La preghiera del cuore nel deserto siriano di Mar Musa
Una testimonianza di Carol Cooke Eid
L'esperienza di Mar Musa
Sono libanese e appartengo alla comunità monastica di Deir Mar Musa, fondata nel 1991 dal padre gesuita romano Paolo Dall'Oglio nel deserto siriano, nell'antico monastero di San Mosè l'Abissino. Nella nostra Regola, leggiamo che la vita monastica al monastero di San Mosè l’Abissino si caratterizza per tre priorità e un orizzonte.
Sono libanese e appartengo alla comunità monastica di Deir Mar Musa, fondata nel 1991 dal padre gesuita romano Paolo Dall'Oglio nel deserto siriano, nell'antico monastero di San Mosè l'Abissino. Nella nostra Regola, leggiamo che la vita monastica al monastero di San Mosè l’Abissino si caratterizza per tre priorità e un orizzonte.
La prima priorità è la vita
contemplativa secondo la tradizione siriaca, con un impegno spirituale
nell’ambito del nostro contesto cristiano vicino-orientale e arabo islamico. È
una vita contemplativa personale e comunitaria caratterizzata dalla semplicità
che troviamo presso gli antichi Padri del deserto e, più vicino a noi, presso
il padre Charles de Foucauld. La Vergine Maria è la nostra prima e grande
maestra nella vita spirituale contemplativa.
La seconda priorità è il lavoro
manuale a partire dall'esempio della famiglia di Nazaret che addita una
dimensione di vita capace di unificare la persona umana nel suo essere corpo e
spirito, responsabile del mondo materiale e della società negli orizzonti del
Regno.
La terza priorità è l'ospitalità
abramitica, che praticano i monaci di ogni epoca: ospitalità fatta di servizio,
misericordia e perdono, di saggezza e direzione spirituale; ospitalità della
mensa comune e del silenzio; ospitalità dell’accoglienza dell’altro nella sua
ricchezza e nel suo bisogno, nel suo carisma e nella sua sete spirituale.
L’orizzonte è costituito dalla nostra consacrazione particolare
all’amore di Gesù Redentore per i musulmani e per il mondo musulmano in quanto Umma, comunità. Questa consacrazione ci conduce a offrire la nostra vita
affinché il lievito evangelico sia presente efficacemente nella società
musulmana secondo uno spirito di discernimento, di speranza e di carità, capace
di trasformare le sofferenze di ieri e di oggi e di aprire i cuori alla mutua
comprensione e al mutuo amare che sempre esigono considerazione e rispetto
reciproci.
La nostra vocazione ci conduce a cercare la strada del dialogo per
la costruzione dell’armonia islamo-cristiana, ma dipende in modo
imprescindibile dall’accoglienza dei fratelli e delle sorelle musulmani prima
di tutto nella preghiera, e nella preghiera del cuore.
La testimonianza che darò oggi sulla preghiera del cuore nel
contesto islamo-cristiano di Mar Musa è in realtà triplice: racconterò
brevemente la mia esperienza, intrecciandola con quella del nostro fondatore
padre Paolo, rapito in Siria nel 2013 e di cui non si sa più nulla; poi lascerò
la parola al nostro co-fondatore padre Jacques [un altro monaco della comunità],
che nel 2015 è stato anche lui rapito in Siria, ma è potuto scappare dalla
prigionia dello Stato Islamico grazie all’aiuto di un amico musulmano.
Prima di arrivare a Mar Musa, non conoscevo la preghiera del cuore.
L'ho scoperta nel libro che ogni postulante legge al monastero - Racconti di
un pellegrino russo - e anche nel film Ostrov (L'isola), che padre Jens amava mostrare ai gruppi di giovani per
parlare con loro della preghiera del cuore.
Ho sempre presente l’insistenza di padre Paolo sull’importanza del
respiro: con ogni inspirazione riempirci di Spirito Santo, con ogni espirazione
lasciare lo Spirito pregare in noi. Per dare Spazio al respiro, la nostra
preghiera comunitaria è segnata da soste. È insolito per i nuovi venuti pregare
con tante pause, per esempio il Padre nostro o l’Ave Maria, ma questo aiuta a
fare della preghiera un'autentica sosta al cospetto del Signore.
Nel pomeriggio, padre Paolo ci incoraggiava a camminare nel deserto prestando
attenzione al battito del cuore che è vita data dal Signore, per scoprire la nostra preghiera del cuore. Mi ricordo che camminavo senza cercare parole;
dando semplicemente ascolto al grande silenzio del deserto, in cui si potevano
udire le preghiere ardenti di angeli e di uomini. Solo in apparenza il deserto
è vuoto, in realtà è pervaso di preghiere e di luce. Mi meravigliavo di sentire
risuonare nel segreto della mia contemplazione silenziosa l’appello della
preghiera musulmana: Allahu akbar! Dio è più
grande!
L’esperienza di p. Dall’Oglio
Un giorno padre Paolo ha ricevuto l’invito a condividere la sua
preghiera favorita per inserirla in una raccolta di preghiere scritte da note
personalità. Ha scelto di rendere nota la sua preghiera intima, intitolandola
«Preghiera di un cuore islamo-cristiano». In quell’occasione me ne parlò a
lungo, chiedendomi di aiutarlo a tradurla in inglese. Lui la pregava in arabo: al-Masīh
'Isā ibn Maryam, ighfìr lī ana l-khāti' wa-rhamnā,
cioè «Cristo 'Isā figlio di Maria, perdona me
peccatore e abbi misericordia di noi». Cercherò di trasmettere la forza della
preghiera del cuore di padre Paolo, esaminando le singole parole che la compongono:
al-Masīh, in ebraico Maših, l’Unto, è la parola araba che usano i cristiani d'Oriente e i
musulmani per Cristo, il Messia. Con l’uso di questo nome, padre Paolo mirava
ad approfondire la comunione di cuore con i musulmani e gli ebrei, perché il
Messia è fonte di riconciliazione e di speranza per i figli di Abramo. Mentre i
cristiani arabofoni chiamano Gesù Yasu', i
musulmani lo chiamano 'Isā, dato che nel Corano
Gesù viene chiamato 'Isā, e più spesso ancora 'Isā
ibn Maryam, Gesù figlio di Maria. Nella sua
preghiera del cuore, padre Paolo ha scelto di chiamarlo con questo nome, perché
'Isā ibn Maryam non è soltanto un'espressione
coranica, ma anche un modo di pregare con il cuore di Maria. Per le Chiese
ortodosse e cattoliche. Maria di Nazaret è il punto di partenza e il modello di
una nuova umanità; e per l'islam, è l’«eletta» (Sura III, 42). Padre Paolo era convinto che Maria sia l’ancora che ci aiuta a
portare stabilmente nel cuore l’infinita intercessione di Isa-Gesù. La
richiesta di perdono, ighfir li, «perdona me»,
risveglia la coscienza della propria responsabilità: ognuno in diversi modi fa
ricorso alla violenza ed è perciò personalmente responsabile della morte di
Gesù e della violenza subita da sorelle e fratelli lungo i secoli, perché ne è
complico. Padre Paolo mi spiegava quanto aveva bisogno di Gesù per farsi avanti
nell’offrirLo, Lui che è la pienezza dell’amore di Dio per il peccatore, al-khāti'.
Mentre pregava riconoscendosi peccatore, al-khāti', padre Paolo non sapeva più chi parlava: forse era lui, Paolo, a
invocare la divina misericordia, poiché era consapevole dell’umanità decaduta
che si portava dentro - le mancanze, il tradimento, la malattia dell'ego che vuole appropriarsi di tutto ciò che è di Dio - oppure era
l’uomo-Dio Gesù che per amore scendeva con la Sua umanità nell’inferno
inferiore del sordomuto Paolo per cercarlo e gridare dal profondo, alla Sua
divinità, di avere misericordia. Inaspettatamente, la preghiera del cuore di
padre Paolo non finiva con wa-rham-nī, «abbi
misericordia di me», ma con wa-rham-nā, «abbi
misericordia di noi». Mentre il riconoscersi peccatore è un atto personale – e
per questo padre Paolo si accusava singolarmente -, la domanda di misericordia
può comprendere tutti: per questo padre Paolo passava al plurale e si appellava
alla misericordia per tutti. Così la sua preghiera del cuore diventava
intercessione per le sorelle e i fratelli nell'umanità, totale fiducia nella
viscerale misericordia dell’Unico Dio misericordioso e compassionevole, al-Rahman,
al-Rahìm.
Suor Deema, una mia consorella, ha saputo fare propria la preghiera
del cuore di padre Paolo, unendo nel nome di Gesù i modi cristiano e musulmano
di chiamarlo: Yasu'-'Isā ibn Maryam, cui ha
aggiunto ibn Allah al-Hayy, figlio del Dio
Vivente. In tal modo la sua preghiera risuona così: «Cristo Gesù-'Isā figlio di Maria, figlio del Dio Vivente, perdona me peccatrice e
abbi misericordia di noi». Deema mi ha regalato un piccolo disegno della sua
preghiera del cuore che ha fatto durante l’ultimo ritiro a Mar Musa. Io invece
non sono mai riuscita a far adottare questa preghiera al mio cuore. A volte
andavo nel deserto ripetendo: al-Masīh 'Isā ibn Maryam, ighfìr lì anā l-khati'a
wa-rhamnā. M sono
troppe parole per chi ama il grande silenzio. Nel 2013, nei giorni dopo il
rapimento di padre Paolo, praticamente tutti noi membri della comunità in Siria
e in Iraq abbiamo sentito le parole della sua preghiera del cuore emergere come
una fonte sotterranea dai nostri cuori. Io ero in Kurdistan. Ci sembrava che
padre Paolo pregasse senza sosta la sua preghiera del cuore, e noi la pregavamo
in comunione con lui.
L’esperienza di p. Jacques
Due anni dopo il rapimento di padre Paolo, nel maggio 2015, padre
Jacques, il nostro co-fondatore, è stato a sua volta rapito dallo Stato
Islamico nel monastero di Mar Elian in Siria. Grazie a Dio è di nuovo tra di
noi. Ho ascoltato di recente la sua testimonianza in arabo sulla preghiera del
cuore prima, durante e dopo la prigionia. L'ho tradotta in italiano per poterla
condividere integralmente con tutti coloro che leggeranno questa mia
testimonianza:
«Quando da seminarista sono andato a Mar Musa, il silenzio mi
sembrava essere il battito del cuore di una preghiera interiore intensa in
armonia con la vastità, la profondità e l'orizzonte del deserto. Ero ancora
giovane, senza grande esperienza spirituale. Uno dei primi libri che ho letto,
dopo le vite dei santi, è stato i Racconti di un pellegrino russo, che mi ha spinto a praticare la preghiera del cuore. Secondo
Fautore, la preghiera del cuore doveva entrare in armonia con il ritmo dei
battiti del cuore nella vita ordinaria, naturalmente e gradualmente. Questo non
l'avevo mai sperimentato e nemmeno lo capivo fino in fondo, ma sentivo che la
preghiera del cuore mi aiutava a rimanere fedele a Gesù mentre svolgevo le
faccende quotidiane, e che si sposava bene con il silenzio del deserto. Come
una sorgente dissetava il mio piccolo cuore desideroso di incontrare Dio e di
consacrarsi interamente a Lui. Insieme alla liturgia e alle altre preghiere
legava le dimensioni della contemplazione, del lavoro e dell'accoglienza con un
unico filo che mi aiutava a essere vigile d'animo. Nella mia vita di allora
c'erano tante cose che ostacolavano quella preghiera, sottraendomi alla
vigilanza e alla fedeltà: crisi, tiepidezza, depressione, collera, ma la
preghiera del cuore mi rendeva la pace, mentre preparavo il cibo o trasportavo
le pietre per la costruzione o facevo pascolare le capre... Questa preghiera
che sorge dalla realtà della nostra debole natura umana ci può accompagnare in
qualsiasi situazione: è come un filo sottile ma potente che ci lega a Gesù e al
Suo santo nome.
La preghiera del cuore aveva l'attrazione del latte per me che ero
principiante nella vita spirituale (vedi 1 Cor 3,2). Dopo un po' di tempo però
ho praticamente trascurato questa preghiera con il pretesto delle molte
occupazioni e responsabilità. L'unico momento in cui la praticavo ancora erano
i viaggi in macchina tra Mar Musa e Mar Elian, i due monasteri della comunità
in Siria. La solitudine e il deserto mi aiutavano a non disperdermi troppo.
Sentivo comunque nostalgia della preghiera del cuore e il bisogno di tornare a
essa: la mia lontananza da questa preghiera mi faceva perdere il filo della
relazione continua con Gesù. In qualche modo mi arrendevo ai miei diversi stati
d'animo: la tiepidezza, il lassismo, il nervosismo, il rifiuto. La bellezza
della preghiera del cuore è che fa da recinto e da tutela, ancorando l'uomo al
pentimento continuo perché non cada in tentazione. Non è quindi una preghiera
solo per monaci o eremiti, ma è una preghiera per l'uomo, poiché ognuno di noi
ha bisogno di un tale recinto e di custodire l'equilibrio umano e spirituale.
Quando sono stato rapito, la prigionia ha segnato la mia preghiera
del cuore: c'è stato chiaramente un prima e un dopo nel mio modo di pregarla.
Mentre prima della prigionia, la praticavo come una tradizione ricevuta, in
prigione la riscoprivo come innata e sgorgava naturalmente come un grido del
cuore, dando la cadenza ai miei giorni. Era il mio rifugio e la mia protezione,
un modo per ristabilire l'equilibrio ferito e per farmi gustare ogni tanto un
po' di pace. C'è un'altra differenza tra il prima e il dopo la prigionia. In
prigione non sempre riuscivo a pregare con le parole che utilizzavo prima:
«Signore Gesù Cristo abbi misericordia di me, peccatore». A volte mi venivano
altre parole, in accordo con il mio stato d'animo di allora, parole che
chiamavano la grazia di Gesù su di me in quegli istanti difficili. Oggi non
saprei darne nessun esempio; le ho dimenticate tutte, ovvero le ho volute
dimenticare, poiché sono strettamente legate a un'esperienza molto dura. In
prigione inoltre ho capito l’importanza dell’ascesi per praticare la preghiera
del cuore; ho toccato con mano quanto le ristrettezze e lo sforzo ascetico
aiutino a vivere quella preghiera. Prima della prigionia non praticavo più
l’ascesi e mangiavo troppo. In prigione il digiuno con le altre ristrettezze e
la pazienza hanno aperto il mio cuore: è necessario che il cuore diventi Passe
portante della vita quotidiana dell’uomo, e così la preghiera del cuore diventa
l'oasi di riposo dalle fatiche, dagli sforzi, dalla fame, e questa non ha più
il potere di schiacciare l’uomo. La prigionia è stata il terremoto che mi ha
richiamato all’essenziale, alla roccia su cui costruire l’edificio della mia
vita. In quel terremoto, la preghiera del cuore mi ha fatto da guida
spirituale, da lampada e da metronomo, indicandomi la via retta e la meta. Mi
sono accorto che alla fin fine rimane solo il nome di Gesù, sigillo indelebile.
I primi giorni del rapimento, percepivo una gioia interiore e mi sentivo dire:
«Sono in partenza per la libertà». Infatti nella mia vita di prima ero prigioniero
di tante cose. Nella solitudine della cella. Gesù era l'unico compagno rimasto,
ed è lì che l'uomo capisce quanto cara è la fedeltà. In prigione ho anche
scoperto il rosario come preghiera del cuore. Prima della prigionia, il rosario
era per me un rituale legato alla vita parrocchiale. In prigione è affiorato
come l’unica preghiera rimasta impressa nella memoria del cuore. Tramite il
rosario sentivo la vicinanza della Madonna, mentre meditavo su Dio,
infinitamente grande e intimamente vicino all’uomo. Dopo la liberazione, la mia
preghiera del cuore è di nuovo cambiata come è cambiata la mia vita spirituale,
sempre sottoposta a molti «alti e bassi», nei quali però faccio sempre ritorno
al nome di Gesù. In me il nome di Gesù non tramonta mai, nemmeno nei «bassi».
Nell’aridità esistenziale e spirituale che sperimento, la preghiera del cuore è
la potente fonte sotterranea che cerca di aprirsi una strada attraverso la
roccia del deserto per farne un grande fiume (vedi Es 17,6). Sento che sono
chiamato a fare la preghiera del cuore con grande pazienza, lottando
interiormente e accogliendo il dolore che mi brucia dentro. È essenziale
ancorarmi in questo modo per non disperdermi e allontanarmi dalla strada
giusta.
Prima del rapimento la mia vita era in qualche modo stabile e
prevedibile, con un orizzonte abbastanza chiaro; anche in prigione avevo un
ritmo regolare e mantenevo una certa quiete nel vuoto dei giorni. Oggi invece
la mia vita scorre nel mondo in mezzo a mille sfide umane, etiche e spirituali,
in un periodo drammatico della storia. Le parole della mia preghiera del cuore
sono tornate a essere «Signore Gesù Cristo, abbi misericordia di me,
peccatore», ma la loro dimensione è cambiata. Il pentimento e la richiesta di
misericordia non sono più soltanto personali, nel senso che non prego più
semplicemente per me, ne sono più soltanto io a pregare, in me il cuore prega
per tutti, la preghiera del cuore è diventata intercessione per il mondo
intero.
Vorrei infine confidarvi una piccola esperienza che ho fatto con la
preghiera dei cuore nel 1995 durante un ritiro
nell'eremo di La Viale in Francia. L'eremo è situato in un luogo incontaminato,
la natura attorno è ricca e molto bella, in contrasto totale con i luoghi del
deserto cui sono abituato. Nel tetto dell'eremo le api avevano costruito il
loro nido. Il loro ronzio, insieme alla musica del ruscello nell'incanto della
natura, ha trasmesso alla mia preghiera del cuore una melodia armonica che l'ha
segnata per sempre. Da quel momento in poi, il mio cuore ha sempre cantilenato
la preghiera del cuore. Anche quando la recitavo in silenzio, era come se
portasse la bellezza e la ricchezza del creato in mezzo al deserto. So che
questa è un'esperienza personale e che, tradizionalmente, la preghiera del
cuore non viene cantata. Ma ogni preghiera del cuore è unica, perché esprime
l'appassionato palpito del cuore umano desideroso di unirsi al cuore del
Signore».
L’esperienza di suor Carol
Sono quasi giunta alla fine della triplice testimonianza. Vorrei
concludere dicendo che finalmente, due anni fa anch'io, Carol, ho trovato la
mia preghiera del cuore. Ne la tradizione spirituale dell’Islam, c'è il
cosiddetto dhikr, ricordo di Dio attraverso i
Suoi nomi. Per me il dhikr è stato una
rivelazione: la preghiera del cuore è diventata in me il nome di Dio. Amo
ripetere all'infinito uno dei Suoi bei nomi, in particolare al-Rahman, il Misericordioso, al-Lațif, Buono, al-Salām, la Pace, al-Quddūs, il Santissimo.
Possa Colui che i cristiani d'Oriente e i musulmani chic mano Allah, Dio, trasformare in bene tutto il male, tutto peccato e tutte le
mancanze che ci sono nel cuore umano. Possa il Suo santo nome essere scritto
sulle nostre fronti (vedi Ap 22,4). Amen.
Tratto da La preghiera del cuore. Tradizioni ed esperienza, Lindau, Torino 2019, 191-200
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