il vocabolario della fede
L’Antico Testamento per indicare l'atteggiamento di fede usa termini ebraici che si rifanno prevalentemente a due radici: aman (da cui l’amen della liturgia) che evoca l'idea di «solidità», e batah che indica «fiducia». Questo secondo termine indica lo slancio della fede e mostra come la fede non sia qualcosa di passivo: in essa c'è speranza, desiderio e attesa.
Più significativa però è la prima radice: esprime la nozione di solidità, fermezza, cosa «provata», saggiata. Il paragone che ricorre più di frequente è la solidità della roccia (e quindi la solidità di chi è abbracciato alla roccia). Un'altra immagine biblica è quella del bambino tra le braccia del padre, al sicuro.
Aver la fede significa dunque «appoggiarsi a Dio» (Roccia e Padre) e - proprio per questo - sentirsi su un terreno solido, al sicuro, tranquilli.
La Bibbia dice spesso che Dio è «verità», che la sua Parola è vera e fedele, che il suo piano è fedele, proprio perché messo alla prova - resiste, sta saldo, non si sbriciola (come invece avviene alle promesse degli uomini ! ).
E l'uomo è vero, è fedele se sta con costanza appoggiato alla Parola di Dio, se attraverso le prove sta saldo, non si frantuma.
Viene in mente, a questo punto, ciò che si legge nel Vangelo di Matteo (7,24-27): «Chiunque perciò ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia. E cadde la pioggia, vennero i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. E chiunque ascolta da me queste parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo sciocco, il quale edificò la sua casa sulla sabbia. E cadde la pioggia, vennero i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa ed essa cadde. E grande fu la sua rovina».
Il vocabolo greco più frequente nel Nuovo Testamento è pistis (fede), nelle sue due accezioni di «credere» e «confidare». Però vi sono molti altri termini che in qualche modo sottolineano la fede: «ascoltare, accogliere, conoscere, vedere, rispondere, obbedire».
Anche per il Nuovo Testamento la fede è un atteggiamento fondamentale, ricchissimo: questa ricchezza spiega appunto la varietà del vocabolario. La fede esprime l’atteggiamento completo dell'uomo di fronte a Dio che si rivela salvatore.
La Bibbia applica al comportamento di Dio gli stessi termini che usa per indicare la fede dell'uomo: un modo chiaro per dirci che anche Dio è - in un certo senso - un «credente».
Ma che significa ciò di preciso? Dicendo che Dio «crede», la Bibbia non vuole semplicemente indicare che Dio è fedele (cioè mantiene le promesse); vuole invece attirare l’attenzione sul fatto che Dio decide un piano, si assume un impegno, si imbarca in una avventura, si fida dell'uomo e corre - perché no? - il suo «rischio».
L'uomo deve fidarsi di Dio, appoggiarsi a lui che è «Roccia» - dice la Bibbia -, ma anche Dio si fida dell'uomo.
Vengono in mente le parole di Cristo a Pietro: «Tu sei roccia e su questa roccia io edificherò la mia Chiesa, e le porte della morte non prevarranno contro di essa».
Questo parallelo tra la fede di Dio e la fede dell'uomo è significativo. Insegna che vi è una somiglianza (certo solo una somiglianza!) tra il comportamento di Dio e il comportamento dell'uomo; in ambedue i comportamenti vi e l’aspetto di decisione totale, di impegno, di legame definitivo.
Insegna che la fede dell'uomo è una partecipazione alla fede di Dio, un farla propria, un condividerla. Insegna che la fede dell'uomo è «risposta» a quella di Dio.
convertitevi e credete: il vangelo di marco
Nel Vangelo di Marco il tema della fede e dell'incredulità si consolida in figure ed episodi che - soprattutto se letti «narrativamente» - si rivelano significativi e ricchi di fascino, e anche attuali. Uno studio accurato di queste figure ed episodi mostra che la fede è un'adesione personale alla persona di Gesù, annunciata ora nella Chiesa e presente ora nella Chiesa; che è un itinerario che richiede continua conversione; che il suo centro è la croce/risurrezione, visto come luogo in cui si è svelato il vero volto di Dio e, insieme, la via dell'uomo. Due pertanto sono, simultaneamente, i contenuti della fede: Dio si è svelato nel Crocifisso, la via della croce è salvezza per l'uomo.
«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è giunto, convenitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15).
La costruzione di questo annuncio di Gesù non è casuale. Due verbi all'indicativo (il tempo è compiuto e il Regno è giunto) annunciano un fatto, e due verbi all'imperativo ne indicano le conseguenze. Questa struttura - prima l'indicativo e poi l'imperativo - è essenziale e costante. L'accento cade sull'indicativo, sull'evento, che precede la conversione e la fede e costituisce il nucleo dell'originalità cristiana. Si tratta di un evento che è «lieta notizia» (essenzialmente è l'amore di Dio nei nostri confronti, un amore che nella storia di Gesù si è rivelato sorprendente e inaspettato). Questa lieta notizia del Regno svela contemporaneamente il volto di Dio e dell'uomo: è insieme teologica e antropologica. Proprio perché l'evento rivela un volto sorprendente di Dio e dell’uomo, ne segue la necessità - da parte di chi lo accoglie - di un radicale cambiamento, che è insieme un capovolgimento (conversione), un credere vero l'annuncio dell'evento e un affidarsi a quello stesso evento.
«Convertitevi e credete»; può sembrare strano l'ordine dei termini, prima la conversione e poi la fede. Abitualmente invece è prima la fede e poi la conversione. Ma in realtà qui si intende - come si vedrà lungo il Vangelo - non tanto una conversione morale (come vivere) quanto una conversione teologica (chi è Dio e qual è la sua azione). In questo senso la conversione non è una condizione per la fede, ne semplicemente una conseguenza della fede: è la fede in atto.
Credere è affidarsi a che cosa? Il nostro passo dice: al Vangelo, parola che esprime chiaramente ciò che dobbiamo credere vero e ciò di cui dobbiamo fidarci, capovolgendo la vita («convertitevi»). Ma che significa di preciso la parola «Vangelo»? E un termine che Marco utilizza più volte: il confronto con i testi paralleli di Matteo e Luca mostra che si tratta di un vocabolo che egli predilige (1,1.15; 8,35; 10,29; 13,10; 14,9;
16,15). Quando Marco scriveva il suo racconto la parola «Vangelo» non indicava più soltanto l'annuncio del Regno fatto da Gesù (come in 1,15), ma indicava più ampiamente l'annuncio di Gesù ripetuto dalla Chiesa, attualizzato e diffuso a Roma e in tutto l'impero attraverso la predicazione. Il termine aveva assunto una chiara dimensione ecclesiale e missionaria. Inoltre si era anche precisato e approfondito nel suo contenuto: non più soltanto l'annuncio fatto da Gesù («il Regno è vicino»), ma l'avvenimento Gesù. Le comunità primitive hanno subito capito che la lieta notizia è Gesù stesso. Per questo non si sono limitate a ripetere la predicazione di Gesù, ma hanno considerato Gesù (persona e storia) l'oggetto del proprio annuncio. E certo in questo senso che Marco usa il termine «Vangelo», come appare dalla frase iniziale del suo racconto: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio». Per tener fede a questo titolo, Marco non soltanto riporta l'annuncio del Regno fatto da Gesù, ma racconta la vita di Gesù.
Al sommario della predicazione di Gesù (1,14-15) Marco ha fatto immediatamente seguire la chiamata dei primi discepoli. Probabilmente per più di un motivo: per mostrare che la parola del Regno è efficace e crea una comunità; per introdurre nella narrazione, fin dall'inizio, il secondo personaggio che gli sta a cuore, e cioè il discepolo; per illustrare, infine, la risposta di conversione e fede che il Regno esige. Convenirsi e credere significa fare ciò che hanno fatto i primi discepoli. E così appare con chiarezza che la fede è conversione, sequela, missione. La fede è un itinerario.
Miracoli e fede
Per Marco il miracolo è senza dubbio un segno per la fede. E difatti sono i miracoli che attirano l'attenzione su Gesù, così che le folle accorrono a lui. È il miracolo che suscita l'interrogativo fondamentale: «Che è questo?» (1,27). Gesù stesso rimprovera i compaesani per la loro incredulità di fronte alla sua sapienza e ai suoi miracoli (6,6).
E certo, dunque, che il miracolo inizia il processo della fede. E l'evangelista non trascura il fatto che, partendo dai miracoli, la folla ha intravisto in Gesù qualcosa di straordinario (un profeta) e i discepoli sono giunti a riconoscerne la messianicilà (8,27-29). Tuttavia, se è vero che il miracolo avvia il processo della fede, è altrettanto vero che non conduce necessariamente alla fede, non soltanto perché lascia posto all'incredulità, ma anche e soprattutto perché non è in grado di svelare interamente l'identità di Gesù. I miracoli avviano il processo della fede, ma non conducono alla fede piena.
Che i miracoli siano segni di potenza è ovvio, e che l'evangelista attribuisca importanza a essi è mostrato dal fatto che i racconti di miracoli occupano nel Vangelo un ampio spazio.
Ma sono anche circondati da debolezza. Questo perché i miracoli sono coinvolti nella dialettica tra potenza e debolezza che costituisce il centro e l'originalità della rivelazione di Gesù. I miracoli di Gesù non sono tali da impedire la discussione, né bastano a sconfìggere l'incredulità, che anzi — in un certo senso - sembra diventare di fronte a essi più decisa. Gesù delude la pretesa farisaica di un miracolo che provi la sua origine divina al di là di ogni dubbio (8,11-13). I miracoli sostengono la fede, ma non sono sufficienti a identificare la vera realtà di Gesù. Le folle vedono in lui qualcosa di eccezionale, ma non il Messia, e i discepoli scorgono in lui il Messia (8,27-29), ma non vedono in lui il Crocifisso. Proprio perché i miracoli non rivelano tutta l'identità di Gesù, una fede basata sui miracoli sarebbe del tutto insufficiente. Significativo è il fatto che i gesti di potenza diminuiscono e spariscono man mano che ci si avvicina alla croce. Marco è il Vangelo dei miracoli, segni di potenza, ma i miracoli muoiono sulla croce, ed è qui che vanno compresi. E dunque chiaro: il miracolo mostra la potenza di Gesù, ma vuole anche, paradossalmente e contemporaneamente, evidenziarne l'impotenza.
In una prospettiva analoga va considerato anche il cosiddetto «segreto messianico». Gesù compie miracoli che lo rivelano Messia, ma stranamente non vuole che questo si sappia. C'è sempre, infatti, il rischio di intendere male la sua messianicità e di stravolgerne l'intenzione. Non bastano i miracoli. Sembra che Marco voglia dire: non concludete subito e in fretta chi è Gesù, ma aspettate di avere in mano tutti gli elementi necessari per capire chi egli sia: aspettate per questo la croce. Ai piedi della croce i miracoli di Gesù sono ricordati («ha salvato altri»), ma la debolezza che circonda il Crocifisso sembra svuotarli di ogni significato («non può salvare se stesso»). E invece per Marco sta proprio qui la vera identità della potenza di Gesù: una potenza per altri e non per sé, una potenza-dono, non una potenza-dominio.
Fede che sposta le montagne
Prima di rintracciare nel racconto di Marco la figura dell'incredulo (e le sue ragioni) - un tema molto importante che ci mostrerà in negativo la vera natura della fede evangelica -abbiamo qualche altro spunto da raccogliere.
Dopo aver calmato il mare in tempesta, Gesù rivolge ai discepoli una domanda che è un rimprovero: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?» (4,40).
Per Gesù la fede è sentirsi al sicuro anche quando il mare è in tempesta. Quella dei discepoli è una fede incerta, debole, come è provato dal fatto che non è ancora in grado di liberarli dalla paura. La paura è segno di mancanza di fede. La fede matura è la fiducia serena di chi si sente al sicuro, anche se le difficoltà sono grandi e il Signore sembra dormire.
Di fronte a coloro che giudicavano ormai inutile il suo intervento («Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il maestro?»), Gesù dice: «Non temere, continua solo ad avere fede» (5,36).
Fede è ritenere possibile anche ciò che all'uomo pare impossibile. Nessuna situazione è irrimediabile di fronte alla potenza di Dio.
Nel dialogo di Gesù con i discepoli (9,29), dopo la guarigione del ragazzo epilettico, cogliamo una relazione tra la fede e la preghiera. Fede è l'atteggiamento di chi, non confidando in se stesso, ricorre alla preghiera, consapevole che la salvezza è un puro dono.
La connessione tra la fede e la preghiera è poi particolarmente sviluppata nel dialogo di Gesù con i discepoli dopo il racconto del fico disseccato (11,20-24). La fede vera è tanto forte che può spostare le montagne. Deve essere, però, una fede che non esita («senza dubitare in cuor suo»). Il luogo in cui la fede si esprime in modo particolarmente chiaro, e se ne può sperimentare l'efficacia, è la preghiera: «Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto».
L'incredulo e le sue ragioni
La figura dell'incredulo è anzitutto rappresentata da «scribi e farisei», anche se - come si vedrà subito - non solo da loro, ma persino dagli stessi discepoli.
Farisei e scribi osservano e giudicano la prassi di Gesù e dei suoi discepoli, la valutano e la rifiutano. Gli episodi interessanti sono soprattutto tre: a) nel dibattito di 3,22-30 i miracoli di Gesù sono giudicati opera del demonio, compiuti a scopo di inganno; b) in 8,11-13 i farisei ritengono che i segni compiuti da Gesù non siano sufficienti a legittimare la sua pretesa: chiedono segni più convincenti; e) e in 15,31, ai piedi della croce, Gesù viene invitato a dare la dimostrazione della sua filiazione divina, e viene messa a confronto la sua precedente potenza nel compiere miracoli («ha salvato altri») e la presente debolezza («non può salvare se stesso»).
La lettura di questi episodi ci porta a importanti conclusioni: la prima è l'abilità del ragionamento dello scriba. Posto, da una parte, di fronte alla prassi di Gesù che non può negare e che dovrebbe logicamente portarlo a concludere che in lui è presente la potenza di Dio, e posto - dall'altra - di fronte al fatto che accettare Gesù significa rinunciare alle proprie convinzioni, lo scriba da la precedenza alle seconde. È la chiusura del cuore (3,5), l'incapacità di accettare la novità di Dio e, quindi, la conversione.
L'incredulità è l’atteggiamento di chi accetta Dio soltanto nella misura in cui la sua azione non sconvolge i propri criteri. D'altra parte una spiegazione per l'agire di Gesù deve essere data. Ed ecco la lucida e ingegnosa spiegazione che lo scriba offre: la cacciata dei demoni da parte di Gesù è una sceneggiata. I suoi esorcismi sono operazioni di magia destinate a sedurre le folle. Questo atteggiamento di rifiuto, abile al punto da volgere a proprio favore i segni di Dio, è il massimo dell'incredulità, perché è un rifiuto deciso, consapevole e giustificato: è la bestemmia contro lo Spirito.
La seconda osservazione ci porta a notare che in tutti e tre gli episodi la negazione è radicale e totale. Tuttavia le ragioni sono differenti. Nel primo la negazione nasce dallo scontro tra la prassi di Gesù (i segni compiuti) e l'ortodossia giudaica: i segni compiuti non sono a servizio di questa ortodossia, ma pretendono di superarla. Nel secondo la negazione nasce dallo scontro tra i segni offerti da Gesù e i segni di legittimazione pretesi o attesi: è vero che Gesù ha compiuto segni, ma non sono quelli codificati. Nel terzo episodio, infine, la negazione nasce da una sorta di contraddizione interna alla stessa vita di Gesù: una vita disseminata di segni di potenza ma anche, nel contempo, di debolezza. Quest'ultima ragione è certamente la più profonda, la più acuta, e giustamente coinvolge tutti nell'incredulità: le autorità, la folla dei passanti e i crocifìssi con Gesù. Nei primi due episodi la ragione della negazione è, per così dire, cercata in un confronto con qualcosa di esterno alla vita di Gesù: l'ortodossia giudaica e la pretesa di alcuni segni. Nell'ultimo, invece, la ragione della negazione è trovata nel cuore stesso della storia di Gesù.
Molto interessante è anche la ragione del rifiuto dei Nazaretani (6,1-6): qui viene colta la contraddizione tra la potenza e la sapienza di Gesù da una parte, e l'umiltà delle sue origini dal? altra. E ancora una contraddizione interna al mistero di Gesù, non però la croce, bensì l'incarnazione.
Gli ascoltatori di Gesù passano dallo stupore iniziale allo scandalo. lo Stupore è l'atteggiamento di partenza. L’atteggiamento di chi resta colpito e quindi costretto a interrogarsi, ma è un atteggiamento ancora neutrale: può sfociare sia nella fede sia nell'incredulità. La sapienza delle parole di Gesù e la potenza delle sue mani suscitano importanti interrogativi (che Marco intende porre a ogni lettore): qual è l'origine di questa sapienza e di questa potenza? Chi è quest'uomo? La risposta sembra ovvia: quest'uomo viene da Dio. Ma tale risposta ovvia è impedita da una constatazione che va in senso contrario: «Non è costui il carpentiere?». Di qui lo scandalo, parola che indica un ostacolo alla fede, qualcosa che impedisce ragionevolmente di credere. È lo scandalo della persona di Gesù, lo scandalo della sua incarnazione.
Ma non c'è solo l'incredulità dell'oppositore, bensì anche l'incredulità del discepolo, che può assumere forme diverse e che Marco puntualmente annota (6,52; 8,17-21; 16,11-14). L'episodio più interessante è lo scontro tra Gesù e Pietro avvenuto a Cesarea di Filippo (8,33). Nel dibattito (chi è Gesù?) intervengono in ordine crescente tutti i principali personaggi: la folla (v. 28), i discepoli (v. 29), Gesù stesso (v. 31), la voce celeste (9,7). E anche le risposte sono date in ordine crescente: un profeta, il Messia, il Figlio dell'uomo che deve soffrire, il Figlio unigenito. Al centro di queste varie risposte lo scontro è tra Gesù e Pietro, e oggetto dello scontro è la croce. E lo scontro tra la messianicità (di cui i discepoli sono ora convinti) e la via della croce (giudicata dai discepoli in contraddizione con la stessa messianicità). Pietro riconosce la messianicità di Gesù, ma proprio per questo si oppone alla croce, dal momento che egli ragiona come gli uomini. In che cosa consiste questo ragionamento umano? Il discepolo non parte dalla croce e quindi - come fanno scribi e farisei - rifiuta la messianicità (come appunto in 15,31). Il discepolo fa il ragionamento contrario: parte dalla messianicità di cui è convinto e si sforza di allontanare Gesù dalla croce. Ma, in un modo come nell’altro, è sempre la croce che viene negata. È la tentazione di Satana: separare il Messia dal Crocifisso.
La fede del Crocifisso e nel Crocifisso
A questo punto non ci resta che leggere il racconto della crocifissione: 15,21-47. Già nella sua composizione scenica il racconto mostra la profonda e totale solitudine del Cristo, solitudine che egli stesso esprime, e la esprime nella sua radice più profonda che è la solitudine di fronte a Dio: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Si osservi come Gesù è negato nella sua duplice identità: negato in quella logica di donazione (che qui viene capovolta, incompresa e ritorta contro di lui), che ha guidato tutta la sua vita, e negato nella sua origine, nella sua messianicità e filiazione, nella sua comunione con Dio.
Ma al centro del racconto, al di là di tutto questo, c'è Gesù e il Padre. Gesù si rivolge al Padre con una domanda. E il Padre tace. La voce che ha parlato al battesimo e alla trasfigurazione, qui tace. Ma osserviamo meglio la domanda di Gesù. Certo, esprime l'abbandono (dagli uomini e da Dio), ma anche la fiducia. E infatti l'inizio della preghiera del giusto abbandonato che muore affidandosi pienamente a Dio (Sai 22). Dunque, fiducia. Ma è la fiducia in una esperienza di totale abbandono. Questa è la fede di Gesù.
Di fronte a Gesù - se guardiamo ora la scena dal punto di vista degli astanti - si scontrano due tipi di fede: da una parte, la fede di chi pretende che il Messia scenda dalla croce; dall'altra, la fede di chi, come il centurione, riconosce la divinità di Gesù proprio sulla croce. Da una parte una fede che per credere deve eliminare la croce, dall'altra la fede del vero credente che scorge il Figlio di Dio sulla croce.
fede e storia
Nel primo capitolo degli Atti c'è un quadro che mostra gli apostoli con gli occhi fìssi al cielo, dove è appena asceso Gesù. Ad essi due messaggeri celesti dicono: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui lo avete visto andare in cielo» (1,10-11).
La prima parte della frase ha il tono del rimprovero: evidentemente star lì a guardare il cielo non è la posizione giusta per il vero credente cristiano. Nella seconda metà della frase si invita a guardare la terra, il mondo, con la consapevolezza che Gesù tornerà, e con la certezza in ogni caso che è proprio lì che lo si può incontrare. Ma allora, se si crede guardando la terra e amando la terra, non si dovrebbe parlare di una fede sempre a rischio? Le vicende che capitano sembrano alcune volte favorire la fede in Dio, ma altre a volte sembrano smentirla. Di solito cito un passo del libro dei Giudici dove si legge: «Se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo? Dove sono tutti i suoi prodigi che i nostri padri hanno narrato, dicendo: il Signore non ci ha fatto forse uscire dall'Egitto? Ma ora il Signore ci ha abbandonati e ci ha messi nelle mani di Madian» (6,13). In un altro testo l'uomo biblico si chiede: «II Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17,7).
È vero: lo sguardo verso la terra può complicare l’atto di fede. D'altra parte, però, è anche vero che non si può guardare Dio astrattamente, togliendo lo sguardo dalla terra e dalla storia in cui viviamo, per guardare altrove dove non vediamo.
Bisogna comprendere che la convinzione della presenza salvifica di Dio nella storia è un principio base della fede biblica, dal Primo al Secondo Testamento. Israele pone al centro della propria fede una storia di salvezza e ciò significa la persuasione che Dio agisce nel mondo storico in maniera e in forme umane, condividendo la relatività della storia stessa; e perciò l'uomo trova Dio e il suo dono di salvezza dentro la storia, non fuori di essa; la storia non è soltanto il luogo in cui inserirsi per servire Dio, ma ancora prima il luogo in cui inserirsi per incontrarlo e per conoscerlo: la storia è luogo di rivelazione. Questa convinzione si precisa ulteriormente nel Nuovo Testamento, la cui affermazione centrale è che il Figlio di Dio è entrato nella storia umana condividendo l'intera esperienza dell'uomo.
Da qui nasce la prima virtù del cristiano: la sincerità di fronte alla storia, il rifiuto di ogni manipolazione dei fatti. La prima struttura della fede biblica è l’ostinata fedeltà alla storia. Più che di un contenuto si tratta di un metodo.
Di qui l'ascolto attento e sincero della storia, sia quando presenta fatti che confermano l'esistenza di Dio, sia quando ne presenta altri che sembrano metterla in dubbio. La durezza di cuore di cui parla la Scrittura sta proprio nell'incapacità di aprirsi ai fatti concreti, comunque essi siano. Duri di cuore sono gli amici di Giobbe che rinnegano la sua innocenza, perché non vogliono rivedere il loro schema teologico: solo il peccatore può essere nel dolore e nella sofferenza perché Dio è giusto e castiga solo i colpevoli! Duri di cuore sono gli scribi che nel capitolo terzo di Marco accusano Gesù di scacciare i demoni in nome dello stesso demonio: un ragionamento capovolto e intelligente per evitare la conclusione che Gesù viene da Dio. Duri di cuore sono i farisei di fronte al cieco nato: non riescono ad accettare la sua guarigione in giorno di sabato, perché non vogliono riconoscere che Gesù ha potere anche sul sabato.
La storia pone spesso il credente di fronte ad avvenimenti che richiedono un profondo ripensamento della propria fede, addirittura del proprio modo di pensare Dio e il suo disegno
di salvezza. La fede cristiana attraversa le "crisi" che la storia propone, non le nega, non fìnge di non vederle. Non si salva la fede rinnegando i fatti che accadono, o distorcendo la loro lettura.
Va anche ricordato che - cosa già presente nella storia biblica - la storia di Dio utilizza i meccanismi dei processi storici normali, guidandoli ma non artificiosamente o miracolisticamente saltandoli. Normalmente Dio svela e realizza il suo disegno dentro lo Spessore di una storia per molti versi normale, fatta anche di incertezze, di lunghi tempi di maturazione e di sollecitudine culturale. Si possono concludere queste riflessioni affermando che la rivelazione avviene nella storia e tramite la storia.
Tuttavia questo non oscura, ma illumina il fatto che la Parola di Dio non è riducibile alla storia. Viene da Dio, non è un prodotto della storia stessa. Questa duplice convinzione - che Dio si rivela nella storia ma che la sua Parola non è dedotta dalla storia - costituisce una tensione che tutta la Scrittura gelosamente custodisce.
Proprio perché intessuta di luce e di ombre, la storia umana non è in grado di rivelare se stessa. Occorre una chiave per decifrarla, per leggerla nel suo significato profondo e per capirla nel suo movimento. Questa chiave - un'altra tesi basilare della fede biblica - è la Parola di Dio che sola riesce a illuminare il cammino dell'uomo. Questo vale non solo per la storia in generale, ma anche per la storia di Israele e per la storia della Chiesa. Per il credente cristiano la chiave necessaria per leggere la storia e per vederne il corso è la vicenda storica di Gesù. Non dunque una rivelazione nuova, data volta per volta, ma una memoria, data una volta per sempre. Ricordando la storia concreta di Gesù, il credente cristiano comprende che il disegno di Dio è sempre combattuto; che addirittura vi può essere un tempo in cui le forze del male sembrano prevalere (la croce); ma che l'ultima parola è sempre la risurrezione. Questo schema di lettura, che può sembrare troppo semplice, è in tà l'unico che mantiene viva la speranza in ogni situazione le, soprattutto, libera da una facile tentazione. Certo la storia di Gesù ci dice che nel mondo il bene e il male si scontra-sempre. All'uomo è concessa la libertà. Ma ci dice anche non sono i potenti a costruire la storia e che quindi non so-i loro piani che vanno inseguiti. Il cristiano deve vigilare Ito, per non essere omologato alla logica del momento. La memoria di Cristo deve essere sì attualizzata in ogni tempo, ma non cambiata nella sua profonda direzione. Non si comprende la storia, in ogni tempo e in ogni crisi, se si tradisce l'evento storico di Gesù, per assimilarlo ai ragionamenti degli uomini.
Storia e Parola, Parola e storia, sono due realtà inscindibili, due fedeltà: fedeltà alla Parola e fedeltà alla storia; ascolto la Parola e ascolto della storia. Occorre altrettanta sincerità una parte e dall'altra, perché la Parola mi aiuti a capire la ria e la storia mi aiuti a capire la Parola. Occorre disponila del cuore, intuizione, amore alla verità e al Signore.
ragione e fede
Quest'ultima riflessione sulla fede si colloca in una prospettiva che vuole essere molto precisa, anche se limitata. È la prospettiva di un credente cristiano che si domanda se il suo atto di fede sia ragionevole, intellettualmente onesto, e si domanda se e come, nella sua vita di fede, ragione e fede interagiscono.
In questa prospettiva, ragione e fede sono considerate concretamente: la fede non è una qualsiasi fede, ma la fede nel Dio del Vangelo.
Il dialogo con i non credenti è importante: le ragioni del credente devono essere comprensibili anche al non credente e degne di rispetto anche per lui. E, viceversa, le convinzioni e le obiezioni del non credente devono essere comprese anche dal credente.
Ho detto che la fede non è un qualsiasi credere, in un qualsiasi Assoluto, ma un credere nel Dio del Vangelo. Ma anche la ragione non è una qualsiasi ragione, bensì la ragionevolezza
credente.
La ragionevolezza della fede non è (almeno completamente) all'esterno della fede, ma all'interno. Sono ragioni che ti vengono incontro dal di dentro dell'esperienza di fede: come le ragioni che rendono ragionevole l'amore verso una persona, o le ragioni che mostrano la bellezza di un'opera d'arte. Per cogliere la ragionevolezza del credere è, anzitutto, importante precisare che cosa si crede.
Il giungere alla fede può avvenire per mille strade, le più diverse: il contesto in cui si nasce e si cresce, un incontro, una ricerca. Ma, in ogni caso, la fede è un dono. Anche se la fede giunge al termine di una lunga ricerca, si comprende ugualmente che essa è un dono. Non è mai la deduzione necessaria di una ricerca.
Il rapporto tra ragione e fede è un problema aperto, che deve essere mantenuto aperto. Ogni volta che si pensa di averlo teoreticamente e pacificamente risolto, toma a riproporsi. Questo perché ragione e fede non costituiscono una contrapposizione, ne un'alternativa, ma una tensione interiore all'intelligenza della fede: una tensione nativa, strutturale, che non si placa eliminando uno dei due poli, bensì mantenendo ferma la consapevolezza del nesso e della tensione.
La tensione è la condizione che sta al fondo di Ogni rapporto dell'uomo con il divino (e con la vita). Il suo rifiuto - alle volte forse motivato dalla fatica che la tensione inevitabilmente comporta - è alla base delle due posizioni contrapposte: sia quella che, per difendere la fede, diffida della ragione, sia quella che, per difendere la ragione, diffida della fede. In realtà non si deve diffidare ne dell'una ne dell'altra, e questa doppia fedeltà è feconda.
Il fatto che nella conoscenza dell'evento cristiano la ragione non conduca a una evidenza «costringente» non è il segno della sua debolezza, ne semplicemente il segno della trascendenza e della gratuità dell'evento cristiano, ma anche della struttura antropologica dell'uomo, oserei dire della sua grandezza, che trova il suo punto di forza nella libertà.
Nelle conoscenze che implicano la decisione di affidarsi o di amare - come appunto la conoscenza religiosa - la libertà deve rimanere intatta, non sminuita ma esaltata. Un donarsi costretto - sia pure costretto da una costringente evidenza interiore - non sarebbe più amore. La ragione e la libertà insieme offrono la condizione che rende possibile all’uomo il dono di sé. Il donarsi dell'uomo - nel nostro caso l'affidarsi a Cristo - deve essere ragionevole, intelligente, motivato e libero.
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