Il vangelo di Dio riguarda il Figlio suo
L'annuncio della Chiesa ha per oggetto il Signore
Gesù: il vangelo di Dio che riguarda il Figlio suo. Il Vangelo nel suo nucleo
più profondo corrisponde alla persona di Gesù. Egli è la vera immagine di Dio,
l'umanità finalmente riuscita, l'unico vero maestro di vita, la salvezza (si è
salvi nella misura in cui si diventa simili a lui); è il significato della
nostra vita (la quale acquista senso della misura in cui noi riusciamo ad
essergli simili) e il senso della storia. Gesù è tutto. Finché siamo senza di
lui, anche se possediamo molte cose, rimaniamo sempre molto poveri.
Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo
per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso
per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo,
nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza,
secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù
Cristo nostro Signore; per mezzo di
lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza
della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per
mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo (Rm
1, 1-5)
Gesù, nato dalla stirpe di Davide come uomo, è stato
costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù
della risurrezione dei morti. Noi cogliamo il valore della persona di Gesù, in
modo globale, non quando rimaniamo legati soltanto alle vicende della sua vita
terrena, ma quando lo pensiamo nella condizione in cui vive attualmente da
Risorto. Soltanto ora, Gesù manifesta tutta la sua forza. Già nel corso della
sua vita terrena era Figlio di Dio, ma soltanto al presente dispiega tutta la
pienezza della sua energia. Cristo è come un albero nuovo, rigoglioso e
fecondo, nel quale veniamo innestati. Se non ci fosse lui con noi, come persona
viva e presente, il Vangelo non sarebbe più vangelo. Resterebbe una proposta
morale, piuttosto difficile da applicare. Invece Cristo Gesù è vivo e presente,
ricco di vita sovrabbondante che non viene mai meno.
Gesù ha inaugurato la risurrezione; è nello stesso
tempo la vita nuova e la vita eterna. Possiamo dire anche in quest'altra
maniera: Gesù è la vita eterna, che comincia in modo parziale anche al
presente. Chi possiede Gesù, possiede anche la vita eterna (1 Gv 5,12).
L'annuncio del Vangelo non si limita soltanto a proporlo come maestro di
umanità o come il migliore dei profeti, ma lo esalta come l'inizio della vita
eterna. «L’apostolo non ha detto in virtù della risurrezione di Cristo bensì in
virtù della risurrezione dei morti perché la risurrezione di Cristo ha
accordato la risurrezione di tutti» (Ambr., CLR p. 45).
C'è un'altra cosa che possiamo osservare riguardo a questo
testo: l'unità tra il Gesù terreno e il Cristo risorto. Gesù riceve il titolo
di Cristo e Signore. Noi dobbiamo considerarlo in tutti questi due aspetti. Da
una parte dobbiamo tornare sempre a Gesù, contemplando la sua umanità concreta
e nella sua vita terrena. Il grande dono di Dio agli uomini infatti è stato
Gesù stesso. La Lettera agli Ebrei dichiara che egli è l'«impronta di Dio»,
ossia la manifestazione più veritiera, più nitida e più luminosa di Dio, al
punto tale da eguagliarlo, proprio come fa un'impronta rispetto all'originale.
Dio Padre non ci ha donato un libro, una teoria e neppure un semplice profeta.
Ci ha donato un persona concreta nella quale possiamo contemplarlo e per mezzo
della quale possiamo anche raggiungerlo ed entrare in comunione con lui.
Dall’altra parte, l'uomo Gesù però non è soltanto un personaggio della storia.
Continua a vivere e a riversare la sua ricchezza personale su di noi, nella sua
condizione di Signore. I Vangeli ci illustrano ciò che Gesù ha fatto come
maestro, nella sua breve vita terrena, ma quella stessa opera la rinnova ora,
operando come Risorto e quest’ultima prospettiva è più rilevante della prima.
Infatti aveva detto ai suoi discepoli: «È meglio per voi che io me ne vada» (Gv
16,7).
Quando vediamo, in vari passi del Vangelo, che Gesù
calma il lago in burrasca, fa camminare l'apostolo Pietro sull'acqua, lo
sorregge quando questi inizia a sprofondare; quando leggiamo che moltiplica i
pani e i pesci, non dobbiamo pensare tanto a fatti del passato ma ad opere attuali
del Cristo risorto. Oggi il Signore crea la pace e fra di noi; ci aiuta a
superare sconvolgimenti della storia; ci sorregge, se sprofondiamo; ci alimenta
con il dono di sé. In questo consiste l'unità tra Gesù e il Cristo; è questo
che professiamo quando proclamiamo: Gesù è il Signore.
«Gesù Cristo ha un significato e un valore per il
genere umano e la sua storia, singolare e unico, a lui solo proprio, esclusivo,
universale, assoluto. Gesù è, infatti, il Verbo di Dio fatto uomo per la
salvezza di tutti. Raccogliendo questa coscienza di fede, il Concilio Vaticano
II insegna: “Infatti il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato,
è diventato egli stesso carne, per operare, lui l'uomo perfetto, la salvezza di
tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana,
il punto focale dei desideri della storia e della civiltà. È il centro del
genere umano, la gioia d'ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni. Egli è
colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua
destra, costituendolo giudice dei vivi e dei morti”. È proprio questa
singolarità unica di Cristo che a lui conferisce un significato assoluto e
universale, per cui, mentre è nella storia, è il centro e il fine della stessa
storia: “Io sono l'Alfa e l'Omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine”
(Ap 22,13)» (Dominus Jesus 15).
Il Vangelo è potenza di Dio
L'annuncio del Vangelo incontra talora l'ostilità
degli ascoltatori e perciò l'annunciatore può diventare esitante e reticente ma
Paolo, non solo non prova sentimenti di vergogna, ma si dedica interamente al
suo compito di annunciatore.
Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è
potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del
Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta
scritto: Il giusto per fede vivrà (1, 16-17).
Non vergognarsi per lui significa piuttosto
consacrarsi in modo totale a questo compito, con grande energia.
La parola del Vangelo è «potenza di Dio», forza
creativa. Mediante l'annuncio, Egli agisce nel mondo e converte gli uomini al
bene. L'annunciatore non manifesta delle semplici opinioni. Il Vangelo non si
risolve nel perdono e nella assoluzione della colpa; non è semplicemente una manifestazione
di paziente tolleranza, ma è una forza che crea, rinnova e trasforma (cfr. Maggioni…, p. 29). È il dispiegamento di una forza positiva
che può contare su tutta la potenza di Dio perché, nell'annuncio, Egli
interviene in modo analogo a ciò che ha compiuto quando ha risuscitato Cristo
dai morti (cfr. Penna, CLR…, p.
136).
Nel Vangelo si rivela la giustizia di Dio. Con la predicazione del Vangelo, «si rivela»,
comincia ad attuarsi un disegno di salvezza progettato da lungo tempo e che Dio
aveva già preannunciato nella storia di Israele. Il vangelo rende nota la
giustizia di Dio, perché Egli, nel
suo operare, manifesta sempre in primo luogo se stesso, le sue qualità divine,
e solo successivamente indica le conseguenze che la sua azione provoca nell'uomo.
La giustizia di Dio significa fedeltà alle promesse.
Lo attesta già l’Ambrosiaster (un
autore anonimo del sec. V): «La qualità che si manifesta come misericordia è
chiamata giustizia di Dio perché ha origine dalla promessa, e quando la
promessa di Dio viene adempita, allora si parla di giustizia di Dio. È
giustizia perché è stato dato ciò che fu promesso» (Ambr., CLR p. 103).
La rivelazione della fedeltà di Dio è un fatto che
avviene in modo permanente: ogni volta che si svolge la predicazione, si attiva
anche la fedeltà di Dio che non si esaurisce.
Nel Vangelo si rivela la giustizia, «non la tua ma
quella di Dio. Non deriva dai vostri sudori né dai vostri sforzi, ma vi viene
data per un dono dall’alto, senza che dobbiate fare qualcosa di più del semplice
credere. Sembrava incredibile che un adultero, un libertino, uno scassinatore o
un mago non solo evitino la punizione
ma diventino dei giusti, grazie ad una giustizia elargita dall’alto. [Per
convincere] lo prova facendo ricorso alla Bibbia» (Crisost., CLR 2,6), cioè al messaggio del profeta Abacuc: “Il
giusto vivrà per la sua fede”» (2,4).
Dio vuole salvare chiunque crede: la prospettiva della salvezza possiede un carattere
universale: appartiene a chiunque crede. Dio Padre vuole agire a favore di
tutti gli uomini e non soltanto a favore del popolo d'Israele, come è accaduto
in prevalenza all'epoca della prima alleanza. Mediante la predicazione del
Vangelo, si propone di salvare tutti gli uomini, rinunciando a stabilire delle
condizioni previe che rendano possibile la ricezione del suo dono.
La forza salvifica di Dio si manifesta in tutti gli
uomini che, accogliendo questo messaggio, vi prestano fede: «Sebbene tu ti sia
comportato finora in modo riprovevole; quand’anche tu abbia agito come una fiera,
abbandonando del tutto la ragione e ti fossi aggravato di un’infinità di colpe,
non appena sentirai annunciare il messaggio della croce e ti farai battezzare,
cancellerai tutto il tuo passato» (Crisost., CLR 2,5).
L’Antico Testamento rende testimonianza all'annunzio
della buona novella: «David, a proposito degli apostoli dice: “Il Signore darà
agli evangelizzatori una parola [da annunziare] con molta potenza” (Sal
67,12-13). Voleva insegnarci che l'efficacia persuasiva non proviene dalla
composizione del discorso né dalla perizia nella scelta delle belle parole, ma
dall'elargizione di una potenza divina. È per questo che anche Paolo dice: “La
mia parola e il mio messaggio non ebbero discorsi persuasivi di sapienza, ma
conferma di Spirito e di potenza” (1 Cor 2,4). A questa potenza rendono
testimonianza Simone e Cleofa con quelle parole: “Non ci ardeva forse il cuore
nel petto mentre discorreva con noi sulla strada, quando ci spiegava le
Scritture?” (Lc 24,32). Isaia, dichiarando: “Quanto sono belli i piedi di
quelli che annunziano beni” (Is 52,7), comprese il senso profondo, la bellezza
e l'opportunità della predicazione degli apostoli che camminano in colui che
disse: “Io sono la via” (Gv 14,6)» (Origene, Commento al Vangelo di Giovanni…
p. 131).
Parlando di salvezza, l'apostolo Paolo pensa
soprattutto al futuro. Il cristiano non è già stato salvato interamente ma si
trova sulla via della salvezza. Saremo salvi soltanto quando saremo simili al
Cristo Risorto, partecipi della sua gloria. Per il momento, pur non vivendo la
dimensione della glorificazione, possiamo considerarci, senza illusioni, nuove
creature, persone riconciliate con Dio e che godono di una vera anticipazione
dello splendore futuro.
La redenzione che è in Cristo Gesù
L'umanità finisce sempre col trovarsi sotto il dominio
del male e la forza del peccato supera la buona volontà: tutti hanno peccato
e sono privi della gloria di Dio.
Ora, però, viene annunciata una novità di grande rilievo, l'attuarsi
dell'azione risolutiva di Dio che era già stata testimoniata dalla Legge e
dai Profeti, ossia preannunciata nel
tempo della prima alleanza.
A creare problema non sono i peccati ma il Peccato, inteso come un dominatore dalle caratteristiche
personali che sta all’origine delle trasgressioni; esso regna in modo
universale su tutti e si manifesta nelle loro azioni disoneste.
Il progetto di Dio Padre consiste nel tentativo,
definitivo, di perdonare i peccatori ma anche di dare loro la possibilità di
diventare persone rette e innocenti, sottraendosi al dominio del Peccato. Al
centro di questo progetto c’è redenzione compiuta da Gesù.
Ora invece, indipendentemente dalla
Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai
Profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli
che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono
privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua
grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù.
Il vangelo di Dio prende così la forma di una «buona
novella mediante la quale i peccatori sono convocati al perdono» (Ambr., CLR p. 41).
Vediamo ora in che cosa consista la redenzione
annunciata: essa si presenta in un primo passo come espiazione. Era già conosciuta da Israele poiché i regolamenti
stabiliti nel Primo Testamento prevedevano delle modalità attraverso le quali
Dio concedeva il perdono. Il Signore ho voluto porre un rimedio a questa
situazione senza sbocco: gli uomini sono giustificati gratuitamente per la
sua grazia.
È lui che Dio ha stabilito apertamente come
strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione
della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza
di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da
risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù.
Dove dunque sta il vanto? È stato escluso! Da quale legge? Da quella delle
opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l’uomo è
giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge (3,21-28).
Per un suo atto di bontà, la fedeltà dimostrata da
Gesù, in tutta la sua vita ma soprattutto della sua morte in croce, viene
considerata da Dio come espiazione, compiuta a favore degli uomini. Di per sé, sarebbe sbagliato ed ingiusto assolvere un peccatore senza
che questi si penta e risarcisca il danno ma Cristo ha risarcito per noi. «Dio è giusto e come tale non poteva
giustificare gli ingiusti: volle perciò che ci fosse l'intervento di un
propiziatore affinché venissero giustificati per la fede in lui quanti non
potevano essere giustificati per le proprie opere (Orig.,CLR, p. 155)».
Il perdono gratuito di Dio è una nuova manifestazione
e rivelazione che Egli fa di se stesso poiché mostra la vastità della sua
bontà. Qui, giustizia di Dio significa la sua fedeltà alle promesse, già
formulate per grazia. «Paolo non parla soltanto di salvezza, ma di giustizia,
dichiarando: la giustizia di Dio si rivela. Egli si manifesta negli eventi gloriosi, mirabili e magnifici» (Crisost.,
CLR, 8,1). Il perdono è uno di queste
meraviglie.
Dall’altra parte anche l’uomo riceve una nuova
identità poiché diventa giusto: «Chi viene salvato in questo modo [in base alla
sua fiducia nel perdono di Dio], viene rassicurato sulla certezza della sua
salvezza perchè viene accolto come giusto» (Crisost., CLR, 8,1).
Il versetto citato (v.21) ricorda in modo esplicito il
valore del sangue di Gesù, ossia
della sua morte in croce. Gesù ha obbedito a Dio mentre sperimentava la durezza
della condizione umana. «Il Verbo che ha assunto tutto l’uomo fece suoi anche
le sensazioni del corpo e i sentimenti dell’anima. Non pianse lacrime false o
assunse cibo per una finta fame o dormì simulando il sonno. È stato disprezzato
nella nostra povertà, addolorato nella nostra tristezza, crocifisso nel nostro
dolore. La misericordia subì le sofferenze della nostra condizione mortale per
risanarle e vincerle» (Leone Magno, Discorsi, 45,4-5).
La redenzione operata da Cristo segna una svolta nella
storia degli uomini. Soltanto grazie al dono di sé da Lui compiuto, ora il bene
può attecchire nel nostro mondo. Lo testimonia la modalità con cui si è attuata
l’evangelizzazione: «Uomini stranieri, privi di sapere e di novità strabilianti,
girarono il mondo predicando il crocifisso, proponendo il digiuno al posto
delle crapule, una scomoda morigeratezza al posto della sensualità. Eppure
avevano presa sulle persone. Che tesoro avevano? La potenza della croce. Prima
della crocifissione i discepoli non operano nulla; dopo sì, quando noi immondi
fummo lavati con il sangue. E come il ferro prima del contatto col fuoco è
freddo ma quando è messo nel fuoco, diventa incandescente, allo stesso modo si
comportano i mortali che si sono rivestiti di Gesù» (Eusebio di Emesa, Discorsi, 14,7-8).
Nessun vanto
L’ebraismo non era di per sé una religione
legalistica. Israele non obbediva alla Legge per meritare l’amore di Dio ma per
rispondere all’amore già ricevuto. All’interno di questo atteggiamento, però,
poteva insinuarsi l’illusione di farcela da soli, la presunzione di essere
innocenti in sostanza, accompagnata dal disprezzo verso i trasgressori, in
questo caso, i pagani. Questo è un rischio permanente per tutti gli uomini
religiosi. È necessario al contrario, sentirci bisognosi d’aiuto e di perdono,
tolleranti verso chi sbaglia. Se la giustificazione è un dono perché proviene
dall’opera di Dio e non dai nostri meriti, ogni vanto, ossia ogni sentimento di
presunzione e d’orgoglio, viene escluso, non è più possibile. La morte in croce
di Gesù deve ispirarci sempre questi sentimenti.
Dove dunque sta il vanto? È stato
escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede.
Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente
dalle opere della Legge (3,21-28).
Origene così suggerisce: «Il vanto che proveniva dalle
opere della legge viene escluso perché non ha l'umiltà della croce di Cristo; e
chi in essa si gloria ascolta cosa dice: “Lungi da me il gloriarmi, se non
della croce del Signore mio Gesù Cristo, per il quale il mondo è per me
crocifisso e io per il mondo” (Gal 6,14). Vedi come l'apostolo non si glori
della propria giustizia né della castità né della sapienza né delle altre sue
virtù e azioni, ma assai apertamente proclami e affermi: “Chi si gloria, si
glori nel Signore” (1 Cor 1,31). Chi infatti potrà con ragione gloriarsi della
propria castità dal momento che legge: “Se uno avrà guardato una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,28)? Onde
anche il profeta dice: “Come si glorierà uno di avere il cuore casto”? (Pro
20,9). Oppure chi si glorierà della propria giustizia dal momento che ascolta
Dio dire mediante il profeta: “Tutta la vostra giustizia è come il panno di una
donna mestruata?” (Is 64,6). L’unico vanto giusto è quello per la fede nella
croce di Cristo, fede che esclude il vanto proveniente dalle opere» (Orig.,CLR/1, p. 166).
Cerca poi di rassicurare gli scandalizzati, ossia
quelli che pensavano che, garantendo una modalità di perdono così facile,
sarebbe stato come incoraggiare gli uomini a continuare a peccare, ma cerca
anche di correggere eventuali approfittatori. Agli uni e agli altri dichiara in
modo inequivocabile: «La fede non può avere nulla in comune con l’incredulità
né la giustizia una qualche comunione con l’iniquità, così come per la luce non
può esserci associazione con le tenebre. Se, infatti, chi crede che Gesù è il
Cristo, è nato da Dio e chi è nato da Dio non pecca, è chiaro che chi crede a
Gesù Cristo non pecca: ché se pecca, è certo che non crede a lui» (Orig.,CLR/1, p. 176). Dalle fede autentica scaturisce un
retto comportamento.
Presente e futuro del cristiano
Giustificati dunque per fede, noi siamo
in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui
abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci
troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo:
ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce
pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La
speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri
cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,1-6).
Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con
Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Abbiamo ottenuto la pace con Dio.
Mentre godiamo di questo dono insperato, guardiamo con sicurezza anche al
nostro futuro, quando potremo condividere in pienezza la gloria del Risorto. La
situazione di grazia di cui godiamo, e soprattutto quella di cui godremo,
dipendono da un evento è passato: siamo stati giustificati per mezzo della
morte di Cristo.
Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede,
l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo... «Da Cristo ci vengono
molte e svariate cose: è morto per noi, ci ha riconciliati, ci ha dato accesso
ad un'ineffabile grazia e ce l’ha comunicata; per parte nostra invece ci
mettiamo solo la fede. E non si ferma qui, perché annuncia anche altri beni,
quelli indicibili che superano la mente e la ragione. Infatti, parlando di
grazia si riferisce alle realtà presenti che abbiamo conseguite, ma quando
dice: ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio, rivela tutte le realtà
future (Crisost., CLR, 9,2).
Noi ora ci troviamo stabilmente in una grazia che si
dilata oltre misura e non viene mai meno. «Giustamente dice: nella quale
rimaniamo, perché così è la grazia di Dio: non ha fine né limiti ma si espande
sempre più, cosa che per gli uomini non si verifica. Facciamo un esempio: uno
può prendere il comando, la gloria, il potere, ma non rimane stabilmente in
essi, perché ben presto ne decade. Per le cose di Dio non è così: non c'è uomo
o tempo o circostanza e neppure lo stesso diavolo o la morte che possa venire a
privarcene. Anzi, quando moriremo le possederemo più pienamente e cresceremo
sempre più nel loro godimento» (Crisost., CLR, 9,2).
… e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria. «Il credente deve ostentare certezza non solo delle
cose che gli sono state date, ma anche di quelle future come se gli fossero già
state date. Infatti uno si vanta di ciò che ha già ottenuto. Ora, poiché la
speranza delle cose future è sicura e certa quanto le cose già date, noi ci
vantiamo a pari titolo anche di quelle» (Crisost., CLR, 9,2). In altre parole, Dio ha fretta a comunicarci per
intero ciò che vuole donarci e che ha cominciato a darci in parte.
Ci vantiamo anche nelle tribolazioni. Se abbiamo
ricevuto un dono così rilevante perché ancora stiamo soffrendo e dobbiamo
affrontare molteplici tribolazioni? Dobbiamo trovare da noi la risposta. In che
modo? Siamo invitati ad osservare in profondità l'esperienza che stiamo
vivendo. Il cristiano che ama Dio e si affida a lui in spirito di abbandono,
supera o facilità tutti i travagli che incontra. Lo può fare grazie alla
presenza in lui dello Spirito Santo, che rappresenta il dono massimo di Dio per
il tempo presente. Se ci facciamo guidare da lui, le stesse vicissitudini di
dolore e sofferenza si trasformano in un’occasione di crescita. Paolo, così,
più che dare un insegnamento teorico, ci offre dei parametri per renderci
capaci di discernere i fatti della nostra esistenza al fine di scoprire in
quale modo l'amore di Dio ci raggiunga. Osservando in noi gli effetti della sua
grazia impariamo a conoscere Dio mediante la nostra vita.
La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è
stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato
dato. Il dono dello Spirito attesta in maniera certa che Dio ci ama oltre ogni
dubbio e che agisce con noi con grande generosità. «Qualcuno infatti potrebbe
dire: “E se Dio non volesse concederci la sua grazia? Che ne abbia il potere e
che duri in eterno e viva lo sappiamo tutti, ma da dove sappiamo che egli anche
lo voglia?” Da quanto si è già verificato. E cos'è che si è verificato? L'amore
che ha mostrato per noi. In che modo? Donandoci lo Spirito Santo. Per questo,
dopo aver detto che la speranza non delude, ne dà dimostrazione aggiungendo:
“Perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori” (Rm 5,5). Non ha
detto: “È stato dato”, ma “È stato riversato nei nostri cuori”, sottolineando
la generosità. Infatti quello che ci ha fatto è stato il dono più sublime; non
il cielo e la terra e il mare, ma un dono più prezioso di tutti questi, che da
uomini ci ha fatti diventare angeli, figli di Dio e fratelli di Cristo. Qual è
questo dono? Lo Spirito Santo!» (Crisost., CLR, 9,2).
L’espressione amore di Dio allude in primo luogo alla
benevolenza che il Padre usa verso di noi, ma in seguito lo Spirito suscita in
noi un amore di risposta verso Dio; in questo modo siamo inseriti all’interno
della Trinità perché viviamo mediante quella carità che è la caratteristica di
ogni Persona divina: «È stato diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito
santo quell'amore con cui noi amiamo Dio, oppure quello con cui siamo da lui
amati? Se si deve piuttosto intendere quell'amore con cui noi siamo amati da
Dio, è certo che l'apostolo ritiene l'amore il sommo e massimo dono dello
Spirito santo. Avendo prima ricevuto da Dio un tale dono, noi possiamo amare
Dio poiché da lui siamo amati. Dall'unica fonte della divinità del Padre è
infusa l'abbondanza dell'amore anche nei cuori dei santi, perché ricevano la partecipazione
alla natura divina (cfr. 2 Pt 1,4). Mediante questo dono dello Spirito santo,
trova compimento quella frase pronunciata dal Signore: “Come tu Padre in me ed
io in te, anche questi siano una cosa sola in noi” (Gv 17,21): siano resi cioè
partecipi della natura divina per l'abbondanza dell'amore donato per mezzo
dello Spirito Santo» (Orig.,CLR/1, p. 223 passim).
Paolo torna a parlare dell'impegno di Dio per noi.
Cristo è morto per noi, per annullare le nostre colpe. Tutti i peccati degli
uomini sono stati come eclissati dalla sua santità e dalla sua obbedienza, che
manifestava la sua completa fiducia nel Padre.
Quando eravamo ancora deboli, nel tempo
stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire
per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio
dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora
peccatori, Cristo è morto per noi (5,6-8).
«L'apostolo, volendo far capire meglio la forza
dell'amore, ci insegna che Cristo è morto, non per gli uomini pii, ma per gli
empi. Eravamo infatti empi prima di convertirci a Dio, e Cristo certamente ha
subito la morte per noi prima che credessimo. Non avrebbe fatto questa cosa se
non avesse avuto verso di noi un amore straordinario e sovrabbondante, sia il
Signore Gesù morendo per gli empi, sia Dio Padre consegnando il suo Unigenito.
In questo vi è un indizio della sua infinita bontà divina. Se infatti non fosse
Figlio di quel Padre di cui è detto: “Nessuno è buono, se non il solo Dio
Padre” (Mc 10,18), non avrebbe certo potuto manifesta-re una bontà così grande
verso di noi» (Orig., CLR/1, p. 224).
A maggior ragione ora, giustificati nel
suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo
nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo,
molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non
solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo,
grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione (5,9-11)
Nel momento presente, cominciamo ad essere salvi e
possiamo essere liberati dall’ira. L’ira corrisponde alla nostra situazione di
miseria, peccato e tristezza (il concetto era già stato sviluppato all'inizio
della lettera); è l'incapacità di uscire dal male che ci attanaglia. L'evento
della salvezza non è però soltanto una liberazione dal male ma l'avvio in un
cammino verso il bene. La giustificazione non è soltanto un atto di perdono ma
anche l' inizio di una vera trasformazione dell'uomo; è questo che Paolo
intende quando parla di riconciliazione.
«Se si è manifestato buono verso gli empi in tal
misura da dare l’unico Figlio per la loro salvezza, quanto più generoso sarà
verso coloro che si sono convertiti e che sono stati redenti dal suo sangue?»
(Orig.,CLR, p. 226). Dio non rende giusti gli uomini soltanto nel momento in
cui li perdona gratuitamente e concede loro il dono della fede in Lui ma
continua a coltivarci nell’attesa di verificare la nostra produttività. «Il fatto
stesso che possiamo compiere qualcosa o pensare o parlare, ci è possibile farlo
per suo dono e benevolenza» (Orig.,CLR/1, p. 179).
«È evidente che se, per riconciliarci a sé, Dio
consegnò suo Figlio alla morte, quanto più una volta riconciliati ci renderà
salvi per mezzo della vita del Figlio stesso, perché non potrà non amare gli
amici colui che fa del bene ai nemici. Certo, se la morte del Salvatore ha
giovato a noi ancora empi, quanto più, una volta giustificati, ci gioverà la
sua vita di risorto dai morti? Perché, come la sua morte ci ha strappati al
diavolo, così anche la sua vita ci libererà dal giorno del giudizio di Dio»
(Ambr., CLR p. 129).
«Dio ha amato gli uomini che lo odiavano e continua ad
amarli. Infatti “fa sorgere il s-le sopra i cattivi e sopra i buoni e fa
piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,45). Ama Colui che ti ama e
ti ama davvero. Obietterai: come è possibile che mi ami se minaccia la pena
eterna e il castigo? Lo fa proprio perché ti vuol bene. Elimina da te la malizia
e frena la tua inclinazione al male; Egli fa tutto questo, ti promette il
premio e ti minaccia il castigo per impedire che tu ti volga al peggio»
(Crisost., CLR, 9,4).
La riflessione sviluppata nella lettera suscita un
altro interrogativo la cui risposta ci aiuta a scoprire la vastità delle
generosità di Gesù. Se la morte viene in conseguenza della colpa, Gesù non
avrebbe dovuto morire. Come spiegare la morte dell’innocente Gesù? Non siamo di
fronte ad un’incongruenza? Così risponde Origene: «Pur non avendo personalmente
commesso peccato, tuttavia, per la nostra salvezza, mediante l’assunzione della
carne, si dice sia diventato peccato egli stesso. Così, pur non essendole
sottomesso, l’accolse spontaneamente per la nostra salvezza e non per
necessità, per portare a compimento quel piano divino che aveva accolto. Lo
disse Egli stesso: “Ho il potere di consegnare la mia vita e ho il potere di
prender-la di nuovo”» (Orig.,CLR/1, p. 243). Il fatto di morire come tutti noi,
segnala l’estrema generosità di Gesù.
Adamo e Cristo
Cristo, annunciando lo splendore della grazia, mostra,
per contrasto, la nostra povertà estrema. Entrambe le situazioni vengono
collegate a due figure tipiche Adamo e Cristo. Tra i due si scorgono più
differenze che somiglianze. Il primo è soltanto un simbolo astratto.
Rappresenta l'immagine tipo dell'uomo, la parabola dell'umanità; Cristo,
invece, è realmente un uomo concreto reale e inizio di una nuova umanità.
L’apostolo annuncia la nostra povertà ma anche la
causa che l’ha provocata:
Come a causa di un solo uomo il peccato
è entrato nel mondo, e con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si
è propagata la morte, poiché tutti, perché tutti hanno peccato... (5,12).
Adamo e, dietro di lui, ogni uomo che ripete volontariamente
ciò che egli ha compiuto, diventano responsabili della situazione di morte
presente nel mondo. Insieme al peccato compare la morte perché il peccato
spegne e dequalifica l’esistenza e poi la distrugge.
Dopo Adamo e condizionati dal suo esempio negativo,
gli uomini, da sempre, fino ai nostri giorni, confermano la scelta sbagliata
dei progenitori. «Il peccato viene quasi personificato come una potenza
malefica, entrata nella natura umana, che provoca la morte come segno della
morte spirituale. Sotto l'influsso di questa potenza, tutti hanno peccato, non
per un destino cieco, ma assecondandola in se stessi con i peccati personali»
(cfr. Pulcinelli, La Bibbia. Via Verità e Vita… p. 2681).
Come può avvenire per gli uomini questo sprofondare
nel male?
Il sole risplende su tutti, ma qualcuno può sempre
chiudere gli occhi e costringersi a camminare al buio: «La luce solare può
essere percepita da tutti coloro che sono provvisti della facoltà visiva. Chi
vuole può, chiudendo gli occhi, rimanere estraneo a questa percezione; in tal
caso però non è il sole a ritirarsi altrove ed a produrre quindi la tenebra, ma
è l'uomo a separare il proprio occhio dal raggio chiudendo le palpebre»
(Gregorio di Nissa, La Verginità… pp. 76-77).
L’uomo, creato ad immagine di Dio, era dotato della
libertà ed era così capace di attuare il bene a cui aspirava. Non è stato Dio a
creare il male ma fu Adamo a rivolgersi contro se stesso, e a dare consistenza,
nel suo agire, a quel male che di per sé non ha una propria consistenza. «L'uomo
era l'immagine e l'imitazione [di Dio], della potenza che su tutto regna, e per
tale ragione, nella libertà delle sue scelte, era simile al padrone di tutte le
cose. Non era schiavo di nessuna necessità esterna, e poteva disporre di sé
come voleva secondo il proprio giudizio, giacché aveva la facoltà di scegliere
ciò che gli piaceva. Fu lui ad attirare volontariamente su di sé, fuorviato da
un inganno, la disgrazia in cui ora si trova il genere umano: da sé scopri il
male, senza averlo visto prodotto da Dio. Non fu infatti Dio a creare la morte
(cfr. Sap 1,13), ma fu l'uomo a divenire in un certo senso il creatore e
l'artefice del male (Gregorio di Nissa, La Verginità… pp. 76-77).
Dobbiamo evitare di pensare che il male esista di per
sé o che l’uomo sia in uno stato totale di depravazione. Come persone umane
siamo deboli, cioè suscettibile di tentazioni, ma non corrotti alla radice.
Oltretutto Gesù è vissuto in una carne debole come la nostra ma è stato esente
dal peccato perché il peccato non si identifica con la carne dell'uomo, ossia
con il suo corpo.
Il peccato non è soltanto trasgressione della legge ma
un comportamento sbagliato in sé e per sé, un operare che genera morte. Questo
tipo di danno compare anche là dove nessuna legislazione esplicita è
intervenuta in precedenza per stabilire un regolamento. Adamo sperimenta la
morte, la quale nel suo ultimo sviluppo negativo è inferno. Da Gesù
scaturiscono invece la libertà dal peccato e la vita nuova che raggiunge il suo
culmine nella vita eterna.
L'intento primario dell’Apostolo non è quello di
descrivere la condizione negativa dell'umanità, quasi per il gusto di
denigrare, ma è quello di presentare l'ampiezza e la vastità della grazia e del
rimedio al nostro male, procurato da Dio per mezzo di Gesù.
Dio Padre ha posto gli uomini in solidarietà tra di
loro, così che il comportamento dell'uno influisce su quello dell'altro. Dal
momento che Gesù è venuto sulla terra, la sua santità ha esercitato e continua
ad esercitare un influsso positivo al massimo grado. Per l'obbedienza di un
uomo solo, cioè Cristo, tutti veniamo prima considerati e poi formati da Dio
come uomini giusti. Proprio per poter godere appieno dei benefici portati a noi
da Gesù, siamo stati posti da Dio in solidarietà gli uni o gli altri, in ogni
evenienza. Il guadagno che avremmo ricevuto da questo legame costitutivo,
sarebbe stato superiore a qualsiasi perdita.
Ma il dono di grazia non è come la
caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la
grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono
riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di
quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la
condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la
giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a
causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della
grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù
Cristo. Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli
uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su
tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la
disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche
per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti (5, 15-19).
L’umanità intera si trovava nell’incapacità di vincere
il peccato e di evitare l’esperienza della morte. La possibilità di superare
questo accumulo di male e recuperare in tutto la nostra esistenza ci venne
offerta da Cristo Gesù. «La morte ha regnato da Adamo, che per primo aprì il
passaggio al peccato in questo mondo, fino a Mosé, cioè fino alla legge.
Mediante la legge infatti cominciò a manifestarsi la purificazione dei peccati
e, in qualche misura, per mezzo delle vittime immolate, dei vari riti di
espiazione, dei sacrifici e dei precetti si iniziò a contrastare la sua
tirannide. Ma poiché il suo dominio era talmente grande da superare le forze
della legge, furono mandati in aiuto di essa i profeti. Anche costoro però,
riconoscendo che la potenza del tiranno era superiore alle loro forze,
implorarono che venisse di persona lo stesso re, supplicando Dio: “Manda la tua
luce e la tua verità” (Sal 42,3), e ancora: “Abbassa i tuoi cieli e discendi”
(Sal 143,26) e “Sorgi, Signore, soccorrici” (Sal 43,26). Venne dunque Gesù
Cristo Figlio di Dio» (Orig., CLR/1, pp. 250-251).
Esiste una grande differenza tra l’opera di Adamo e
quella di Cristo. Gesù ripara il nostro male e ci dona molto di più che di
quanto avevamo all’origine e di quanto potevamo desiderare; ottiene un
risultato che è incomparabile, al punto da rendere pienamente giustificabile il
nostro precedente coinvolgimento nel peccato di tutta umanità. La vita è molto
più forte della morte e la giustizia del peccato. …Quelli che ricevono l'abbondanza della
grazia: l’apostolo non parla soltanto di
grazia ma di abbondanza di grazia. «Noi non abbiamo ricevuto, infatti, soltanto
una stretta misura di grazia, il minimo necessario per evitare il peccato, ma
molto di più. Siamo stati sottratti al castigo, abbiamo deposto ogni fardello
di peccato, siamo stati rigenerati dall’alto, siamo stati risuscitati dopo aver
sepolto l’uomo vecchio, siamo stati riacquistati e santificati, abbiamo
ricevuto l’adozione a figli e la giustificazione, siamo diventati fratelli
dell’unico Figlio, siamo stati designati come coeredi, membra del suo corpo,
uniti a lui come il corpo alla testa. Tutti questi beni sono parte
dell’abbondanza di grazia di cui ci parla Paolo. Non ci è stato dato soltanto
una medicina per guarire dalle nostre ferite, ma la santità, la bellezza,
l’onore, la gloria, tutti doni che superano le nostre possibilità umane»
(Crisost., CLR, 10, 2)
L’attenzione viene rivolta al futuro: regneranno nella vita per mezzo di
quell'uno che è Gesù Cristo. L’uomo non
ha ancora ricevuto la salvezza ma soltanto un inizio di salvezza; esso di già
molto ricco, rimane ancora inferiore alle sue potenzialità ultime. «Mentre ha
detto “tutti muoiono in Adamo”, non ha detto così anche in Cristo tutti sono
vivificati ma “saranno vivificati”. Non ha detto: la vita regna, ma “la vita
regnerà per il solo Gesù Cristo”» (Orig.,CLR/1, p. 263). Inoltre c’è una
crescita della vita divina in noi anche al presente. Abbiamo la possibilità di
acconsentire alla vita di Cristo di regnare in noi in modo sempre più profondo.
La legge poi è intervenuta a
moltiplicare la trasgressione; ma dove il peccato è abbondato, la grazia è
sovrabbondata, affinché, come il peccato regnò mediante la morte, così pure la
grazia regni mediante la giustizia a vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo,
nostro Signore (Rm 5, 12-21).
La promulgazione della legge, mediante Mosè, ha avuto
una conseguenza indesiderata. Invece di indurre gli uomini ad una maggiore
obbedienza a Dio e ad una vita più santa, li ha spinti ad alimentare uno
spirito di ribellione ancora più acuto. Il dono si è così trasformato in
sventura. Dio però non si è lasciato travolgere dal male ma ha escogitato un
rimedio di grande forza e di grande valore: dove il peccato è abbondato, la
grazia è sovrabbondata.
La legge è intervenuta a moltiplicare la
trasgressione. «La Legge non era stata data perché il peccato aumentasse ancora
di più, ma perché diminuisse e sparisse. Invece è successo il contrario; non a
causa della Legge in se stessa ma della debolezza degli uomini che l’avevano
accolta. Perchè dice che la Legge è intervenuta e non dice che essa è stata
donata? Voleva dire che era stata data per un certo tempo e che non godeva di
un’importanza primaria e definitiva. Nella lettera ai Galati afferma lo stesso
contenuto in un’altra forma: “Prima che venisse la fede, eravamo custoditi e
rinchiusi sotto la Legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata” (Gal
3,23)» (Crisost., CLR, 12,3).
Dove il peccato è abbondato, la grazia è
sovrabbondata. «Non dice che la grazia ha abbondato ma che ha sovrabbondato.
Essa, infatti, non ci elargito l’essenziale ma doni molto grandi: come se un
medico riuscisse non soltanto a togliere la febbre ad un malato, ma gli
restituisse il fiore dell’età, dell’energia e dell’onore; come se un
benefattore non solo nutrisse un affamato, ma lo ricolmasse di ricchezze e poi
lo elevasse alla carica più elevata. In che senso il peccato ha abbondato? La
Legge ribadiva i suoi innumerevoli precetti ma dal momento che venivano tutti
violati, il peccato abbondava. Avete colto la differenza tra la Legge e la
Grazia? La prima ha reso più grave la nostra condanna mentre l’altra ci ha
riversato un dono sopra l’altro» (Crisost., CLR, 12,3).
La grazia regni mediante la giustizia a vita eterna.
«ILa morte ci ha espulsi dalla vita presente; la grazia non ci ha restituito
questa vita, ma ci ha donato una vita immortale ed eterna. Cristo ne è
l’autore. Non dubitate della vita, poiché avete la giustizia: la giustizia è
più grande della vita perché ne è la madre» (Crisost., CLR, 12,4).
Nel commentare il ruolo di Adamo in contrapposizione a
quello di Cristo, Origene menziona un altro passo significativo
dell’epistolario paolino che presenta tematiche similari:
«Così anche sta scritto: “Il primo uomo,
Adamo, divenne anima vivente”; l'ultimo Adamo è spirito vivificante. Però, ciò
che è spirituale non viene prima; ma prima, ciò che è naturale, poi viene ciò
che è spirituale. Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre; il secondo
uomo è dal cielo. Qual è il terrestre, tali sono anche i terrestri; e quale è
il celeste, tali saranno anche i celesti. E come abbiamo portato l'immagine del
terrestre, così porteremo anche l'immagine del celeste» (1 Cor 15,45-49).
L’apostolo designa due figure e due condizioni di vita
contrastanti: Adamo e la piena solidarietà con lui, quale essere vivente;
Cristo e l’unità con Lui, quale Spirito datore di vita. L’appartenenza all’uno
o all’altro, dipende dalla nostra scelta e la decisione presa provoca un
diverso e totale orientamento di vita sul piano pratico:
Seguiamo ora la riflessione di Origine nel commentare
il testo citato. In un primo passo, rievoca i due personaggi e le due forme di
vita: «L’apostolo definisce “primo uomo dalla terra”, uomo terreno, il solo
uomo [Adamo] per il quale è entrato il peccato; definisce invece quale “secondo
uomo”, quello celeste che viene dal cielo (1 Cor 15, 47)» (Orig.,CLR, p. 241).
Combinando insieme poi altri passi biblici nei quali
sono enunciati l’estraneità al mondo del cristiano autentico e la sua
appartenenza al mondo celeste (per il momento in modo soltanto incoativo ma in
seguito in modo totale), può dichiarare che chi si rinnova a immagine di Dio
«non è né terreno, né sta in questo mondo, ma di lui si dice che la sua
cittadinanza è nei cieli (Fil 3,20). Perciò, stando alle parole di Gesù che
disse: “Voi non siete di questo mondo” (Gv 15,19), la morte non lo può
attraversare. Chi invece è ancora in questo mondo ed è terreno, di costui è
detto che per lui il peccato è entrato in questo mondo e per il peccato la
morte» (Orig.,CLR/1, p. 241). Mentre ancora conduciamo questa vita sulla terra,
possiamo appartenere a Cristo risorto, uscire dalla negatività del mondo e
collocarci nel cielo stesso; al contrario, chi vive nel male, continuare a
perpetuare l’errore di Adamo ed aprire l’ingresso alla morte.
Origene riprende questo annuncio e lo ribadisce: «…
sono estranei alla morte e al peccato quanti, per Cristo o con Cristo, sono
morti a questo mondo e sono risuscitati con lui, con lui anche hanno meritato
di sedere nelle regioni celesti. La loro cittadinanza non è più in questo mondo
ma nei cieli» (Orig.,CLR/1, p. 241).
Il percorso normale di ogni persona è però
travagliato. In un primo tempo, siamo uomini terreni, dominati dall’egoismo
mentre in seguito possiamo diventare spirituali, in comunione con Cristo
Risorto, divenuto spirito vivificante: «Ogni uomo è in un primo tempo tratto
dalla terra, terrestre. Quando porta l’immagine dell’uomo terreno e secondo
tale immagine cammina, egli si prende cura della carne e comprende le cose che
sono della carne. Finalmente, una buona volta, accade che si converta al
Signore e sia condotto dallo Spirito di Dio. Reso spirituale, viene fatto
“ultimo Adamo, spirito vivificante”» (Orig.,CLR/1, p. 241).
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