Ho detto che c'è una stretta connessione tra la risurrezione
e la vita terrena di Gesù, culminante nella sua morte. Ora è opportuno
soffermarsi più lungo sulla morte, un evento fondamentale, il vertice della sua
vicenda umana: «Proclamare la risurrezione di Gesù non significa altro che
annunciare la perenne validità e fecondità salvifica della sua autodonazione
sulla croce. Certo sarebbe incompleto anche l’annuncio della Croce senza la
Risurrezione. Ma il thesaurus ecclesiae,
il capitale a cui attingere sta nella morte di Geù: è alla sua ricchezza che la
risurrezione rende semplicemente possibile l’accesso» (R. Penna, Parola
Fede…, cit., p. 122).
Obbedienza ed espiazione
Il punto di
partenza è dare valore all’obbedienza di Gesù. Da questo lato Egli è simile
agli altri messaggeri di Dio.
I profeti, spesso incontrarono opposizione alla loro
predicazione e molti di loro, pur di rimanere fedeli alla loro missione,
affrontarono la persecuzione.
Per capire meglio, abbiamo conosciuto magistrati che
ritenevano che fosse loro dovere lottare contro la mafia fino al punto da
venire uccisi. Qualcuno di loro ha realizzato questo impegno gravoso pensando
di eseguire una missione ricevuta.
Gesù rimase fedele alla sua missione anche se i suoi
oppositori cercavano di farlo morire, e continuò ad obbedire a Dio Padre. Del
resto, aveva accettato, volontariamente, di vivere come un uomo qualsiasi,
senza onori, privilegi o protezioni speciali. Era stato toccato dalla
sofferenza lungo l'intero corso della sua vita. Non soltanto nella fatica dei
viaggi, nella fame o nella sete, ma soprattutto nell'opposizione, nel rifiuto,
nel misconoscimento. Tutto questo giunge al culmine con la morte in croce.
Ora dobbiamo abbandonare il discorso sull’obbedienza per
riflettere sul concetto di espiazione, più difficile.
La morte di Gesù in croce ha avuto il significato di
un'espiazione?
Paolo usa questo termine in un passo delle lettera ai Romani:
«È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo
della fede, nel suo sangue» (Rm 3,25).
Limitiamoci all’essenziale. Paolo afferma: Gesù, donando a
Dio tutto se stesso, tutta la sua vita (è questo il significato di sangue), ha
ottenuto da Lui il perdono dei nostri peccati. Questa idea non l’ha suggerita
Paolo, per primo, ma l’ha ripresa dall’insegnamento della Chiesa, prima di lui.
Egli l’ha soltanto ripresa e avvalorata.
Ora dobbiamo chiederci: che significa espiazione? Questa
concezione l’ha troviamo espressa nell’Antico Testamento.
In primo luogo si esercita tra le persone: chi ha provocato
un danno ad un altro, chiede a lui il perdono e la riconciliazione ma, per
ottenere tale risultato, deve essere disposto a risarcire il male provocato.
Lo stesso si applica anche nei rapporti tra l’uomo e Dio. Chi
pecca, viene perdonato, se riconosce e ripara in qualche modo il male compiuto.
L'Antico Testamento prevedeva varie forme di espiazione. Dio, per generosità,
aveva stabilito che il compimento di alcuni gesti rituali servissero per
ottenere il suo perdono (Lv 23,26; 2 Cr 29,24). L'uomo non era costretto ad una
riparazione totale. Non avrebbe mai potuto risarcire in modo conveniente
rispetto alla gravità o alla molteplicità delle sue colpe.
Prevalse, col tempo, la convinzione che il migliore atto di
riparazione consistesse nel condurre una vita retta: «Cosa gradita al Signore è
tenersi lontano dalla malvagità, sacrificio di espiazione è tenersi lontano
dall’ingiustizia» (Sir 35,5). Chi aveva peccato, riparava al male compiuto
cercando di vivere un'esistenza più conforme ai comandamenti. L'obbedienza era,
quindi, l'espiazione più gradita a Dio.
In questa prospettiva della vita come atto di culto, il
sacrificio migliore veniva offerto da chi dava la sua vita a vantaggio degli
altri. Così avevano fatto coloro che, all'epoca della rivolta dei Maccabei,
combattevano per Israele contro i pagani, in difesa della religione. La morte
di chi aveva affrontato la battaglia per salvare gli altri (1 Mac 6,44) o il
martirio a difesa della fede (2 Mac 7,37 ss.), venne considerato uno strumento
di espiazione a vantaggio di tutto il popolo. Era possibile, quindi, non
soltanto riparare i peccati personali ma anche a quelli altrui.
Precisato questo, ritorno al discorso sull’obbedienza che
avevo interrotto. L’obbedienza di Gesù fino alla morte aveva avuto un valore
d’espiazione, come lo aveva avuto la morte dei martiri. Ho detto che in questo
caso, Paolo ribadisce una convinzione già tradizionale.
Ora, proprio per la sua perfetta obbedienza a Dio, Gesù è una
totale novità. Diventa così il nuovo Adamo, rappresentante di tutta l'umanità:
ciò che ha fatto Lui è come se l’avessimo compiuto tutti noi. Grazie alla sua
obbedienza, tutti siamo stati costituiti giusti: «Come per la disobbedienza di
un solo uomo tutti sono stati costituiti
peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti»
(Rm 5,19).
In Cristo, tutta l'umanità offre a Dio un sacrificio
dell'obbedienza. Egli ci rappresenta tutti e attraverso il suo dono, tutti
ripariamo i nostri peccati. Gesù ha agito a nostro vantaggio (e al posto di
tutti noi?): «Noi
sappiamo bene che uno è morto per tutti,
dunque tutti sono morti» (2 Cor 5,14).
Il concetto d'espiazione rimane, comunque, disagevole. Che
cos'ha di tanto inquietante? Il verbo greco usato da Paolo (hilaskomai) può significare anche placare l’ira. Gli antichi offrivano sacrifici per placare le
divinità adirate, talora incollerite a tal segno da pretendere, per vendetta,
che venisse sacrificata loro una vittima.
Ritenere che Paolo abbia pensato qualcosa del genere sarebbe
un totale fraintendimento, un vero rovesciamento del suo messaggio. L'apostolo,
infatti, dichiara che è stato Dio a prendere l'iniziativa della riconciliazione
e del perdono. Di per sé, nel caso d'un conflitto tra due persone, è sempre
l'offensore a dover muoversi per primo per ottenere la riconciliazione. Sarà
lui a cercare le modalità per placare l'offeso. Nel caso di Gesù, è vero il
contrario. Dio, l'offeso, anziché prendere provvedimenti punitivi o
vendicativi, si pone alla ricerca degli uomini che l'odiavano in mondo
ingiusto. Si mostra un padre che, per amore del figlio che lo ha bistrattato,
vuole ugualmente ristabilire una comunione a vantaggio del figlio.
Chiarito tale equivoco, possiamo affrontare il messaggio
paradossale espresso da Paolo in un passo famoso: «… Dio, ci ha riconciliati
con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione.
Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli
uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome
di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che
esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui
che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché
in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5, 18-21).
Il peso della maledizione
Sperando d’aver chiarito il significato dell’obbedienza di
Gesù, avvalorata come dono d’espiazione, guardiamo ora un altro aspetto nel
tentativo di comprendere il significato della sua morte.
Noi associamo la croce, in primo luogo, ad un intenso dolore
fisico ma per gli uomini del suo tempo era connessa all'infamia. Il suo
supplizio suggeriva che l'autorità romana l'avesse catturato e condannato come
un criminale. Per gli ebrei, inoltre, quel tipo di condanna veniva letta come
una totale sconfessione della missione di Gesù da parte di Dio, come se avesse
voluto dare la prova che quel sedicente profeta era in realtà un falso profeta.
Chi pendeva da un albero (o da un palo), infatti, era considerato una
maledizione. «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai
messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la
notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una
maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore, tuo Dio, ti
dà in eredità (Dt 21, 22-23)».
Certamente Paolo aveva applicato a Gesù questa dichiarazione
della Legge e, a suo parere, il testo biblico testimoniava senz’ombra di dubbio
che Gesù era un falso Messia e che era stato sconfessato da Dio.
Dopo l'apparizione di Gesù Risorto, Paolo comprese che quella
presunta infamia, era in realtà la massima glorificazione. Gesù,
nell'incontrare il peggio di quanto può accadere nella vita e nell’immergersi
in esso, sperimentò la tenebra più densa, ma proprio lì portò la luce
dell'amore, continuando la sua dedizione a Dio e ai fratelli. Non poteva agire
in modo più sublime. Sarebbe stato facile fare il profeta o il Messia
nell’essere attorniato da folle acclamanti, nel ricevere onore dalle autorità
religiose e politiche. Gli altri fondatori religiosi avevano conosciuto il
successo ed erano stati riconosciuti da discepoli. Soltanto Gesù morì
abbandonato e misconosciuto, in solitudine, mentre la sua missione era apparsa
del tutto fallimentare. Dette prova, così facendo, di un amore impensabile,
sconosciuto nella storia degli uomini.
Paolo, anziché provare vergogna nell'annunciare un Messia
crocifisso, comprese che proprio quell'evento era un massimo punto di forza:
«Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e
Cristo crocifisso» (1 Cor 2,2).
Era l'attestato sommo dell'amore di Dio per gli uomini: per
richiamarli a sé e ad una vita veramente umana, era stato disposto a sacrificare il suo stesso Figlio, l'amato, ad esporlo alla loro
reazione. A sua volta, Gesù, pur di insegnarci la verità e farci camminare in
essa, in obbedienza al disegno del Padre, aveva accettato di affrontare anche
l'orrore.
Quanto Dio aveva compiuto per tutti, lo avrebbe fatto per
ognuno di loro. Paolo sentiva d'essere stato amato personalmente da Cristo: «Mi
ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La nuova religione stava tutta
in questo grande punto di forza: qualcuno mi ama in modo straordinario, molto
di più di quanto ognuno possa amare se stesso.
La morte del Messia
Paolo era stato molto colpito dalla crocifissione di Gesù e
la esponeva in modo molto vivo fino a quasi da farla rivivere ai suoi
ascoltatori (Gal 3,1). Questo era una sua particolarità perché in generagli
evangelizzatori parlavano della morte di Gesù senza scendere nei particolari;
si limitavano a illustrarne il significato salvifico per non trovarsi in grave
imbarazzo.
Pensava: se Gesù era Messia, non avrebbe dovuto morire. Gli
ebrei ritenevano che se il Messia doveva essere il capo di un popolo di santi,
avrebbe dovuto anche essere esente da peccato (Is 60,1: «il tuo popolo, tutti
saranno giusti»). Se era senza peccato, non avrebbe neanche dovuto morire
perché la morte era considerata una penalità imposta per il peccato. Rimaneva
un’unica soluzione: Gesù aveva scelto di morire: «Diede se stesso per i nostri
peccati» (Gal 1,4); era «il Figlio di Dio che diede se stesso per me» (Gal
2,20). Per quale motivo? Desiderava che la sua morte fosse a vantaggio
dell’umanità, per un atto d’amore.
«Paolo rimase talmente sopraffatto da questa
intuizione, che non riusciva a pensare alla morte di Cristo senza volere che
anche gli altri apprezzassero la straordinaria profondità e forza dell’amore
che essa rivelava… Di qui il suo correttivo all'insegnamento tradizionale.
Nelle sue lettere egli cita due inni liturgici. Uno dei due dice: «Si umiliò
facendosi obbediente fino alla morte», e Paolo aggiunge: «e alla morte in
croce» (Filippesi 2,8). L'altro inno parla di Dio che riconcilia a sé tutti gli
esseri per mezzo di Cristo, e Paolo interpreta precisando: «facendo la pace
mediante il sangue della sua croce» (Colossesi 1,20)… Per Paolo era di grande
importanza che la gente da lui convertita conoscesse quello che Gesù aveva
detto e fatto, e così egli lo trasmetteva loro nella sua predicazione orale (2
Corinzi 11,4). Ma in ultima analisi non era questo a rendere unico Gesù… Per
Paolo, il fatto che Gesù avesse avuto la possibilità di scegliere se morire o
meno lo distingueva da tutti gli altri, per i quali la morte era inevitabile.
Per questo la morte di Gesù divenne la chiave che schiudeva il senso della sua
vita. Essa rivelò a Paolo che quello che rende una persona autenticamente umana
è l’amore che sacrifica se stesso, così come mostrato da Cristo. Ed egli voleva
che i suoi lettori prendessero a cuore soprattutto questo» (J. Murphy O’Connor,
Paolo…, p. 56).
da Vincenzo Bonato
INTRODUZIONE AL PENSIERO DI PAOLO
Ancora Milano 2018, pp. 31- 43
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