo Spirito di Dio, condividerne la vita» (RC 134).
Dopo aver richiamato la preesistenza del Verbo e la sua figliolanza
eterna, menziona lo Spirito per rendere possibile la nostra partecipazione al
rapporto che Gesù ha con Dio Padre:
«Se noi vogliamo conoscere il mistero,
dobbiamo condividere l’esperienza di Gesù, ci dobbiamo conoscere come figli di
Dio, eternamente venienti dal Padre, come parola che esprime la mente del
Padre. Noi ci dobbiamo riconoscere come Dio, Dio per partecipazione nella
divinità di Cristo, come partecipiamo alla sua umanità» (RC 136).
Con queste parole, ci invita a fare esperienza: non dobbiamo
soltanto sapere che siamo figli, ma sperimentare e riconoscere che di fatto
cresce in noi questo essere figli. Riguardo alla deificazione, usa un
linguaggio ardito ispirandosi alla mistica renana, soprattutto ad Eckhart (Cf.
RC 150, nota 20).
Affermando questo, tuttavia, non intende annullare la differenza
(ontologica) che esiste tra il Verbo, che è Dio, e il cristiano, che è uomo e
creatura. «Una persona umana è un essere finito, che possiede un intelletto
finito ed una volontà finita» (RC 165). Tuttavia il termine del viaggio di ogni
uomo (non solo del cristiano) prevede un passaggio dell’umano nel divino, del
temporale nell’eterno, del finito nell’infinito (RC 167).
P. Bede ha avuto l’indubbio merito di aver valorizzato l’esperienza
mistica nella vita cristiana.
Cosmologia e storia
Il cristianesimo è uno sviluppo dell’ebraismo, una religione che si
basa sulle azioni storiche di Dio, compiute a favore del suo popolo. Il popolo
ebreo era animato, poi, dalla speranza d'un intervento escatologico di Dio che
avrebbe introdotto una nuova creazione, un tempo messianico. Gesù, inserendosi
in questa prospettiva d’attesa, dichiarò di essere venuto a inaugurare i tempi
nuovi.
L’Induismo non si basa su eventi storici ma sulla rivelazione di Dio
nel cosmo e nell’anima dell’uomo religioso.
«Mentre l’Induismo appartiene alla
rivelazione cosmica (la rivelazione di Dio attraverso il cosmo e l'anima umana)
Gesù appartiene alla rivelazione storica, la rivelazione di Dio nella storia di
un particolare popolo. Una caratteristica di questa rivelazione è che essa non
avviene nel tempo ciclico e mitologico ma nel tempo storico. Le discese di Dio (Avatara) nell'Induismo sono un evento ricorrente; per principio ogni età ha
la sua avatara. In Israele la storia è vista come qualcosa che ha una fine, un
escaton. Gesù è stato visto come colui che arriva alla fine della storia» (RC
104; cf. )95-98).
P. Bede torna più volte a rilevare il
carattere escatologico dell’evento Cristo; la sua venuta modifica determina un
mutamento decisivo nell’umanità:
«Gesù era un uomo in cui il corpo e l’anima
erano puri strumenti per lo spirito che li inabitava. In lui è giunto a
compimento il destino umano. Mentre nell’universo c'è conflitto ad ogni
livello, e l’anima e il corpo sono in conflitto l’una contro l’altro, in Gesù
questo conflitto è stato superato. Corpo e anima sono stati restaurati in unità
con lo spirito, ed il potere di unificazione è stato liberato e immesso nel
mondo» (CU 28).
Nella stessa pagina, aggiunge di seguito, un secondo rilievo: la
morte di Cristo è paragonabile ad uno di quegli eventi cosmici che determinano
un mutamento critico nel processo evolutivo cosmico: «Così noi possiamo
guardare alla morte di Gesù e alla libera restituzione della sua vita al Padre
sulla croce, come ad un evento cosmico. Alcuni eventi cosmici, cioè l’emergere
della vita su questo pianeta, il destarsi della coscienza nell’uomo,
contrassegnano dei mutamenti critici nella evoluzione del mondo. La morte di
Gesù fu un evento di questo genere» (CU 28-29).
È molto efficace l’idea che Cristo, dopo aver superato il conflitto
tra anima e corpo, abbia messo a disposizione di tutta l’umanità la sua
vittoria, immettendo nel mondo questa capacità. La riflessione evoca un passo
paolino: «(Dio) mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del
peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato (=vinto) il peccato nella
carne, perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo
non secondo la carne ma secondo lo Spirito» (Rm 8,3-4).
Nell’immagine, invece, del mutamento critico, del resto molto
interessante e suggestiva, il valore dell’evento escatologico viene attenuato.
La croce, infatti, viene vista come uno dei molteplici passaggi qualitativi,
non come l’unico decisivo che determina il verificarsi tutti gli altri
mutamenti, prima e dopo.
La redenzione di Gesù, culmine della storia della salvezza, possiede
un valore universale. P. Bede parla di un Cristo cosmico che ha operato ed
opera in tutti gli uomini (CU 40-41; FD 228; MO 44-45).
Già i Padri della Chiesa si erano interrogati sull’universalità
della salvezza compiuta da Cristo. In particolare si chiedevano: quale fu il
destino degli uomini che lo avevano preceduto nel tempo? I pagani obiettavano:
perché Cristo è venuto così tardi, tralasciando di prendersi cura delle
generazioni passate?
S. Paolo aveva sostenuto che Cristo s’era già fatto conoscere nella
storia d’Israele anche prima d’incarnarsi. Ad esempio, come roccia spirituale,
accompagnava già Israele che camminava nel deserto (cf. 1 Cor 10,4); è Lui che
ha rivolto la sua parola a Mosè e ai profeti (cf. Gv 5,46). La legge
dell'Antico Testamento è dello Spirito (Rm 7,14); essa è stata per noi
pedagogo, fino a Cristo (Gal 3,24), avendo così una funzione propedeutica verso
di lui. I Padri, a loro volta, dissero che Cristo si era già fatto conoscere
agli uomini d’Israele, in modo misterioso, ancora prima di manifestarsi nella
carne.
P. Bede completa questa
riflessione: se Cristo ha visitato in modo invisibile gli antichi Israeliti,
può essere venuto in soccorso anche di tutti gli altri uomini: «Possiamo vedere
il Cristo Cosmico che opera negli e attraverso gli Israeliti, che parla
attraverso i patriarchi e i profeti. In modo simile possiamo vedere l’Essere
Cosmico che avanza nelle e attraverso le grandi religioni di ogni età… Cristo è
certamente l’Alpha e l’Omega, il primo e ultimo, colui che abbraccia tutta la
storia dandole senso e direzione» (CU 40 e 41). Quindi, se i teologi insegnano
che, in ogni tempo, ci sono state persone che hanno potuto dire il loro sì a
Dio e lo hanno potuto realizzare in una vita redenta, egli aggiunge che non solo in ogni tempo ma
anche in ogni luogo si è verificata questa salvezza.
Cristo non ha riversato la sua grazia pasquale, in modo anticipato
soltanto su Israele ma su tutto il cosmo. La creazione, che è stata creata in
Cristo, per mezzo di lui e verso di lui orientata, di lui che è la pienezza (Ef
1,23), è di fatto segnata, sostenuta e avvolta dalla grazia di Dio in Gesù
Cristo.
Anzi, osserva G. Greshake, «Dio poteva «rischiare» la creazione poiché
egli a priori poteva affrontare tale rischio
alla sola condizione di coinvolgere se stesso in esso e di aprire, prendendo se
stesso come punto di partenza, una via attraverso un intrico impenetrabile. E
ciò è avvenuto mediante la passione del suo proprio Figlio - che ha patito il
male attraversandolo. In questo senso, anche per
Hans Urs von Balthasar, come per Karl Rahner, tutta la creazione è già da
sempre pre-redenta, e precisamente già prima della sua creazione e quindi anche
prima della sua possibile e reale caduta» (Greshake, 275).
Tuttavia, nonostante questa azione concomitante del Cristo in
Israele e nelle genti, rimane anche una profonda differenza poiché la storia
d’Israele prepara in modo diretto la venuta di Cristo (Cf. Il Cristianesimo
e le Religioni, Commissione teologica
internazionale, 1997, n. 85).
L’evento della Croce
Il confronto più serrato cristianesimo e l’induismo, avviene quando
mette a confronto Cristo e Krishna, una delle maggiori divinità dell’Induismo;
l’Uno e l’Altro sarebbero manifestazioni del Mistero divino in termini umani,
con la differenza che il secondo presenterebbe in modo prevalente un carattere
leggendario. A prescindere dalla sua storicità, Krishna rimane ugualmente un
simbolo dell'amore divino in sembianza umana; per mezzo di lui l'Essere
Supremo, si rivela come amore e domanda amore in contraccambio. «L'amore di
Krishna è un amore ideale, che si manifesta a Vrindabhan, la città celeste del
mondo mitico. È un amore estatico capace di strappare una persona a se stessa
ed attirarla a sé in un atto di totale dedizione. Soprattutto è un amore pieno
di gioia. Si dice che Krishna è venuto nel mondo per divertirsi, per
manifestare il gioco di Dio, lila, la felicità
dell'amore ananda» (RC 100).
Nonostante alcune analogie tra le due figure, secondo il Nostro, tra
l’amore di Cristo e quello di Krishna esiste «un contrasto impressionante
(striking)».
Gesù ha vissuto da uomo
concreto, come servo, nell’umiliazione e nel dolore: «L'amore di Dio è rivelato
in Cristo non nella poesia ma nella storia ed è mostrato nell'autodonarsi agli
altri, nel rinunziare alla propria vita sulla croce. “Il Figlio dell'Uomo è
venuto per servire non per essere servito e per dare la sua vita come riscatto
per molti” (Mt 20,28). Infine questo amore si è rivelato non in un gioco ma in
un'agonia di sangue e sudore, nella sofferenza non nella gioia» (RC 101).
Avendo notato questa profonda differenza, egli si pone una domanda
che ritiene cruciale: «Ma ha l'Induismo un posto
per un Dio che soffre e muore sulla croce? Per
un Dio che entra nella storia? Per un amore che è sperimentato nella sofferenza
e nell'abbandono? Forse questa è la domanda cruciale» (RC, 101).
P. Bede cerca di mettere a fuoco il significato della croce di
Cristo. Ricorre all’immagine di due movimenti opposti che, però, alla fine
s’incontrano: il movimento di ascesa verso Dio, tentato dall’uomo e il
movimento di discesa verso il mondo, realizzato da Dio. Il punto d’incontro tra
i due movimenti avviene proprio sulla croce di Cristo. «Il movimento di Dio
autodonantesi in amore all’uomo si incontrò in una persona, e la salvezza del
mondo fu compiuta. Questa fu compiuta al limite estremo della sofferenza umana,
nel punto dove tutte le potenze dell'inferno erano concentrate» (RC 110).
Nella riflessione di p. Bede, tra i due
movimenti rilevati, l’ascesa e la discesa, prevale il primo: Gesù è l’uomo che,
aprendosi in modo totale a Dio e rinunciando a se stesso nel modo più completo,
rivela quale sia il compito dell’uomo e la sua più alta realizzazione. È
l’umanità che ascende a Dio, che corrisponde in modo pieno al suo disegno. In
Gesù Crocifisso la risposta dell’uomo a Dio è perfetta (Cf. CU 74). «In questo
punto si incontrarono cielo e inferno… Qui si è rivelata la totale realtà della
situazione umana, il suo totale esporsi alla Verità ultima» (RC 110).
Non dimentica, però, il movimento più significativo, quello della
discesa. Infatti nella decisione di farsi carne del Verbo, Dio ha rivelato
pienamente se stesso, ha mostrato la caratteristica più paradossale dell’essere
divino che consiste nella volontà e nella capacità di “svuotarsi” pur di
salvare gli uomini. Sulla terra, Gesù vive uno stile di servizio che aveva
progettato come Dio, insieme al Padre. Non rivela in primo luogo la serietà di risposta
data all’uomo a Dio, ma la serietà della volontà di donazione da parte di Dio.
Qui sta la differenza, la novità radicale della concezione di Dio dell’annuncio
cristiano rispetto ad ogni altra religione.
L’Essere supremo, il Mistero sacro, il Brahman si rivela nel mostrare nel cosmo le sue qualità divine (Potenza,
Sapienza, Beatitudine). Su questo aspetto convengono con facilità Induismo e
Cristianesimo. Tuttavia la rivelazione di Dio nella croce di Cristo, acquista
un’intensificazione dal carattere nuovo, unico e paradossale, impensabile da
parte della saggezza umana, anche da quella più acuta e più religiosa. «La
novità cristiana è che non si può più conoscere Dio senza il suo diventare uomo
e senza la sua morte in croce in Gesù Cristo… la quale è il fallimento e il
superamento dell’idea stessa di Dio» (P. Coda, 411-412). Dichiara Paolo a
questo proposito: «Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero,
che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra
gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero
conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma, come sta
scritto: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono
in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (1 Cor 2,7-9).
Riletture cristiane dell’Induismo
1. Che cosa può significare per un cristiano il concetto di
non-dualità, un attributo che l’Induismo applica alla Realtà divina? Per
spiegarlo, traccia un percorso di trasfigurazione del mondo e dell’uomo, in
prospettiva evoluzionistica, accogliendo la convinzione indù secondo la quale
solo l’assoluto possiede la pienezza dell’essere e, a suo confronto, l’uomo e
le cose sono non-essere.
Come avviene il processo evolutivo? Prima fase contempla il
passaggio dalla materia alla coscienza. La materia inerte si organizza come
cellula vivente e poi, in seguito, appare come coscienza umana. Sono tutte
forme in cui il cosmo acquista realtà, passando dal non-essere ad una vita
sempre più vera.
La seconda fase osserva tre modi di
estensione della coscienza: lo scienziato, il poeta e il mistico: «…nella
coscienza umana ordinaria, il mondo è solo parzialmente reale; il mondo della
scienza è un mondo di astrazioni di certi aspetti parziali della realtà, gli
aspetti che possono essere misurati in spazio e tempo, ed astratti dal tutto;
il poeta è più vicino ad una visione globale, il mondo comincia ad essere
trasfigurato in lui; ma è solo il mistico che è presente alla trasfigurazione
finale ed intravede la visione del mondo trasfigurato nella luce divina» (RC
56).
La terza fase immagina la risurrezione
finale. Allora «la coscienza umana sarà trasformata dalla luce divina, non più
condizionata dal tempo e dallo spazio e la materia sarà trasformata in noi. Noi
vedremo tutta la creazione nella sua Verità eterna quando noi stessi saremo
così cambiati da essere diventati uno con la eterna Verità» (RC 56).
In questa condizione ultima, escatologica, viene superata la
dimensione del tempo perché l’eternità è «tota simul»: tutto il tempo sarà
presente (RC 57). Appare, soprattutto, come esperienza di profonda unità:
«Nell’eternità i molti sono contenuti nell’uno senza perdere la loro
individualità» (RC 57).
P. Bede si preoccupa di precisare che l’unità o non-dualità non
significa affatto un assorbimento nella divinità che annulla l’individualità: «La
creazione perde il suo significato se non vi è distinzione nello stato finale,
se ciascuno e ciascuna cosa è persa in Dio e Dio è perso nell'Uno, l'Assoluto,
l’Essere non-duale. Dio stesso rimane eternamente Creatore, tutte le creature
provengono da Lui eternamente nella Parola. Esse sono conosciute e volute,
ciascuna nella loro particolarità come espressioni finite dell’Essere infinito»
(RC 58).
Per garantire il rispetto delle differenza nell’unione completa con
la divinità, richiama il Mistero Trinitario, dove l’unità di Dio è vissuto come
una relazione di Ipostasi distinte: «… nella Divinità, benché non ci sia
dualità, vi è una relazione» (RC 58). Tuttavia, successivamente, riconoscerà
che nella concezione induista il rischio di pensare ad un annullamento
nell’Assoluto stesso di tutto ciò che non è l’Assoluto, è molto alto (MO 194 e
196).
2. Vediamo ora un secondo caso. Come recuperare il concetto di
non-essere (maya) che l’Induismo attribuisce al
mondo?
L’uomo in se stesso è nulla, è desiderio di essere ma non ha essere
in se stesso. A motivo di questa mancanza è semplice creatura, distinta da Dio,
il quale è, invece, l’essere in se stesso. Questa assenza di essere è maya.
La creatura «non è assoluto non-essere,
nulla assoluto, dal momento che è potenzialità ad essere, tuttavia questa
potenzialità non ha l'essere in se stessa. L'essere della creatura viene
totalmente da Dio, e la creatura non è Dio appunto per questa limitazione di
essere. La creatura è limitata, è un essere finito nel quale l'Essere infinito,
Dio, si riflette» (RG 59).
In questi due esempi, egli rivisita
l’Induismo e lo adatta alla concezione cristiana. La non-dualità viene
ammorbidita grazie al concetto di relazione, con cui vengono contrassegnate le
Ipostasi della Trinità. Il non-essere delle creature viene rivisto e
considerato alla stessa maniera con cui nella metafisica classica (cristiana)
si parla di finitezza o di contingenza dell’essere relativo.
3. Nell’ultimo capitolo di Ritorno al
Centro, constata una profonda continuità tra la via
dell’unione con Dio prevista dallo Yoga con quella cristiana. Dopo aver
accennato alle consuete divergenze tra varie scuole indù (RC 161), dichiara che
lo Yoga (termine che significa via, giogo, vita impegnata) presuppone il
movimento acensionale dell’uomo verso Dio, ma anche il movimento di discesa
delo Spirito nella profondità della materia. Dal punto di vista cristiano ciò è
avvenuto nella Risurrezione di Gesù e nella persona di Maria (RC 162-163).
Richiama lo schema classico di Patanjali che prevede otto stadi di
trasformazione. Dopo l’ascetismo e l’autocontrollo, altri stadi sono dedicati
alla pratica del controllo del corpo e del respiro; la meditazione, infine,
permette di raggiungere lo stato finale (samadhi), che è una perfetta
concentrazione della mente.
Ricorda che esistono altre forme di Yoga:
la via dell’azione, della devozione, della conoscenza. Nella via dell’azione, è
importante il distacco (o gratuità); in quella della devozione, la
sottomissione all’amore divino; nella via della conoscenza, l’accoglienza
dell’ispirazione che viene dall’alto. Il risultato è entrare nel Mistero
ultimo, un’esperienza di carattere ineffabile (RC 167). Queste vie sono
attestate anche nel Cristianesimo e le due religioni sostengono la possibilità
dell’esperienza dell’Assoluto, al di là di come è concepito. L’esperienza vale
più delle opinioni. P. Bede richiama, infine, la possibilità della
deificazione, annunciata dai Padri (Sant’Atanasio), riconosciuta anche da altri
mistici (Francesco di Sales) (RC 169).
Un primo bilancio
«Tutte le religioni hanno insegnato qualcosa della
via della salvezza, ma c’è una sola Via assoluta. Cristo è la Via, la Verità e
la Vita, e senza di Lui nessun uomo viene al Padre» (FD 228). Questa era la sua
convinzione riguardo alle religioni nel momento in cui divenne cattolico.
Nel frattempo, nell’ambito della teologia cattolica,
il tema delle religioni, aveva suscitato un interesse più ampio rispetto al
passato. Nel 1963, il teologo Heinz Robert Schlette pubblicò, a Friburgo in
Brisgovia, il libro Die Religionen als Thema der
Theologie. In quest’opera, per la prima volta, le
religioni erano poste come argomento della teologia e dichiarava che avevano un
valore salvifico. Schlette andava oltre a quello che sarebbe stato il dettato
del Concilio, due anni dopo.
La dichiarazione
del Concilio Vaticano II (1965) attestò che le religioni contengono elementi di
verità, in preparazione al Vangelo (Nostra Aetate, 2). Dopo questa dichiarazione che, pur bandendo ogni forma di
esclusivismo rimaneva piuttosto restrittiva, i teologi cominciarono a discutere
se le religioni, oltre a presentare qualche verità, non fossero istituzioni
salvifiche, con riti efficaci, pari o almeno simili ai sacramenti cristiani.
Ciò venne sempre escluso dalle dichiarazioni ufficiali e la discussione perdura
anche al presente.
In Ritorno al Centro p. Bede appare convinto che le religioni «non sono
che differenti espressioni dell’unica Verità e ciascuna ha la sua particolare
intuizione» (RC 129). Esse, sarebbero allora molto di più di semplici raggi «di
quella verità che illumina tutti gli uomini», ma possederebbero una loro verità
di grande valore.
Consapevole delle radicali differenze esistenti tra
Induismo e Cristianesimo, continuava ad approfondire la conoscenza della
religione indù, per vedere come fosse possibile coniugarla con quella
cristiana. Del resto aveva scritto: «Le rivelazioni dei
Veda, delle Sutre buddhiste, del Corano devono essere vagliate alla luce della
rivelazione biblica e tra loro» (RC 134).
Nel confronto
non usa soltanto il criterio vero o falso, ma là dove riscontra un messaggio
che, a suo giudizio, non è condivisibile del tutto, cerca di scoprire il motivo
per il quale è sorta una certa opinione e si sforza di salvaguardare almeno la
verità parziale presente in ogni opinione. «Non dobbiamo limitarci a rifiutare
l’errore, ma dobbiamo anche imparare la verità dalla quale l’errore ha preso
vita» (FD 227).
Matrimonio tra Oriente e Occidente
L’opera Matrimonio tra Oriente e Occidente, pubblicato a Glasgow nel 1982, è il testo in cui compare con
maggiore chiarezza l’utopia e il messaggio di p. Bede: integrare l’Oriente con quell’Occidente, il primo visto nel simbolo
della femminilità (contemplazione, intuizione), il secondo in quello della
mascolinità (azione, ragione).
Per favorire quest’unione, per così dire, cerca di migliorare
l’aspetto della sposa (l’Induismo) per renderla più attraente al marito occidentale,
ben consapevole che, tra gli induisti esistono diversità consistenti
nell’interpretazione della loro religione e che alcuni pensatori indù hanno
cercato di riformarla (MO 24-25).
Diversità rilevanti
In una sintesi, mette a fuoco le differenze tra la concezione
biblica e quella induista. Nella Bibbia «… Dio è rappresentato come il trascendente, signore della
creazione… separato e superiore alla natura, che non deve mai venir confuso con
essa; nella tradizione orientale, Dio o l'Assoluto (qualunque sia il nome che
gli si da) è immanente a tutta la creazione: il mondo non esiste separato da
Dio, ma in Dio.
Il pericolo di questa posizione è che Dio può facilmente venir confuso con la
natura; l'aspetto trascendente dell'Essere può venire dimenticato e, conseguentemente,
si può cadere nel panteismo. Inoltre, dato che si concepisce Dio presente in
tutto, nel male come nel bene, la distinzione tra bene e male può facilmente
svanire.
Ma
forse la più grande debolezza della tradizione orientale è che il mondo materiale
tende ad essere Considerato come un'illusione, maya, il prodotto dell'ignoranza,
avidya. Si considera il mondo materiale come avente solo una realtà apparente:
nell'ultimo stato della conoscenza (paravidya) tutte le differenze scompaiono e
amane solo l'Uno, la Realtà assoluta. La prima volta che venni in India trovai
che quasi tutte le persone colte indù seguivano questa teoria e tutti
pretendevano di seguire gli insegnamenti del grande Sankara. Ma l'esperienza e
gli studi seguenti mi hanno foavuto che non è questo l'insegnamento delle
Upanishad della Bhagavad Gita…» (MO
24).
Il valore del mito
Nella
nuova ricerca abbandona l’uso del termine biblico mistero a favore del termine mito, che pure
aveva già usato anche in precedenza (RC 94-99). Come mai compie questa
operazione?
Vuole recuperare le migliori intuizioni che aveva avuto nel periodo
giovanile, quando era profondamente toccato dal mistero della Natura, e s’era
fatto sostenere dai poeti romantici (Wordsworth, Shelley, Keats) (MO 55; del
resto il cristiano, e il cristianesimo in generale, devono saper accogliere
tutte le istanze religiose e culturali positive presenti nell’umanità (MO 219;
cf RC 89-90).
Il mito aiuta a comporre insieme ragione e immaginazione; ad
assegnare il primato all’esperienza piuttosto che alle concezioni razionali (MO
169-189). «Prima di rivelarsi come ragione, la verità si fa conoscere
attraverso l’immagine… La Bibbia usa abitualmente il linguaggio del mito e del
simbolo; anche quando vi è una base storica, tutto è elaborato
dall’immaginazione... è uno sbaglio pensare che il linguaggio astratto della
ragione ci porti più vicino a Dio o alla realtà… Il linguaggio del mito, della
poesia, dell’immaginazione concreta fa presa sui sensi, sui sentimenti, sugli
affetti, sulla volontà, come anche sulla ragione, e così porta alla
trasformazione di tutto l’uomo» (MO 117).
Il mito permette di superare le ristrettezze del metodo
storico-critico nell’ambito dell’esegesi biblica. P. Bede rivaluta l’esegesi
dei Padri (particolarmente Origene) i quali, dopo aver ammesso l’esistenza di
un senso storico del testo, cercavano di renderlo più ricco e completo
accogliendo altri sensi, come l’allegorico e l’anagogico. «Solo ora, con una
più profonda comprensione del senso e del valore del mito… saremo capaci di
recuperare qualcosa del senso più profondo della Bibbia» (MO 124).
Ritiene necessario porre a confronto racconti mitici ed eventi
storici. Il mito senza storia non ha valore perchè si perde nella pura
immaginazione, così pure la storia senza l’elaborazione mitica, perchè si
smarirebbe nella contingenza, ma «quando gli eventi storici sono visti come
fatti che rivelano l’ultimo significato della vita, allora mito e storia si
incontrano». Nelle religioni orientali talora il mito prevale al punto da
rendere impossibile una separazione tra fatti e invenzione (fact and fiction
can no longer be separated) (RC 96).
La rivelazione biblica rappresenta un caso unico perchè altri
popoli, come gli indù, svilupparono una mitologia ricca, dalla quale ricavarono
una profonda filosofia della vita, ma non dettero alcuna rilevanza alla
storicità dei fatti. I greci, al contrario, ebbero il senso della storia ma non
la misero in relazione con la mitologia (RC 97). Ora «in Gesù, mito e storia si
incontrano» in modo perfetto (RC 96). Gli eventi storici della sua vita ebbero
un ampio significato, superarono la contingenza della cronaca in quanto erano
rivelazioni di un progetto divino. Se di lui si fossero narrati soltanto fatti
mitici, privi di consistenza storica, questi non sarebbero altro che
manifestazioni della psiche. Avrebbero magari un significato umanistico ma non
sarebbero stati redentivi e la venuta sullaterra non avrebbe trasformato il
mondo.
Le caratteristiche della religione indù
Nel cuore dell’opera, si sforza di mostrare che le intuizioni
portanti della religione induista, così come sono interpretati da alcuni
teologi indù, sono compatibili con la teologia biblica.
Nel presentare, come primo passo, la visione cosmica dei Veda (MO 55-67), fa notare che l’importanza di questa concezione sta
tutta nel sottolineare il valore deciso che ha per ogni uomo la relazione con
Dio: «… oltre il corpo e l’anima, integrato con essi c’è lo spirito, punto di
contatto con lo Spirito universale… Questo è il punto dell’umana trascendenza,
il punto nel quale il finito e l’infinito, il temporale e l’eterno, il
molteplice e l’uno, s’incontrano e si toccano» (MO 66).
In un secondo momento, nel confronto con la rivelazione delle
Upanishad (68-86), apprezza la scoperta del Sé e riscontra la medesima
esperienza nei mistici cristiani (68-86). Cita Francesco de Sales (MO 85). [Sul
tema della cima dell’anima, cf. Mino Bergamo, L’anatomia dell’anima. Da
François de Sales a Fenelon, Il Mulino, Bologna
1991, 63-141]
Nella terza parte sostene che nell’Induismo è presente l’idea di un
Dio personale nella Baghavad-Gita e nella
contemporanea Svetasvatara Upanishad (MO 87-95).
Può essere compresa meglio anche la dottrina della non-dualità (MO
96-102). A questo proposito, nega che l’induismo affermi la concezione
dell’assorbimento in Dio dell’uomo: «Non c’è dubbio che l’individuo perda ogni
senso di separazione dall’Uno e sperimenti una totale unità con esso. Ma ciò
non significa che l’individuo cessi di esistere» (MO 101). Tuttavia riconosce
che nella religione induista è molte forte il rischio di pensare ad un
annullamento nell’Assoluto di tutto ciò che non è l’Assoluto (MO 194 e 196).
Dopo aver sostenuto che l’Induismo accoglie anche il concetto di un
Dio personale, si propone di mostrare che Egli, come il Dio biblico, è amante
degli uomini (MO 103-107). A questo scopo, ricorre alla Bhagavad-Gita.
Qual è l’esperienza comune che tutte le religioni avrebbero
conosciuto, lo scopo unico a cui tutte mirerebbero, grazie alla quale
potrebbero riconciliarsi e considerarsi ognuna una via per raggiungere la
medesima meta? La risposta sembra semplice: l’unione con l’Assoluto (Cf. RC
92). Così aveva scritto in Ritorno al Centro:
«Lo scopo di ogni religione è identico. È lo stato trascendente e assoluto,
l’unica Realtà, l’eterna Vertà, che non può essere espressa o concepita, ed è
lo scopo non solo di ogni religione ma di tutta l’esistenza umana» (RC 92).
In questo passo, l’Assoluto è identificato con una Perfezione
impersonale, che non può essere conosciuta né espressa. Anzi è la
partecipazione ad uno stato di beatitudine, eterna e senza limiti. La metà non
è quindi l’unione con Dio (in termini cristiani) ma raggiungere uno stato di
appagamento completo. In questo passo, allora, si parla dell’Assoluto in
termini indù e tale esperienza non è affatto universale come presupponeva.
In MO si esprime con maggior precisione.
Avverte, intanto, una difficoltà. «C’è sempre il pericolo che l’essere divino o
la realtà assoluta venga concepita in termini statici. È infinito, eterno, non
mutevole oltre il flusso del tempo e le divisioni dello spazio, oltre ogni
immaginazione e ogni pensiero… » (MO 103).
Che cosa manca a questo genere di Assoluto
per diventare più dinamico? «Ma quest’essere divino, questa realtà assoluta, è
anche amore comunione, autodonarsi nell’amore» (MO 105).
P. Bede, alla fine, menziona la Trinità:
«L’amore cerca di comunicarsi. Questo scopo rimarrebbe insoddisfatto, se non ci
fosse uno col quale condividere quest’amore. Ma significa questo che nella
divinità c’è dualità? Qui entra in gioco il concetto di relazione, sviluppato
nella dottrina cristiana della Trinità» (MO 107). L’esistenza della Trinità è
la migliore rassicurazione contro il pericolo dell’impersonalità di Dio e
dell’assorbimento in Lui ( Cf. RC 54).
Il mito di Cristo
Nell’opera ritorna ad esprimere in modo
compiuto (senza talune esitazioni precedenti), la singolarità di Gesù come
evento escatologico. La “rivelazione” di Dio donata a tutti gli uomini è
avvenuta sempre per la grazia di Cristo: «Dio si rivela in tutti i tempi, a
tutti gli uomini, in tutte le circostanze. Non ci sono limiti alla grazia di
Dio, rivelata in Gesù… Il dono della vita eterna è offerta in qualche modo a
tutti gli uomini senza eccezione» (MO 45). In Cristo compare una santità unica:
«È stata tolta da lui ogni ambivalenza morale. Gesù rivela l’uomo nella
perfezione morale per la quale è stato creato e rivela Dio come la perfezione
dell’amore, senza la concupiscenza di Krishna o Shiva…» (RC 96). Krisna e Shiva
sono ambivalenti dal punto di vista morale (morally ambivalent); sono figure
che emergono dall’inconscio umano (RC 94-95).
Gesù è l’unica rivelazione di Dio in
senso proprio: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha
rivelato» (Gv 1,18). Egli non è un uomo che ascende verso Dio divinizzandosi (o che è
stato divinizzato, come nell’adozionismo), ma un essere di condizione uguale a
Dio, mandato nel mondo per salvare.
In genere, p. Bede preferisce pensare al
movimento di ascesa. «In Gesù questo movimento della materia e della
consapevolezza verso la vita dello Spirito ha raggiunto il suo culmine… E
questa consumazione dell’unione di Dio con l’uomo in Gesù, necessariamente
influisce su tutta la creazione» (MO 212). La discesa di Dio nell’umanità, è
anch’essa affermata: «La Parola si fece carne e lo Spirito entrò nella
profondità della materia… Ha rialzato questo mondo decaduto a una nuova vita»
(MO 213). L’aver privilegiato il movimento evoluzionistico di progresso e
salita verso Dio, non significa affatto, quindi, che abbia sostenuto una
concezione adozionista. Seguendo l’evoluzione dei discepoli, testimoniata nel
Nuovo Testamento, ricorda come la divinità di Gesù sia stata confessata dai
discepoli dopo la sua Risurrezione (MO 200) e rievoca la riflessione compiuta
dalla Chiesa, nel dibattito trinitario, per spiegare la presenza di due
autorità in cielo, di uguale dignità (MO 204).
Il cristianesimo, pur fondandosi sopra un
evento storico, dal carattere unico e definitivo, recupera anche il movimento
ciclico, amato da tutte le culture, scoperto nel ritmo della natura: «Proprio
come il pagano, che contemplava il corso della natura, il movimento delle
Stelle, la morte della vegetazione d'inverno ed il suo riprendere vita in
primavera, si sforzava di partecipare al mistero divino e di condividere la
vita divina, così il cristiano, che contempla la vita di Cristo, desidera
partecipare a questa vita, morire con lui e risorgere ad una vita nuova ed
immortale. Questo è il mistero che sta alla base della sacra liturgia. È un
mezzo mediante il quale il cristiano può partecipare alla vita, alla morte e
alla risurrezione di Cristo» (FD 206-207).
Il mito della Chiesa
Vincolata al mito di Cristo, è quello della Chiesa (MO 210-221).
Invita perciò ad allargare lo sguardo oltre alla Chiesa visibile, alla Chiesa
cosmica, universale. Essa è formata da tutti gli uomini retti, dai cristiani
virtuosi e dai membri di ogni religione, operatori della verità (Cf CU 42-43 e
49-50).
È possibile assegnare alla Chiesa un’estensione del genere? Agostino
parlava di una Chiesa che esiste a partire da Abele: «Tutti insieme siamo
membra e corpo di Cristo: non solo noi che ci troviamo qui in questo luogo, ma
tutti su tutta la terra. E non solo noi che viviamo in questo tempo, ma che
dire? dal giusto Abele sino alla fine del mondo, fino a quando ci sarà
generazione umana. Qualsiasi giusto faccia il suo passaggio in questa vita,
tutta l'umanità presente e non solo di questo luogo, e tutta l'umanità futura,
tutti formano l'unico corpo di Cristo e ciascuno ne è membro» (Serm 341,9).
Cristo esercita una funzione salvifica universale, rivolta a tutti
gli uomini d’ogni tempo e luogo; è giusto, allora, che tutti i salvati possano
essere considerati come appartenenti all’unica Chiesa. Agostino e i Padri
pensavano che gli uomini retti (anche se non battezzati) venissero aggregati,
in modo invisibile, all’unico Corpo di Cristo che è la Chiesa visibile, fondata
sugli apostoli. Non parlavano di un Corpo cosmico di Cristo, per non dissolvere
l’identità dell’unica Chiesa; il termine Chiesa cosmica, se viene usato per
significare l’insieme dei non-battezzati che vengono approvati da Dio a
motivo della loro giustizia,
possiede una sua legittimità e pregnanza. P. Bede non intende dissolvere il
segno della Chiesa perchè ogni uomo che risponde alla chiamata di Dio «è membro
di quel corpo di umanità redenta che è la chiesa» (MO 45).
Bilancio conclusivo
P. Bede ha vissuto con grande coerenza la
sua missione, vivendo in India in in grande povertà e santità di vita, per
circa quarant’anni. Ha cercato con continuità ammirevole un dialogo con le
religioni, soprattutto con l’Induismo. Avendo osservato che, in questa
religione, affiora una molteplicità di forme, che si esprimono in modalità
contrastanti, ha scelto, allora, tra le varie visioni, quelle più vicine alla
spiritualità cristiana, cercando un arricchimento reciproco.
Soprattutto ha continuato a testimoniare
che l’uomo realizza se stesso solo se vive in comunione profonda con Dio «….tutti
gli uomini sono continuamente attratti da questa Verità trascendente.
L'intelletto è alla ricerca dell’Assoluto. È stato fatto per l'Essere, per la
Verità, per la Realtà, e non può trovare riposo in alcuna verità parziale, in
alcuna costruzione della mente umana. È sempre trascinato oltre se stesso verso
l’ultima Verità» (Rc 93).
Dio, infatti, «nelle generazioni
passate, ha lasciato che tutte le genti seguissero la loro strada; ma non ha
cessato di dar prova di sé beneficando…» (At 14,16-17); «…creò da uno solo
tutte le nazioni degli uomini, perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là
come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi»
(At 17,26-29).
Osserviamo ora
alcune questioni particolari:
1. Talora p. Bede sembra pensare che Dio
sia soltanto il segno massimo di una Realtà assoluta, superiore a Lui stesso
ma, in un ripensamento opportuno, si è allontanato da questa opinione: «Sarebbe
uno sbaglio affermare, come hanno fatto alcune scuole filosofiche indù, che
questo Dio creatore e personale è inferiore all’essere Supremo. Varie volte
infatti viene ripetuto che Krishna, come Dio, è identico con Brahman e l’Atman»
(MO 94). Nonostante questa correzione, in un altro tratto della sua opera,
sembra ribadire il medesimo pensiero: «Dio stesso, per quel tanto che può
essere nominato, sia Jahvé, Allah o semplicemente Dio, è un segno, il nome
della realtà ultima che non può essere nominata» (MO; cf. RC 39). In un altro
passaggio ancora precisa, al contario, che il Dio sconosciuto si è rivelato
come il Padre, conosciuto ed annunciato da Gesù (RC 42).
Queste incertezze rinviano ad un problema
reale provocato già dalla teologia scolastica. Il fatto che l’esistenza e
l’essenza di Dio potessero essere conosciute dalla ragione filosofica già prima
della rivelazione, spinsero i teologi a pensare che i predicati [su Dio]
fossero desunti dalla dottrina filosofica generale su Dio e non dalla
rivelazione che Egli fece di sé nel corso della storia della salvezza. In altre
parole, argomentavano su Dio a prescindere dalla Sacra Scittura, basandosi
soltanto sulla riflessione metafisica e solo in seguito si parlava delle
Ipostasi Trinitarie, come se fossero derivate da quest’unico Dio. Invece, «il
discorso degli attributi divini deve partire direttamente dal Dio che nella sua
azione si è rivelato come Padre» (Müller, 300). Questo Padre si è fatto
conoscere in pienezza quando «ha tanto amato il mondo da dare il Suo Figlio
Unigenito» (Gv 3,16). Parlare di un Dio, dietro e superiore a Dio Padre, è come
venerare un fantasma.
È vero tuttavia che, anche dopo la sua
rivelazione, Dio rimane inesprimibile, perché Egli è «il beato e unico Sovrano,
il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita
una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo»
(1 Tm 6,15-16). Il Nuovo Testamento dichiara, dunque, che Dio si è fatto
conoscere in Gesù, «l’irradiazione della sua gloria e l’impronta della sua
sostanza» (Eb 1,3) ma anche che continua ad abitare in una luce inaccessibile.
L’inaccessibilità divina, che rimane nonostante la sua manifestazione di sé,
non deve essere interpretata come se un aspetto di Dio fosse rimasto ignoto.
Inaccessibile, caso mai, è la sua stessa rivelazione perché possiede una
profondità che rimane sempre inesauribile nel suo fluire e quindi sempre
sorprendente per noi. Paolo la verifica quando rimane sorpreso della fedeltà e
della misericordia che Dio riversa sugli uomini: « O profondità della
ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i
suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 8,33). La misteriosità di Dio
corrisponde alla inesauribilità sorprendente della sua grazia. Da una parte Dio
ce l’ha svelata ma dall’altra dobbiamo sempre approfondirla. Dello svelamento,
ne parla la Prima lettera ai Corinzii: «Così anche i segreti di Dio nessuno li
ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. Ora, noi abbiamo ricevuto lo
Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato» (1 Cor 2,11-12). Sull’inesauribiltà
del dono, ci riferisce la Lettera agli Efesini: «Che il Cristo abiti permezzo
della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in
grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza,
l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni
conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19).
2. Riguardo all’insegnamento di p. Bede sulla Chiesa, ci si può
chiedere: l’azione di Cristo nella Chiesa Sacramento ha lo stesso valore di
quella che Egli esercita negli uomini salvati ma che non appartengono in modo
visibile ad essa?
Egli non affronta mai in modo diretto questa questione. Sembra
suggerire la parità tra le religioni ma sul punto di dichiararla, si ritrae. In
modo aperto sostiene soltanto che tutte le religioni (e tutte le Confessioni
cristiane) «non sono che differenti espressioni dell’unica Verità e ciascuna ha
la sua particolare intuizione» (RC 129). Queste differenti espressioni sono di
uguale valore? Più che rispondere a questo interrogativo, p. Bede è preoccupato
a cercare la riconciliazione tra esse; bisogna «…imparare a distinguere tra
questi punti di vista contrastanti e parziali il principio che li unisce, che
trascende le loro differenze e riconcilia i loro conflitti» (RC 129).
P. Bede ha mostrato le diverge dell’Induismo con la fede cristiana,
la disparità di visioni che accoglie in se stesso; ha riconosciuto l’immoralità
del comportamento delle sue divinità. Può essere considerato una rivelazione
alla pari di quella biblica? Se non ci fosse alcuna differenza qualitativa tra
la Chiesa e altre esperienze religiose, dal punto di vista salvifico, per quale
motivo Dio avrebbe voluto creare il segno della Chiesa, affidandole il mandato
di aggregare a sé tutte le genti?
Per trovare una risposta più chiara, dobbiamo farci aiutare da
Jacques Dupuys, un teologo attento al dialogo con le religioni.
Le religioni sono realtà salvifiche? Dupuis sostiene che le
religioni sono salvifiche perché sono espressioni della ricerca dell’uomo
compiuta da Dio. Non sono in primo luogo tentativi dell’uomo di salire fino a
Dio, ma tentativi, da parte di Dio, di raggiungere l’uomo che tenta di
sfuggirgli. Nessuno cercherebbe Dio se Egli non ci avesse cercato per primo. La
religione è sempre una risposta ad una grazia che la precede.
Hanno tutte pari valore? Egli esclude in modo netto questa ipotesi:
«Nella Chiesa, la comunità escatologica, [Cristo] è presente [agli uomini]
apertamente ed esplicitamente, nella piena visibilità della sua completa
mediazione, attraverso la proclamazione della Parola, del Vangelo, e attraverso
l’economia dei sacramenti al cui centro è l’Eucaristia. In altre tradizioni
religiose è presente il medesimo mistero di salvezza in Gesù Cristo, ma lo è in
maniera implicita, nascosta, in virtù di un modo incompleto di mediazione
costituito da queste tradizioni» (Alle frontiere del dialogo, EMI, Verona 2018, pp. 45-46).
La risposta data dal Dupuis, relativamente
a questo punto, è analoga al parere espresso dalla Comissione teologica
internazionale: «Nelle religioni agisce lo stesso
Spirito che guida la chiesa; tuttavia la presenza universale dello Spirito non
si può equiparare alla sua presenza particolare nella chiesa di Cristo. Anche
se non si può escludere il valore salvifico delle religioni… Soltanto la chiesa
è il corpo di Cristo, e soltanto in essa è data con tutta la sua intensità la
presenza dello Spirito: perciò non può essere affatto indifferente
l'appartenenza alla chiesa di Cristo e la piena partecipazione ai doni
salvifici che si trovano soltanto in essa» (Il Cristianesimo e le Religioni, 1997, n. 85).
Un’appendice al discorso
Le religioni sono dunque equivalenti?
Abbiamo già visto il giudizio del Dupuis ma qual è il modo di pensare degli
autori del Nuovo Testamento riguardo a questo argomento?
1. Nella lettera ai Romani, Paolo confronta tra loro ebrei e pagani.
I primi hanno ricevuto la Legge da Dio tramite Mosé; i secondi, invece, una
legge scritta nei loro cuori. Il contenuto essenziale delle due Leggi è
identico o almeno molto simile. Perciò «quando i pagani, che non hanno la Legge
(mosaica), per natura agiscono secondo la Legge (mosaica), essi, pur non avendo
Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto
nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai
loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2,14-15).
L’apostolo, nutrito del pensiero greco, oltre di quello ebraico, conservò
sempre una grande ammirazione per i suggerimenti etici proposti dai pensatori
pagani.
Dopo aver fatto risaltare questo elemento di uguaglianza tra le due
religioni, per quanto riguarda l’etica, Paolo dichiara che l’ebraismo,
tuttavia, gode d’un grande vantaggio sul paganesimo: «Che cosa dunque ha in più
il Giudeo? E qual è l’utilità della circoncisione? Grande, sotto ogni aspetto.
Anzitutto perché a loro sono state affidate le parole di Dio….» (Rm 3,1-2). In
un altro passo precisa meglio: «Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli,
la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro
appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che
è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen» (Cf. Rm 9,4-5).
Dio, si è rivelato a tutti gli uomini nella creazione ma si è fatto
conoscere con maggior chiarezza mediante le grandi opere compiute a favore del
popolo lungo la storia.
Secondo Paolo, quindi, Dio ha aperto due strade: l’una è più
vantaggiosa e preferibile (la Legge mosaica e le esperienze storiche vissute
dal popolo); l’altra, pur essendo meno ricca, può condurre ugualmente alla
meta. Decisiva per la salvezza, non è l’appartenenza ad una religione, ma la
rettitudine della singola persona.
2. Nel Nuovo Testamento troviamo un confronto anche tra Ebraismo e
Cristianesimo. Cristo rappresenta la nuova rivelazione di Dio. S’inserisce
nella storia d’Israele, e la porta a pienezza: «Dio, che molte volte e in
diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente,
in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio... Egli è irradiazione
della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua
parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla
destra della maestà nell’alto dei cieli…» (Eb, 1,1-4).
Dio ha fatto conoscere agli uomini un’altra strada di ricerca di
Lui, una via nuova (ossia di qualità insuperabile) e vivente, cioè il Cristo
(Cf. Eb 10,9). L’esperienza ebraica, pur così ricca, è un nulla rispetto alla
grazia che ricevono i credenti in Cristo (Cf. Fil 3,7-8). I cristiani che
accolgono il Cristo si trovano in una posizione più vantaggiosa ancora anche di
quella che gli ebrei avevano sui pagani.
Dio ha provveduto all’uomo in tre modi: con la legge del cuore e la
rivelazione cosmica; con la Legge del Sinai e le rivelazioni storiche; con la
rivelazione del Cristo. Egli è l’unico fondatore che, essendo nella condizione
divina, si è incarnato, non in apparenza ma in realtà, manifestando il volto di
Dio «efàpax» una volta per sempre. In Lui compare una santità unica: «… è stata
tolta da lui ogni ambivalenza morale. Gesù rivela l’uomo nella perfezione
morale per la quale è stato creato e rivela Dio come la perfezione dell’amore,
senza la concupiscenza di Krishna o Shiva…» (RC 96).
Il Verbo ha illuminato ogni uomo, anche
chi è venuto al mondo prima che Egli si facesse carne, in considerazione della
sua passione e morte. Non ci sono state, quindi, due rivelazione parallele ma
ogni illuminazione viene dalla Pasqua. Prima di essa, gli uomini, anche se
soccorsi dalla grazia, hanno cercato Dio «tastando qua e là come ciechi» (At 17,27).
Stando a questi suggerimenti, la Scrittura, prevede strade
diversificate, di valore e di qualità diseguali. Il confronto non riguarda le
persone ma il valore delle diverse istituzioni volute da Dio. Giungere alla
salvezza, dipende dall’apertura del cuore del singolo credente.
3. Perché Dio ha voluto non solo la differenza tra le religioni ma
una disparità di valore tra esse?
Il Nuovo Testamento non affronta questa questione in modo diretto.
Dobbiamo servirci di suggerimenti impliciti. San Paolo insegna che Dio, per
comunicare salvezza a tutti, sceglie dei collaboratori particolari e affida a
qualcuno un compito più rilevante rispetto a quello d’un altro (Cf Rm 9 e 11).
All’inizio sceglie Abramo tra i pagani e lo prepara a diventare una benedizione
per tutti gli uomini. Tra i due figli del patriarca, sceglie Isacco anziché
Ismaele; tra i figli di Isacco, elegge Giacobbe, anziché Esaù. Nonostante il
linguaggio semitico che sembra suggerire il contrario, il personaggio che non
viene scelto, non viene rifiutato, umiliato o destinato alla perdizione (Cf Rm
9,12). Soltanto non sarà investito d’un compito rilevante pari a quello
dell’eletto. La scelta poi non dipende dai meriti dell’eletto ma dalla grazia
di Dio (Cf Rm 9,16), che esegue un suo disegno formulato secondo criteri
misteriosi, per noi imperscrutabili.
Qualcuno riceve una responsabilità maggiore rispetto ad altri e la
sua chiamata poi lo pone a servizio di tutti. La scelta particolare avviene
sempre a vantaggio degli altri. Come si vede dagli esempi dedotti, il metodo
della scelta viene esercitato per lo più all’interno d’Israele, per cui degli
Israeliti acquistano un rilievo maggiore di altri. Dio sceglie però anche dei
pagani per compiti specifici. L’elezione non è quindi un procedimento usato per
incrementare l’orgoglio nazionalistico.
Differenze e disparità di valore emergono anche all’interno della
Chiesa. Paolo la paragona ad un corpo che è composto di molte membra, le quali
rappresentano i vari tipi di servizio che vengono donati dalla Spirito ai
diversi membri della comunità. Descrive alcune di queste funzioni procedendo in
ordine gerarchico: le membra più importanti sono costituite dagli apostoli (1
Cor 12,28), poi dai profeti, dai maestri, dai guaritori, dalle guide ecc. Il
Nuovo Testamento presuppone quindi che si possano dare una molteplicità di
funzioni, delle quali alcune certamente sono più importante delle altre; tutte
però sono necessarie al buon funzionamento dell’organismo.
Anche le varie religioni potrebbero essere concepite come le membra
d’un organismo cosmico, ognuna con un compito particolare. Questo concorso
solidale in vista d’un unico scopo, non esclude che a qualcuna sia stato
assegnato un valore più determinante.
Scriveva p. Bede a conclusione del
suo viaggio di ritorno alla fede cristiana: «Cristo è la bellezza assoluta,
manifestata in una forma umana, in un carattere umano» (FD 189). Cristo è come
la Luce che, pur apparendo soltanto di uno splendido colore bianco, possiede in
realtà, tutta la gamma completa dei colori: infatti «se crediamo che in Cristo
si trovi la rivelazione della Verità stessa, dobbiamo riconoscere che tutta la
verità, ovunque la si incontri, è contenuta implicitamente nel cristianesimo»
(FD 226)
A volte, gli volgiamo le spalle e vediamo
la sua luce riflessa sul volto di chi, invece, lo sta contemplando con
dedizione, magari senza sapere che quel bagliore che lo ha affascinato proviene
dal Signore. A volte ammirando, all’esterno del Vangelo, questo o quell’altro
colore, possiamo riscoprire meglio ciò che avevamo rifiutato di scorgere in
esso. Se osservando le singole religioni, dobbiamo apprezzarle perché ammiriamo
in esse le opere compiute da Cristo oltre i nostri confini culturali (MO
44-45), non capiterà mai che esse portino al Vangelo qualcosa che non aveva e
che sarebbe stato necessario per ottenere la salvezza. Tuttavia «la Chiesa
ancora attende la sua perfezione sulla terra. Deve essere diffusa fra tutti i
popoli per poter manifestare tutte le ricchezze di Cristo» (FD 227). Le potrà
manifestare, quando saprà integrare nella sua teologia gli apporti particolari
che provengono da ogni cultura: «Ci dobbiamo aprire alla rivelazione del
mistero divino, avvenuta in Asia nell'induismo, nel buddhismo, nel taoismo, nel
confucianesimo, nello shintoismo. Ne possiamo dimenticare la sapienza intuitiva
dei popoli primitivi, come gli aborigeni dell'Australia, gli abitanti della
Polinesia, i boscimani dell'Africa, gli indiani d'America e gli esquimesi. In
tutto il mondo lo Spirito ha lasciato i segni della sua presenza. Il mistero
cristiano è il mistero della presenza di Dio nell'uomo. Non possiamo trascurare
alcun segno di questa presenza» (MO 219).
Grazie molto interessante. Molto bello in una visione fermamente cristiana. Sono cristiano da sempre; di radice cattolica. Sento però forte il bisogno di pormi a latere per condividere una visione di questo tema all'umanità, che spesso cristiana non è. In tal senso ho raccolto elementi e scritta una riflessione che sono lieto di confrontare con te che mi leggi! Buon cammino (g.brichettixxx@gmail.com)
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