Ci sono parole bibliche importanti, che a volte sembrano -impraticabili. La tentazione, in questi casi, è di dimenticarle. Oppure di ritenerle secondarie. Oppure addirittura di vuotarle della loro paradossalità, per renderle appunto praticabili e credibili. Ma non si abbassa il vangelo con la pretesa di renderlo subito praticabile. Meglio riconoscerne i distanza fra la sua visione e il nostro operare. L'ideale, anche se in molti casi è al di là di noi (anzi, proprio per questo), rimane una bussola. Se lo si abbassa, non si vede più dove tendere. Meglio, in fondo, riconoscersi peccatori he abbassare il vangelo per avere poi la soddisfazione di illudersi di osservarlo.
Questi pensieri mi sono tornati alla mente riflettendo sul discorso biblico sulla pace e sulla guerra, sulla violenza e la non violenza.
Ci sono due modi di parlarne: prima dissertare sulla guerra (se necessaria, utile, giusta) e poi parlare del vangelo; oppure prima parlare del vangelo e poi della guerra.
Sembrano due modalità sostanzialmente uguali; sono invece molto diverse.
Il discorso biblico è sempre di natura fondamentale; questo lo espone a un'innegabile debolezza. Proprio perché generale, questo tipo di discorso è accettato da tutti, salvo poi che, appena si scende alle applicazioni, l'unanimità viene meno. Tuttavia penso che una rivisitazione dei testi biblici possa avere qualche utilità, anche se rimane al livello dei fondamenti e non scende alle applicazioni. Mi pare, infatti, che la concezione biblica della pace non sia ancora parte del patrimonio normale, direi ovvio, della coscienza comune.
1.1. La pace ebraica come pienezza
Nell'antico Oriente (Egitto e Babilonia) la pace si presenta come un concetto globale, nel contempo militare, politico, sociale, religioso, persino cosmico. Il conseguimento della pace è compito primario del re, cui spetta realizzare il benessere, la giustizia, l'ordine, il culto, la sottomissione dei nemici. Quest'ultimo tratto ci fa comprendere che la pace è sì un concetto globale, ma non universale: è sempre la pace del popolo, non tra i popoli. La pacificazione dei popoli è intesa come sottomissione (Lv 26,3-7; Dt 20,10-14). Il nemico, infatti, fa parte del caos, delle potenze che minacciano l'ordine: bisogna dunque soggiogarlo. Questo è il concetto della bellicosa 'pace orientale' e, ovviamente con molte differenze, dell'altra pace, molto più famosa, la 'pax romana'.
Anche la Bibbia si muove (in parte) nell'ambito di questo pensiero, non poteva essere diversamente.
L'ebraico shalom (comunemente tradotto con pace) significa primariamente completezza e integrità, una condizione alla quale non manca nulla. La sua accezione è tanto ampia che può applicarsi sia alle esigenze più comuni, di ogni giorno, sia alle aspirazioni più profonde e alle aspettative religiose più alte. Non designa anzitutto il tempo della pace in opposizione al tempo della guerra, ma lo stato dell’uomo che vive in armonia con la natura, con se stesso, con Dio. E tutto questo non solo, e non tanto, a livello individuale, ma a livello comunitario, di popolo. Gli elementi della pace - concreti e quotidiani - vengono elencati in un passo molto celebre (Lv 26,3-7): «Se camminerete secondo i miei statuti e osserverete i miei comandamenti mettendoli in pratica, io vi darò le piogge nelle loro stagioni, la terra produrrà le sue messi e gli alberi dei campi daranno i loro frutti. Allora la trebbiatura arriverà fino alla vendemmia e la vendemmia sino alla semina; mangerete pane a sazietà e abiterete tranquilli le vostre terre. Genererò pace nel paese e dormirete senza che nessuno vi spaventi; farò sparire le bestie nocive dal paese e la spada non passerà per le vostre contrade. Inseguirete i vostri nemici, ed essi periranno di spada davanti a voi».
Dunque lo shalom è un concetto globale, cosa che appare ancora più chiaramente se osserviamo i termini che abitualmente lo accompagnano: pratica della giustizia, osservanza del diritto, accoglienza dei poveri e delle vedove, ordine, benessere, fedeltà religiosa. E tuttavia - come appare da un altro passo altrettanto celebre (Dt 20,10-14) - non è un concetto universale; anche per Israele la pacificazione dei nemici consiste nel soggiogarli: «Quando ti avvicinerai a una città per muoverle guerra, convoca prima trattative di pace (shalom). Se ti risponde pace e ti apre le porte, tutto il suo popolo ti sia tributario e soggetto. Ma se essa non vuole fare pace con tè, anzi inizia a far guerra, assediala. Se il Signore, Dio tuo, tè la darà nelle mani, allora metti a fil di spada tutti i maschi, ma le donne, i bambini, il bestiame, tutto ciò che sarà nella città, tutto quanto il suo bottino, portalo via con tè e godi il bottino dei tuoi nemici, che il Signore, Dio tuo, ti avrà dato».
1.2. La voce dei profeti: pace e conversione
L'apporto dei profeti al tema della pace - come del resto anche per altri - è molto grande. Essi hanno fortemente richiamato che la pace viene da Dio (è dono) e che è indissolubilmente legata alla giustizia (non c'è pace senza giustizia, a ogni livello). Ma il loro apporto più interessante è in altre due direzioni: nella trasposizione escatologica della pace e nella lucida percezione che la radice della pace è religiosa, nel cuore dell'uomo, cioè nel rifiuto delle idolatrie: non c'è pace senza conversione.
Di fronte alla delusione e alla contraddittorietà del presente i profeti sollecitano Israele a proiettare l'attesa nel futuro messianico. Tutte le grandi visioni profetiche includono, come elemento essenziale e catalizzatore, la pace (si veda, a puro tìtolo esemplificativo, Is 9,1-6 e Is 11). Non si tratta di un comodo espediente per salvare la fede nelle promesse del Signore di fronte alle innumerevoli smentite della storia, ma di una chiara avvertenza che la pace di Dio - quella che l'uomo veramente desidera - supera di gran lunga, e necessariamente, le frammentarie e fragili realizzazioni storiche.
Di fronte ai falsi profeti - profeti di corte - che troppo facilmente assicuravano la pace, i veri profeti (in particolare Geremia ed Ezechiele) hanno sempre polemizzato duramente, ripetendo che non è possibile la pace senza una profonda e radicale conversione. È sciocco ragionare di pace senza volerne pagare il prezzo, senza crearne le necessarie condizioni. Com'è sciocco non accorgersi che si arriva fatalmente alla rovina se si continua a coltivare quei germi (le molte forme dell'idolatria e dell'egoismo) che inevitabilmente la producono. Parlare di pace in queste condizioni è pura illusione, come guarire una ferita con palliativi (Ger 6,14; 8,11) o imbiancare un muro che sta crollando (Ez 13,10-12).
La falsità di questi profeti di corte sta in una concezione nazionalistica del rapporto religioso. Essi ragionavano pressappoco così: noi siamo gli eletti, nulla ci può accadere, il Signore può intervenire solo in nostro favore. Per i veri profeti invece la pace è legata a una dimensione morale, a una prassi e a una precisa responsabilità, a profonde e sostanziali riforme. Per lo più - inoltre - i profeti di corte avallavano la politica dei governi, che cercavano la pace attraverso alleanze politiche, collocandosi di volta in volta nell'uno o nell'altro schieramento. Per i veri profeti questo è mancanza di fede: Israele può sopravvivere unicamente se si fida della parola del Signore.
I profeti non si limitano a denunciare la guerra (che, anzi, a volte minacciano come castigo di Dio), bensì le molte forme dell'ingiustizia e delle idolatrie che la generano. Non si fa guerra per fare giustizia, ma si fa giustizia per evitare la guerra e rendere vera la pace.
1.3. La guerra non è mai la via di Dio
Prima di lasciare l'Antico Testamento - e quasi come momento intermedio che ci porta al Nuovo - credo sia utile accennare a un'altra tematica, cioè la progressiva perdita di fiducia nella guerra come strumento capace di risolvere i conflitti dell'uomo. E una pista senza dubbio promettente, alla quale però alludo solo schematicamente. A Israele è stata promessa una terra che era già abitata: impossessarsene voleva dire combattere. La guerra continuò poi a essere intesa come inevitabile necessità di sopravvivenza etnica e religiosa. Per rimanere popolo di Dio bisognava combattere contro i nemici. E così Israele pensò che la guerra fosse una via indispensabile per rimanere se stesso. Questo primo stadio può essere riassunto nella formula «Dio combatte con noi». Ma all'epoca dell'esilio si comprende che questa strada è fallita: Israele è sconfìtto ed esiliato, senza eserciti e senza re. Pertanto - è il secondo stadio - si pensa che Dio stesso nel futuro messianico opererà il trionfo senza gli eserciti di Israele. Non più «Dio combatte con noi», ma «Dio combatterà per noi». E però con la rivelazione di Gesù che si opera il superamento definitivo, un vero e proprio rovesciamento: il trionfo di Dio passa attraverso la non violenza della Croce, il trionfo passa attraverso l'apparente sconfìtta. La guerra non porta la pace, neppure la guerra di Dio o per Dio (Mt 26,52-54).
2. La pace di Gesù
II vocabolo pace (eirene) compare novantuno volte nel Nuovo Testamento; già questo ne indica l'importanza. Essa è ulteriormente confermata da numerose allocuzioni assurte a formule: «Dio della pace», «vangelo della pace», «pace e grazia» ecc. Tuttavia il Nuovo Testamento è anche consapevole di parlare di una pace che non è ovvia, immediatamente conforme alle attese, senza tensioni: non è la pace del mondo. Gesù infatti dice di «non essere venuto a portare la pace, ma la spada» (Mt 10,34). E ancora (Gv 14,27); «Vi dono la pace, vi do la mia pace, non quella del mondo». E Paolo a sua volta ammonisce. «Mentre dicono pace e sicurezza, allora improvvisa li sorprenderà la rovina» (1Ts 5,3). C'è dunque pace e pace, quella del mondo e quella del Cristo. L'antitesi non è fra pace materiale e spirituale, terrestre e celeste, ma fra pace evangelica e mondana. Il mondo rifiuta la pace del Cristo e non raramente perseguita chi l'annuncia, perché il mondo riconosce solo ciò che è suo, e l'annuncio evangelico lo disturba (Gv 15,19). Il Cristo può donare la sua pace solo perché «ha vinto il mondo». E per mondo si deve anzitutto intendere la logica mondana.
Il Nuovo Testamento si muove in continuità con l'Antico, ma anche lo compie e lo supera. Rimane la pace come 'pienezza', come superamento di ogni disgregazione. Si parla ancora, come già i profeti, di vera e falsa pace. Se ne evidenzia la religiosità, sia nel senso che la pace è dono di Dio sia nel senso che l'uomo la concepisce correttamente, e correttamente vi si impegna, solo se procede da una corretta concezione di Dio: prima che impegno etico, la pace è esigenza teologica. La pace rimane un concetto escatologico, anche se con la venuta di Cristo è già una realtà presente. E rimane un concetto escatologico non soltanto perché è sempre minacciata, vulnerabile, ma anche perché parziale, incompiuta, frammentaria: stabilità e compiutezza, ecco le due caratteristiche della pace «sognata» (cfr. Ap 21-22).
2.1. La pace del Natale
II fatto centrale nuovo è che la pace è legata a Gesù. Nella notte di Natale (Lc 2,14) gli angeli hanno cantato: «Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». Sono parole da considerare con attenzione, a partire dalla loro forma. Si tratta di due brevi stichi disposti in parallelo e in modo che il pensiero passi continuamente dall'alto al basso: i cieli e la terra, Dio e gli uomini, la gloria e la pace. Risulta così con evidenza che la pace fra gli uomini è la contropartita terrestre della gloria che Dio ha nei cieli. Questo è già molto importante, poiché mostra che il Figlio di Dio, proprio perché per essenza «gloria» di Dio, è per gli uomini dono di pace. E significa che la comunità cristiana, se intende dare gloria a Dio, deve essere segno e strumento di pace fra gli uomini.
L'inno evangelico ci dice poi che la pace del Natale è offerta a ogni uomo. L'espressione «agli uomini che egli ama» indica l'universalità e la gratuità della pace. Dio ama ogni uomo senza differenze. La pace è universale perché coestensiva all'amore di Dio. E soprattutto, infine, ci viene detto che la pace è dono della venuta di Gesù. Non è semplicemente la conquista degli uomini, sia pure di buona volontà, ma un dono che discende dall'amore di Dio.
Non è escluso che nelle parole del vangelo vi sia anche una nota polemica. Non molti anni prima l'imperatore Augusto aveva fatto erigere a Roma un monumento alla pace, e la lieta novella del suo principato era «pace sulla terra». Luca è di diverso parere: la pace viene da Gesù, il bambino di Nazareth, non dall'imperatore di Roma.
La pace è l'ombra visibile, terrena, della gloria invisibile di Dio. La «gloria» è il suo volto, il suo amore universale. Sento dire, a volte, che la guerra è giusta e necessaria. Forse. Ma il cristiano non potrà mai parlare di guerra di Dio. La «gloria» di Dio, in ogni caso, non risplende nella vittoria sui nemici, ma nella pace con loro. La gloria di Dio non è la gloria dei generali.
2.2. La beatitudine della pace
Gesù ha proclamato la beatitudine degli operatori di pace:«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). L'operatore di pace, che merita la beatitudine, non è chi sta in pace, ma chi la costruisce. Il modello è Gesù, il re della pace. Ma Gesù non ha esitato a portare una parola che divide. Soprattutto non ha esitato a perdere la sua pace e la sua tranquillità. La beatitudine della pace deve essere letta in connessione con tutte le altre beatitudini. Infatti le molte beatitudini descrivono una sola figura, una sola personalità, e perciò ogni singola beatitudine illumina le altre ed è illuminata dalle altre. Si comprende allora che operare la pace esige un alto prezzo: «Beati i perseguitati». E si comprende che la pace è indissolubilmente legata alla giustizia: «Beati gli affamati e assetati di giustizia». A costruire la pace non basta una semplice ricerca di equilibri. Senza dire, poi, che la pace richiede un riorientamento tanto profondo da raggiungere quello che il vangelo chiama il cuore dell'uomo: «Beati i puri di cuore». La pace non è soltanto nelle mani dei politici, ma soprattutto in quelle dei cercatori di Dio. La pace, infine, richiede un'autentica rivoluzione culturale, sociale e religiosa. Richiede fede, cioè un coraggioso superamento di quelle valutazioni che sembrano inesorabilmente imporsi: «Beati i miti». Le logiche ovvie (come quella che all'amore si debba rispondere con l'amore, ma alla forza con la forza, alla violenza con la violenza), comuni, razionalmente inattaccabili, non sono in grado di portare la pace. Sono un vicolo cieco. La pace esige, come ha fatto Gesù, che in ogni situazione si risponda sempre con l'amore.
2.3. Il discorso della montagna e il Getzemani
II pensiero evangelico sulla non violenza è espresso in tutta la sua radicalità in una parola del discorso della montagna, nella versione sia di Luca sia di Matteo. Si tratta di un discorso programmatico, che raccoglie parole di Gesù ritenutè essenziali per la fedeltà al suo messaggio. Esse intendono ricordare le note caratteristiche della «giustizia» - oggi diremmo l'originalità cristiana - che distingue il discepolo di Gesù dalla giustizia degli scribi e dei farisei: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei cieli» (Mt 5,20).
Ecco le parole di Gesù nella versione di Luca (6,27-36): «Ma a voi che mi ascoltate io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano. Benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi fanno del male. Se qualcuno ti percuote su una guancia, porgigli anche l'altra; se qualcuno ti leva il mantello, lasciagli prendere anche la tunica. Da a chiunque chiede; e se qualcuno ti ruba ciò che ti appartiene, tu non richiederlo. Come volete che gli altri facciano a voi, così fate loro. Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. Se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. Se fate dei prestiti a coloro da cui sperate di ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare alcunché e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell'Altissimo. Egli infatti è buono anche verso gli ingrati e i cattivi. Siate misericordiosi come Dio, vostro Padre, è misericordioso».
Ed ecco le parole nella versione di Matteo (5,38-48): «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio, dente per dente. Io invece vi dico di non resistere al male; anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra. A uno che vuol trascinarti in giudizio per prendersi la tunica, dagli anche il mantello; se uno ti vuol costringere per un miglio, va con lui per due. A chi ti chiede, da; se uno ti chiede un prestito, non volgergli le spalle.
Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinchè siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi. Qualora infatti amaste solo quelli che vi amano, che ricompensa avreste? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che cosa fate di speciale? Non fanno lo stesso anche i gentili? Voi dunque sarete perfetti, come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli».
Queste parole di Matteo e di Luca sembrano appartenere - secondo un'opinione diffusa - a una fonte comune, sconosciuta a Marco e risalente a una comunità cristiana palestinese che sul finire degli anni 60 viveva in un ambiente sollecitato alla ribellione armata contro Roma. In un simile ambiente, nel quale si andava diffondendo la convinzione che bisognasse combattere con le armi per liberarsi dal dominio di un popolo pagano (convinti che Dio, come in altri tempi, si sarebbe schierato al fianco del suo popolo), la comunità cristiana si sottrae a questa mentalità, giudicata incompatibile con la scelta di Gesù. Il gruppo cristiano palestinese, che ha raccolto e conservato il discorso della montagna, ha scelto la via del rifiuto della violenza armata.
Accanto alle parole di Gesù conservate nel discorso della montagna, già troppo chiare per venire disattese, va ricordato il rimprovero di Gesù al discepolo che nel momento dell'arresto pensa di difendere il Maestro con la spada. Luca racconta che «uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l'orecchio destro. Ma Gesù ... toccandogli l'orecchio lo guarì» (22,50-51). Un gesto che più di molte parole manifesta la grande distanza che separa Gesù dai suoi discepoli. Matteo invece preferisce riportare alcune parole di Gesù che spiegano le due ragioni del suo rifiuto della violenza. La prima è una sorta di proverbio, la cui verità è sempre stata riconosciuta dalla saggezza popolare di ogni tempo: «Tutti quelli che mettono mano alla spada, periranno di spada» (26,52). La violenza non risolve i conflitti. Genera altra violenza. La seconda ragione è teologica: la violenza non appartiene alla logica di Dio. Se appartenesse alla logica di Dio, Gesù non avrebbe bisogno di essere difeso dalla violenza degli uomini: «Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli?» (26,53). Ma la violenza non è la via di Dio.
2.4. La via della Croce
Ma l'elemento centrale e costitutivo della novità neotestamentaria è la via della Croce. Gesù ha rotto il cerchio - ferreo e secondo il giudizio degli uomini inevitabile - nel quale gli uomini si dibattono: all'amore - essi dicono - si deve rispondere con l'amore, alla violenza con la violenza. Gesù afferma invece ramare sempre (cfr. Le 6,27-36; Mt 5,38-48; 26,52-54). Due cose vanno però sottolineate. La prima è che questa prassi di Gesù non è semplicemente un rifiuto della violenza, ma sostituzione della violenza con la prassi dell'amore, del servizio e della solidarietà attiva. La seconda è che la non violenza di Gesù scaturisce da un'originale concezione di Dio e dell'uomo. Brevemente: Dio è amore e perdono, ed è da questa esperienza di Dio come amore che scaturisce, appunto, la non violenza. Proprio perché Dio è amore, ne deriva che solo l'amore - e non altro - è la vera forza alternativa e costruttrice, la vera forza di pace, risolutrice dei conflitti. E l'uomo è chiamato ad abbandonarvisi totalmente. In altre parole, tre sono le radici da cui partire per comprendere nel giusto senso la via della pace proposta da Gesù: una radice teologica (Dio è amore sempre), una nuova valutazione della storia (nella storia, contrariamente alle apparenze, è l'amore che vince: è il Crocifìsso per amore che risorge, non i suoi crocifissori); una concezione dell'esistenza come vocazione alla solidarietà.
3. Le radici della violenza
Un secondo grande apporto neotestamentario al discorso della pace sta nella lucida analisi dell'origine della violenza, presente particolarmente nel vangelo di Giovanni e nell'Apocalisse. Secondo Giovanni (3,19-21) la radice della menzogna e della violenza sta nel fatto che gli uomini amano più le tenebre che la luce. Un simile uomo è insofferente della luce perché se ne sente minacciato. Di fronte alla luce che lo contesta, ricorre dapprima alla menzogna, dice che la luce è tenebra e che la tenebra è luce. Ma se con la menzogna non riesce a spegnere la luce che ostinatamente continua a brillare, allora quest'uomo ricorre alla violenza, giustificandola. Così avvenne nei confronti della parola del Cristo (cfr. Gv 5; 8; 9), e così continua ad accadere.
Per l'Apocalisse le guerre e le catastrofi che travagliano l'umanità sono un «giudizio di Dio», cioè il frutto di quei falsi valori che gli uomini abbondantemente coltivano. L'Apocalisse vede la causa di tutto questo nell'idolatria e nella menzogna, cioè nella falsità esistenziale, in una filosofìa pagana dell'esistenza, in un'impostazione della vita e della società su falsi valori, su ideali che pretendono di servire l'uomo ma che in realtà lo distruggono, pretendono di appellarsi alla verità ma in realtà sono a vantaggio di interessi di parte. I segni di quest'idolatria sono molto evidenti, e l'Apocalisse non si stanca di ripeterli: il lusso sfacciato, le organizzazioni commerciali a servizio del consumismo e dell'accumulo della ricchezza, l'esclusione dal proprio orizzonte di ogni autentico riferimento a Dio, lo spregio della vita umana, la violenza e la persecuzione, lo stato totalitario, la volontà di dominio universale. Sono i tratti di Babilonia, della bestia e del dragone. Ciò che provoca i giudizi di Dio non è la carenza di valori propriamente cristiani, ma più semplicemente di valori umani. E questo non è senza importanza. I giudizi divini (guerre, catastrofi e rovina) hanno lo scopo di far comprendere al-l'uomo il vicolo cieco in cui si è incamminato. Purtroppo però gli uomini non comprendono: restano ciechi e continuano a percorrere imperterriti la strada della loro idolatria (9,20-21).
L'Apocalisse s'accorge (e anche questo pensiero può avere qualche utilità) che la violenza, generata dalla menzogna e dall'idolatria, si manifesta come a tre livelli, e a tutti e tré i livelli va snidata e combattuta: il livello dell'organizzazione politica e sociale (Babilonia: lo stato idolatra); il livello - più profondo - delle ideologie (anche religiose) che tentano di giustificare l'idolatria politica e sociale (le due bestie); infine, la presenza di Satana, l'antagonista di Dio e dell'uomo (il dragone).
L'universalità della pace, che costituisce il superamento del più grosso limite anticotestamentario, è affermata con maggior chiarezza in un passo della lettera agli Efesini (2,11-18). I pagani che un tempo erano lontani, ora sono divenuti «vicini» nel sangue di Cristo; Egli è la nostra «pace», «Colui che dei due ha fatto un solo popolo e ha abbattuto il muro che li separava, l'inimicizia...». Sulla parete del tempio di Gerusalemme, che separava il cortile interno da quello esterno, era scritto in tre lingue (ebraico, greco e latino) il divieto ai non giudei di entrare, pena la morte. Il Cristo
- afferma Paolo - ha invece con la sua Croce avvicinato i diversi, ha fatto crollare il muro divisorio. E in questo senso che Egli è la nostra pace. Gesù è morto per tutti, trasparenza di un amore divino che raggiunge ogni uomo, senza differenze. Non c'è più il vicino e il lontano, l'ebreo e il pagano, l'amico e il nemico, l'accolto e l'escluso.
Ma quale pace? L'affermazione (2,17) «venne per annunciare pace a voi, i lontani, e pace ai vicini» richiama testi messianici grandiosi, come Is 9,5 e Mi 5,4. Su questo sfondo la pace va intesa nel senso pieno e concreto dell'ebraico shalòm. Non è, dunque, una pace spirituale, chiusa nella coscienza, come quando si parla di pace del cuore, pace con se stessi e con Dio. La pace è - come detto in 4,3 -«il vincolo della pace», cioè un dato relazionale, oggettivo e visibile, pubblico, direi sociologico e politico: un evento «sociale e politico», come ha scritto Karl Barth.
Nella grandiosa visione paolina si scorgono, poi, delle condizioni precise. La prima è che Gesù ha costruito la pace con la Croce, cioè sul perdono, sulla gratuità, non sulla stretta e severa giustìzia. Non c'è vera possibilità di fraternità universale senza la gratuità e il perdono.
La seconda condizione è che questa grandiosa unità degli uomini può avvenire soltanto in un movimento in avanti, non in forza di un semplice avvicinamento di un popolo all'altro. Giudei e Gentili devono entrare in una dimensione nuova: «Per creare in se stesso dei popoli un solo uomo nuovo» (Ef2,13). Non dunque un cammino orizzontale, ma verticale, verso una novità di uomo e di mondo. La fraternità si genera in rapporto a qualcosa da costruire, non soltanto intorno a qualcosa da spartire.
La terza è che l'unità della famiglia umana è ormai l'orizzonte obbligato entro il quale il cristiano deve muoversi. Non un popolo sopra gli altri popoli, e neppure semplicemente i diversi popoli gli uni accanto agli altri. Punto di partenza è l'unità della famiglia umana, l'unità in Adamo, rotta a Babele ma ricostruita sulla Croce: dunque, la logica che deve guidare i rapporti fra i popoli è una logica di pari dignità e di solidarietà, di netto superamento degli orizzonti nazionali e degli interessi di parte.
4. Le costanti della concezione biblica della pace
Termino questa lettura biblica della pace raccogliendo alcuni aspetti particolarmente importanti, già emersi in forma frammentaria.
Raccoglierli significa, in qualche modo, collocarli in un quadro - antropologico e teologico - che li rafforza e che può costituire un fondamento per un'attualizzazione oggi. In un discorso così importante e delicato, come è appunto quello della pace, non ci si può disperdere prendendo come riferimento un punto o l'altro, isolatamente. È l'insieme che conta.
Nella Bibbia la pace è sempre all'interno di un'esperienza religiosa che pone al centro il primato di Dio e nel primato di Dio l'uomo e le sue relazioni. Il discorso biblico è un discorso teologico, non soltanto culturale. Questo è un primo punto fermo. Nella Bibbia la pace si evolve di pari passo con la maturazione dell'esperienza religiosa. Da come si ragiona di pace, si può dedurre come si ragiona su Dio. Questa è un'indicazione anche per i cristiani di oggi. La concezione biblica, anche evangelica, della pace manifesta tutte le sue potenzialità se la comunità cristiana matura la propria fede e la propria lettura del vangelo. Sarebbe semplicistico sostenere che - poiché nel passato le comunità cristiane hanno spesso giustificato per un motivo o per l'altro la guerra - questo lo si possa fare anche oggi. Nel cammino della storia anche la comprensione del vangelo si approfondisce. In ogni caso non si dimentichi che dal modo con cui si ragiona sulla pace o sulla guerra, il cristiano mostra al mondo se e in quale Dio egli crede.
La pace biblica è una realtà molteplice e insieme unitaria. Abbraccia tutti i settori dell'esistenza. Se fallisce in un aspetto, fallisce anche in altri. Non si costruisce frammentariamente, in alcuni settori sì e in altri no, con alcuni uomini e non con tutti. Esattamente come la violenza non si combatte in uno solo dei tré livelli sui quali l'Apocalisse ha attirato l'attenzione, ma in tutti e tré: strutture sociali e politiche, ideologie, peccato.
Non è pensabile la pace se non in una società dove si fa spazio a una profonda (e sempre rinnovata) conversione culturale, sociale e religiosa. E si richiede fede. Non basta quel cosiddetto 'realismo' che giudica impossibile tutto ciò che va oltre le valutazioni che sembrano inesorabilmente imporsi. La fede è coraggiosa e, perché no?, anche rischiosa. Le logiche ovvie (come quella che alla forza si risponde con la forza, alla violenza con la violenza) non sono in grado di portare alla pace. Lo abbiamo già detto: sono un vicolo cieco.
Soprattutto non si dimentichi l'inseparabilità (questo sì che è vero 'realismo') fra pace e giustizia. Non c'è pace senza il prezzo della giustizia. Un pensiero, questo, sin troppo ovvio, evidente agli occhi di tutti, e tuttavia sempre disatteso, se appena si cerca di calarlo nel concreto e si precisano le modalità della giustizia, che sono almeno due. La prima è la sua universalità: la giustizia è tale solo se riguarda tutti gli uomini. E la seconda è la sua indivisibilità: la giustizia è tale solo se riguarda tutti i diritti fondamentali della persona. Il vangelo, poi, che è sempre attento alla coscienza e alla responsabilità personale, aggiunge che la giustizia è responsabilità di ogni uomo: ciascuno deve vivere con giustizia i propri rapporti personali e professionali. E solo da un uomo giusto che poi viene la pace. Il vangelo stenta ad ammettere (e come dargli torto?) che un uomo che nel proprio ambito vive ingiustamente possa poi - in un ambito di responsabilità politica e sociale, anche ecclesiale - impegnarsi veramente per la giustizia e la pace. E da capovolgere (o almeno da correggere fortemente) la convinzione che oggi sembra divenuta comune: prima i programmi, poi le persone. E una dicotomia che il vangelo non ammette.
Infine la pace è per la Bibbia una realtà escatologica. La pace che l'uomo sogna - e che Dio promette - è sempre oltre, non si identifica mai con questa pace. Ed è bene che l'uomo non lo dimentichi, perché la confusione dei due orizzonti porta fatalmente a tentativi astratti, a delusione e anche - non raramente - a dannose impazienze.
La Bibbia mantiene distinti - ovviamente, però, in rapporto dialettico fra loro - i due orizzonti, tanto è vero che il suo discorso sulla pace (come i tentativi per realizzarla) si muove costantemente fra 'profezia' e 'realismo': da una parte - per fare un esempio - il ripetuto invito a costruire rapporti di fraternità che sgorghino dall'amore e dal rinnovamento operato dallo Spirito (Rm 12); dall'altra la consapevolezza che è necessaria anche la mediazione della legge (Rm 13).

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