Gesù
Cristo, il Cristo della fede cristiana, è la risposta di Dio a
quest'implorazione umana. E che risposta! «Dio infatti ha tanto amato il mondo
da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia
la vita eterna» (Gv 3,16). «Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi,
chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha
dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31ss).
Questa è
l’essenza del cristianesimo. Il cristiano è fedele alla sua vocazione se vive
della sua fede in quest'amore. E le prime generazioni ne hanno avuto pienamente
coscienza. Gesù Cristo messaggero, vittima ed esecutore dei disegni paterni di
Dio sulla sua creatura per mezzo del ministero dei suoi apostoli attira le
«nazioni» nell’orbita d’Israele, e insieme con Israele nel regno di Dio che è
«il regno del suo Figlio diletto» (Col 1,13). Dio Padre — con una pienezza di
significato che non viene assolutamente resa dalle espressioni metaforiche in
uso presso i pagani — quale Pater tón hólón, «Padre
di tutti»: ciò che non esprimono adeguatamente nemmeno le pur meravigliose
prefigurazioni dell’Antico Testamento. Gli stranieri di ieri, gli ospiti di
passaggio, i pagani di buona volontà, i vari Epitteto e Marco Aurelio e la
folla degli anonimi che aspirano come loro, ma senza saperlo, alla liberazione
dall’inutilità, dalla solitudine, dalla heimarmene (fato) e
dalla morte, sono diventati realmente, quindi non solo a parole, figli del Dio
supremo, loro Padre in Christo Jesu Domino nostro.
«Quale
grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo
realmente!» (1Gv 3,1). Ritroviamo quest'esclamazione di ammirazione nella
Lettera a Diogneto, e possiamo ben dire che questo sia il nucleo di fondo della
spiritualità di ogni tempo. «Chi di noi si sarebbe mai aspettato (una cosa
simile)?» (A Diogneto, VIII, 11). «Quanta sovrabbondanza di bontà e d'amore per
gli uomini da parte di Dio!» (ibid. IX, 2). E qui che inizia la vita cristiana
ed è in questo che culmina: «La prima cosa che riceverai è la conoscenza di un
Padre» (ibid. X, 1); e anche: «Comincerai a conoscere il Padre».
Quelli che
avevano ricevuto il messaggio evangelico con quella fede totale che abbiamo riscontrato
in Ignazio di Antiochia, furono e vissero da allora in uno stupore che si
manifesta spesso, particolarmente in una forma di felicità che, più che
esprimersi, si irradia. Questa è la seconda tappa, come dice la Lettera a
Diogneto: «E quando lo avrai conosciuto, di quale gioia pensi che sarai pieno?»
(X, 3). Infine, terza e quarta tappa: «Come amerai colui che per primo ti ha
amato?»; «E quando avrai cominciato ad amarlo, sarai imitatore della sua bontà»
(ibid. X, 3-4).
1. Prima
tappa: la conoscenza del Padre. Gli studiosi non sono d'accordo sulla sfumatura
del termine epignosis; per alcuni significa una conoscenza
eminente; per altri, il primo passo, il primo approccio alla conoscenza.
Indipendentemente dal termine, secondo l’insegnamento cristiano, la conoscenza
di Dio Padre costituisce la grazia per eccellenza e il più alto soggetto di
meditazione. Non rimane soltanto sul piano intellettuale, ma pervade la
sensibilità di tutto l’essere. «Non dobbiamo mancare d'intelligenza; dobbiamo
prendere coscienza del progetto della bontà del Padre nostro...» (Barnaba, II,
9). Bisogna «avere gli occhi fissi sul Padre» (Clemente, XIX, 2).
«Contempliamolo col pensiero; fissiamo con gli occhi dell'anima il suo benevolo
volere; riflettiamo quanto sia buono verso tutta la creazione» (ibid. 3).
Ci vuole
quindi una meditazione profonda, abituale, per prendere coscienza di questa
paternità che veglia su di noi, per apprezzare nel suo giusto valore questa
rivelazione inaudita, cioè che il Dio inaccessibile dei filosofi ha stabilito
fra lui e noi il rapporto più intimo, quello tra Padre e figlio.
Quello che
ne sottolinea la grandezza è il fatto che i padri apostolici, anziché negare
l’«autarchia» divina, che sembrerebbe forzare Dio a disinteressarsi di noi, vi
insistono; Clemente (LII, 1) dice con una breve frase, usando la parola
classica aprosdees: «II Sovrano dell’universo, fratelli, è esente da bisogni, non
esige niente da nessuno, se non essere riconosciuto». Barnaba specifica che
questo vale anche per gli atti di culto: Dio «ci ha fatto sapere tramite tutti
i profeti che non ha bisogno di sacrifici, ne di olocausti o di oblazioni» (II,
4). Egli ci ha amati, ma con una carità totalmente disinteressata perché «colui
che ha fatto il cielo e la terra [notare questo richiamo frequente!] e tutto
quello che essi contengono, che ci provvede di tutto quello di cui abbiamo
bisogno, non può certamente avere bisogno a sua volta di nessuna di quelle cose
che mette a disposizione di coloro che pensano di dargliele» (A Diogneto, III,
4). I pagani che credono di dare qualcosa a Dio sono «elleni ottusi», vittime
della loro intelligenza, e i giudei assomigliano a loro su questo punto (ibid.
II-III). La saggezza dei filosofi è anch'essa limitata, perché si ferma al
pensiero della sufficienza divina, prendendone lo spunto per negare la
Provvidenza.
Per
ricapitolare questi pensieri non c'è niente di meglio che leggere un brano di
sant'Ireneo, fedele erede dei padri apostolici, contenuto nella Confutazione
della falsa gnosi (= Adversus haereses, IV, 14, I):
In principio Dio plasmò Adamo non perché
avesse bisogno di lui, ma per avere uno su cui riversare i suoi doni. Infatti
non solo prima di Adamo, ma prima di ogni creazione il Verbo glorificava il
Padre dimorando in lui; e anche il Verbo era glorificato dal Padre, come dice
egli stesso: «Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo
presso di te, prima che il mondo fosse» (Gv 17,5). (Cristo) non ci ha ordinato
di seguirlo perché avesse bisogno del nostro servizio, ma per darci la
salvezza. Seguire il Salvatore è prendere parte alla salvezza; e seguire la
luce è ricevere la luce. Quelli che si trovano nella luce, non sono loro a
illuminare la luce, al contrario, sono da essa interamente illuminati. Da parte
loro non le danno niente, ma soltanto ricevono il beneficio di esserne
illuminati. Allo stesso modo la pratica del servizio di Dio non da niente a
Dio, perché Dio non ha bisogno del servizio degli uomini; piuttosto è lui che,
a coloro che lo seguono e lo servono, conferisce la vita, l'incorruttibilità e
la gloria eterna, accordando i suoi benefici a coloro che lo servono in
considerazione del loro servizio, e a coloro che lo seguono a motivo
dell'intensità con cui lo seguono; ma senza ricevere da loro dono di alcun
genere, perché è perfettamente ricco e senza alcun bisogno.
Lo scopo
per cui Dio esige il servizio dagli uomini è perché è buono e misericordioso e
benefica coloro che perseverano nel suo servizio. Quanto Dio non ha bisogno di
niente, tanto l'uomo ha bisogno della comunione con Dio. Questa è la gloria
dell'uomo: perseverare fedelmente nel servizio di Dio.
Non si
potrebbe esprimere con più vigore la gratuità e il disinteresse dell'Amore
primo, oltre che la fede in lui. Tutte le opere di Dio, e anche i suoi
comandamenti, espressione della sua carità, hanno per scopo il nostro bene. Dio
ci ama così senza alcun interesse suo, perché è infinitamente ricco. Aristotele
aveva affermato, senza nemmeno pensare di doverlo dimostrare, che Dio era
felice in modo troppo sublime per poter pensare ad altro che a se stesso (Etica
Endemia, 1. VII, cap. 12, n. 16). Secondo la rivelazione cristiana, la carità,
cioè l'amore disinteressato, è possibile in Dio proprio perché egli non ha
bisogno di niente ed è la beatitudine infinita.
«Carità
ricca e senza gelosia» (Ireneo, Adversus haereses, III, Prefazione): è proprio
di Dio dare, fare il bene, è proprio della creatura ricevere, essere fatta,
godere dei benefici del suo Creatore (ibid. IV, 64, Harvey II, p. 299). Da
questo punto di vista, la migliore definizione dell'uomo è ancora quella che da
sant'Ireneo: «Receptorium bonitatis et organum clarificationis»: recipiente
della sua bontà e per ciò stesso strumento della sua glorificazione (ibid. IV,
21, 2, Harvey II, p. 175), poiché la gloria del Creatore consiste appunto nel
condurre a poco a poco la sua creatura alla perfezione della somiglianza con se
stesso nella partecipazione alla sua stessa beatitudine.
La
rivelazione della paternità divina in Gesù Cristo rappresenta quindi una vetta
dalla quale il panorama del mondo cambia completamente aspetto, perché immerso
per intero in una nuova luce. E una trasfigurazione universale, i cui dettagli
offrono continuamente ai padri e ai contemplativi cristiani nuovi incanti.
Viste a partire dalla grande prova dell’amore paterno, cioè il Cristo che
ricapitola in se ogni cosa, tutte le opere dell'Onnipotenza non sembrano solo
segnate dalla saggezza, ma pervase completamente, dalla loro origine fino alla
loro destinazione ultima, di amore e provvidenza, anche quando le apparenze
sembrano accusare da parte loro un'ostilità o, da parte di Dio, un oblio, un
disprezzo, un castigo.
Oblio! «Il
Signore e Creatore dell’universo, Dio, che ha fatto tutte le cose e le ha
disposte con ordine, verso gli uomini si è mostrato pieno non solo di amore, ma
anche di pazienza. Da parte sua è e sarà sempre così: benevolo e buono, senza
ira e fedele: il solo che è buono (cfr. Mt 19,17). Ma avendo concepito un
disegno grandioso ed ineffabile, lo ha comunicato solo al suo Figlio. Quindi,
fino a quando ha tenuto celato il suo sapiente progetto nel mistero, sembrava
disdegnarci e non interessarsi di noi. Ma quando ha rivelato e manifestato,
tramite il suo Figlio amatissimo, ciò che aveva preparato fin dall’origine, ci
ha accordato nello stesso tempo sia di partecipare ai suoi favori sia di vedere
e di capire. Chi di noi si sarebbe mai aspettato qualcosa di simile?» (A
Diogneto, VIII, 7-11). Tanto più che eravamo peccatori! Più tardi, il
monachesimo prenderà come una delle sue specialità il penthos, la
«compunzione»; il monaco si considererà votato a portare nelle lacrime il lutto
della sua anima perduta. Se nei padri apostolici non troviamo ancora quasi
niente di simile, non dovremmo concluderne che essi non avevano un sentimento profondo
del peccato e di ciò che rappresenta in decadimento umano e in offesa
imperdonabile a Dio. Ma col vangelo, con Paolo e con Giovanni, eravamo prima di
tutto sorpresi di questo eccesso d'amore che Dio ci ha testimoniato, mentre
eravamo ancora peccatori, e del fatto che «non c'è oramai più nessuna condanna
per quelli che sono in Cristo Gesù» (Rm 8,1). In questo modo, la più opprimente
delle nostre cause d'angoscia fornisce a Dio l’occasione migliore per provare
che ci ama, e a noi un motivo di gioia e di riconoscenza senza fine. Il
«castigo» prende allora un aspetto del tutto diverso: non è più vendetta e
nemmeno una semplice punizione, bensì diventa una paideia, un mezzo
d'educazione: l’Antico Testamento (Pro 3,12) ne fornisce di nuovo la formula,
commentata dalla lettera agli Ebrei (cfr. 12,6ss): «Io tutti quelli che amo li
rimprovero e li castigo» (Ap 3,19).
Ma vedremo
meglio tutto questo analizzando la seconda tappa, come descritta nella Lettera
a Diogneto.
2. Seconda
tappa: la gioia. «Quando avrai della paternità divina una conoscenza (anche se
incipiente, ma soprattutto se profonda), immagina la gioia con la quale sarai
colmato». I primi cristiani sono stati, secondo ogni evidenza, persone felici,
che sapevano di esserlo e sapevano il perché. La tristezza è classificata fra i
vizi: il primo dei quattro vizi cardinali, secondo il Pastore di Erma. È il
peggiore di tutti gli spiriti cattivi (cfr. ibid., Similitudine IX, 15, 3).
«Rivesti quindi l’allegria, oggetto perpetuo dei favori e delle compiacenze divine.
Perché ogni persona allegra agisce bene, pensa bene e calpesta la tristezza. La
persona triste invece agisce sempre male; anzitutto fa il male contristando lo
Spirito Santo, che è stato dato gioioso all'uomo. Poi, contristando lo Spirito
Santo, commette un'empietà perché non supplica il Signore e non gli confessa (i
suoi peccati)... Purifica dunque il tuo cuore da questa perniciosa tristezza, e
vivrai per Dio; e anche tutti coloro che avranno abbandonato la tristezza per
rivestirsi di ogni gioia vivranno per Dio» (ibid., Precetto X, 3).
Niente può
rattristarci, poiché tutto è effetto della volontà di un Padre, o semplicemente
della volontà, come dice sant'Ignazio.
I
comandamenti di Dio sono amabili e fonte di gioia, a causa della loro origine e
per gli effetti che hanno, cioè la vita e la speranza della vita (cfr. Didache,
I-IV). «La speranza della vita, inizio e fine della nostra fede», dice la
Lettera di Bamaba (I, 6). Se pensiamo che i comandamenti di Dio siano un
impiccio, abbiamo perso lo spirito del cristianesimo, e persino quello del
giudaismo. Barnaba fa appello alT Antico Testamento per dire: «Lottiamo per
osservare i comandamenti, in modo da rallegrarci nella santa volontà (di Dio)»
(ibid. IV, 11; cfr. Is 33,18; Sal 118). I comandamenti, secondo la Lettera di
Barnaba (XIX, 1), sono la via della luce, come per la Didache sono la via della
vita. A questo proposito, notiamo che non vi è traccia, nei padri apostolici,
di una ricerca consapevole di un «amore puro» più o meno macchiato di sospetto
contro una speranza concepita come amore di bramosia interessata. Realisti
sinceri con se stessi, insisteranno invece su questa virtù di conformità con
l’alto concetto che hanno di Dio. La Lettera di Barnaba insinua chiaramente che
la speranza è la grande ispiratrice della carità: «Una grande fede e carità
abitano in noi, basate sulla speranza della vita» (I, 4). Bisogna sperare, come
si crede, con tutto il proprio essere: carne, anima, spirito, come dice
sant'Ignazio, e anche con la forza di tutte le altre virtù: fede, carità,
concordia (Ign. Filad. XI, 2).
Anche gli
avvenimenti sono sempre un bene per noi. La Didache enuncia, con una semenza
semplice e profonda, tutta la saggezza cristiana a questo riguardo: «Gli
avvenimenti che ti succedono li accoglierai come buone cose, perché niente si
fa senza Dio» (III, 10). Conclusione che s'impone, infatti, se Dio è Padre
dovunque e sempre. Grazie a questa fede totale nell'onnipresenza della carità
divina, i cristiani vanno più in alto degli stoici, senza avere bisogno di
irrigidirsi disumanamente come loro. Gli stoici identificavano la perfezione
con «l'apatia» e si mostravano sdegnosi verso gli «sciocchi» che si turbavano
perché consideravano cattivi alcuni avvenimenti: «Si fraclus inlabatur orbis,
impavidum ferient ruinae: Se il mondo stesso spezzato cadesse, le rovine lo
colpirebbero mentre resiste senza paura». Il cristiano, invece, non disprezzerà
nessuno; soffrirà, lo confesserà a se stesso e, quando occorre, agli altri, ma
non si sentirà infelice, perché la passione del suo Maestro, più ancora della
sua dottrina, gli ha insegnato a vedere nella sofferenza non una maledizione ma
un segno di oblio da parte di Dio: il Cristo in croce è il Figlio Binarissimo
del Padre. E tutto il segreto di Ignazio di Antiochia e dei martiri:
«Lasciatemi imitare la passione del mio Dio», e: «Vieni verso il Padre».
Il
sentimento cristiano di fronte ad ogni avvenimento non si chiamerà con un
termine del tono negativo come apatheia o ataraxia o epoche; il suo
vero nome sarà eucharistia (cfr. Giustino): il sacramento del corpo e del
sangue di Cristo rappresenta al più alto livello rincontro dell'amore eterno di
Dio con la risposta d'amore che provoca nei nostri cuori, E quello che san
Paolo aveva comandato: «en panti eucharisteìte» (I Ts 5,18). Aristide di Atene
testimonia che i cristiani non mancano di farlo: «Rendono grazie a Dio in ogni
momento, per ogni cibo, ogni bevanda e ogni altro bene» (E. Hennecke, Die
Apologia des Aristides..., Texte und Umersuchungen 4, 3, Leipzig 1893, p. 253).
Ma il grande argomento di riconoscenza è l'incarnazione del Verbo: gli altri
aspetti della rivelazione danno luogo a ogni tipo di ricerche e di iniziative
da parte della Chiesa e dei teologi (cfr. Ireneo, Adversus haereses, I, 4,
Harvey I, p. 96); ma «per il fatto che il Verbo si è fatto carne e ha sofferto,
c'è solo da rendere grazie» (sbid. I, 6). Quando Harvey osserva: «It is so
diffìcult to make a satisfactory sense with this word, that I am inclined to
suspect some alteration in the texi...», bisogna affermare invece che questa è
la reazione tipicamente cristiana di fronte a quel dono di Dio che contiene
tutti gli altri: l'eucaristia-sacramento porrà questo nome proprio perché
contiene insieme, nella presenza reale del Cristo, il grande dono del Padre
agli uomini e la grande azione di grazie degli uomini al Padre (cfr. Agostino,
De Civitate Dei, VII, 31).
Per questo
beneficio di Dio, che va dall'origine fino alla consumazione e che comprende e
trasfigura l'intero susseguirsi dei tempi agli occhi della fede, il cristiano
potrà rendere eterne azioni di grazie in tutto, anche se
gli è difficile hic et nunc rendere sempre immediate azioni
di grazie di tutto. Nella nostra vita terrena ci sono momenti
dolorosi che è sufficiente per noi sopportare, senza cercare di estorcerci una
riconoscenza che rischia di non essere sincera. Quindi, quando san Paolo dice:
«In ogni cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù
verso di voi» (I Ts 5,18), bisogna guardarsi dall'interpretarlo in modo da
assimilare Dio nostro Padre a quei poteri umani o disumani che, dopo avere
straziato i loro sudditi, esigono per giunca da loro il titolo di benefattori
(Mt 20,22; Le 22,25). Quello che vuole dire Paolo è che la volontà di Dio, che
ha manifestato la sua qualità paterna nel Cristo Gesù, è sempre la stessa,
indipendentemente dagli avvenimenti che si riserva. La gioia della speranza che
non inganna ci accompagna quindi anche nelle tribolazioni, anche se si
manifesta in modi diversi, sempre veri secondo la logica della fede e secondo
la dialettica della sensibilità.
Il Cristo
e il cristiano non hanno bisogno di mascherarsi come lo stoico. Certamente, se comprendessimo sempre, o
meglio, se il nostro essere sensibile si accordasse sempre con la fede della
nostra intelligenza e della nostra libera volontà, ringrazieremmo non solo in
tutto, ma di tutto. Cristo stesso non lo ha fatto immediatamente nel momento
della sofferenza; si è limitato a dire: «Padre» e ad aggiungere: «Sia fatta la
tua volontà, non la mia». Tant'è vero che san Paolo, in Col 1,11-12 dice:
«...Tutto sopportare con pazienza e con gioia rendere grazie al Padre», perché
se il dono di Dio non sopprime la sofferenza, tanto meno la sofferenza
diminuisce la grandezza del dono. Ci prepara anzi a riceverne una parie
maggiore. Perciò
l'anima
pia non si rattristi, se nel tempo presente è soggetta a miserie. Un tempo
felice le è riservato: rivivrà in cielo con i padri e sarà nella gioia per
un'eternità senza più tristezza (2 Clemente, XIX, 4).
Poiché
abbiamo tutto questo da lui (dal Padre), dobbiamo in tutto rendergli azioni di
grazie (Clemente, XXXVIII, 4).
Ma ci sono
avvenimenti che sono castighi per i nostri peccati. Questi almeno ci
rattristeranno? Assolutamente no, perché anche questi cadono sotto il principio
generale: tutto quello che ti succede viene da Dio. San Clemente cita numerosi
brani della Scrittura che lo affermano, e li riassume m modo eccellente:
«Vedete, miei carissimi, quale garanzia è per noi essere corretti dal Signore.
Essendo un Padre buono ci castiga per farci misericordia con i suoi santi
rimproveri» (Clemente, LVI, 16).
Nemmeno il
ricordo stesso dei nostri peccati turba quest'atmosfera di felicità. Se si
tratta di colpe commesse prima del battesimo, altro motivo di gioia, perché
sono state perdonate. II Signore ci ha introdotti nella buona terra: per noi
sono «il latte e il miele». «Comprendere dunque e meditare questo, figli della
gioia», dice la Lettera di Barnaba (VII, I): il Signore ci ha dato
fin d'ora le primizie delle delizie future (ibid. I, 7), ci
ha rivelato quello che ci aspetta «perché sappiamo rendergli grazie in tutto» (ibid. VII, 1).
Per quanto riguarda i peccati commessi dopo il battesimo, nei padri apostolici
non c'è traccia di quelle cupe dottrine che proporranno più tardi il
novazianismo o il giansenismo. I padri affermano la necessità della penitenza
per tutti e al tempo stesso raccomandano a tutti la gioia. Questo, perché siamo
sicuri che la penitenza è buona e gradita a Dio. La penitenza stessa ci
fornisce, quindi, un nuovo motivo di continua riconoscenza a Gesù Cristo, di
fiducia nella bontà di Dio, di pace e di gioia.
Per usare
ancora uno di quei termini cari ai moderni, anche se sconosciuti agli antichi,
questa spiritualità è evidentemente ed eminentemente escatologica, nel senso
che si fonda sulla speranza nell'eternità beata e sul grande effetto della
carità di Dio, della grazia del Cristo e della comunione dello Spirito Santo.
II cristianesimo non crede che la vita presente basti a se stessa: «Quello che
sì vede non dura; quello che non si vede è eterno».E quindi l'eterno che
dobbiamo «contemplare», cioè ritenere importante, come di fatto è, non solo per
il buon senso che afferma: «Tutto è bene quel che finisce bene», ma per ogni
filosofia (cfr. Marco Aurelio) e per ogni religione. E quello che la liturgia
esprime da sempre, fino ad oggi, in tutte le sue preghiere: «Terrena
despicere et amare coelestia».
Il che non
significa assolutamente che il cristiano non deve tenere in alcuna
considerazione il tempo e le cose temporali. Queste vengono date per rendere
possibile la risposta dell'uomo all'amore di Dio, ed è per mezzo di esse e tra
esse che quest'amore si è rivelato a noi. Questo conferisce loro un valore
inestimabile.
3. Terza
tappa: «Quanto amerai colui che ti ha amato per primo!». La prima risposta
dell'uomo all'amore di Dio Padre, che si manifesta nel Cristo, è la fede in
Cristo che abbiamo già descritto. Ma la fede non potrebbe esistere e rimanere
inattiva: non può essere viva senza sviluppare un'attività, una vitalità del
suo stesso ordine, che è la carità. «All'inizio - dice sant'Ignazio di
Antiochia - la fede, alla fine la carità». E prosegue con il suo stile così
sorprendentemente denso: «Le due virtù unite insieme sono Dio stesso: tutto il
resto forma un corteo verso la perfezione. La professione della fede è
incompatibile col peccato, e la carità con l'odio. E dai frutti che si
riconosce l'albero. Allo stesso modo, dalle loro opere si riconoscono quelli
che fanno professione di appartenere a Cristo. Perché ora non si tratta di tare
professione, ma di perseverare fino alla fine del dinamismo della fede» (Ef.
XIV).
Quest'insolita
traduzione corrisponde al pensiero d'Ignazio in cammino verso il suo martirio.
Infatti il grande segno della carità è nello stesso tempo trionfo della fede.
Nella vita reale dei cristiani, in quei tempi di persecuzione, la perseveranza
nella fede esige normalmente l'accettazione della morte per il Cristo. Per
questo le due «virtù teologali», nel linguaggio di Ignazio e dei martiri, sono
cosi spesso unite da sembrare quasi inseparabili. Fede dice anche fedeltà: in
questo senso la fede perfetta è Gesù Cristo (Smir. X, 2).
Il vero
discepolo di Gesù Cristo si manifesta nella fedeltà alla fede fino al
sacrificio della vita.
Ed è
questa la carità perfetta. Clemente di AIessandria scriverà in accordo con
Finterà cristianità: «Noi diciamo consumazione del martirio, non perché per lui
(Cristo) qualcuno ha terminato la sua vita, come la finiscono tutti gli altri,
ma perché tramite il martirio qualcuno ha compiuto un'azione di perfetta
carità, cioè ha raggiunto il vertice della perfezione» (Stromati, IV, 4).
Il concetto della perfezione, in quel tempo, si incentra decisamente sul
martirio; il culto dei santi inizia con il culto dei martiri; il termine stesso
aghios, da cui abbiamo tratto «agiografia», è riservato a quelli che
sono morti per la fede; gli altri «santi», i confessori, riceveranno il titolo
di hósios, e il catalogo dei santi si chiama ancora oggi martirologio. Dovremo
dire a quali condizioni vi saranno ammessi quei cristiani che non sono morti
nei tormenti.
Per il
momento è importante vedere che la perfezione cristiana si identifica con la
carità, di cui il martirio è la prova stessa. Questa è una tesi (se possiamo
usare questo termine) che non è mai stata messa in dubbio da nessun ortodosso.
Gli eretici stessi non hanno insegnato diversamente, eccetto i «falsi
gnostici». E il dibattito contro di loro ha affermato per sempre la supremazia
della carità sulla «scienza semplice», o semplicemente della virtù sulla «virtù
intellettuale» in senso esclusivo; tanto che la contemplazione cristiana,
contrariamente a quella platonica, non potrà nemmeno più essere concepita senza
includere nella sua definizione, come elemento essenziale, la carità che ne
costituisce tutto il valore davanti a Dio.
È
impossibile non citare qui l'affermazione classica del grande avversario della
«gnosi pseudonima», cioè sant'Ireneo: «È meglio e più proficuo essere ignorante
e poco istruito e avvicinarsi a Dio attraverso la carità, che essere molto
istruiti e dotti nella scienza, e diventare bestemmiatori contro il proprio
sommo Signore» (Adversus haereses, II, 39, Harvey I, p. 343). Ireneo
non difende l'ignoranza; non è assolutamente uno «gnosimaco». Intende solo ristabilire
la scala dei valori, salvare le nozioni cristiane delle cose, mantenere la
salvezza in tutta la sua ampiezza accessibile sia agli umili che ai dotti. «La
vera gnosi è la dottrina degli apostoli e la tradizione conservata nella
Chiesa, l'esegesi leale e rispettosa; l'importante è il dono della carità, più
preziosa della gnosi, più gloriosa della profezia, superiore a tutti gli altri
carismi» (ihid. IV, 53, Harvey II, pp. 262s).
La carità
caratterizza talmente la Chiesa che essa ne porta il nome (cfr. Igff, E/,
Saluto). «Per questo essa manda in ogni luogo e ogni tempo davanti a sé verso
il Padre una moltitudine di martiri (Adversus haereses, IV, 54,
Harvey II, p. 263). Gli eretici invece non riconoscono la necessità di questo
segno d'amore per Dio e di fedeltà a Cristo. La Chiesa, da parte sua, lo da
spesso; ne esce indebolita, ma acquista nuovi mèmbri e conserva la sua
integrità. E quello che affermano tutti i testimoni dell'epoca: san Giustino (Dialogo
con Trifone, 110), sant'Ireneo (/oc cit.), Tertulliano:
«Diventiamo più numerosi ogni volta che siamo da voi falciati. Il sangue dei
cristiani è un seme» (Apologetico, L, 13). Anche questa convinzione
fa parte della spiritualità cristiana; la Chiesa si preoccupa solo di
glorificare Dio; ma sa che, cercando anzitutto il regno di Dio, il resto le
sarà dato in sovrappiù: progredisce sacrificandosi. Anche quando avrà folle di
popoli nella sua obbedienza ripeterà: «Essa non ha mai combattuto per la sua
salvezza temporale contro i persecutori; piuttosto, per ottenere la salvezza
eterna, si è rifiutata di lottare. Legati, incarcerati, picchiati a sangue,
torturati, fatti a pezzi, massacrati, (i suoi figli) si moltiplicano»
(Agostino, De Civitate Dei, XXII, 6).
Il
martirio, però, non capita a tutti, ma tutti secondo la legge evangelica devono
amare Dio con tutta l'anima, con tutta l'intelligenza, con tutto il cuore e con
tutte le forze. Questo verrà manifestato nel modo più chiaro attraverso la
dedizione ai figli di Dio, come diremo più avanti. Ma oltre al martirio e al di
fuori delle opere di carità verso il prossimo, l'amore di Dio e la fedeltà a
Cristo hanno modo di esercitarsi ampiamente seguendo la «via della vita», cioè
osservando i comandamenti, non solo come «è stato detto agli antichi», ma in
tutta la perfezione del loro significato evangelico (cfr. Mt 5,17ss). Non si
concepiva l'opposizione tra la legge del timore e la legge dell'amore come se
quest'ultima fosse meno esigente. Se il Cristo ci ha liberati, se il suo giogo
è dolce e il suo fardello leggero, è perché ha puntato tutto lo sforzo morale
sulla purificazione ulteriore. Pulite anzitutto la sorgente, il cuore da dove
escono tutti i pensieri buoni o cattivi, e anche l'esterno e le attività
esteriori saranno pure. Cosi ha soppresso la grande causa dei nostri tormenti,
lo sdoppiamento della nostra anima, la dipsychia, i
conflitti tra i desideri invisibili e anche inconsci e la proibizione di
soddisfarli. Quando la Didachè prescrive: «Figlio mio,
allontanati da tutto ciò che è male e da tutto ciò che assomiglia al male»
(III, 1), intende anzitutto parlare delle disposizioni interiori: ira, gelosia,
avidità, ecc. Tutto questo è contrario alla volontà e quindi all'amore di Dio,
perché tutto questo tende a fare del male ai figli di Dio. «Odierai ogni ipocrisia
e tutto ciò che non piace al Signore» (Didachè, IV, 12).
Il cristiano deve quindi vigilare su tutti i moti del suo cuore, e per fare
questo avrà un'occasione che si rinnova: «Non comincerai la preghiera con una
coscienza cattiva» (ibid. IV, 14).
Quindi,
prima di passare alla quarta tappa, quella della carità fraterna, conviene
notare il legame tra essa e ciò che precede: «E quando avrai cominciato ad
amarlo, sarai imitatore della sua bontà». I rapporti filiali con Dio e, in
particolare, la preghiera come mezzo di purificazione, di spiritualizzazione e
quindi di liberazione interiore al servizio della carità costituiscono un'idea
che non si cerca di analizzare a fondo m questi tempi di vita intensa, ma
soggiace ovunque. I farisei non hanno capito la parola (Mt 9,13 e 12,7) di
Osea: «Voglio l'amore e non il sacrificio» (Os 6,6), perché a loro volta non
hanno più in loro l'amore di Dio (Gv 5,42); anzi, non possono nemmeno credere
veramente, perché sono troppo attaccati ai beni di questo mondo e soprattutto alla
vanagloria. Nessuno può essere discepolo di Cristo, se non rinuncia di cuore a
tutto quello che potrebbe possedere di esclusivamente terreno. Questo distacco
assoluto da se stessi è un'esigenza e nello stesso tempo un effetto dell'amore
supremo per Dio. L'impossibilità di servire due padroni esclude la coesistenza
in una stessa anima della carità e di quell'anticarità che è l'interesse
personale nei rapporti umani. Ogni rapporto sincero con Dio purifica l'uomo in
proporzione dell'idea che lo ispira. Ognuno, prima o poi, vale quanto vale il
Dio che adora.
Orbene, il
Dio dei cristiani detesta più di ogni altra cosa la doppiezza. Cristo ha
manifestato un'allergia radicale per il fariseismo. Inoltre il Dio di Gesù
Cristo è la Carità che ci ha fatti suoi figli, e noi ci rivolgiamo a lui
chiamandolo «Padre nostro». Niente probabilmente potrebbe, in modo altrettanto
efficace, sia rapire il nostro cuore perché cerchiamo di assomigliare a lui,
sia strapparci al nostro egoismo perché guardiamo e trattiamo i nostri simili
come fratelli. «Non pregate come gli ipocriti, ma, come il Signore ci ha
comandato nel suo vangelo, pregate così: Padre nostro che sei nei cicli...» (Didachè, VIII, 2).
Le richieste che seguono vanno dall'alto al basso, da ciò che è più divino a ciò
che è più terra terra, secondo il movimento di Dio che viene a noi
nell'incarnazione. Psicologicamente potrebbe sembrare meglio iniziare dalla
fine: la liberazione dal male o dal suo istigatore, il Maligno, come
desideriamo tutti, e potremmo da ti innalzarci a poco a poco fino ai vertici
proposti all'inizio. Ma per questa via ascendente, che sarebbe quella dei
nostri sforzi, riusciremo mai ad arrivare al termine? Non è, comunque, la
dialettica della preghiera cristiana: essa ci distoglie di primo acchito dai
desideri terreni, senza tuttavia rinnegarli; e ci innalza fino a quel che c'è
di più celeste nel cielo, al nostro Padre che è nei cieli. Certamente non
diremo immediatamente, con una purezza d'animo totale, ciò che il Signore ci
mette anzitutto sulle labbra: ci sono gradini senza fine per arrivare
all’adorazione perfetta in spirito e verità; ma unendoci così immediatamente,
malgrado la nostra pesantezza, alla spiritualità dei suoi stessi sentimenti.
Cristo ci incammina proprio verso quello che ci farà chiedere per ultimo, cioè
la liberazione da noi stessi e da quanto ci tiranneggia: il male sorto tutte le
forme; le potenze del male, fonte di tentazioni; la durezza di cuore incapace
di perdonare; la preoccupazione del domani, segno di dipsychia. In altre parole.
Cristo, facendoci chiedere al Padre come prima cosa quello che è il supremo
desiderio del suo stesso cuore, prima ci cristianizza interiormente, in modo
che, quando chiederemo grazie apparentemente di ordine del tutto temporale,
come il pane quotidiano, possiamo essere disposti a vedervi soprattutto «il
pane disceso dal cielo» che è lui stesso; dispostissimi a porre la condizione
del perdono implorato, che è il perdono da noi concesso «ai nostri debitori»
(Lc 11,4); sicurissimi che Dio non permetterà che veniamo tentati al di là
delle nostre forze, e che insieme alla tentazione ci darà anche il mezzo di
uscirne e la forza di sopportarla (cfr. ICor 10,13); liberati infine
dall'incubo costituito dal «problema del male», perché sapremo che tutto torna
in bene per coloro che Dio ama, o più esattamente, che l'Onnipotente che
chiamiamo Padre nostro fa convergere tutto verso il bene dei suoi tigli,
poiché, in verità, «a lui appartengono il regno e la potenza e la gloria per i
secoli» (finale che gli orientali aggiungono oggi al Pater).
Solo Dio
quindi è la nostra salvezza, e non noi stessi. Dio non è solo il primo ad
essere servito, ma è primo in rutto: nell'iniziativa della creazione,
nell'amore che ci dimostra, nella redenzione, ne!movimento interiore del suo
Spirito che opera la nostra santificazione: «La grazia del Signore Gesù Cristo,
l'amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito Santo...» (2Cor 13,13). Per
questo, coloro che credono veramente, come la Credente per eccellenza, la beata
Vergine Maria, si sentono spinti anzitutto a «magnificare il Signore nel più
intimo di se stessi», perché opera grandi cose in loro. La preghiera cristiana
sarà prima di tutto glorificazione e azione di grazie: le richieste verranno
solo dopo, già piene di riconoscenza, perché abbiamo già ricevuto il dono che
ci farà avere tutti gli altri, il Figlio e lo Spirito del Figlio. Già prima
della Pentecoste i testimoni dell'ascensione «tornarono a Gerusalemme con
grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (Lc 24,53). Lo stesso san
Luca, che termina così il suo vangelo, negli Atti ci dice quale fu il primo
effetto della discesa dello Spirito Santo: il dono delle lingue non servì
anzitutto a predicare, ma ad «annunziare... le grandi opere di Dio» (At 2,ll).
Questo è l'inizio della liturgia cristiana in tutte le lingue: lode a Dio e al
suo Cristo. L'inchiesta fatta da Plinio il Giovane verso il 113, in Bitinia, ne
ha conservato solo questo particolare: «Hanno l'usanza di radunarsi prima
dell'alba e di cantare inni a Cristo come a un Dio» (Lettere, X, 96).
In realtà la lode e fazione di grazie sono ovunque in primo piano nei resti che
ci sono pervenuti. Le formule provengono spesso dalla pietà ebraica, ma
acquistano un senso nuovo e una portata immensa presso i cristiani, perché
vengono applicate a benefici sconosciuti al giudaismo e che si riassumono tutti
in Cristo. «Ti rendiamo grazie, o Padre nostro, per la santa vite di Davide tuo
servo, che ci hai fatto conoscere attraverso Gesù tuo servo: a tè la gloria nei
secoli!... Per la vita e la scienza che ci hai fatto conoscere attraverso Gesù
tuo servo: a te la gloria nei secoli... Ti rendiamo grazie, o Padre santo, per
il tuo santo nome che hai stabilito nei nostri cuori, e per la conoscenza, per
la fede e per l'immortalità che ci hai rivelato attraverso Gesù tuo servo: a te
la gloria nei secoli! Sei tu. Sovrano universale, che hai creato tutte le cose
per l'onore del tuo nome: cibo e bevanda hai dato nella gioia agli uomini
perché ti rendano grazie; ma a noi hai accordato cibo e bevanda spirituali e
vita eterna attraverso il tuo Servo: anzitutto ti rendiamo grazie perché sei
potente: a tè la gloria nei secoli» (Didachè, IX e X).
Le formule
destinate alla liturgia comune giungono a perdere, per forza di cose, la
flessibilità che avevano all'origine; e tuttavia conservano fino ad oggi, pur
nella loro fissità, qualcosa della spontaneità riconoscente che le ha
originare. Non mancano del resto diverse forme di preghiera personale dalle
quali emanano la stessa gioia e la stessa elevazione dell'anima. La grande
preghiera di san Clemente inizia all’improvviso, nel bel mezzo di una frase
epistolare, con un semplice cambiamento di pronome: «...Il Creatore
dell'universo conservi intatto il numero calcolato dei suoi eletti in tutto il
mondo, grazie al suo Figlio diletto Gesù Cristo, per mezzo del quale ci ha
chiamati dalle tenebre alla luce, dall'ignoranza alla piena conoscenza della
gloria del suo nome, alla speranza nel tuo nome,
principio da cui procede ogni creatura...» (Clemente, LIX, 2-3).
Seguono poi suppliche insistenti per tutti i bisognosi; ma questa specie di
«rogazioni» si inserisce in una sovrabbondanza di lodi che le travalicano da
ogni parie; la glorificazione universale di Dio ispira l'interesse universale
per tutte le creature di Dio. Ma l'una e l'altro provengono dalla medesima
carità. San Policarpo offre lo stesso spettacolo: tutto il suo amore per Dio e
tutta la sua sollecitudine per il prossimo. Sul rogo prega: «Signore Dio
onnipotente. Padre di Gesù Cristo, tuo Figlio benedetto e prediletto, che ci ha
insegnato a conoscerti; Dio degli angeli, delle potenze e di tutto il creato,
di tutta la famiglia dei giusti che vivono alla tua presenza, ti benedico per
avermi ritenuto degno di questo giorno e di quest'ora, di essere annoverato nel
numero dei tuoi martiri e di partecipare con loro al calice del tuo Cristo, per
risuscitare alla vita eterna dell'anima e del corpo nell'incorruttibilità dello
Spirito Santo. Possa oggi essere ammesso con loro alla tua presenza come
vittima pingue e gradita, cosi che la sorte che mi avevi preparata e fatta
conoscere in anticipo, la realizzi ora. Dio di verità senza alcuna
menzogna. Per queste grazie e per
tutte le cose ti lodo, ti benedico, ti glorifico attraverso l'eterno sommo
sacerdote del ciclo, Gesù Cristo tuo Figlio prediletto. Per lui sia gloria a
tè, con lui e con lo Spirito Santo, ora e nei secoli futuri. Amen» (Martirio
di Policarpo, XIV, 1-3). Prima, in una preghiera durata due ore, aveva
«ricordato tutti quelli che aveva conosciuto, piccoli e grandi, illustri e
sconosciuti, e tutta la Chiesa universale sparsa sulla faccia della terra» (ibid. VIII, 1).
Cosi
reagiscono di fronte alla morte imminente quelli che credono nell'amore paterno
di Dio in Gesù Cristo. La psicologia della fede riassunta dall'aurore della Lettera
a Diogneto si verifica nei martiri. Ignazio di Antiochia ne da un esempio
magnifico. Nei biglietti frettolosi che spedisce mentre è in cammino verso
l'immolazione, non c'è alcuna formula di preghiera esplicita, ma si sente
affiorare ovunque lo spirito della preghiera ininterrotta che raccomanda a
Policarpo (Ign. Pol. I, 3): il suo slancio verso Cristo e il Padre
vale più di tutte le formule, e si moltiplica (ma il termine non si addice a
una realtà eminentemente unica) di una perenne sollecitudine per il bene di
tutti. D'altra parte, carità fraterna e glorificazione di Dio, per lui, vanno
di pari passo: «Dal perfetto accordo dei vostri sentimenti e della vostra
carità si leva verso Gesù Cristo un concerto di lodi. Ciascuno di voi entri nel
suo cuore: allora, nell'armonia della concordia, assumerete, con la vostra
stessa unità, il tono di Dio e canterete all'unisono al Padre per Gesù
Cristo...» (Ign. Ef. IV, 1-2). La nota più squisitamente cristiana
in questa sinfonia orante è senz'altro l'intercessione «ininterrotta per gli
altri uomini; c'è infatti in essi una speranza di conversione, al fine di
incontrare Dio» (ibid. X, 1). Leggeremo il seguito più avanti. Per
ora osserviamo che quello che il vescovo di Antiochia chiede per gli altri
uomini, cioè per i non cristiani, è proprio l'oggetto di tutto ciò che desidera
per se stesso; «raggiungere Dio» (cfr. Magn. XIV; Ef. XII, 2; ecc.).
Credere
alla carità di Dio Padre (definizione del cristiano secondo IGv 4,16) mette
sulla via per partecipare all'universalismo. Credere che Cristo in persona è la
grande prova di questa carità, incammina il cristiano verso la partecipazione
alla profondità, cioè a «dare la vita per i fratelli» poiché «Gesù ha dato la
sua vita per noi» (IGv 3,16). Questo è il vero senso della deificazione secondo
il vangelo della carità. Dio è carità, «l'uomo sarà Dio, quando anche lui si
sarà fatto carità, attraverso la sua incorporazione e la sua assimilazione a
Cristo Gesù. Trapiantato nel regno del Piglio dall'amore del Padre...».
Ma questo
non si realizza senza la messa a morte dell'uomo vecchio, in altre parole senza
la mortificazione delle forze antagoniste che ci mantengono nell'egoismo. Anche
l'etica cristiana si rapporta interamente a Cristo, in quanto rivelazione
dell'eterno amore del Padre. Il cristiano non si perfeziona per se stesso, per
godere della sua impassibilità o della sua saggezza di fronte agli ignoranti
che scioccamente si turbano. Il cristiano si santifica o si lascia santificare
dallo Spirito per la gloria di Dio e per la salvezza del mondo. Tutte le
esortazioni di san Paolo a eliminare i vizi e a praticare le virtù hanno come
punto di partenza la teologia dell'incarnazione come opera dell'amore di Dio, e
come punto di arrivo la perfezione dell'amore fraterno tra i figli di Dio. La
morale che ne risulta sarà del tutto personalista e non astratta, come le
costruzioni della psicologia platonica o ellenica in generale. Non sentirà
immediatamente il bisogno di classificare le virtù e i vizi: i cataloghi o
meglio le enumerazioni che si trovano nei vangeli e sotto la penna di san Paolo
non hanno niente di sistematico, e i maggiori dottori del cristianesimo non
avranno alcuna difficoltà a prendere a prestito, in questo campo, catalogazioni
tradizionali, come la teoria delle virtù cardinali, o a lasciare che autori di
second'ordine elaborino lo schema degli otto o dei sette vizi capitali. Quando
sant'Agostino scriveva quell'espressione, troppo spesso alterata nella forma e
adulterata nel significato: «Dilige et quod vis fac» (e non: ama
et fac quod vis; Agostino, In epistolam Joannis tractatus VII, 8,
PL 35, 2033), rimarrà interamente nella primitiva linea morale cristiana,
perché la sua massima significa: vedere in Dio, alla luce dell'esempio del suo
Cristo, che cos'è la carità effusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito, e
ciò che questo Spirito vi ispirerà per imitare Cristo, per assomigliare al
vostro Padre celeste, fatelo, non solo senza timore, ma con la certezza che è
la perfezione stessa, essendo la carità. L'assioma di sant'Agostino non si
rivolge perciò a chiunque, come se tutti potessero hic et nunc, in virtù
di un semplice imperativo, «amare» nel senso del dilige.
Possedere
la carità o, ciò che nel linguaggio biblico è lo stesso, conoscerla, è una
grazia incomparabile, la grazia che fa i santi. San Paolo, per ottenerla ai
suoi fedeli, piega le ginocchia davanti al Padre dal quale ogni relazione
familiare - paternità, fraternità — in ciclo e sulla terra prende il nome e
l'esistenza. A questo proposito parla di larghezza, lunghezza, altezza e
profondità: le dimensioni infinite del regno dell'amore. Per afferrarne rutta
la magnificenza occorrerebbe capire tutto di Dio e dell'opera di Dio, in altri
termini tutto il mistero di Cristo nell'eternità della sua durata,
nell'ubiquità della sua azione e nella ricchezza delle sue risorse. Questo è
possibile solo per connaturalità, cioè nella misura in cui il nostro essere
stesso si trasforma a somiglianza di Cristo, immagine della Bontà prima.
L'espressione della Genesi «a immagine e somiglianza» diventerà ben presto il
tema favorito degli autori spirituali e sarà un terreno d'incontro con i
teorici della catarsi platonica. Ma prima di questo crocevia ideologico, i
padri antichi esprimevano la stessa dottrina, con più efficacia umana, in un
linguaggio esclusivamente cristologico. Esiste un tipo di comportamento che
caratterizza il vero cristiano (cfr. Fil 3,17, ecc.): san Paolo è cosciente di
possederlo e sa che non è difficile riconoscerlo in coloro che seguono il suo
esempio, soprattutto per contrasto con altri più numerosi «che si comportano da
nemici della croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine, perché
essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero
vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra. La nostra patria invece è nei
cieli, e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale
trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in
virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3,18-21).
La
spiritualità teologica o teocentrica di Cristo non potrebbe in alcun modo
rimanere «geologica» o geocentrica. Il cristiano non s'insedia sulla terra, ma
è in cammino verso una patria migliore, cioè celeste (cfr. Eb 11,17-40). «Anche
noi..., deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci intralcia, corriamo
con perseveranza nella corsa, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e
perfezionatore della fede. Egli, in cambio della gioia che gli era posta
innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia, e si è assise alla
destra del trono di Dio, Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro
di sé una così grande ostilità da parte dei peccatori, perché non vi stanchiate
perdendovi d'animo. Non avete ancora resistito fino al sangue, nella vostra
lotta contro il peccato» (Eb 12,1-4).
Questa
lotta contro il peccato «che ci assale facilmente», quaggiù assume diverse
denominazioni: mortificazione delle membra terrene (cfr. Col 3,5), il che non
significa necessariamente sofferenza volontaria o involontaria, ma eliminazione
dei vizi, il cui insieme nella lingua (ancora cristologica) di san Paolo si
chiama uomo vecchio; rifiuto o spogliamente di questi vizi come ci si sveste di
un vecchio abito smesso (v. 9); crocifissione dell'uomo vecchio e distruzione
del corpo di peccato (Rm 6,6); uccisione delle opere della carne (Rm 8,13);
astinenza da tutto come gli arieti (ICor 9,25). Tutte queste espressioni e
altre ancora richiamano sempre il Cristo che invitano a imitare e a
«conquistare» (Fil 5,12), perché lui ci ha conquistati per primo. Ed è questo
l'aspetto positivo di questa morate o di quest'ascesi, il vero senso,
interamente cristico, dell'epéktasis, «estensione», con cui i martiri,
come Ignazio di Antiochia, hanno animato la loro vita e la loro morte, prima
ancora che Gregorio di Nissa ne facesse oggetto di speculazione. L'ascesi,
infatti, come si capirà meglio in seguito, ma come si intuisce o si pensa già
implicitamente, è anch'essa un martirio a causa del distacco che opera e a
motivo della tensione verso Cristo che le da il suo senso cristiano;
richiamando ancora con le parole d'Ignazio: perché essa insegna a non
desiderare nulla (cfr. Ign. Rom. IV, 3), perché crocifigge le
passioni terrene, dal nome collettivo di eros, e lascia
sussistere nell'anima solo quell'acqua viva della carità che mormora: «Vieni
verso il Padre» (ibid. VII, 2).
Aspettando
quest'ora suprema, quelli che «amano la venuta del Cristo» (2Tm 4,8)
progrediscono verso la somiglianza con lui e provano la verità della sua
promessa: «Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero» (Gv 8,36).
Quest'esperienza parla già in san Paolo: «II Signore è lo Spirito, e dove c'è
lo Spirito del Signore c'è libertà» (2Cor 5,17). Possiamo scegliere fra due servitù;
una ci lascia totalmente schiavi delle forze del peccato, dell’idolatria
dell'io; l'altra, rendendoci servi della legge del Cristo, libera in noi la
carità: «La legge dello Spirito che da vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla
legge del peccato e della morte» (Rm 8,2). Coloro che appartengono al Cristo
Gesù, precisamente perché hanno crocifisso la carne, con le sue passioni e le
sue bramosie, produrranno e gusteranno il frutto dello Spirito, dove tutto
viene messo a servizio del prossimo: «Amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). Contro queste
cose non c'è legge o, secondo l'espressione di san Giacomo ripresa e commentata
volentieri più tardi, la legge stessa che prescrive la carità è «la legge»
perfetta di libertà, e colui che ad essa si attiene per metterla attivamente in
pratica, «questi troverà la sua felicità nel praticarla» (Gc 1,25).
4. Quarta
tappa: carità fraterna: «Quando avrai questa carità (per Dio), sarai
un imitatore della sua bontà» (A Diogneto, X, 4). Il seguito potrebbe
essere un commento a san Giacomo: «Tiranneggiare il prossimo, voler prevalere
sui deboli, essere ricchi, usare violenza contro gli inferiori, questa non è
felicità, e non è in simili cose che si trova l'imitazione di Dio, perché sono
estranee alla sua maestà» (ibid. X, 5). Non si tratta di un
avvertimento retorico. Lo stesso Signore Gesù aveva proclamato nel suo solenne
«vos autem non sic» (Mt 20,26; Me 10,43; Le 22,26) l'opposizione radicale tra
gli istinti dominatori e ipocriti della falsa grandezza umana e lo spirito
d'umiltà essenziale sia alla sua Persona che al suo insegnamento. Il primo e
l'ultimo nemico della carità (e tutti gli altri derivano da questo) è
l'ambizione nata dalla povertà. Niente di più pietoso dell'uomo che accumula
per se stesso e che non è «in Deum dives» (Le 12,21). Invece, «chi è il più
piccolo tra tutti voi, questo è grande» (Lc 9,48). Il più piccolo,
letteralmente il più giovane, di quelli ai quali era rivolto questo monito, era
Giovanni figlio di Zebedeo, per il quale sua madre Salome aveva chiesto il
primo posto nel regno; egli dovette rinunciarvi proprio perché era il discepolo
che Gesù amava, e a questo prezzo diventò sia l’epistethios («sul
petto» - diletto), cantato dalla liturgia, che il primo figlio spirituale di
Maria e l'apostolo per eccellenza della carità fraterna. Pietro che fu di fatto
il primo, per scelta del Maestro, perché non era un ambizioso, ricorda nei
giorni della sua vecchiaia, ai suoi conseniores, la
lezione indimenticabile: «Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano
come loro, testimone delle sofferenze di Cristo..., pascete il gregge di Dio
che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri, secondo Dio; non
per vile interesse, ma di buon animo, non spadroneggiando sulle persone a voi
affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,1-3).
Leggiamo
il seguito della lettera a Diogneto: «Colui che prende su di sé il fardello del
suo prossimo e che nel campo nel quale è avvantaggiato favorisce volentieri un
altro meno fortunato, colui che da liberamente a coloro che ne hanno bisogno i
beni ricevuti da Dio, diventando così un dio agli occhi di quelli che li
ricevono, questi è imitatore di Dio» (A Diogneto, X, 6).
La
deificazione di cui tanto parleranno i teorici in epoca più recente,
dimenticando a volte la sua vera nozione evangelica, si realizza nel silenzio
della comunione dello Spirito che, unendoci a Cristo, ci rende simili al Padre.
Ma essa si dimostra e si manifesta nel campo di quella benevolenza rispettosa
che il linguaggio cristiano chiama carità. Non è anzitutto un insieme di
precetti umanitari o filantropici (il termine filantropia si usava quasi solo
parlando di Dio); è anzitutto, e principalmente, una qualità dell'anima, tanto
che le opere esteriori hanno valore solo per essa. Giustamente potremmo dire
che lo stato di carità è uno stato; è come una natura, una soprannatura,
principio di vita e di azione divine. Non è necessario esprimere sempre
l'oggetto di quest'amore: si ama o non si ama, nel senso del latino diligere o del
greco agapàn, come si è o non si è figli di Dio, come si vive o non si vive,
come si dimora o non si dimora in Cristo, come il Padre e il Figlio nell'unità
dello Spirito stabiliscono o non stabiliscono la loro dimora in quelli che
seguono la loro parola e osservano i loro comandamenti (cfr. Gv 15 e 1Gv). Non
si deve mai dimenticare (ripetiamolo ancora una volta) che la spiritualità
cristiana, tutta teocentrica, tanto più si trasformerà in pace, cioè in
felicità degli uomini, oggetto della divina euàokid, quanto
più si avvicinerà alla sua perfezione, facendo in modo che Dio sia in ogni
cosa. Questa visione di profonda teologia, e di altrettanto autentica
antropologia, giustificherà un giorno l'anacoresi e il monachesimo.
In attesa
del sorgere di questo fenomeno, i cristiani dei primi secoli mostrano nella
loro condotta e nelle loro idee l'esattezza di questa dialettica della fede nel
Dio carità. La loro condotta: pur tenendo conto del genere panegirico delle
descrizioni che ci hanno lasciate gli apologeti, dobbiamo riconoscere che le
comunità cristiane di quel tempo si distinguevano per la bontà e la dedizione
reciproca dei loro mèmbri. Erano, nel senso pieno del termine, delle fraternità.
Conosciamo tutti la testimonianza di Aristide nell’Apologia
indirizzata ad Adriano (117-138). Non è un motivo per non rileggerla,
ricordando che la polizia imperiale era in grado di controllare affermazioni
così contrarie ai pettegolezzi della malignità pubblica:
I
cristiani hanno origine dal Signore Gesù Cristo; essi professano che egli,
Figlio del Dio altissimo, è disceso dal cielo per virtù dello Spirito Santo per
la salvezza degli uomini, nato da una Vergine, senza seme e senza corruzione,
ha assunto un corpo di carne. Essi conoscono il Dio creatore e organizzatore
dell'universo... e non adorano nessun altro dio all'infuori di lui. Di questo
stesso Signore Gesù Cristo portano impressi nel cuore i comandamenti e li
osservano in attesa della risurrezione dei morti e della vita futura. Non commettono
adulterio ne fornicazione; non dicono falsa testimonianza..., non desiderano i
beni altrui; onorano il padre e la madre e amano il loro prossimo; giudicano
secondo giustizia; non fanno agli altri ciò che non desiderano sia fatto a
loro... , vanno incontro a quelli che fanno loro dei torti e se li fanno amici;
cercano di fare del bene ai loro nemici; sono miti e accomodanti. Si astengono
da ogni commercio illecito e da ogni impurità. Non lasciano la vedova in
abbandono ne l'orfano nella tristezza. Chi possiede da a chi non ha, senza
alcuna gelosia; se vedono uno straniero, lo ospitano in casa loro e si
rallegrano della sua presenza come di un fratello; essi infatti si chiamano
fratelli, non nel senso fisico, ma spirituale. Sono pronti a dare la vita per
Cristo; perché osservano scrupolosamente i suoi precetti, conducendo una vita
santa e giusta; come il Dio sovrano ha loro ordinato, rendendogli grazie in
ogni momento per ogni cibo e bevanda e per lutti gli altri beni... (Apologia, XV).
Sarebbe
facile aggiungere il quadro tracciato dall'autore della Lettera a Diogneto ed
estrarre dalle apologie di san Giustino affermazioni analoghe (cfr. A
Diogneto, V; Giustino, I Apologia, XIV-XVII). Ritroveremo
quest'ultimo fra poco. Conviene però almeno accennare ai sarcasmi di avversar!
come Luciano di Samosata: «Si sono convinti, quegli sventurati, che saranno
totalmente immortali e che vivranno per l'eternità; di conseguenza disprezzano
la morte e molti di loro si consegnano (ai tribunali); inoltre il loro primo legislatore
ha fatto credere loro di essere tutti fratelli fra di loro, da quando hanno
commesso l'errore di rinnegare gli dèi ellenici per adorare il loro famoso
sofista crocifisso e vivere secondo le sue leggi» (Peregnnus, XIII). E
quanto volevamo sapere: questi «sventurati» hanno sentimenti fraterni fra loro,
perché credono in Gesù Cristo e vivono secondo la sua morale.
Per lo
meno, se non Io facessero, dovrebbero condannare se stessi come infedeli al
loro Maestro. Lo sanno e se lo ripetono senza stancarsi, perché il loro Maestro
e coloro che parlano in suo nome glielo hanno ripetuto in tutti i toni. La
«regola d'oro», che abbiamo appena letto in Aristide, si ritrova dall'inizio
della Didachè (I, 2) come riassunto della via che conduce alla vita: «Quello
che non vuoi sia fatto a rè, non devi farlo agli altri». Non è il caso di
discutere molto sulle forme negative o positive di questa massima; la Didachè subito
spiega: «Questo è l'insegnamento significato da queste parole: benedite coloro
che vi maledicono; pregate per i vostri nemici; digiunate per quelli che vi
perseguitano. Che merito c'è, infatti, ad amare coloro che vi amano? Non fanno
così anche i pagani? Quanto a voi, amate coloro che vi odiano e non avrete
nemici» (ibid. I, 3). Spiegazione del tutto positiva. Indipendentemente dalle formule
analoghe che si possono trovare in Tobia4,15; e nella Lettera di Aristea (207;
cfr. Strack-Billerbeck, Das Evangelium nach Matthaus eriautert aus Talmud
unci Midrasch, 1922, p. 460) la regola d'oro è diventata un luogo comune della
letteratura cristiana. Del resto non è che una diversa formulazione del
«secondo comandamento»: «Amerai il prossimo tuo come tè stesso», che, con il
primo: «Amerai il Signore tuo Dio con tutta la ma anima..,», contiene la
sostanza di tutta la legge e i profeti. E questo precetto di forma ancora più
positiva assume «un'estensione in carità, illimitata quanto il nostro amor
proprio: quante sono, infatti, le nostre esigenze e le nostre pretese nei
confronti degli altri?» (M.-J. Lagrange, Evangile selon saint Luc, 1927, p.
194).
Eppure la
spiritualità evangelica richiede ancora di più e di meglio. Uniti al Cristo
attraverso la fede, la speranza e la carità, avremo in noi le idee e i
sentimenti che sappiamo suoi, cominciando dai suoi amori, se possiamo usare il
termine al plurale quando si tratta di lui. «Amatevi gli uni gli altri come io
ho amato voi». Ecco un «comandamento nuovo» (Gv 3,54); è il suo
comandamento (Gv 15,12); è il segno necessario e sufficiente per riconoscere i
suoi discepoli (Gv 13,35); è su questo segno che egli conta perché il mondo
riconosca lui, il Maestro, come l'Inviato di Dio (Gv 17,23). Niente di
sorprenderne se Paolo, Giovanni, Pietro e Giacomo non lesinano elogi e
raccomandazioni a questo proposito. L'antichità cristiana amava propagandare a
questo riguardo uno dei suoi slogan, come diremmo oggi, che hanno spesso un
influsso più grande dei lunghi discorsi, un agraphon,
meravigliosamente conciso, e che passa per una parola del Signore, paragonabile
a quella conservata da san Paolo («Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!»:
At 20,35); ma ancora più ardita e più teologica: «Hai visto il tuo fratello,
hai visto il tuo Dio».
Clemente
di Alessandria cita questo agraphon in due passi dei suoi Stremati (I, 19,
94; II, 15, 71), e ogni volta per dimostrare chele massime più belle dei
filosofi hanno la loro origine nella sacra Scrittura. All'altro capo dei mondo
mediterraneo, Tertulliano lo conosce e se ne serve per rafforzare la sua
esortazione a mantenere l'arnica usanza cristiana (e più tardi monastica) di
pregare sempre insieme all'ospite che si accoglie, «per evitare che le
consolazioni terrene prevalgano su quelle celesti» (De oratione, XXVI).
Molto più tardi, un autore spirituale fra i più fedeli ai santi padri, san
Doroteo, citerà ancora lo stesso àgraphon come un testo sacro (Istruzione XVI), e
nella vita del suo discepolo san Dositeo ci mostra la sua applicazione ai più
piccoli particolari dei rapporti col prossimo.
Del resto
bastavano i vangeli canonici per ispirare gli stessi sentimenti: «Quello che
avete fatto…, o rifiutato di fare...» (cfr. Mt 25,40-45). Il che non significa;
io lo considererò come se fosse stato fatto a me. Dio non fa come se qualcosa
fosse, ma fa che sia. Ecco perché la carità fraterna è iscritta virtualmente e
fortemente sia in rutto quello che diciamo di Dio e a Dio secondo
l'insegnamento di Cristo sia nel primo articolo del Credo e nel
Prologo di san Giovanni. Poiché Dio è nostro Padre e noi siamo realmente suoi
figli, fra cristiani non esistono rapporti profani. Questo conferisce tanta
gravita ai precetti negativi riguardanti il prossimo (cfr. Mt 5,20ss) e
altrettanta, quando dipende da noi, ai precetti positivi, nonché ai peccati
d'omissione. Un'affermazione di sant'Ireneo, conservata in numerosi manoscritti,
ci sembra forse molto severa: «Ogni volta che abbiamo il modo di fare del bene
al prossimo e non lo facciamo, saremo considerati estranei alla carità del
Signore» (Frammento greco IV, Harvey II, p. 477). Non è una battuta; il vescovo
di Lione scriveva questo al papa san Vittore. San Giustino riassume la morale
di Cristo (I Apologia, XIV-XVII) mettendo di fronte versetti
evangelici. Essi riguardano per lo più i rapporti con le altre persone. Nello
stesso tempo afferma che i cristiani sono fedeli a questi insegnamenti. «Da
quando abbiamo creduto al Verbo, siamo uniti tramite il Figlio all'unico Dio
non generato. Un tempo, godevamo
nella dissolutezza, oggi la castità costituisce tutta la nostra gioia. Ci
abbandonavamo alla magia, ora ci consacriamo al Dio buono non generato. Amavamo e cercavamo più d'ogni cosa il
denaro e il potere; ora mettiamo in comune ciò che abbiamo e lo condividiamo
con i poveri, L'odio e l'omicidio ci dividevano, le differenze di costumi e di
istituzioni non ci consentivano di accogliere lo straniero in casa nostra; ora,
dopo fa venuta di Cristo, viviamo insieme, preghiamo per i nostri nemici,
cerchiamo di conquistare chi ci perseguita ingiustamente, affinché coloro che
seguiranno i sublimi precetti di Cristo possano sperare la stessa nostra
ricompensa da Dio padrone del mondo» (ibid. XIV).
«Niente
supera la carità», scriveva sant'Ignazio (Maga. I, 2): ma
il principio è la fede; «Armatevi quindi di una dolce pazienza, e diventate
creature nuove tramite la fede che è la carne del Signore e attraverso la
carità che e il sangue di Gesù Cristo. Nessuno di voi abbia niente contro il
suo prossimo» (Trall. VIII, 1-2). «Regolando dunque la vostra
condotta su quella di Dio, rispettatevi gli uni gli altri; non dovete guardare
il prossimo con gli occhi della carne, amatevi in tutto reciprocamente in Gesù
Cristo» (Magn. VI, 2). Queste affermazioni, ed altre che si potrebbero citare,
affermano continuamente una genealogia delle virtù sconosciuta a ogni saggezza
umana, ma essenziale per ogni professione di cristianesimo e sempre richiamata
dai maestri spirituali di tutti i tempi: «La fede e la carità sono il principio
e la fine della vita; la fede ne è l'inizio, la carità il perfezionamento» (Ef. XIV, 1).
Si avranno variazioni su questo tema: la via che conduce dall'inizio alla
perfezione verrà descritta più o meno dettagliatamente, ma la linea maestra non
cambierà. Un solo esempio, perché breve: «Questo dicevano sempre i padri: “La
fede, figli miei, è consolidata dal timore di Dio: questo, grazie alla
continenza, diventa incrollabile con la pazienza e la speranza, da cui nascono
la libertà interiore e il suo virgulto che è la carità”», cioè la carità
perfetta (Evagrio Pontico, Lettera ad Anatolio, PG 40,
1221).
La carità
è universale oppure non c'è; non può basarsi che sulla fede nella paternità
universale del Dio carità, così come ce l'ha rivelata il Figlio di Dio fatto
uomo. Questa almeno è la convinzione unanime e serena dei padri. La loro
esperienza e la loro conoscenza della realtà storica non hanno fatto che
confermarli nella certezza della loro fede. Il XX secolo addurrà a propria
difesa le sue realizzazioni in senso contrario?
I
cristiani, comunque, troveranno ancora giovamento nel leggere per intero un
capoverso precedentemente accennato: «Pregate anche incessantemente per gli
altri uomini, perché si può sempre sperare nel loro ravvedimento, affinché
raggiungano Dio. Offrite quindi loro l'occasione di diventare vostri discepoli
almeno con le opere. Rispondete al loro risentimento con la vostra dolcezza,
alle loro chiacchiere con la vostra modestia, alle loro bestemmie con le vostre
preghiere, al loro traviamento con la fermezza della vostra fede, al loro
aspetto truce con il tratto sereno, senza pensare di comportarvi come loro.
Dovremo invece essere imitatori del Signore (chi, più di lui, ha subito
ingiustizie? Chi, più, di lui, è stato spogliato? Chi, più di lui, è stato
maltrattato?), di modo che in voi non si trovi alcuna erba del diavolo, ma in
perfetta purezza e santità morale dimoriate in Cristo Gesù con il corpo e lo
spirito» (Ign. Ef. X).
Le
relazioni sociali del cristiano fanno parte della sua spiritualità, che è
interamente cristologica e teocentrica.
IRENÉE
HAUSHERR sj
Pontifìcio Istituto Orientale di Roma
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