La tradizione ha trasmesso una preziosa opera di teologia
spirituale attribuita, con riserve, a S. Alberto Magno, dal titolo De
Adhaerendo Deo [Testo critico: Albertus
Magnus, Opera omnia, ed. Pierre
Jammy (Lyon, 1651), vol. XXI (f. p. 1-11)]. Nuova traduzione in lingua
italiana: Accostarsi a Dio, una guida pratica, a cura di Alessio Piana, Edizioni Appunti di
viaggio, Roma 2017.
Il titolo deriva dalla Sacra Scrittura, soprattutto dai
salmi. Traduce la radice ebraica dbq:
attaccarsi, aderire. In senso religioso indica la dedizione dell’uomo a Dio:
aderire, legarsi, affezionarsi, unirsi, restare fedeli. È un verbo tipico del
Deuteronomio e della tradizione deuteronomista (Dt 10,20; 11,22 Gs 22,5 2 Re
18,6) (Cf. L. Alonso Schokel, Dizionario di Ebraico biblico, San Paolo, Milano 2013, 167-168). Cf. anche Sal
63,9: «A te si
stringe
l’anima mia»; Sal 73,28: «Per me, il mio bene è stare
vicino a Dio» (in entrambi i passi, nella
versione latina della Volgata, compare il verbo adhaerere).
Il titolo dell’opera si potrebbe tradurre in questo modo: Il
dovere di aderire a Dio oppure La
necessità di unirsi a Dio. Perché abbiamo
questa necessità? L’autore vuole che troviamo la strada per raggiungere la
nostra pacificazione. Si muove nell’ambito della convinzione espressa già da S.
Agostino: «Signore, ci hai creati per te e il nostro cuore è inquieto finché
non riposa in te». L’autore dell’opera è mistico, ossia una persona che ha
conosciuto per esperienza ciò che insegna. La sua dottrina è il suo vissuto. Ha
sperimentato che l’uomo può unirsi a Dio, trasformarsi in lui fino a diventare
un unico spirito, godere della beatitudine «qui nella grazia e lassù nella
gloria» (79).
Il cuore della vita di fede
L’autore si rivolge, quindi, a chi brama unirsi a Dio per
suggerire in che modo realizzare tale aspirazione: «Il fine della perfezione
cristiana è la carità che unisce a Dio» (31). Ecco la preposizione essenziale:
solo la carità unisce a Dio. Essa «è la via di Dio agli uomini e degli uomini a
Dio… Egli non può dimorare dove non c’è la carità. Chi ha la carità, possiede
Dio, perché Dio è carità» (80).
Questa virtù si sviluppa in noi mediante la purezza del
cuore: «Fra tutti gli esercizi spirituali, la purezza del cuore occupa il primo
posto» (46).
La carità, più che un sentimento, è il modo di essere. La
purezza del cuore corrisponde al distacco completo da tutto (46), ed equivale,
quindi, a libertà. In altre parole, il cristiano riesce ad amare in modo
autentico nella misura con cui vive nel distacco oppure nella libertà. L’Opera
poggia su due piloni perché tratta un breve discorso sull’unione con Dio
tramite il distacco (31).
Il distacco
Che cos’è? Come si attua? L’esercizio s’impone come indispensabile
perché la tendenza dell’uomo è piuttosto quella di lasciarsi trascinare da
desideri e da impulsi impetuosi. L’attaccamento provoca come conseguenza la
perdita della libertà; anziché dominare i sentimenti e padroneggiare gli
eventi, l’uomo si lascia travolgere da essi. «Si disperde e si divide in tante
parti quanti sono i suoi desideri» (58). Le persone allora appaiono come
travolte da un movimento vorticoso, coinvolte in una corsa senza meta,
debilitate da una stanchezza senza riposo (58). Il risultato è la delusione.
L’esperienza del disinganno è ben rilevata dalle parole amare di una
protagonista di un romanzo di Francesco Biamonti: «La festa, tanto attesa, e
che tardava a venire, era passata senza mai cominciare. Anche il dono di
sognare era finito» (Le parole La notte,
Einaudi, Torino 1998, 65).
Come sfuggire a questo turbinio? Dio ha donato agli uomini i
suoi comandamenti proprio perché ottengano la libertà tramite il possesso di
sé.
In primo luogo, il distacco si ottiene nell’imparare a
vivere in perfetto accordo con la volontà divina. È necessario, allora,
osservare i comandamenti ed evitare il peccato, un atto che contrasta con la
carità.
È necessario, in seconda istanza, evitare tutto ciò che può smorzare
il fervore dell’amore (anche se ciò a cui si accetta di rinunciare, è cosa
lecita).
Compare infine un terzo elemento. L’obbedienza a Dio non si
esaurisce nell’osservanza dei comandamenti ma richiede l’accettazione umile e
pacifica di quanto accade: «Accetta con calma imparzialità qualunque cosa,
quale ne sia l’origine, nel silenzio e nella tranquillità, come se ti venisse
dalla mano paterna della divina provvidenza» (44; cf. 63).
La sottomissione al volere di Dio, come si scopre nelle evenienze,
non è affatto né umiliante né distruttiva, ma al contrario permette di
fortificare la persona. Consente anzi di raggiungere l’obiettivo più elevato:
«Tale unione di spirito e amore, per la quale l’uomo si conforma in tutto alla
volontà eterna e suprema, avviene affinché si diventi per grazia ciò che Dio è
per natura» (48).
La pratica del distacco, quindi, supera il semplice valore
etico; rappresenta senz’altro un ottimo comportamento ma, nella sua profondità,
ottiene come risultato quello di deificare l’uomo, mediante la conformazione a
Cristo: «Il cuore, nel tuo intimo, si trasformerà all’istante in Gesù Cristo»
(46).
L’uomo (o più precisamente la sua anima) deve tornare ad
essere somigliante a Dio come lo era quando era stato da Lui creato. Dio vuole
imprimersi in lui come il sigillo nella cera.
Come avviene tale impressione? L’anima è dotata di tre
potenze: ragione, volontà e memoria. Il sigillo del divino compare quando la
ragione, illuminata, conosce Dio; quando la volontà è mossa soltanto
dall’amore, e quando la memoria è assorta nella vita futura. In altri termini,
si tratta di vivere raccolti in Dio. Chi viene a stabilirsi in questa
condizione, possiede un anticipo della beatitudine e può pensare di aver
ottenuto il massimo traguardo che poteva conseguire, la sua stessa perfezione
(38-39).
Il contrario del distacco, come ho precisato, è l’essere
trascinato dalle bramosie e dalle passioni. Non è necessario pensare a qualcosa
di particolarmente grave perché a distoglierci dall’unione con Dio è
sufficiente tenere un comportamento leggero e dissipato nel quotidiano: «Ecco
perché il diavolo, con sollecitudine, cerca di impedire l’esercizio [del
distacco], che considera principio e preludio di vita eterna e di cui è
invidioso. Si sforza pertanto di distogliere sempre la mente da Dio, con
tentazioni o passioni, con preoccupazioni mutili e affanni confusi, con
turbamenti, conversazioni dissolute e irragionevoli curiosità; e ancora con
libri futili, con incontri inopportuni, con chiacchiere e novità, con dure
prove e avversità, ecc. Queste cose talvolta sono solo peccati lievi, e talora
non lo sono affatto, e tuttavia sono sempre di grande impedimento alle azioni e
alle opere sante. E perciò, seppure tali attività sembrassero utili o
necessarie, piccole o grandi che siano, sono da rigettare come nocive e
pericolose, allontanandole dai sensi» (42-43).
Al contrario, anziché disperdersi in pensieri e parole
inutili o precipitare a compiere azioni inique, è necessario che l’anima, con
tutte le sue potenze, sia raccolta in Dio al punto da formare con Lui un solo
spirito (48).
Vediamo ora altri atteggiamenti che ci fanno conoscere bene
la strada della libertà. È davvero libero, chi non si lascia più condizionare
dal giudizio degli altri, al punto da non notare neppure se é deriso o, al
contrario, apprezzato (52), chi non si lascia irretire da qualche amore
sensuale verso una persona o qualche altra creatura (53).
Unione con Dio
La purezza apre l’accesso all’unione con Dio. L’uomo ha la
possibilità di diventare un solo spirito con Lui (79) e, vivendo in piena
comunione con Lui nella gioia e nell’amore, trovare riposo nel godimento del
Creatore (38), al punto che appare possibile nel tempo, proprio in questa vita
travagliata, ottenere una caparra o una pregustazione della futura pienezza (57
e 79). L’unione presenta un carattere trinitario in quanto l’unità che è del
Padre con il Figlio e del Figlio con il Padre passa anche in noi (84).
Perché l’uomo deve cercare Dio? Una risposta, breve ma
completa ed efficace: «Cerca e ama l’unico bene perfetto, nel quale si trovano
tutti i beni, e sarà sufficiente… Perciò Giovanni scrive: Questa è la vita
eterna che conoscano te (Gv 17,3) e il
Salmista: Mi sazierò della tua presenza (Sal 16,15)» (68).
Questa risposta è tuttavia la conclusione di un ragionamento
più articolato. In un primo passo è opportuno riconoscere che tutte le cose «in
ogni momento hanno bisogno di Dio per esistere, sopravvivere e agire» (65).
Osservate nella loro intima essenza sono venute dal nulla, sono circondate dal
nulla e ritornano al nulla. Ne consegue che «nessun godimento dell’amore… è più
utile, perfetto e beato del sommo e vero bene che si trova in Dio, unico e vero
bene» (66). Soltanto Dio è sufficiente a sé, riempie di sé ogni cosa ed «è più
presente e più intimo alle cose di quanto esse lo siano a se stesse» (66).
In conclusione: Dio non è visibile ai sensi ma deve essere
l’oggetto di tutti i nostri desideri. È inestimabile poiché la sua bontà e
perfezione sono infinite (56-57).
Il mezzo più efficace in assoluto per poter raggiungere la
perfetta comunione con Dio, come è stato richiamato al principio, è l’amore.
Questa qualità offre lo slancio decisivo per superare ogni ostacolo che si
frappone tra il nostro desiderio e il traguardo desiderato: «L’amore non trova riposo che nel bene
amato, ossia nel possesso pacifico e completo» (79). «Si dirige con veemenza
verso di lui e non trova pace fino a quando non lo ha raggiunto» (80).
Dopo aver parlato del movimento innescato dal sentimento
ardente, espone il risultato più completo conseguito dell’amore, che consiste
«nell’unire e trasformare l’amante nell’amato e l’amato nell’amante, affinché
l’uno diventi l’altro» (80). Come può accadere questo nel nostro rapporto con
Dio? In che modo avviene tale trasformazione? Dobbiamo richiamare il ruolo
delle potenze dell’anima e, in questo caso, delle facoltà cognitive e di quelle
appetitive (o affettive). La facoltà conoscitiva è capace di condurre l’amato
nell’amante a motivo «della dolcezza e del piacere con cui l’amato è rievocato
nel pensiero dell’amante… come se entrasse dentro di lui» (80-81). La facoltà
appetitiva unisce l’un l’altro in due maniere: a motivo della compiacenza e del
sentimento d’affetto, pieno di gioia provato dall’amante nei confronti
dell’amato ma poi soprattutto poiché induce l’amante a conformare i propri
desideri a quelli dell’altro (81). In sintesi, «l’amore porta l’amante fuori di
sé e lo conduce nell’amato, facendolo interiormente congiunto a lui» (81).
Il cammino è arduo. Chi cerca Dio deve affrontare molte
difficoltà e superare gravi ostacoli (75). Bisogna riconoscere che siamo
incapaci d’amore e d’ogni altro bene. Tale constatazione non induce
all’avvilimento ma a confidare in Dio e quindi in ogni circostanza dobbiamo ricorrere
alla preghiera «in quanto colpevoli, miseri, indigenti, mendicanti, infermi,
deboli, sudditi, schiavi, figli» (83). Egli ci eleverà ogni giorno finché ogni
comportamento, ogni volontà del cuore diventi una sola e continua preghiera
(85).
Evitando la dissipazione, si elimina l’ostacolo vero che
impedisce la profondità della preghiera (43). Già nel primo capitolo, A.
ricorda che il momento particolare nel quale il credente può sperimentare il
raggiungimento dell’unione con Dio è la preghiera personale, intima e
silenziosa, perché particolarmente in questa pratica, l’orante «si dilata,
s’immerge, si estende, s’infiamma, si dissolve» in se stesso (33), o meglio:
«si inabissa, si unisce e resta saldamente congiunto a Dio» (42).
Osservazioni conclusive
La proposta dell’opera si muove all’interno della
spiritualità renano-fiamminga ed è, sia pure in modo piuttosto limitato,
influenzata dal neoplatonismo. In comune con questo movimento filosofico
troviamo il tema dell’ascesa dell’uomo (della mente) a Dio, innescata dal
desiderio di Lui (eros). Dio è concepito
come Sommo Bene che attrae per la sua bellezza e sazia in modo pieno chi si
unisce a Lui; anzi è l’unico che può soddisfare la ricerca di felicità
presente, in misura prepotente, in ogni uomo.
Un vantaggio di questa prospettiva teologica sta nel
richiamare l’essenziale della ricerca religiosa la quale, per essere autentica,
deve proporsi la comunione con Dio, l’adesione a Lui, attraverso un rigoroso
esercizio di purificazione. Soltanto l’impegno continuo di conversione e di
purificazione rende possibile lo sviluppo del vero amore, la virtù decisiva per
attuare l’adesione a Dio. Questo impegno deve essere assunto da ogni credente
in modo personale e convinto.
A differenza del neoplatonismo, il Dio, oggetto della
ricerca dell’amante, ha un carattere personale. È un Dio con il quale è
possibile costruire un dialogo intimo ed aperto. Dio, a differenza dell’Uno,
ama gli uomini ed è venuto a cercarli per elevarli a sé. La carità è in primo
luogo la forza che ha indotto Dio a scendere per farci salire fino a Lui.
Inoltre la comunione con l’Assoluto è partecipazione alla
comunione del Figlio con il Padre. Il credente può deificarsi (divenire per
grazia ciò che Dio è per natura, per quanto possibile all’uomo) perché riceve
il dono di rendersi conforme a Cristo.
Il De adhaerendo Deo
potrebbe essere raggiunto dalle critiche che Soloveitchk rivolge alla mistica
nel suo complesso. L’autore, infatti, si mostra interessato a cercare
l’appagamento personale, senza nutrire alcuna preoccupazione per il resto della
comunità. Che dire a tale proposito? Intanto attribuiamo anche a lui, lo stesso
merito che assegniamo a tutta la mistica: i mistici testimoniano, tramite la
loro stessa esperienza, che soltanto l’adesione a Dio edifica la persona e le
comunica il vero appagamento.
L’autore, tuttavia, non espone quello che definiamo come ritorno
agli uomini, testimoniato da molti altri
mistici. Questo non significa che non abbia vissuto anche questa dimensione ma
certamente non ne parla e ciò rimane una lacuna interna dell’Opera.
Un’altra lacuna è il silenzio circa la pratica sacramentale
e liturgica. La ricerca di Dio si muove nell’ambito esclusivamente personale,
in totale assenza di un cammino comunitario. In questo caso, pure, vale ciò che
ho rilevato sopra, ossia l’autore può averla vissuta, senza poi svilupparla in
modo esplicito. È probabile che egli, in sintonia con altri autori spirituali,
abbia voluto evidenziare ciò che deve essere considerato come essenziale e
imprescindibile in qualsiasi forma e istituzione religiosa, pena la sua
falsificazione: «Che cosa conta lo stato, la santità della professione, l’abito
della perfezione, la tonsura, una condotta di vita esteriore, senza lo spirito
di umiltà e di verità in cui Cristo abita per mezzo della fede nata dalla
carità?» (36).
Soltanto l’adesione sincera
a Dio grazie al distacco, alla conquista della libertà da se stessi, alla
perfetta purificazione di tutto ciò che impedisce la piena comunione con Lui è
il vero traguardo di una vita di fede. Aver richiamato ciò, con forza, è il
contributo migliore di questo scritto.
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