giovedì 31 luglio 2025

LEONE XIV AI NEOFITI DI FRANCIA

 

Che gioia vedere dei giovani che s’impegnano nella fede e vogliono dare un senso alla loro vita, lasciandosi guidare da Cristo e dal suo Vangelo! Il battesimo fa di noi membri a pieno titolo della grande famiglia di Dio. L’iniziativa viene sempre da Lui e noi rispondiamo facendo l’esperienza del suo amore che ci salva. Nel vostro percorso come catecumeni e nuovi battezzati, ognuno di voi fa un incontro personale con il Signore nella comunità che l’accoglie. Ci riconosciamo personalmente figlie e figli di Dio attraverso il nostro battesimo «nel nome del Padre», che ci offre l’adozione, «del Figlio» che ci introduce nella sua vita e nel suo rapporto con suo Padre, «e dello Spirito Santo», fonte di ogni dono (cfr. Gal 4, 6). San Paolo rivela l’effetto essenziale del battesimo, quando scrive ai Galati: «quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo» (3, 27).

Il battesimo introduce nella comunione con Cristo e dona la vita. Ci impegna a rinunciare una cultura della morte molto presente nella nostra società. Questa cultura della morte si manifesta oggi attraverso l’indifferenza, il disprezzo degli altri, la droga, la ricerca di una vita facile, una sessualità che diviene divertimento e cosificazione della persona umana, l’ingiustizia etc.

Il battesimo fa di noi i testimoni di Cristo. Nel rito del battesimo, c’è un segno molto forte, molto forte, è quando riceviamo la candela accesa al cero pasquale. È la luce di Cristo morto e risorto che noi ci impegniamo a mantenere accesa alimentandola con l’ascolto della Parola di Dio e la comunione assidua con Gesù Eucaristia. Sant’Ambrogio non si stancava mai di ripetere: 

«Omnia Christus est nobis!, Tutto è per noi Cristo!», un invito a essere autentici testimoni del Signore. Diceva ancora, con parole piene di amore per Gesù: «Omnia Christus est nobis! Se desideri medicare le tue ferite, egli è medico; se bruci di febbre, egli è la sorgente ristoratrice; se sei oppresso dalla colpa, egli è la giustizia, se hai bisogno di aiuto, egli è la forza; se temi la morte, egli è la vita; se desideri il cielo, egli è la via; se fuggi le tenebre, egli è la luce…. Gustate dunque e vedete quanto è buono il Signore; felice l’uomo che spera in lui» (De virginitate, 16, 99).

 Per vivere felici e in pace, siamo chiamati a riporre la nostra speranza in Gesù Cristo.

Seguendo il Signore, anche voi siete il sale della terra e la luce del mondo (cfr. Mt 5, 13-14). La Chiesa ha bisogno della vostra bella testimonianza di fede per crescere sempre più ed essere vicina a ogni persona nel bisogno.

Il catecumenato è un cammino di fede che non si conclude con il battesimo, ma prosegue per tutta la vita, con momenti di gioia e momenti difficili. 

Come ci ricorda sant’Agostino, «Se egli [Cristo] non fosse divenuto la nostra speranza, non sarebbe in grado di condurci. Ci conduce in quanto è la nostra guida; e ci conduce con sé in quanto egli è la nostra via; a sé ci conduce in quanto egli è la nostra patria» (Sant’Agostino, Esposizione sul Salmo 61 ).

Siete chiamati a condividere la vostra esperienza di fede con gli altri, testimoniando l’amore di Cristo e divenendo discepoli missionari. Non limitatevi alla sola conoscenza teorica, ma vivete la vostra fede in modo concreto, sperimentando l’amore di Dio nella vostra vita quotidiana. Il cammino di fede può essere lungo e a volte difficile, ma non scoraggiatevi, perché Dio è sempre presente per sostenervi. Come ci ricorda il profeta Isaia: «Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e anche ti vengo in aiuto» (Is 41, 10). È fondamentale fare l’esperienza di Dio nella preghiera, nella pratica dei sacramenti, in particolare nella riscoperta del sacramento della Riconciliazione, e nella vita comunitaria, al fine di crescere nella fede e nell’amore.


Cari amici, con l’aiuto e il sostegno dei vostri pastori, dei vostri fratelli e sorelle maggiori nella fede, e sull’esempio dei santi che hanno affrontato le difficoltà proprie del loro tempo, vi incoraggio a restare connessi al Signore Gesù. Non nasciamo cristiani, lo diveniamo quando siamo toccati dalla grazia di Dio. Tuttavia questo “tocco” si esprime attraverso la nostra scelta attentamente ponderata e il nostro cammino personale. Senza questi veri requisiti, indosseremo l’etichetta di cristiani, ma di cristiani di convenienza, di abitudine o di comodo. Diveniamo cristiani autentici quando ci lasciamo toccare personalmente nella nostra vita di ogni giorno dalla parola e dalla testimonianza di Gesù. In mezzo alle vostre tribolazioni, ai momenti di solitudine e di aridità, alle incomprensioni, alle vostre fatiche, possano i vostri cuori radicarsi in lui che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6), la fonte di ogni pace, gioia e amore.

sabato 26 luglio 2025

Eucaristia problematica

Prima Corinti capitolo 11

Alcuni comportamenti dei membri della comunità, avevano suscitato scandali e disagi, in modo particolare durante il culto. Il dovere della rinuncia ai propri diritti, convinzioni o semplici abitudini, se questa è necessaria per evitare scandali o equivoci, ricompare anche nelle questioni dibattute in questa parte della lettera (velo per le donne e capelli corti per gli uomini). Paolo deve intervenire per pacificare la comunità. A prescindere da esse, è di capitale importanza imparare a vivere nella carità, nel reciproco rispetto. L’apostolo coglie l’occasione per ricordare il significato profondo della cena del Signore (o Eucaristia) e per correggere altri comportamenti che erano in contrasto con essa. La libertà del cristiano non è imposizione dei propri punti di vista ma liberazione dall’egoismo e dall’accentramento su di sé. Libero è chi può finalmente lascia scorrere, senza intoppi, l’energia della carità infusa in lui dallo Spirito; è amore del bene per il bene, oltre ogni legge ed ogni limite, ad imitazione di Dio. 

1Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo. 

Paolo ha sempre cercato di piacere al prossimo per edificarlo, non per suscitare ammirazione o consenso. Così può rendersi modello da imitare. «Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo» (Fil 3,17-18). «Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,1). «Voi, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Cristo Gesù che sono in Giudea, perché anche voi avete sofferto le stesse cose da parte dei vostri connazionali, come loro da parte dei Giudei» (1 Ts 2,14). «Dio infatti non è ingiusto tanto da dimenticare il vostro lavoro e la carità che avete dimostrato verso il suo nome, con i servizi che avete reso e che tuttora rendete ai santi. Desideriamo soltanto che ciascuno di voi dimostri il medesimo zelo… perché non diventiate pigri, ma piuttosto imitatori di coloro che, con la fede e la costanza, divengono eredi delle promesse» (Eb 6,10-11). 

2Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse.

Il valore delle Tradizioni di fede era già emerso nell'ebraismo: «Mattatia rispose a gran voce: «Anche se tutti i popoli che sono sotto il dominio del re lo ascoltassero e ognuno abbandonasse la religione dei propri padri, io, i miei figli e i miei fratelli cammineremo nell’alleanza dei nostri padri. Non sia mai che abbandoniamo la legge e le tradizioni. Non ascolteremo gli ordini del re per deviare dalla nostra religione a destra o a sinistra» (1 Mc 2,19-21). 

«Vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù. Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,1-2). «State saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso sia dalla nostra parola sia dalla nostra lettera» (2 Ts 2,15). «Vi raccomandiamo di tenervi lontani da ogni fratello che conduce una vita disordinata, non secondo l’insegnamento che vi è stato trasmesso da noi» (2 Ts 3,6).

3Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. 

Paolo è  venuto a sapere che alcuni insegnamenti trasmessi non venivano osservati. 

Qual è il significato del termine capo (kefale) attribuito a Cristo? Gesù Cristo porta a compimento il servizio di Mosè: «proprio lui Dio mandò come capo e liberatore, per mezzo dell’angelo che gli era apparso nel roveto» (At 7,35). Infatti, «Dio ha innalzato [Gesù] alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati» (At 5,31). Mosé e Gesù, quindi, sono capi perché liberano e salvano.

Gesù è capo perché datore di vita: «Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti» (Col 1,18). È capo perché è Salvatore: «Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo» (Ef 5,23). 

È diventato datore di vita, affrontando la sofferenza connessa al suo compito: «Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza» (Eb 2,10). Dal momento che Gesù ha dato tutto se stesso agli uomini, viene glorificato dal Padre: «Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose» (Ef 1,22-23). Chi ha dato tutto se stesso «parla come uno che ha autorità», è il capo carovana che guida alla salvezza (cf Eb 2,10). L’uomo “capo della donna” è tale quando imita l’autorità di Gesù.

Nel contesto d’una mentalità nettamente patriarcale, Paolo innesta principi di fede e di comportamento che tendono ad anticipare la novità assoluta della nuova creazione, inaugurata dalla Pasqua del Signore. La novità (escatologica) costituisce l’essenza della vita cristiana: «Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,26-29). La novità, già vissuta nell’assemblea eucaristica, rinnova la Chiesa e la società, entrambe refrattarie ad accogliere in totalità la novità del Vangelo, al modo del lievito che fermenta tutta la pasta con gradualità. 

4Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. 5Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. 6Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. 

v.5 Consente che una donna preghi o profetizzi nell’assemblea di culto. Questo è l’elemento nuovo, di enorme importanza. Vuole, però, che compia questo servizio a capo coperto. L’eccessiva disinvoltura, attuata nel profetare a capo scoperto, creava scandalo per la mentalità dell’epoca. Ribadisce, quindi, il principio già sostenuto nella questione delle carni offerte agli idoli: conoscere e godere d’una mentalità libera, dal punto di vista cristiano, è un sapere autentico soltanto se non ferisce la coscienza dell’altro. Chi conosce senza esercitare la carità, è un cristiano inconsistente che scompiglia e frantuma la comunione. 

Emerge, comunque, la tensione tra la novità evangelica che suscita nuove convinzioni e la difficoltà a recepirla. Tutti consentono al principio proclamato finchè non si arrestano inquieti di fronte alle conseguenze ultime derivanti dalla sua applicazione. Paolo deve mediare tra la difesa d’un principio da lui divulgato e la recezione pratica di esso. Questo vale anche per lui che si muove piuttosto imbarazzato nella questione. 

7L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. 8E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; 9né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. 

Il suo intento è pacificare la comunità ed eliminare una prassi per molti scandalosa. Per fare questo ha bisogno di apellarsi alla Scrittura e richiama il secondo racconto della creazione, quello che parla della formazione di Eva da Adamo. Trascura, però, il primo racconto dove sia il maschio che la femmina vengono proclamati ad immagine di Dio. L’idea che la donna fu creata per l’uomo riprende il passo dove si afferma che Dio creò per l’uomo un aiuto che gli fosse pari. Il testo, tuttavia, lascia intuire la fragilità di Adamo nel trovarsi da solo e il dono della complementarietà che riceve grazie all’esistenza di Eva. 

Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli. 11Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna. 12Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio.

Paolo intuisce la fragilità degli argomenti che ha tirato in campo e nell’imporre un comportamento che di per sé segnala un ritorno all’idea dell’inferiorità della donna, lo trasforma in un gesto di riabilitazione: se tiene il capo coperto, onora se stessa; è un segno d’autorità a motivo degli angeli (una menzione piuttosto misteriosa). Completa il riferimento biblico a cui ha accennato (ricordando il messaggio della prima creazione?) e difende la pari dignità della donna rispetto all’uomo «dal punto di vista» del Signore [v. 11: nel Signore]; dal punto di vista degli uomini la parità è meno scontata. 

13Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna preghi Dio col capo scoperto? 14Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, 15mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La lunga capigliatura le è stata data a modo di velo. 

Ora rivela la motivazione del suo intervento pastorale così preoccupato. Il dato naturale a cui si appella è, in realtà, un elemento culturale prevalente nella società dell’epoca, dove le donne in pubblico si velavano; soltanto schiave e prostitute si muovevano a capo scoperto. Accenna anche a maschi che assumevano attitudini femminili. Un moralista appartenente allo stoicismo, Epitteto condannava la confusione tra i sessi. «C’è qualcosa di più inutile dei peli sul mento? Eppure, la natura non ha utilizzato anche questi nel modo più conveniente possibile? Non ha separato grazie ad essi il maschio della femmina? Perciò dovremmo salvaguardare i segni che Dio ci ha dati e non dovremmo rifiutarli nè per quanto dipende da noi confondere i sessi che si trovano ben distinti» (Diatribe, I,16,14). Rimproverava i maschi che facevano consistere il loro valore nella mera ricerca della bellezza fisica che comprendeva anche una cura particolareggiata dei capelli trascurando la vera bellezza che consisteva nel coltivare la rettitudine (Diatribe III,1, 7-15). 

16Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio. 

«Vi prego: diventate miei imitatori! Per questo vi ho mandato Timòteo, che è mio figlio carissimo e fedele nel Signore: egli vi richiamerà alla memoria il mio modo di vivere in Cristo, come insegno dappertutto in ogni Chiesa» (1 Cor 4,17). «… così dispongo in tutte le Chiese» (1 Cor 7,17). 


17Mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. 18Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. 19È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. 

La riunione di culto, in modo particolare la celebrazione della cena del Signore, presuppone che vi sia già una certa concordia tra i fedeli e che la preghiera la renda ancora più salda. 

Nell’assenza di carità l’assemblea, invece, si raduna per il peggio. «Ammasso di stoppa è una riunione di iniqui, la loro fine è una fiammata di fuoco» (Sir 21,9). «Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità» (Is 1,13). «Dal momento che vi sono tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera umana?» (1 Cor 3,3). «Dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni» (Gc 3,16).

v. 19 Quando sorgono conflitti, appare in evidenza quali siano le persone che camminano nella carità e quali, invece, si lascino trascinare da loro egoismo. 

20Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. 21Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. 22Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! 

La “frazione del pane” o “cena del Signore” è memoriale della passione e risurrezione del Signore nell’attesa del suo ritorno. Mediante questa liturgia, i cristiani si uniscono al Signore e fra di loro; essa li costituisce “corpo di Cristo” e, in questo, realizzano l’unità. La mancanza di tale di spirito di comunione annienta il beneficio della partecipazione alla Pasqua del Signore (v.27). Avulsa da ogni impegno etico, il rito eucaristico non si distingue più da un rito pagano, dove il proposito di vivere nella rettitudine non è neppure richiesto. 

Alcuni tentano di disgiungere la scelta di fede dal comportamento: «Essi stimano felicità darsi ai bagordi in pieno giorno; scandalosi e vergognosi, godono dei loro inganni mentre fanno festa con voi, hanno gli occhi pieni di desideri disonesti e, insaziabili nel peccato, adescano le persone instabili, hanno il cuore assuefatto alla cupidigia» (2 Pt 2,13-14). 

Paolo aveva già richiamato la necessità di uno spirito di comunione: «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1 Cor 10,17). «Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il mistero di voi: ricevete il mistero di voi. A ciò che siete rispondete: Amen e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: “Il Corpo di Cristo”, e tu rispondi: “Amen”. Sii membro del corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo “Amen”. Perché [il corpo di Cristo] nel pane? Chi è questo unico pane? Pur essendo molti, formiamo un solo corpo. Ricordate che il pane non è composto da un solo chicco di grano, ma da molti» (Agostino, Discorso 272,1). 

23Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane 24e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». 

La celebrazione eucaritica non è un’invenzione di Paolo o della Chiesa. La tradizione a cui ora accenna potrebbe indicare una tramissione orale di un comando di Gesù, iniziata già all’interno della primitiva comunità cristiana [prima ancora della composizione dei Vangeli] o, perfino, una rivelazione personale comunicata all’apostolo dal Signore. La frase indica il valore della Tradizione apostolica: la Chiesa riceve da Gesù e dagli apostoli e trasmette ai fedeli. 

Nella notte, nell’ora in cui domina la tenebra, il Signore fa risplendere la sua luce; [invece di imprecare contro il buio, accende una luce che non sarà mai spenta]. Gesù viene consegnato [tradito] da Giuda, ma in realtà è lui stesso che si consegna a Dio a favore degli uomini. [Il verbo paradidomai significa tradire o consegnare]. Gesù trasforma un crimine, in un atto d’amore totale: è la transustanziazione della sua vita. Non cerca di salvarsi, né pretende di essere salvaguardato da Dio, ma anticipa la sua auto-consegna sulla croce. 

Rendere grazie (eucharistesas): nella cena pasquale, Israele ringraziava il Signore per tutti i gesti di liberazione compiuti a suo favore, Gesù ringrazia per la liberazione che procurerà grazie alla sua morte, rende grazie per essere lui stesso il dono definitivo di Dio. Tutta la sua persona (corpo o carne), da sempre, è stata un pane, un alimento di vita; lo sarà in modo particolare nella sua morte: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6,54-55). 

Spezzare è l’atto che permette la condivisione. «Spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro» (Mt 6,41). 

Fare memoria di lui è vivere come lui, all’insegna dell’amore: «Chi si unisce al Signore, forma con lui un solo spirito con lui» (1 Cor 6,17). La Pasqua è un evento perenne: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore» (Es 12,14). L’egoista è provo di senno: «A chi è privo di senno [la Sapienza] dice: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza”» (Pr 9,4-6). L’Eucarestia è il giardino del battezzato che sperimenta l’ebbrezza della virtù dell’amore : «Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, mia sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte. Mangiate, amici, bevete; inebriatevi d’amore» (Ct 5,1). 

25Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». 26Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

Il calice di vino richiama alla mente il sangue che verserà alla sua morte. Il sangue veniva sparso per espiare i peccati, riconciliare e siglare l’alleanza con Dio. «Mosè prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto”. Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!”» (Es 24,7-8). Gesù sparse il suo sangue per stabilire la riconciliazione con Dio: «Cristo entrò una volta per sempre nel santuario [del cielo], non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna» (Eb 9,12). La sua morte consente la stipula della nuova Alleanza, promessa dai profeti: «Vi siete accostati a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele» (Eb 12,24). Il valore di questa Alleanza Nuova sta nel fatto che essa rende possibile osservare la Parola: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore» (Ger 31,33). «Ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone» (Tt 2,14).

27Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. 28Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; 29perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. 

v.27 Mangiare in modo indegno (anaxìos) è accostarsi alla mensa del Signore senza aver alcun riguardo per il corpo ecclesiale. Chi disprezza i poveri, manca di rispetto verso Cristo. Il partecipante deve esaminarsi per vedere se egli riconosce il corpo (ecclesiale) del Signore perché se, invece, crea divisioni e discriminazioni nei confronti dei più deboli, verrà condannato perché il Signore distrugge chi distrugge il suo tempio (Cf 1 Cor 3,17). 

v. 28 «Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l'abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l'abito nuziale?”. Quello ammutolì» (Mt 22,11-12). 

30È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. 31Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; 32quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo. 

Il giudizio del Signore si attua come pedagogia severa per evitare in seguito di dover condannare. «Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te» (Dt 8,5). «Egli ferisce e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana» (Gb 5,18). «Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come nell'arsura estiva si inaridiva il mio vigore» (Sal 32,4). «Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità» (1 Gv 1,9). «È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre?» (Eb 12,7). «Sii vigilante, rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato perfette le tue opere davanti al mio Dio. Ricorda come hai ricevuto e ascoltato la Parola, custodiscila e convèrtiti perché, se non sarai vigilante, verrò come un ladro» (Ap 3,2-3). 

33Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. 34E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta. 

Il comando finale riassume il messaggio esposto. Gli invitati alla cena del Signore devono aspettarsi e mangiare insieme. Alcuni, come gli schiavi, ad esempio, non potevano giungere sempre in tempo. Non era possibile che ci fossero persone sazie ed altre affamate. Paolo non raccomanda impegni eroici ma semplici accorgimenti di rispetto reciproco. L’esercizio della carità comincia dal poco. «Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome, non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41). «Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare altri, ma che vi sia uguaglianza» (2 Cor 8,13). «La gioia sovrabbondante [delle Chiese della Macedonia] e la loro estrema povertà hnno sovrabbondato nella ricchezza della loro generosità» (2 Cor 8,2). 


domenica 20 luglio 2025

Libertà del cristiano


 

Esercizio della libertà cristiana

1 Corinzi capp. 8-10


Premessa: la libertà nella Sacra Scrittura

Nell’antichità, la società si divideva in liberi e schiavi: Il Levitico proibiva che un fratello israelita divenisse schiavo d’un altro: «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te, non farlo lavorare come schiavo; sia presso di te come un bracciante, come un ospite. Essi sono infatti miei servi, che io ho fatto uscire dalla terra d’Egitto; non debbono essere venduti come si vendono gli schiavi. Non lo tratterai con durezza, ma temerai il tuo Dio. …Quanto allo schiavo e alla schiava che avrai in proprietà, potrete prenderli dalle nazioni che vi circondano. Potrete anche comprarne tra i figli degli stranieri stabiliti presso di voi e tra le loro famiglie che sono presso di voi. Li potrete lasciare in eredità ai vostri figli dopo di voi, come loro proprietà; vi potrete servire sempre di loro come di schiavi. Ma quanto ai vostri fratelli, gli Israeliti, nessuno dòmini sull’altro con durezza» (Lv 25, 39-46). 

Nel Nuovo Testamento il Signore ha affrancato tutti gli uomini e tutti sono stati resi di uguale dignità, partecipi dello Spirito: «Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (1 Cor 12,13).

Dio si è rivelato liberando il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto: «Di’ agli Israeliti: “Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio teso. Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio. Saprete che io sono il Signore, il vostro Dio, che vi sottrae ai lavori forzati degli Egiziani» (Es 6,6). «Ietro [suocero di Mosè] si rallegrò di tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele, quando lo aveva liberato dalla mano degli Egiziani. Disse Ietro: «Benedetto il Signore, che vi ha liberato dalla mano degli Egiziani e dalla mano del faraone: egli ha liberato questo popolo dalla mano dell’Egitto!» (Es 18,9-10). 

Libera il popolo affinché possa servirlo: «Perciò va’! Io ti [Mosè] mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!”. Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte”» (Es 3,7-12). 

Secondo la promessa dei profeti, lo libera dai nemici (2), dalla paura (3), da ogni male (4), dal peccato (5) e dalla morte (6)

Secondo la promessa ai profeti: «Tu non temere, Giacobbe, mio servo– oracolo del Signore –, non abbatterti, Israele, perché io libererò te dalla terra lontana, la tua discendenza dalla terra del suo esilio. Giacobbe ritornerà e avrà riposo, vivrà tranquillo e nessuno lo molesterà, perché io sono con te per salvarti» (Ger 30,10-11). 

2. dai nemici: «Se è proprio di tutto cuore che voi tornate al Signore, eliminate da voi tutti gli dèi stranieri; indirizzate il vostro cuore al Signore e servite lui, lui solo, ed egli vi libererà dalla mano dei Filistei» (1 Sam 7,3). «Coraggio, figli miei, gridate a Dio, ed egli vi libererà dall’oppressione e dalle mani dei nemici. Una grande gioia mi è venuta dal Santo, per la misericordia che presto vi giungerà» (Bar 4,21.22).

Ciò che il Signore compie per tutto il popolo, lo compie anche per le singole persone: «Mi assalivano da ogni parte e nessuno mi aiutava; mi rivolsi al soccorso degli uomini, e non c’era. Allora mi ricordai della tua misericordia, Signore, e dei tuoi benefici da sempre, perché tu liberi quelli che sperano in te e li salvi dalla mano dei nemici» (Sir 51,8). Nemici del profeta possono essere gli Israeliti stessi: «Di fronte a questo popolo io ti renderò come un muro durissimo di bronzo; combatteranno contro di te, ma non potranno prevalere, perché io sarò con te per salvarti e per liberarti» (Ger 15,20). 

3. dalla paura: «Invocami nel giorno dell’angoscia. Ti libererò e tu mi darai gloria» (Sal 50,15). «Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta; nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso» (Sal 91,14). 

4. da ogni male: «Non dire: “Renderò male per male”; confida nel Signore ed egli ti libererà» (Pr 20,22). «Infatti chi si volgeva a guardarlo (il Serpente di bronzo) era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva, ma da te, salvatore di tutti. Anche in tal modo hai persuaso i nostri nemici che sei tu colui che libera da ogni male» (Sap 16,7-8). 

5. dal peccato: «[La Sapienza] non abbandonò il giusto venduto, ma lo liberò dal peccato. Scese con lui nella prigione, non lo abbandonò mentre era in catene» (Sap 10,13-14). 

6. dalla morte: «I tesori male acquistati non giovano, ma la giustizia libera dalla morte» (Pr 10,2). «Non giova la ricchezza nel giorno della collera ma la giustizia libera dalla morte» (Pr 11,4). 

Gesù rompe con l’idea del liberatore politico atteso per operare una liberazione più profonda. Distruggendo l’unico e reale oppressore dell’uomo, il diavolo. 

«Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo» (Eb 2,14). 

Gesù libera dal peccato e dalla morte: 

Dal peccato: «Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Gli risposero: “Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?”. Gesù rispose loro: “In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero”» (Gv 8,31-36). «Io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (Rm 7,21-25). 

Dalla morte: «Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte, perché non ponessimo fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà, e per la speranza che abbiamo in lui ancora ci libererà, grazie anche alla vostra cooperazione nella preghiera per noi» (2 Cor 1,9-11). 

Stabilisce i salvati nell’autentica libertà:

«Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è la libertà» (2 Cor 3,17). ). «Anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). «Abbiamo la libertà di accedere a Dio in piena fiducia mediante la fede in lui [Cristo]» (Ef 3,12; Cf Eb 10,19). 

«Con discorsi arroganti e vuoti e mediante sfrenate passioni carnali adescano quelli che da poco si sono allontanati da chi vive nell’errore. Promettono loro libertà, mentre sono essi stessi schiavi della corruzione. L’uomo infatti è schiavo di ciò che lo domina. Se infatti, dopo essere sfuggiti alle corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del nostro Signore e salvatore Gesù Cristo, rimangono di nuovo in esse invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima» (2 Pt 2, 18-20). 

Il popolo può servire il suo Creatore realizzando se stesso pienamente nella carità:

«Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13). «Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia» (Rm 6,16-18). «Questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti, come uomini liberi, servendovi della libertà non come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio» (1 Pt 2,15-16). 

In sintesi, la libertà è una liberazione dai mali che afliggono l’uomo ma soprattutto è partecipazione alla carità di Dio


Capitolo 8

La libertà intesa come partecipazione alla carità stessa che è Dio compare soprattutto nei capitoli 8-11 della prima lettera ai Corinti. L’occasione gli viene offerta dalla necessità intervenire nel dibattito sorto nella comunità circa la leicità del consumo delle carni che erano state offerte alle divinità (eidolothyton) nei sacrifici pagani. Tutti i membri della comunità avevano abbandonato il culto degli Dei e credevano nell’esistenza d’un unico Dio. Sul piano pratico, alcuni, non avevano esitazione alcuna a «stare a tavola in un tempio di idoli» (v.10) senza voler venerare alcuna divinità, ma soltanto per nutrirsi di carne a buon prezzo. Altri, tuttavia, rimanevano turbati nel vedere dei compagni di fede banchettare nei templi. Questi fedeli più scrupolosi vengono denominati deboli (1 Cor 8,11).

1Riguardo alle carni sacrificate agli idoli, so che tutti ne abbiamo conoscenza. Ma la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica. 2Se qualcuno crede di conoscere qualcosa, non ha ancora imparato come bisogna conoscere. 

Paolo proibisce la partecipazione ai sacrifici idolatrici ma consente di mangiare la carne avanzata dai banchetti e messa sul mercato. I cristiani più colti ed avveduti deridevano le esitazioni di quelli che erano bloccati nell’incertezza e li disprezzavano. La loro convinzione li rendeva sicuri di sé, forse troppo sicuri, mentre avrebbero dovuto usare nei confronti dei “deboli” un sentimento di comprensione. La loro sicurezza si trasformava in orgoglio mentre soltanto la carità edifica la comunità. Non basta coltivare buone idee ma bisogna diventare persone sensibili nei confronti delle difficoltà o debolezze altrui. Questa attenzione misericordiosa costituisce la vera conoscenza. «Hai visto un uomo che è saggio ai suoi occhi? C’è più da sperare da uno stolto che da lui» (Pr 26,12). 

3Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto.

È necessario, prima di tutto, conoscere (ossia amare) il Signore e costruire su questo amore relazioni serene con gli altri. In realtà, quando lo amiamo, siamo già stati riconosciuti ed amati da Lui: «Ora avete conosciuto Dio, anzi è Dio che vi conosce» (Gal 4,9). «Disse il Signore a Mosè: hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome”» (Es 33,17). Vale a dire: tu hai la mia piena fiducia, perché Io [il Signore] ti conosco bene!

«Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14). «Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rm 8,29). «Le solide fondamenta gettate da Dio resistono e portano questo sigillo: Il Signore conosce quelli che sono suoi, e ancora: Si allontani dall'iniquità chiunque invoca il nome del Signore» (2 Tm 2,19). 

4Riguardo dunque al mangiare le carni sacrificate agli idoli, noi sappiamo che non esiste al mondo alcun idolo e che non c’è alcun dio, se non uno solo. 

Nel suo intervento, Paolo comincia col ribadire la comune convinzione di fede circa l’inesistenza delle divinità. Gli Ebrei da lungo tempo erano radicati nel monoteismo: «Il Signore (YHWH) è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4). Voi siete miei testimoni: c’è forse un dio fuori di me o una roccia che io non conosca?» (Is 44,8). «Quelli che servono idoli falsi abbandonano il loro amore» (Gio 2,9). I profeti, ripetutamente, avevano contestato il culto delle divinità: «Quando alzi gli occhi al cielo e vedi il sole, la luna, le stelle e tutto l’esercito del cielo, tu non lasciarti indurre a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle; cose che il Signore, tuo Dio, ha dato in sorte a tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli. Voi, invece, il Signore vi ha presi, vi ha fatti uscire dal crogiuolo di ferro, dall’Egitto, perché foste per lui come popolo di sua proprietà, quale oggi siete» (Dt 4,19-20). 

Gli apostoli ripresero il loro annuncio veritiero: «Non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano» (At 17,29-30). 

5In realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo che sulla terra – e difatti ci sono molti dèi e molti signori –, 6per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui. 

Precisa ancora meglio il contenuto della fede comune. Secondo lui esiste un unico vero Dio, ma, in sintonia con alcune credenze giudaiche del tempo, egli è convinto dell’esistenza di esseri superiori angelici o demoniaci, situati tra Dio e il mondo. Questi esseri, tuttavia, non sono paragonabili a Dio, in quanto sue creature, e ad essi non doveva essere attribuito alcun culto. 

I fedeli fondano la loro esistenza sulla fede nell’unico Dio che si è rivelato come Padre. «Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio?» (Ml 2,10). Sanno che tutti provenivano da lui e che sarebbero tornati a lui. «Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6).

Questo sentimento era già presente presso gli Ebrei ma i cristiani avevano un altro riferimento importante: Gesù, proclamato come Messia (Cristo). «[I profeti], quei santi uomini soffrirono anche persecuzioni, sostenuti dalla sua grazia, per convincere gli increduli che c’è un solo Dio e che egli si sarebbe manifestato per mezzo del Messia, cioè di Gesù Cristo, suo Figlio, che è il suo Verbo uscito dal silenzio. Questi piacque in ogni cosa a colui che l’aveva mandato» (Ignazio di Antiochia, Magnesii 6,1-9). Il Padre ha fatto conoscere se stesso per mezzo del Figlio. Paolo lo colloca al di sopra di ogni creatura in quanto è collaboratore di Dio nella creazione e noi esistiamo grazie a lui. «Tutto è stato fatto per mezzo di lui [il Verbo] e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,3). «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1,11). Egli riceve il titolo di Signore, un titolo che lo accomuna al Padre e, come tale, è anche il nostro Salvatore: «È il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano» (Rm 10,12). Ormai Dio entra in comunione con noi mediante Gesù Signore: «in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (cf Col 2,9) e perciò i battezzati non vivono più per se stessi ma per Colui che è morto e risorto per loro (cf 2 Cor 5,15). 

7Ma non tutti hanno la conoscenza; alcuni, fino ad ora abituati agli idoli, mangiano le carni come se fossero sacrificate agli idoli, e così la loro coscienza, debole com’è, resta contaminata. 

Dopo aver ribadito il nucleo della fede, torna a considerare la pratica di vita. Secondo alcuni cristiani più scrupolosi che avevano abbandonato da poco i culti idolatrici, mangiare le carni dei sacrifici era compiere un atto idolatrico e quindi nessuno doveva indurli a fare questo con le parole o con il comportamento. 

Paolo aveva scorto un problema simile a proposito dell’alimentazione in generale. Alcuni consideravano impuri determinati alimenti, mentre altri non tenevano più conto di queste distinzioni e si nutrivano di qualsiasi genere di cibo, ma, così facendo, ferivano la coscienza dei primi. Seguendo le loro convinzioni, di per sé realmente più mature, non badavano a far soffrire gli altri meno evoluti. Paolo dichiara: «Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è impuro in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come impuro, per lui è impuro. Ora se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Non mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto!» (Rm 14,14-15). 

8Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa; se ne mangiamo, non ne abbiamo un vantaggio. 

Non attribuisce alcuna importanza alle regole alimentari, seguendo l’insegnamento di Gesù che dichiarava puro ogni alimento «“Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?”. Così rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male» (Mc 7,20-23). «Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14.17). «Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché, come se viveste ancora nel mondo, lasciarvi imporre precetti quali: “Non prendere, non gustare, non toccare”? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne» (Col 2,20-23). 

9Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. 10Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? 

Non basta essere certi in coscienza della bontà del proprio agire e sostenere opinioni liberanti ma è necessario che questa mentalità non ferisca la coscienza di un fratello che non ha ancora maturato le stesse convinzioni. «Cerchiamo dunque ciò che porta alla pace e alla edificazione vicendevole. Non distruggere l’opera di Dio per una questione di cibo! Tutte le cose sono pure; ma è male per un uomo mangiare dando scandalo. Perciò è bene non mangiare carne né bere vino né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi. La convinzione che tu hai, conservala per te stesso davanti a Dio. Beato chi non condanna se stesso a causa di ciò che approva. Ma chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce secondo coscienza; tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza è peccato» (Rm 14,19-23). 

«Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2 Cor 11,29). «Siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13). «Questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti, come uomini liberi, servendovi della libertà non come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio» (1 Pt 2,15-16). 

11Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! 12Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. 13Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello. 

La conoscenza (il sapere che l’idolo non è nulla) non deve diventare motivo di rovina spirituale per il fratello più debole. La libertà, se esercitata con orgoglio e senza amore, può compromettere la fede di chi è più fragile. È un paradosso tragico: Cristo è morto per lui, e tu lo rovini per il tuo sapere. Ferire un fratello nella sua coscienza equivale a peccare contro Cristo stesso. L'identificazione tra Cristo e il fratello debole richiama il Vangelo (cf. Mt 25,40). 

Questo ci ricorda che la comunione ecclesiale non è solo teorica: ciò che facciamo al fratello, lo facciamo a Cristo. «Chi accoglie voi, accoglie me» (Mt 10,40). L’amore per il fratello viene prima della libertà personale; occorre rinunciare per sempre ad un diritto, pur di non scandalizzare. Questo è l’esempio di una libertà che si fa servizio, tipica del Vangelo. «Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,43-44). La coscienza altrui va rispettata, e la libertà non è mai assoluta, ma relazionale e responsabile. L’amore cristiano consiste in scelte concrete a favore degli altri, anche se costose. È necessario evitare comportamenti che, pur essendo in sé leciti, possano indebolire la fede altrui. Non usare la libertà come un’arma. 

Capitolo 9

Paolo spiega ai fedeli in che modo esercitare la libertà cristiana. Pur essendo libero, si è fatto servo di tutti. Non ha cercato il suo vantaggio ma quello degli altri e, di conseguenza, si è sempre adattato alla mentalità delle persone che incontra per non ferirle (purché questo adattamento non fosse un consenso al male). Soprattutto ha rinunciato perfino ai propri diritti e ai propri legittimi vantaggi, se questa rinuncia avesse favorito l’annuncio del Vangelo. 

9 1Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? 2Anche se non sono apostolo per altri, almeno per voi lo sono; voi siete nel Signore il sigillo del mio apostolato. 

Compare una serie di domande retoriche attraverso le quali evidenzia il suo stile di vita. È un uomo libero ma si fa servo. 

Rivendica, poi, il mandato di apostolo anche se non apparteneva al gruppo dei Dodici e degli altri discepoli che avevano conosciuto Gesù. Egli infatti ha visto il Risorto ed è stato accredidato da lui: «Il Vangelo da me annunciato non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1,12; cf. At 9,3-5; 22,17-21). 

L’esistenza della comunità di Corinto è una prova tangile che egli è un vero missionario, in grado di suscitare dei credenti. «Cominciamo di nuovo a raccomandare noi stessi? O abbiamo forse bisogno, come alcuni, di lettere di raccomandazione per voi o da parte vostra? La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani. Proprio questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo, davanti a Dio» (2 Cor 3,1-4).

3La mia difesa contro quelli che mi accusano è questa: 4non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere? 

I missionari erano mantenuti dalle comunità che li ospitavano. Gesù aveva detto ai discepoli inviati da lui: «Restate in quella casa [che vi ospita], mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto» (Lc 10,7.8). Paolo sostiene questa prassi: «Chi viene istruito nella Parola, condivida tutti i suoi beni con chi lo istruisce» (Gal 6,6). 

Egli, però, talora, non ha voluto servirsi di questo diritto suscitando ammirazione ma anche delle critiche pretestuose (v. 15). «Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo di nome Aquila, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro e, poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì in casa loro e lavorava. Di mestiere, infatti, erano fabbricanti di tende. Ogni sabato poi discuteva nella sinagoga e cercava di persuadere Giudei e Greci» (At 18,1-4). Il fatto di dover lavorare, lo considera una tribolazione aggiuntiva (cf 1 Cor 4,12). 

In altri casi, pur restando fedele alla sua decisione di lavorare con le sue mani, si è fatto aiutare da altri: «Ho provato grande gioia nel Signore perché finalmente avete fatto rifiorire la vostra premura nei miei riguardi… So vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni. Lo sapete anche voi, Filippesi, che all’inizio della predicazione del Vangelo, quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa mi aprì un conto di dare e avere, se non voi soli; e anche a Tessalònica mi avete inviato per due volte il necessario. Non è però il vostro dono che io cerco, ma il frutto che va in abbondanza sul vostro conto. Ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un piacevole profumo, un sacrificio gradito, che piace a Dio. Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù» (Fil 4,10-19).

5Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? 

Nel corso della sua predicazione, alcune donne accompagnavano il gruppo di Gesù con i Dodici «e li servivano con i loro beni» (Lc 8,3). 

6Oppure soltanto io e Bàrnaba non abbiamo il diritto di non lavorare? 7E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto? Chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge? 

Paolo e il collaboratore Barnaba avrebbero avuto il diritto di farsi mantenere dalle comunità perché la predicazione rappresentava il lavoro per mezzo del quale avrebbero potuto sostentarsi. Gli apostoli hanno gli stessi diritti di altri lavoratori, come i soldati, i viticoltori o i pastori che si guadagnano da vivere con il loro lavoro. Paolo e Barnaba, tuttavia, hanno rinunciato a questo diritto per sembrare più credibili ai loro interlocutori e favorire così l’evangelizzazione. Anche i fedeli dovrebbero rinunciare al diritto di mangiare carni sacrificate agli idoli per venire incontro a quelli che, turbati e scandalizzati di questa consumazione, potrebbe ricadere nell’idatria pagana.

8Io non dico questo da un punto di vista umano; è la Legge che dice così. 9Nella legge di Mosè infatti sta scritto: Non metterai la museruola al bue che trebbia. Forse Dio si prende cura dei buoi? 10Oppure lo dice proprio per noi? Certamente fu scritto per noi. Poiché colui che ara, deve arare sperando, e colui che trebbia, trebbiare nella speranza di avere la sua parte. 

Cita Deuteronomio 25,4 ("Non metterai la museruola al bue che trebbia") e lo interpreta in senso allegorico. Non nega il senso letterale del versetto, ma ne trae un principio più profondo: se anche agli animali che lavorano va riconosciuto un sostentamento, quanto più ciò vale per chi lavora per il Vangelo. 

11Se noi abbiamo seminato in voi beni spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo beni materiali? 12Se altri hanno tale diritto su di voi, noi non l’abbiamo di più? Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non mettere ostacoli al vangelo di Cristo. 13Non sapete che quelli che celebrano il culto, dal culto traggono il vitto, e quelli che servono all’altare, dall’altare ricevono la loro parte? 14Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo. 15Io invece non mi sono avvalso di alcuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché si faccia in tal modo con me; preferirei piuttosto morire. Nessuno mi toglierà questo vanto!

Con l’espressione "abbiamo seminato in voi beni spirituali", Paolo fa riferimento alla predicazione del Vangelo, che è un bene immateriale. Ricevere in cambio un compenso materiale è lecito e giusto. Sorprende il fatto che, pur avendone pieno diritto, rinunci volontariamente al sostegno economico per non creare intralcio al Vangelo di Cristo. Teme che questa richiesta possa essere fraintesa finendo con l’ostacolare il cammino di qualcuno verso la fede. È un modello di gratuità radicale. Non rifiuta la prassi che i ministri debbano essere sostenuti, ma, da parte sua, preferisce un annuncio del Vangelo che sia libero da ogni sospetto di interesse. Mostra l’aspetto paradossale della libertà cristiana: non è soltanto difesa ed esercizio dei propri diritti o affermazione dei propri bisogni, ma anche capacità di rinunciare ad essi favorire gli altri. Infine, non bisogna sottovalutare il valore del ministero, ma chi lavora per il Vangelo merita rispetto e sostegno, anche materiale.

16Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! 17Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. 18Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. 

Egli esprime il significato più profondo della sua missione, la quale non è derivata da una scelta personale, ma da un incarico ricevuto dal Signore stesso, a sua sorpresa. Il termine “ananke” indica un destino, una risposta ad una superiore azione di Dio. 

Guai a me! È un modo di parlare dei profeti: se si rifiutasse, agirebbe in modo contrario al volere di Dio e incontrerebbe la sua opposizione. 

Se evangelizzasse per sua iniziativa, avrebbe diritto ad essere ricompensato ma, poiché è stato come costretto dal Signore che lo ha chiamato, può desiderare soltanto di eseguire quanto gli è stato richiesto. In altre parole, non cerca né riconoscimenti né guadagni ma soltanto di dare compimento al mandato che gli è stato affidato. 

Nel vivere con estrema generosità, trova una grande ricompensa. L’amore è ricompensa a se stesso. Si mostra una persona totalmente libera perché è libero anche da se stesso. 

19Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: 20mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge – pur non essendo io sotto la Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. 21Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. 

La libertà cristiana è così paradossale che può tramutarsi in schiavitù pur di rendere libero il fratello. Quando si trova insieme ai fratelli ebrei, osserva tutte le prescrizioni che essi osservano, anche quelle che, di per sé, considera non più necessarie, pur di eliminare ogni occasione di scandalo ed aiutarli, così, ad accogliere Cristo. Quando si trova con i pagani, non li obbliga ad assumere certe norme cultuali che vigono tra gli ebrei, per non imporre loro un giogo troppo pesante che li distoglierebbe dall’aderire a Cristo. Questo non significa che trascuri di adempiere i comandamenti di Dio, così come li ha interpretati Gesù. 

Vediamo un caso in cui Paolo adempie delle osservanze ebraiche pur di non sconvolgere la comunità giudeo-cristiana. Giacomo, responsabile della comunità giudeo cristiana di Gerusalemme gli suggerisce: «Tu vedi, fratello, quante migliaia di Giudei sono venuti alla fede e sono tutti osservanti della Legge. Ora, hanno sentito dire di te che insegni a tutti i Giudei sparsi tra i pagani di abbandonare Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le usanze tradizionali. Che facciamo? Fa’ dunque quanto ti diciamo. Vi sono fra noi quattro uomini che hanno fatto un voto. Prendili con te, compi la purificazione insieme a loro e paga tu per loro perché si facciano radere il capo. Così tutti verranno a sapere che non c’è nulla di vero in quello che hanno sentito dire, ma che invece anche tu ti comporti bene, osservando la Legge» (At 21,20-24). 

22Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. 23Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io. 

«Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene, per edificarlo. Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma, come sta scritto: Gli insulti di chi ti insulta ricadano su di me» (Rm 15,1). «Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2 Cor 11,28). «Io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna» (2 Tm 2,10). 

24Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! 

Ricorre spesso ad immagini attinte dall’atletica, considerando l’attenzione che essa godeva nell’antichità: «So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,13-14). «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno» (2 Tm 4,2-8). «Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,1-2). 

25Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. 

Il cristiano, come ogni valido atleta, è disciplinato in tutto (panta enkrateuetai). L’uomo peccatore distoglie da Dio il suo desiderio e lo volge alle cose, alle persone, avendo per dio il proprio ventre. Lo attesta la parabola del ricco che indossa vestiti di porpora e ogni giorno banchetta lautamente (cf Lc 16,19). 

Cerca sempre la gratificazione. Lo attesta il comportamento della «gente raccogliticcia» che accompagnava Israele e lo coinvolge nella cupidigia: «fu presa da grande bramosia, e anche gli Israeliti ripresero a piangere e dissero: “Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna» (Nm 11,4-6). Il governatore pagano Felice, che si mostrava ben disposto verso l’apostolo, non appena sentì Paolo parlare «di giustizia, di continenza e del giudizio futuro «si spaventò» (At 24,25) e preferisce continuare ad accumulare denaro. 

Con la conversione al Vangelo, finisce «il tempo trascorso nel soddisfare le passioni dei pagani, vivendo nei vizi, nelle cupidigie, nelle orge…» (1 Pt 4,3), perché «tutto quello che è nel mondo [malvagio], non viene dal Padre» (1 Gv 2,16). 

Il credente promette: sebbene tutto possa essere lecito, «non mi lascerò dominare da nulla» (1 Cor 6,12). Si propone questo proprio perché s’accorge che anche in lui è presente la bramosia del ricco (Cf 11 Cor 11,21). Soprattutto sa di essere stato liberato dalla grazia: «tutti noi un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi… Ma Dio, ricco di misericordia, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati» (Ef 2,3-5).

La temperanza rende equilibrato l’uso dei beni creati,e garantisce anche la salute: «Figlio, per tutta la tua vita esamina te stesso, vedi quello che ti nuoce e non concedertelo. Difatti non tutto conviene a tutti… Non essere ingordo per qualsiasi ghiottoneria e non ti gettare sulle vivande, perché l’abuso dei cibi causa malattie e l’ingordigia provoca le coliche. Molti sono morti per ingordigia, chi invece si controlla vivrà a lungo» (Sir 37,27-31). 

Il saggio non asseconda le passioni perché accoglie l’avvertimento: «se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete» (Rm 8,13). «Vi esorto ad astenervi dai cattivi desideri della carne, che fanno guerra all’anima» (1 Pt 2,11). «Sta’ lontano dalle passioni della gioventù; cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro. Un servo del Signore non deve essere litigioso, ma mite con tutti, capace di insegnare, paziente, dolce nel rimproverare quelli che gli si mettono contro, nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi, perché riconoscano la verità e rientrino in se stessi, liberandosi dal laccio del diavolo, che li tiene prigionieri perché facciano la sua volontà» (2 Tm 2,22-26). 

Il sapiente cerca di raggiungere il dominio di sé (enkrateia), una virtù denominata anche sobrietà, contando sull’aiuto dello Spirito Santo: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, benevolenza, mitezza e dominio di sé» (Gal 5,22; cf Tt 1,8). 

Per conservare il dominio di sé, l’apostolo tratta duramente il suo corpo e lo riduce in schiavitù (1 Cor 9,27). Usa una terminologia attinta dal pugilato: colpisco il mio corpo sotto gli occhi (ypopiazo). Il pugile vincitore trascinava il vinto davanti al pubblico e, in modo simile, egli riduce in suo potere il suo corpo per non perdere se stesso. 

La sobrietà favorisce la vita interiore dello Spirito perché rende ben armati: «Noi siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità. E avendo come elmo la speranza della salvezza» (1 Ts 5,8). Facilita la perseveranza nella preghiera: «Siate moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera» (1 Pt 4,7). 

Il credente, tuttavia, non è una persona tesa solamente alla repressione dei desideri, ma è orientata al Signore, sommo bene che fornisce un appagamento oportuno. «Gustate e vedete com’è buono il Signore!» (Sal 34,9) «Egli appagò il loro desiderio» (Sal 78,29). «Il Signore ti circonda di bontà e misericordia, sazia di beni la tua vecchiaia, si rinnova come aquila la tua giovinezza» (Sal 103,4-5). 

26Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; 27anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato

«È Cristo che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza» (Col 1,28-29). 

Capitolo 10

1Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, 2tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, 3tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. 5Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. 

Il rischio più grave in cui possono incorrere i cristiani di Corinto è la ricaduta nell’idolatria e per questo, imitando l’agire dell’apostolo, tutti dovrebbero rinunciare a consumare nei templi le carni offerte nei sacrifici. Essi sono già stati salvati ma questa salvezza non è sicura e definitiva perché è possibile per loro ricadere nella schiavitù dalla quale erano stati liberati. È ciò che accadde agli Israeliti durante il cammino nel deserto verso la terra: pur essendo stati amati dal Signore e liberati da lui, non furono graditi a lui. Non riuscirono a raggiungere la meta, come avevano sperato. 

6Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono.

«Hai aperto il mare davanti a loro… Li hai guidati di giorno con una colonna di nube e di notte con una colonna di fuoco, per rischiarare loro la strada su cui camminare. Sei sceso sul monte Sinai e hai parlato con loro dal cielo, e hai dato loro norme giuste e leggi sicure… Hai dato loro pane del cielo per la loro fame e hai fatto scaturire acqua dalla rupe per la loro sete, e hai detto loro di andare a prendere in possesso la terra che avevi giurato di dare loro. Ma essi, i nostri padri, si sono rifiutati di obbedire e non si sono ricordati dei tuoi prodigi, che tu avevi operato in loro favore; hanno indurito la loro cervice e nella loro ribellione si sono dati un capo per tornare alla loro schiavitù. Oggi eccoci schiavi; e quanto alla terra, ecco in essa siamo schiavi» (Ne 9,11-21.36). «Arsero di desiderio nel deserto e tentarono Dio nella steppa. Concesse loro quanto chiedevano e li saziò fino alla nausea» (Sal 106,14-15). «Affrettiamoci a entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza» (Eb 4,11). 

7Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi. 8Non abbandoniamoci all’impurità, come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. 9Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro, e caddero vittime dei serpenti. 10Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. 

«Guardai ed ecco, avevate peccato contro il Signore, vostro Dio. Avevate fatto per voi un vitello di metallo fuso: avevate ben presto lasciato la via che il Signore vi aveva prescritto. Allora afferrai le due tavole, le gettai con le mie mani, le spezzai sotto i vostri occhi e mi prostrai davanti al Signore» (Dt 9,16-18). «Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo sta in potere del Maligno. Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio, nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna. Figlioli, guardatevi dai falsi dèi!» (1 Gv 5,19-21). 

Abbandono all’impurità: cf Nm 25,5ss.; Mettere alla prova: Nm 21,5-6; mormorazione: Es 16,2 Nm 11,1. 

11Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi.

«Poiché quelli che per primi ricevettero il Vangelo non vi entrarono a causa della loro disobbedienza, Dio fissa di nuovo un giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo: Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori!» (Eb 4,6-7). Spesso Paolo evidenzia l’opportunità di conoscere la Sacra Scrittura: «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza» (Rm 15,4). «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, 17perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2 Tm 3,16-17). 

Riguardo la fine dei tempi, Paolo è consapevole che la venuta di Gesù e l’evento della sua Pasqua ha segnato il cambiamento radicale del tempo. «Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto» (Mc 1,15). «Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,7). «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nel Vangelo» (Gal 4,4). «Ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9,26). 

12Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. 

Il cristiano che pensa di aver rotto in modo definitivo con l’idolatria, deve vigilare per non ricadere in essa. Più in generale, è un monito conto ogni forma di presunzione. Anche chi si sente saldo, può cadere se si illude di essere al sicuro da ogni pericolo. La fede non è un traguardo già raggiunto, ma un cammino che richiede attenzione costante. «Beato l’uomo che sempre teme» (Pro 28,14). 

13Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere. 

Le tentazioni non sono prove estreme ma esperienze della nostra umanità. Chi viene tentato, deve contare sulla fedeltà di Dio che offre delle vie d’uscita. «Subito lo Spirito sospinse [Gesù] nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» (Mc 1,12-13). «Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni» (Gc 1,13-14). «Pregate per noi, perché veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno» (2 Ts 3,1). 

«Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su di te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). «Se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2 Tm 2,13). 

14Perciò, miei cari, state lontani dall’idolatria.15Parlo come a persone intelligenti. Giudicate voi stessi quello che dico: 16il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? 17Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane. 

Paolo porta un argomento decisivo per distogliere i cristiani dai banchetti offerti alle divinità. Nel culto cristiano, il battezzato si unisce al Cristo Risorto e ciò esclude che possa, poi, unirsi con i demoni nei banchetti idolatrici. I riti pagani non consentono ai partecipanti di entrare in comunione con le divinità da loro onorate poiché non esistono neppure ma, invece, li fanno entrare in contatto con i demoni che si nascondono dietro le divinità nei riti malefici. 

Il calice del ringraziamento della celebrazione eucaristica opera una comunione reale con il Cristo Risorto che ha versato il suo sangue sulla croce per tutti i commensali. I comunicandi, perciò, partecipano a tutti i benefici della sua morte salvifica. Lo stesso vale per la frazione del pane: i comunicandi si uniscono al Cristo Risorto, diventano una cosa sola con Lui e godono di tutti i benefici della sua Pasqua. Il Cristo Risorto configura a se stesso in tutti i partecipanti e perciò, nutrendosi di lui, nella specie dell’unico pane, diventano un solo organismo, membra vive del suo Corpo. La comunità cristiana diventa il corpo del Signore in primo luogo mediante la celebrazione eucaristica. 

«Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,4-5). «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28; cf Col 3,11).

18Guardate l’Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? 19Che cosa dunque intendo dire? Che la carne sacrificata agli idoli vale qualcosa? O che un idolo vale qualcosa? 20No, ma dico che quei sacrifici sono offerti ai demòni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; 21non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. 22O vogliamo provocare la gelosia del Signore? Siamo forse più forti di lui? 

Per spiegarsi meglio l'apostolo fa l'esempio dei banchetti sacrificali ebraici. Era scontato che in tali pasti sacri si rinvigorisce la comunione tra Dio, presentato simbolicamente dall'altare, e i fedeli che, dopo avergli offerto il sacrificio un animale, ne consumavano insieme resto della carne. Nei banchetti sacri del popolo d'Israele si stabiliva una comunione profonda degli offerenti tra loro e con Dio, e così avviene anche tra i cristiani e Cristo nella celebrazione memoriale della sua ultima cena. Ma allora come può un cristiano partecipare ai banchetti idolatrici dei pagani?

v. 18 Chiama il popolo ebraico «Israele secondo la carne», mentre la Chiesa rappresenta il popolo messianico (escatologico) di Dio che, non sostituisce il primo, ma ne rappresenta il compimento. Esso viene innestato nella radice santa dell’olivo Israele e i battezzati stanno fra gli altri rami (i giudeo-cristiani). «Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3,29).

v.20 I profeti avevano parlato di sacrifici offerti ai demoni che rendevano i sacrificanti malvagi come loro: «Hanno sacrificato a dèmoni che non sono Dio, a dèi che non conoscevano. La Roccia che ti ha generato, tu hai trascurato» (Dt 32,17). «Essi non ofriranno più i loro sacrifici ai satiri, ai quali sogliono prostituirsi» (Lev 17,7). «Il resto dell’umanità non si convertì dalle opere delle sue mani; non cessò di prestare culto ai demoni e agli idoli e non si convertì dagli omicidi né dalle stregonerie» (Ap 9,20-21). 

v. 21 «Elia si accostò a tutto il popolo e disse: “Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!”» (1 Re 18,21). «Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre? Quale intesa fra Cristo e Bèliar, o quale collaborazione fra credente e non credente? Quale accordo fra tempio di Dio e idoli? Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente» (2 Cor 6,14-16). «Nessuno può servire due padroni» (Mt 6,24). 

v.22a «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, un Dio geloso» (Dt 4,24). 

v.22b «Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua?» (Gb 40,9). 

23«Tutto è lecito!». Sì, ma non tutto giova. «Tutto è lecito!». Sì, ma non tutto edifica. 24Nessuno cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri. 25Tutto ciò che è in vendita sul mercato mangiatelo pure, senza indagare per motivo di coscienza, 26perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene. 27Se un non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello che vi viene posto davanti, senza fare questioni per motivo di coscienza. 28Ma se qualcuno vi dicesse: «È carne immolata in sacrificio», non mangiatela, per riguardo a colui che vi ha avvertito e per motivo di coscienza; 29della coscienza, dico, non tua, ma dell’altro. Per quale motivo, infatti, questa mia libertà dovrebbe essere sottoposta al giudizio della coscienza altrui? 30Se io partecipo alla mensa rendendo grazie, perché dovrei essere rimproverato per ciò di cui rendo grazie? 

Ritorna sull’argomento dal quale è iniziata la riflessione attuale: come deve comportarsi un fedele se gli viene offerta carne sacrificata agli idoli? Ha escluso in modo netto che un cristiano possa partecipare ai riti in onore delle divinità, ma non proibisce di consumare carni avanzate a questi sacrfici (e portate al mercato a prezzo ridotto), a meno che un altro non si scandalizzi di questa consumazione ritenendola una pratica idolatrica. Il cristiano è libero quando si lascia condizionare dalle difficoltà altrui evitando di imporre le proprie vedute, altrimenti rimane schiavo di se stesso e dei propri interessi. 

v. 23 Nella ripresa, cerca di rispondere alle obiezioni sollevate da parte di qualche fedele più libertario: tutto è lecito! L’apostolo non oppone altri principi per contrastare questo slogan libertario ma si limita ad osservare che non tutto però è utile e soprattutto osserva che un determinato agire non costruisce rapporti sereni, a prescindere dall’intenzione di chi opera. 

vv. 29-30 Sarebbe auspicabile che nessuno condizionasse un altro in modo pesante a motivo dei suoi scrupoli e che, dopo aver reso grazie a Dio, ogni commensale potesse mangiare con serenità qualsiasi alimento. Probabilmente, Paolo sarebbe d’accordo con questa prassi ma egli è mosso da un principio maggiormente improntata alla carità. «Ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1 Tm 4,4). «C’è chi distingue giorno da giorno, chi invece li giudica tutti uguali; ciascuno però sia fermo nella propria convinzione. Chi si preoccupa dei giorni, lo fa per il Signore; chi mangia di tutto, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; chi non mangia di tutto, non mangia per il Signore e rende grazie a Dio» (Rm 14, 5-6). 

31Dunque, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. 

La gloria di Dio risplende in tutta la sua forza quando rifulge la carità e l’amore del prossimo diventa il criterio d’ogni scelta. «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). «Qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a Dio Padre» (Col 3,17). «Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 4,11). 

32Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; 33così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.

«Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio. D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello» (Rm 14,12-13). «Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga criticato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio con molta fermezza» (2 Cor 6,3-4). «Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene, per edificarlo. Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma, come sta scritto: Gli insulti di chi ti insulta ricadano su di me» (Rm 15, 1-3). 


giovedì 17 luglio 2025

Sobrietà cristiana

 Ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre (1 Cor 9,25). 


Il cristiano, come ogni valido atleta, è disciplinato in tutto (panta enkrateuetai) L’uomo peccatore distoglie da Dio il suo desiderio e lo volge alle cose, alle persone, avendo per dio il proprio ventre. Lo attesta la parabola del ricco che indossa vestiti di porpora e ogni giorno banchetta lautamente (cf Lc 16,19). 

Cerca sempre la gratificazione. Lo attesta il comportamento della «gente raccogliticcia» che accompagnava Israele e lo coinvolge nella cupidigia: «fu presa da grande bramosia, e anche gli Israeliti ripresero a piangere e dissero: “Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna» (Nm 11,4-6). Il governatore pagano Felice, che si mostrava ben disposto verso l’apostolo, non appena sentì Paolo parlare «di giustizia, di continenza e del giudizio futuro «si spaventò» (At 24,25) e preferi continuare ad accumulare denaro. 

Con la conversione al Vangelo, finisce «il tempo trascorso nel soddisfare le passioni dei pagani, vivendo nei vizi, nelle cupidigie, nelle orge…» (1 Pt 4,3), perché «tutto quello che è nel mondo [malvagio], non viene dal Padre» (1 Gv 2,16). 

Il credente promette: sebbene tutto possa essere lecito, «non mi lascerò dominare da nulla» (1 Cor 6,12). Si propone questo proprio perché s’accorge che anche in lui è presente la bramosia del ricco (Cf 11 Cor 11,21). Soprattutto sa di essere stato liberato dalla grazia: «tutti noi un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi… Ma Dio, ricco di misericordia, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati» (Ef 2,3-5).

La temperanza rende equilibrato l’uso dei beni creati,e garantisce anche la salute: «Figlio, per tutta la tua vita esamina te stesso, vedi quello che ti nuoce e non concedertelo. Difatti non tutto conviene a tutti… Non essere ingordo per qualsiasi ghiottoneria e non ti gettare sulle vivande, perché l’abuso dei cibi causa malattie e l’ingordigia provoca le coliche. Molti sono morti per ingordigia, chi invece si controlla vivrà a lungo» (Sir 37,27-31). 

Il saggio non asseconda le passioni perché accoglie l’avvertimento: «se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete» (Rm 8,13). «Vi esorto ad astenervi dai cattivi desideri della carne, che fanno guerra all’anima» (1 Pt 2,11). «Sta’ lontano dalle passioni della gioventù; cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro. Un servo del Signore non deve essere litigioso, ma mite con tutti, capace di insegnare, paziente, dolce nel rimproverare quelli che gli si mettono contro, nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi, perché riconoscano la verità e rientrino in se stessi, liberandosi dal laccio del diavolo, che li tiene prigionieri perché facciano la sua volontà» (2 Tm 2,22-26). 

Il sapiente cerca di raggiungere il dominio di sé (enkrateia), una virtù denominata anche sobrietà, contando sull’aiuto dello Spirito Santo: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, benevolenza, mitezza e dominio di sé» (Gal 5,22; cf Tt 1,8). 

Per conservare il dominio di sé, l’apostolo tratta duramente il suo corpo e lo riduce in schiavitù (1 Cor 9,27). Usa una terminologia attinta dal pugilato: colpisco il mio corpo sotto gli occhi (ypopiazo). Il pugile vincitore trascinava il vinto davanti al pubblico e, in modo simile, egli riduce in suo potere il suo corpo per non perdere se stesso. 

La sobrietà favorisce la vita interiore dello Spirito perché rende ben armati: «Noi siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità. E avendo come elmo la speranza della salvezza» (1 Ts 5,8). Facilita la perseveranza nella preghiera: «Siate moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera» (1 Pt 4,7). 

Il credente, tuttavia, non è una persona tesa solamente alla repressione dei desideri, ma è orientata al Signore, sommo bene che fornisce un appagamento opportuno. «Gustate e vedete com’è buono il Signore!» (Sal 34,9) «Egli appagò il loro desiderio» (Sal 78,29). «Il Signore ti circonda di bontà e misericordia, sazia di beni la tua vecchiaia, si rinnova come aquila la tua giovinezza» (Sal 103,4-5). 



mercoledì 16 luglio 2025

Dodicesimo grado dell’umiltà

 

Il capitolo 7 della Regola di San Benedetto tratta dell’umiltà, presentata come una scala a dodici gradini che conduce il monaco al culmine della perfezione cristiana. 

«Il dodicesimo grado dell’umiltà si raggiunge quando il monaco non solo con la bocca, ma anche con il cuore, si mostra sempre umile a Dio, rendendosi simile a quello che dice il profeta: 'Io invece ero sempre con te, tutto umile e pieno di dolore' (Sal 72,23), e ancora: 'Mi sono umiliato e il Signore mi ha salvato' (Sal 114,6)». 

Qui Benedetto distingue tra espressione esterna e disposizione interiore. L’umiltà non è solo apparenza, linguaggio pio o postura fisica, ma una verità del cuore. Il monaco vive costantemente in presenza di Dio, consapevole della sua povertà radicale e della grandezza divina. Questo passaggio segna il compimento del processo di purificazione interiore. L'umile non si finge piccolo, è piccolo e lo riconosce serenamente.

 In ambito spirituale, si parla qui di "unità interiore": non c’è più divario tra ciò che si dice, si fa e ciò che si è. È la trasparenza dell’anima.

 Il riferimento biblico – Salmo 72(73),23: "Io ero sempre con te, tutto umile e pieno di dolore".

Questo versetto, tratto dalla Vulgata, indica un'anima che rimane con Dio anche nella prova. L’umile non si separa da Dio nel dolore, ma vi si aggrappa. Questa presenza continua è il segno della fedeltà profonda. Non è un’umiltà passiva, ma una scelta consapevole di camminare nella fiducia anche nei momenti di buio o afflizione. L’umile ha una intimità stabile con Dio.

"Mi sono umiliato e il Signore mi ha salvato" (Sal 114 (116),6). Questo secondo versetto è fondamentale. Esprime il legame tra umiliazione e salvezza. L'umiltà non è fine a sé stessa, ma è la via per essere toccati dalla grazia. 

Qui troviamo la dinamica evangelica: “Chi si umilia sarà esaltato” (Mt 23,12). 

La salvezza (culminante), in San Benedetto, non è guadagnata con la forza o il merito, ma è ricevuta da chi si svuota di sé per fare spazio a Dio (kenosi). 

Nel 12° grado, il monaco: è pacificato interiormente, vive in continua presenza di Dio, non ha più bisogno di forzare la virtù: l'umiltà è diventata la sua natura trasformata. È la beatitudine dei poveri in spirito (Mt 5,3): non un’assenza di valore, ma un cuore libero. Il modello implicito di questo grado è Cristo stesso, che “spogliò sé stesso” (Fil 2,6-11). L’umile è configurato a Cristo, non tanto nell’azione eroica, quanto nella relazione filiale con il Padre. "Imparate da me, che sono mite e umile di cuore" (Mt 11,29). Secondo i Padri del deserto, Dio dimora solo nei cuori umili. Non si tratta di sminuirsi in modo distruttivo, ma di diventare trasparenti alla grazia. L’umiltà è la verità su di sé davanti a Dio.

Per Benedetto, l’umiltà è l’atteggiamento essenziale dell’uomo redento: chi si riconosce fragile non si dispera, ma si affida. E così trova salvezza. 

Il 12° grado non è una partenza, ma un arrivo. Nessuno inizia da lì. È il frutto:

 della lotta ascetica, della fedeltà quotidiana, dell’obbedienza, della pazienza nelle prove, della vittoria sulla vanagloria. In sintesi: Il dodicesimo grado dell’umiltà è la pienezza della vita spirituale benedettina: l’umiltà non è solo virtù, ma forma dell’esistenza trasformata dalla grazia. Il monaco che lo vive è totalmente radicato in Dio, libero da ogni pretesa di sé, semplice, vero, pacificato. In lui si realizza la parola di Gesù: "Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli."



Per Climaco, l’umiltà è al 29° gradino, appena prima dell’agape. Egli dice:

 “L’umiltà è un dono divino, e non si può descrivere con parole: essa è una grazia ineffabile dell’anima.” (Scala, gradino 25). Entrambi vedono nell’umiltà una virtù infusa, un segno di presenza di Dio, non solo frutto di sforzo umano. 

Climaco parla di una umiltà combattuta, spesso accompagnata da dolore spirituale, da un senso profondo della propria indegnità davanti a Dio. arriva a dire: “L’umiltà è un abisso di autoconoscenza… l’anima che la possiede si giudica peggiore di tutti.” (Scala, gradino 25).

Climaco: l’umile vive nell’accusa di sé costante, e questa lo mantiene vigilante: “Il segno dell’anima che ha ricevuto il dono dell’umiltà è che non si oppone a chi la umilia.”. Nonostante le differenze culturali e stilistiche, entrambi condividono una visione profondamente cristocentrica: L’umiltà è partecipazione al mistero di Cristo umiliato.

Non è una virtù “sociale” o solo morale, ma teologale: ci pone nella verità davanti a Dio. È anticamera della carità perfetta.



sabato 12 luglio 2025

Settimo grado dell’umiltà

 Il capitolo 7 della Regola di San Benedetto tratta dell’umiltà, presentata come una scala a dodici gradini che conduce il monaco al culmine della perfezione cristiana. Il settimo gradino dell’umiltà dice:

"Il settimo grado dell’umiltà è quando il monaco non solo dice con la bocca di essere il più vile e il più inutile di tutti, ma lo crede veramente nel fondo del cuore, umiliandosi e dicendo con il profeta: Io invece sono un verme e non un uomo, vergogna dell’umanità e rifiuto del popolo (Sal 21,7). Mi sono esaltato, e poi sono stato umiliato e confuso (Sal 87,16). E anche: Buono per me è stato l’essere umiliato, perché imparassi i tuoi precetti (Sal 118,71)."

Commento al Settimo Gradino dell’Umiltà

Questo gradino rappresenta un livello profondo di interiorizzazione dell’umiltà. Non si tratta più solo di comportamenti esterni o dell’obbedienza (trattata nei gradini precedenti), ma di un atteggiamento radicato nel cuore del monaco: egli si considera sinceramente l’ultimo di tutti, non per autocommiserazione, ma per verità spirituale.

San Benedetto, seguendo la tradizione patristica e soprattutto il pensiero di San Giovanni Cassiano, insiste sul fatto che l’umiltà non è una maschera o un formalismo. Deve diventare una disposizione dell’anima: il monaco non si umilia per finta, ma perché davvero riconosce la propria piccolezza davanti a Dio.

Le citazioni dei Salmi rafforzano questo atteggiamento: il “sono un verme e non un uomo” è un’immagine forte, che esprime la totale abnegazione del proprio ego. Tuttavia, questo non è un rifiuto della propria dignità umana, bensì il frutto di una lucida coscienza della propria fragilità, peccabilità e dipendenza da Dio.

 La vera umiltà non è l'annullamento dell'identità, ma il suo fondamento in Dio.


Attualizzazione spirituale

Nel nostro tempo, in cui spesso si ricerca l’affermazione personale a tutti i costi, questo gradino può apparire controculturale, persino duro. Ma San Benedetto ci invita a spostare il centro della vita da noi a Dio. L’umiltà profonda è un cammino di liberazione dall’ego, che permette di amare senza bisogno di primeggiare, servire senza desiderio di riconoscimenti, vivere nella verità.


In sintesi

Il settimo gradino rappresenta l’interiorizzazione profonda dell’umiltà.

Il monaco non solo si comporta con umiltà, ma crede sinceramente di essere il più piccolo.

Le citazioni bibliche mostrano la connessione tra umiliazione e apprendimento spirituale.

Questo gradino segna un passaggio interiore importante: dalla semplice obbedienza alla vera trasformazione del cuore

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