Quando venne scomunicato da quest’ultimo in un sinodo locale (318), si rivolse ad Eusebio di Nicomedia (che col tempo diventerà il principale vescovo ariano) per essere difeso da lui, convinto di affermare una dottrina del tutto ortodossa.
Nella lettera al vescovo amico, Ario espone la sua fede nella certezza d’essere nel giusto: «Noi che cosa affermiamo, pensiamo, abbiamo insegnato e insegniamo? Che il Figlio non è ingenerato… ma viene per un volere e decisione [del Padre]… è venuto all’essere prima dei tempi e dei secoli, pienamente Dio (pleres Theos), unigenito, inalterabile, e prima di essere stato generato e creato e definito e fondato, non c’era. Infatti, non era ingenerato. Siamo perseguitati perché abbiamo detto che il Figlio ha principio, mentre Dio è senza principio. Abbiamo detto che viene dal nulla» (108-109). Ario confonde creazione e generazione, annuncia un mutamento in Dio ed è convinto che soltanto il Padre, essendo l’unico Ingenerato, sia vero Dio. Temeva che, ponendo due Persone divine eterne, di pari dignità, venisse meno il rigoroso monoteismo biblico.
Affermare, tuttavia, che il Figlio fosse stato creato dal nulla provocava una reazione di scandalo. I vescovi cominciarono a corrispondere e a discutere tra loro, fino alla convocazione del primo Concilio ecumenico della storia della Chiesa.
Nel frattempo Alessandro d’Alessandria scrive ad Alessandro di Bisanzio le sue convinzioni che verranno assunte a Nicea: «Su queste cose noi crediamo così come vuole la Chiesa apostolica: in un solo Padre ingenerato. È immutabile e inalterabile, ha sempre le stesse cose e nello stesso modo, non ammette né progresso, né diminuzione… [Crediamo] in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio unigenito di Dio, che fu generato non dal non-essere (ouk ek tou me ontos) ma da colui che è Padre, non a somiglianza dei corpi, bensì in modo ineffabile…. Abbiamo appreso che Egli è immutabile e inalterabile come il Padre, Figlio perfetto rassomigliante al Padre e mancante solo del suo essere ingenerato. Egli è immagine del Padre esatta (apekribomene)… Per questo crediamo che il Figlio è sempre dal Padre: infatti è splendore della gloria e impronta dell’Ipostasi del Padre. Al Padre ingenerato va riservata una sua propria dignità (axioma), dicendo che è causa del suo essere; al Figlio però va assegnato l’onore corrispondente, attribuendogli una generazione senza principio (anarchon gennesin) presso il Padre. Diciamo di lui solo con devozione che “c’era”, “sempre” “prima dei secoli”. Certamente non neghiamo la sua divinità… ma riteniamo che l’essere ingenerato sia proprietà del solo Padre, come dice anche lo stesso Salvatore: “il Padre è più grande di me”». Nella IX Omelia Festale, dichiara: «Pertanto solo il Padre è ingenerato, e il Figlio è eternamente presso il Padre. Infatti, egli è detto splendore della luce. Una cosa è la luce, un’altra lo splendore: due entità inseparabili» (143, testo in siriaco).
Subito dopo la vittoria su Licinio, Costantino, venuto a conoscenza del contrasto, scrisse ad Ario e ad Alessandro (324) chiedendo che si riconciliassero perché le loro diatribe parevano a lui sottigliezze retoriche inconsistenti: «Costantino Vincitore (Niketes) Massimo (Megistos) Augusto (Sebastos) ad Alessandro e ad Ario… Insieme alla grande vittoria e al vero trionfo sui nemici scelsi di indagare per prima questa questione che ritenevo essere per me la più urgente e rilevante. Ho riscontrato che il pretesto è del tutto triviale e in nessun modo può giustificare uno scontro di questa portata… Di che cosa si tratta? Ricerche di questo genere si generano da chiacchiere inutili e sfaccendate. Se anche si facessero per una sorta di esercitazione, dovremmo confinarle al solo pensiero, anziché esternarle in pubblici sinodi e affidarle incautamente alle orecchie del popolo. Quanti sono a comprendere con precisione la potenza di argomenti così grandi ed eccessivamente complessi? Allontaniamoci scientemente dalle tentazioni diaboliche. Restituite a me giorni sereni e notti tranquille perché anche a me sia riservato un certo godimento di una vita finalmente pacifica» (189). L’imperatore mirava ad ottenere una pacificazione totale nel suo dominio e come Pontifex maximus riteneva di dover rintuzzare gli affari religiosi pericolosi.
La discussione non si attenuò e così l’anno successivo, Costantino, cambiò strategia: «Credo che sia chiaro a tutti che non tengo nulla in maggior conto del timore di Dio. Mentre anteriormente si era concordato che un sinodo di vescovi avesse luogo ad Ancira in Galazia, ora ci sembra per varie ragioni che sia meglio che si riunisca nella città di Nicea in Bitinia sia per quei Vescovi che giungeranno dall'Italia, o da altre regioni d'Europa, sia per il bel clima, sia perché io presenzierò personalmente come osservatore e partecipante. Pertanto, vi chiedo, cari fratelli, di radunarvi tutti con sollecitudine nella città summenzionata, ovvero Nicea. Ciascuno di voi parta immediatamente in modo da essere presente e osservare le cose che si realizzeranno. Che Dio vi protegga Cari fratelli».
Il Sinodo si tenne dal 20 Maggio al 25 Luglio del 325. Vi parteciparono circa 300 vescovi, su 1800, quasi tutti orientali (gli occidentali furono soltanto 5).
All’inizio del Concilio, Costantino disse ai vescovi: «Quando con l’approvazione (neumati) del Supremo ottenni le vittorie sui nemici, credevo che non restasse altro che rendere grazie a Dio, oltre a rallegrarsi insieme a coloro che egli ha liberato tramite noi [i cristiani dapprima perseguitati]. Quando però, contro ogni aspettativa, fui informato del vostro dissidio (diastasin), non considerai la notizia come di secondaria importanza bensì vi convocai tutti senza indugio. Mi rallegro nel vedere la vostra assemblea. Penso che le mie preghiere saranno davvero esaudite nel momento in cui vi potrò vedere riconciliati nell'animo in un comune accordo. Cominciate da questo momento in poi a discutere apertamente le cause del contrasto sorto tra di voi e a sciogliere ogni nodo della disputa secondo le leggi della pace. Così otterrete di compiacere il Dio di tutti, e anche a me che insieme a voi sono servo di Dio, farete uno straordinario favore» (219).
Egli accoglieva con stizza la diversità di opinioni nella Chiesa e cercò di favorire sempre la maggioritaria. La discussione si concluse con l’elaborazione d’una confessione di fede accolta dalla quasi totalità, esclusi due vescovi (i quali sottoscrissero la Confessione di fede ma si rifiutarono di condannare Ario).
Al termine del Concilio (325), Costantino inviò questa lettera a tutte le Chiese affermando che la discussione era stata del tutto libera e che avevano parlato anche dell’unificazione della data della Pasqua. Riguardo a quest’ultimo argomento, aggiunse un sentimento di forte antisemitismo: «…non negherei d’essere diventato un vostro con-servitore… ogni questione ha ricevuto il dovuto esame, finché non si è portata alla luce la decisione gradita a Dio… Quando si pose la questione del giorno della santissima Pasqua, si giunse alla decisione unanime che fosse meglio per tutti celebrarla in uno stesso giorno… Sarebbe stato inopportuno celebrarla seguendo l’usanza dei Giudei che si macchiarono le mani di un crimine nefando. Niente in comune resterà tra voi e la detestabilissima marmaglia degli Ebrei… sono guidati non dalla ragione ma da impulsi incontrollabili, ovunque li conduca la loro innata stoltezza» (247). Quello che la Bibbia considerava il popolo santo di Dio, ora diventava una detestabilissima marmaglia (echthistou ochlou).
L’imperatore, premuroso d’evitare l’insorgenza di nuovi dissidi, ordinò che «se qualcuno venisse scoperto a nascondere un testo composto da Ario e omettesse di denunciarlo immediatamente e mancasse di distruggerlo nel fuoco, la sua punizione sarà la morte» (281).
Tempo dopo, Ario scrisse a Costantino, per difendere il suo credo (329 o 334), e l’imperatore lo invitò ad una udienza con queste parole: «Vieni ora da me a dare prova della tua fede e non tralasciare nulla, o bocca contorta, o detentore di una natura pronta a volgersi alla malvagità! … Chiaramente il Maligno ti ha soggiogato con la propria perfidia! Allora, furfante? In quale paese ammetti di trovarti ora?» (349). Nel seguito lo chiama «pendaglio da forca» (dikranofòre), «disgraziato tra disgraziati», «eccesso di follia».
Si aspettava che Ario accorresse da lui ma sollecito invece questi rinunciò al confronto. Poco dopo (il 27 Novembre del 334) Costantino, consigliato con ogni probabilità da Eusebio di Nicomedia, gli scrisse un invito più promettente: «Già da diverso tempo è stato chiaramente riferito alla tua ostinazione che faresti bene a venire alla nostra corte, in modo che tu possa trarre beneficio dalla nostra presenza. Siamo molto sorpresi che tu non ti sia presentato a noi. Perciò ora utilizzando il cursus publicus (= la posta imperiale), affrettati a raggiungere la nostra corte». Al termine della lettera, Costantino assicura l’incolumità dell’ospite («potrai tornare a casa») e lo saluta in questo modo: «Che Dio ti protegga, carissimo».
Questa volta Ario si presentò. Grazie ai buoni uffici interposti dal vescovo amico da sempre, Costantinò cominciò a simpatizzare sempre più per l’arianesimo. A battezzarlo prima della morte, casualmente, fu proprio Eusebio di Nicomedia, il capo degli Ariani.
Dopo numerose controversie e chiarificazioni, grazie soprattutto al contributo dei Padri Cappadoci, nel 381, a Costantinopoli, regnante l’imperatore Teodosio, il secondo Concilio ecumenico confermò la confessione promulgata a Nicea e fu completata con la seconda parte del Credo niceno-constantinopoletano che si pronuncia attualmente nella Messa.
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