sabato 27 dicembre 2025

La virtù del dialogo

Mai come oggi è apparso che il dialogo è indispensabile per la fedeltà al Vangelo e per la convivenza umana. La Parola di Dio non ha dubbi. Ma quale dialogo? I suoi ambiti sono almeno tre, e insieme stanno o cadono: il dialogo all'interno della comunità cristiana, tra le religioni, con l'umanità.

Il dialogo interecclesiale

II primo ambito del dialogo - a mio avviso il più necessario perché radice di ogni altro - è quello ecclesiale. Ha due facce: il dialogo tra i carismi e il dialogo tra le differenti culture.

Per quanto riguarda il dialogo tra carismi basta un'essenziale rilettura dell'apologo paolino del corpo e delle membra (1 Cor 12,14-27).

Il corpo è uno eppure vi è in esso una ricca pluralità e diversità di membra. Le antiche differenze sono scomparse (schiavi e liberi, giudei e pagani), però nuove differenze emergono, su altre basi: non dignità, ma funzioni. L'intenzione di Paolo, in altre parole, mi sembra quella di affermare, da una parte, la necessità e il senso del pluralismo delle funzioni e, dall’altra, la necessità della loro convergenza. La vera minaccia contro l'unità della Chiesa non viene dalla varietà dei doni dello Spirito, ma semmai dal tentativo di uno di essi di ergersi al di sopra degli altri, o dal suo rifiuto di servire, o dalla sua pretesa di fare a meno degli altri («l'occhio non può dire alla mano: non ho bisogno di te. E la testa non può dire ai piedi: non ho bisogno di voi»: ICor 12,21). La conclusione è che le relazioni nella comunità sono molte, ma mai del tipo padrone-servo, e neppure del tipo: «Io non ho bisogno degli altri, potrei bastare a me stesso»; e neppure del tipo: «Ho il dovere di dare, ma non ho il dovere di ricevere».

Paolo conosce le minacce alla correttezza delle relazioni, e sa che sono numerose. Non è soltanto la disobbedienza che annulla le relazioni, e neppure è soltanto l'egoismo che le colpisce a morte. Paolo ricorda ripetutamente la necessità che le membra di un corpo siano molte e diverse: ciò significa che egli teme la minaccia dell'indifferenziazione. Ci sono spiriti religiosi, allora come oggi, che non tollerano la varietà, confondendo l'unità con l'uniformità.

Ma Paolo teme anche l'errore opposto, e cioè la frantumazione. L'unità del corpo si esprime nella condivisione; ciò che riguarda l'altro riguarda anche te. Paolo avverte il pericolo che alcuni (singoli, gruppi) si autoescludano dall'insieme, probabilmente perché ritengono di bastare a se stessi. Infine Paolo spende diverse parole per impedire che si introducano differenze di dignità tra funzione e funzione: questa è necessaria e questa no, questa è degna di onore e questa no. Semmai - incalza Paolo - si capovolga il giudizio: le funzioni più deboli e nascoste siano maggiormente onorate. La diversa stima data alle diverse funzioni sulla base della loro presunta importanza è per Paolo una minaccia non meno grave delle altre: una minaccia che colpisce a morte l'unità del corpo. Anche su questo c'è molto da imparare.


Più complesso, forse, il dialogo interculturale, ma non meno importante.

Per Paolo l'apertura del cristianesimo alle culture trova la sua radice nella trascendenza dell'evento salvifico. Proprio perché trascendente, l'evento salvifico non è legato a nessuno cultura e può, perciò, utilizzarle tutte. Per Giovanni, invece, il cristianesimo è aperto alle culture perché il Verbo «illumina ogni uomo» (Gv 1,9): nelle culture c'è una luce del Verbo, c'è un appello che invoca un compimento. 

I dati raccolti in un'attenta lettura del Nuovo Testamento ci obbligano a collocare il rapporto evento cristiano e culture in una luce ancora più profonda. La contestualizzazione dell'evento cristiano non è solo una necessità pastorale, di fatto, ma un'esigenza strutturale interna allo stesso evento cristiano, che è in sé evento storico, e che deve, perciò, se vuole essere fedele a se stesso, storicizzarsi in ogni luogo e in ogni contesto. E così che dall'evento Gesù si passa all'evento Chiesa. Il luogo vero, pieno, della contestualizzazione culturale è la Chiesa locale, che cresce in un ambiente storico determinato, lo assume, e dal quale prende (anche) la fisionomia. L'annuncio è completo quando non solo cade in un ambiente, ma quando germina e cresce in quell'ambiente, storicizzandosi: cioè quando si fa Chiesa locale.

La direttrice della contestualizzazione non è solo pedagogica, ma nemmeno solo salvifica (l'assunzione, cioè, nel piano di salvezza, in Cristo, di tutto ciò che è autenticamente umano), bensì rivelatoria (mostra chi è Cristo, chi è Dio), che è il fine ultimo dell'azione di Dio.

Il processo di inculturazione è delicato e perciò il Nuovo Testamento lo realizza all'interno di alcune regole. Le Chiese del Nuovo Testamento fanno molto affidamento allo Spirito, che considerano il protagonista non solo della diffusione ma anche dell'inculturazione del messaggio. Tuttavia il loro affidarsi allo Spirito avviene sempre all'interno di due regole precise e verificabili: la memoria di Gesù e la comunione con le altre Chiese.

Quattro dati costituiscono, mi sembra, i capisaldi di tutto il discorso.

Il punto fermo, irrinunciabile e comune, da salvare in ogni modo, è l'evento di Gesù Cristo, sia come Parola unica e definitiva di Dio, sia come unica via di salvezza. Nell'evento di Gesù Cristo sono incluse - e, quindi, ne condividono l’assolutezza - una visione dell'uomo e una direzione morale.

Un secondo punto fìsso, che discende come logica conseguenza dal dato precedente, è la relatività di ogni cultura (fosse pure una cultura cristiana!). Ma relatività non significa negatività. Le culture hanno un valore positivo (ovviamente secondo gradi diversi); sia perché l'evento cristiano ha in sé una irrinunciabile tendenza a storicizzarsi e, quindi, a farsi cultura (e questo secondo un duplice movimento: dalla fede alla cultura e dalla cultura alla fede): sia perché le culture hanno in sé una vocazione cristiana. L'incontro fede/cultura non è privo di rischi. Il Nuovo Testamento ne ha incontrati due: il rischio che la cultura si assolutizzi e si eriga a valore salvifico, e il rischio che si sovrapponga al kerigma mutandone il significato.

Ma il punto fermo più importante è forse ancora un altro: l’incontro del Vangelo con le culture non si risolve in un compromesso, ma produce una "novità". A contatto col Vangelo qualsiasi cultura diventa nuova. Il Vangelo accoglie rinnovando, mai lasciando le cose come prima. Risponde alle domande dell'uomo, a qualsiasi cultura appartenga, ma risponde allargandole, a volte persino capovolgendole. Il Vangelo è sempre "oltre", e nella sua novità trascina tutto ciò che incontra.

La vera inculturazione non avviene quando semplicemente si esprime il Vangelo con categorie desunte dalla cultura locale, ma quando ci si accorge che a contatto col Vangelo il loro significato cambia, e qui tocchiamo il quarto caposaldo: il cambiamento. Il modo di guardare Dio non è più quello di prima, ne il modo di guardare l'uomo, ne il modo di guardare il mondo. Il miracolo, che non cessa di incantare chi ne fa l'esperienza, è che questo profondo rinnovamento non distrugge nulla, ma compie tutto.

Il dialogo interreligioso

II dialogo con le altre religioni può confrontare e approfondire la reciproca conoscenza di Dio, la preghiera, la grande legge dell'amore, l'impegno per l'uomo. Il dialogo interreligioso, se sincero e disponibile, porta a grandi cose: da un vicendevole stimolo per una ricerca più viva e universale di Dio, alla gioiosa scoperta di molti valori religiosi e umani comuni; dalla possibilità di pregare insieme alla possibilità di lavorare insieme per un mondo più giusto. 

Ma lo "scandalo" di Gesù di Nazaret resta, e il cristiano deve accettare di esserne, costi quello che costi, coinvolto. Lo scandalo, antico quanto il cristianesimo, è la pretesa che in Gesù di Nazaret - un semplice punto nello spazio e nel tempo - sia avvenuta la rivelazione ultima, definitiva e universale di Dio. Uno scandalo, questo, che si potrà approfondire, chiarire, ma non eliminare, né attenuare. Non si potrà mai accettare, per esempio, l'opinione di chi dice che «Dio è unico, ma le sue incarnazioni sono molte, e tra queste Gesù di Nazaret occupa un posto di rilievo (ma non più di tanto)». Ne si potrà mettere in ombra l'evento storico di Gesù, relegandolo sullo sfondo come un evento datato e superato, in nome di un Cristo/Logos o di un Cristo/Spirito che tutto comprende

Nè si potrà ridurre l'evento di Gesù a una «cifra» teologica, che altro non dice, alla fine, se non la centralità della carità, tutto risolvendosi in un pressante appello rivolto all'uomo perché prenda la decisione di non vivere più per se stesso.

Tutte queste opinioni (e altre simili) sono errori antichi, nemmeno originali, astuzie dell'intelligenza per «svuotare», come dice Paolo (ICor 1,17), la «Parola della croce».

Per spiegare meglio questo punto che mi sta a cuore, e insieme per giustificarlo, invito a rileggere una pagina esemplare degli Atti degli Apostoli: il discorso missionario di Paolo ad Atene (17,22-34). 

Paolo denuncia senza esitazioni l'idolatria degli Ateniesi e riconosce che una simile religiosità è immersa nell'ignoranza.

Tuttavia, da un lato Paolo fa leva su alcuni valori religiosi e culturali, ritenendoli capaci di far evolvere lo stesso paganesimo, capaci, cioè, di far esplodere l'interna contraddizione dell’idolatria pagana, ponendola in movimento e aprendola a una nuova concezione di Dio. Così, per esempio, l'affermazione che Dio è dappertutto («non abita nei templi costruiti dagli uomini»: 17,24), pensiero che i filosofi ripetevano polemizzando contro la tendenza popolare a rinchiudere Dio nei santuari, o l'affermazione che Dio non ha bisogna di nulla («non perché Egli abbia bisogno di qualche cosa egli accetta il culto degli uomini»: 17,25), altro motivo col quale i filosofi combattevano la superstizione popolare.

Dall'altro lato Paolo si sforza di presentare ciò che è possibile del suo messaggio in termini comprensibili agli uditori: per questo si serve di temi e categorie desunti non semplicemente dal proprio patrimonio biblico, ma dall'umanesimo pagano. Così egli si appella «ad alcuni vostri poeti», e cita un verso di Arato (III sec. a.C.): «Perché di lui noi siamo stirpe» (At 17,28).

Soprattutto Paolo riconosce - e non è certo cosa da poco - che anche i pagani hanno la possibilità di una reale ricerca di Dio, una ricerca che non passa attraverso la storia di Israele, anche se non è precisato per quale altra via: «L'uomo può cercare Dio» e trovarlo, sia pure come a tentoni, perché Dio «non è lontano da ciascuno di noi» (17,27). Gli stoici sviluppavano volentieri questo motivo: la conoscenza di Dio è possibile, perché egli non è lontano da noi, anzi c'è una vera affinità tra lui e noi.

Ma tutto questo riguarda il discorso su Dio e sul monoteismo, sulla possibilità data a ogni uomo di cercarlo e, in qualche modo, di trovarlo, sull'unità del genere umano ecc. Quello, però, che è il punto centrale della fede, cioè Gesù Cristo come rivelazione ultima e definitiva di Dio, questo può essere solo oggetto di annuncio: «Quello che voi non conoscete, io ve lo annuncio» (17,23). Ciò che Paolo ha da dire è una novità, alla quale le filosofìe e le ricerche religiose da sole non sanno giungere.

Alla conoscenza del Dio di Gesù Cristo l'uomo non giunge sviluppando conoscenze già possedute, a partire da premesse già poste, bensì attraverso un annuncio e una conversione (17,30). Il salto è qui. Evento storico, Gesù Cristo non si può dedurre, ma solo annunciare e testimoniare. Evento che - pur soddisfacendo pienamente le esigenze dell'uomo - non è neppure ipotizzabile a partire dall'uomo, lo si può accogliere una volta annunciato.

Il dialogo con l'umanità

Se si legge il racconto della Pentecoste, ci si accorge che un aspetto essenziale, direi quasi primario, dei cristiani è quello di favorire il dialogo tra tutti gli uomini. Non semplicemente lo sforzo di unire tutti gli uomini nell'unica fede (compito missionario certamente irrinunciabile), ma anche lo sforzo di indicare agli uomini la possibilità già ora di ritrovarsi, nonostante le differenze di fede, di ideologie e di culture.

Compito della comunità cristiana (e di ogni cristiano nell'ambito delle sue relazioni) è perciò di richiamare quei valori - con concretezza ed energia, costi quello che costi - che sono le radici del dialogo e che - proprio perché profondi e fattori di dialogo - esigono conversione e cambiamenti anche radicali, personali e sociali. Non lasciano le cose come sono, ma le mutano. Denunciano ingiustizie e false unioni, come Dio che ha disperso il falso ordine dei costruttori della torre di Babele. Per questo lo sforzo di riunire - appena si fa concreto e incisivo - incontra per lo più l'opposizione della società che si regge sulla competizione e sullo spirito di parte. Un invito astratto e generico al dialogo è applaudito da tutti: un invito concreto è invece generalmente osteggiato, persino accusato di essere fattore di divisione. È l'accusa che il popolo di Dio ha sempre mosso ai suoi profeti: «Perché sei venuto a mettere sottosopra Israele?».

Si possono indicare, a titolo di esempio, alcuni di quei valori che costituiscono le radici del dialogo. Si tratta di germogli - così possiamo chiamarli - che i cristiani devono seminare nel mondo senza stancarsi mai, a piene mani: devono introdurli nella mentalità, nella cultura, devono incarnarli nelle strutture. Sono germogli, o valori, che ciascuno è in grado di scoprire. Ma mi si permetta di sottolinearne almeno uno: e cioè il fatto che ciascun uomo ha la stessa dignità dell'altro. La dignità di un uomo non si fonda sulla cultura che possiede, sulla fede che professa, sul colore politico, sulla razza a cui appartiene, sul lavoro che compie. Tutti questi criteri sono fonte di emarginazione e di divisione. La dignità dell'uomo trova il suo fondamento -almeno per il credente - nell'amore di Dio che non fa differenze. Certo esistono differenze di funzioni e di competenze, di capacità, ma non differenze di dignità. Seminare il germoglio del dialogo non significa invitare gli uomini a ritrovarsi comunque, ma a ritrovarsi alla pari. Solo Dio è il Signore, da riconoscere come tale: non esistono razze padrone o partiti padroni, uomini privilegiati da riconoscere come signori.

Le virtù del dialogo

Dialogare è necessario, ma non è facile. Il dialogo infatti richiede precise condizioni; non soltanto condizioni tecniche, ffla morali e Spirituali. Mi si permetta di indicare alcune di queste condizioni, che si collocano a diversi livelli di profondità. Si comprende subito che si tratta di condizioni che suppongono un modo di pensare e di vivere, raggiungono in altre parole il nucleo profondo della personalità.

Una prima condizione: il dialogo è autentico se universale. Non c'è vero dialogo là dove si esclude qualcuno. Dio non esclude nessuno dal suo dialogo, e così deve fare l’uomo. In questo modo deve ragionare ogni credente. Ma sono anche convinto che lo stesso ragionamento lo possa fare anche un non credente: ogni uomo, semplicemente perché tale, è portatore di diritti e di verità, e dunque ha il diritto di esprimersi e di essere ascoltato.

Ma subito una seconda condizione: il dialogo è autentico se avviene nella libertà: non c'è dialogo là dove c'è imposizione, o paura o ricatto. La verità è da annunciare, ma a nessuno è lecito imperla. Neppure il Figlio di Dio fatto uomo l'ha imposta: l'ha predicata a tutti, testimoniata con la sua vita, ma non è ricorso alla violenza per imporla. Ha sollecitato il consenso e ha accettato il rifiuto.

E accanto alla condizione della libertà, va menzionata la condizione della sincerità. C'è un parlare che comunica e un parlare che nasconde, un parlare che chiarifica e un parlare che confonde. C'è dialogo soltanto là dove si comunica qualcosa di vero. L'ipocrisia e la menzogna impediscono alla radice ogni tipo di dialogo.

Un'altra condizione è che il dialogo è autentico se costruisce comunione. Le singole voci hanno il diritto e il dovere di farsi sentire, ma le singole voci hanno nel contempo - e con altrettanta forza, il dovere di entrare in una prospettiva globale, in un discorso comune.

E poi il dialogo è autentico, se è dinamico, proteso in avanti. Il vero dialogo porta ad accordi dinamici, di cambiamento, non statici, di sistemazione. Questo però esige che ci sia un grande amore alla verità, un grande amore al bene comune, tale da renderci liberi anche dai nostri interessi.

Per dialogare occorre anche essere uomini semplificati, profondamente inseriti nella vita: liberi - per esempio - dall'ansia del possesso, dai valori illusori, dalle ideologie, in una parola da tutte quelle sovrastrutture e quelle alienazioni che ci distraggono dall'essenziale. Perché è vero dialogo solo quello che si svolge in profondità, attorno ai problemi veri dell'esistenza.

Si deve poi dire - e qui scendiamo nel profondo della persona - che il dialogo richiede duplice consapevolezza: di essere poveri (dunque bisognosi di ascolto), di essere ricchi (e dunque portatori di una parola di verità che abbiamo il dovere di proclamare). E questa la vera umiltà, che esclude al tempo stesso l'intolleranza e la neutralità, l'arroganza e la passività.

Il dialogo richiede la capacità di rendere ragione delle proprie idee, della propria fede, della propria speranza. Non necessariamente per convincere, ma per mostrare che la propria esperienza è intellettualmente onesta e degna di rispetto.

Il dialogo richiede il coraggio di rinunciare a un linguaggio di gruppo (che soltanto chi ne fa parte è in grado di comprendere), per adottare un linguaggio desunto dall'esperienza comune, in grado di raggiungere chiunque. I veri uomini di dialogo parlano nel modo più semplice possibile, si sforzano di farsi capire da tutti. È facile credere di dialogare e ingannarsi. L'uomo capace di dialogare è l'uomo che non da per scontato di esserlo. E perciò sorveglia continuamente la libertà del suo cuore, la sincerità della sua ricerca della verità, la sua passione per il bene comune. 



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