mercoledì 24 dicembre 2025

La virtù della giustizia

 


Come Dio guarda l'uomo

Nella Bibbia la nozione di giustizia è vasta e complessa. Non riguarda soltanto un certo modo di rispettare i diritti di ciascuno, ma costituisce una vera «visione del mondo». Su questa prima affermazione globale si può dire che tutti gli studiosi della Bibbia siano sostanzialmente d'accordo4. La giustizia non è anzitutto da intendersi in senso giuridico, ma come giusta relazione tra Dio e l'uomo (e l'uomo e Dio) e come giusta relazione tra il singolo e la comunità. Non c'è nella Bibbia una nozione astratta di giustizia. La sedaqah (giustizia) è un concetto sempre concreto e relazionale. Giusto è colui che rispetta i diritti che altri hanno nei suoi confronti in forza di un rapporto. La concreta determinazione della giustizia (o meglio delle forme della giustizia) dipende dalla natura di questo rapporto. La giustizia di Dio è la sua fedeltà al patto stabilito con il suo popolo e con l'umanità. L'iniziativa è tutta di Dio. Dio è fedele al suo patto, perché fedele a se stesso, fedele alla sua Parola liberamente e gratuitamente data, e fedele alle sue promesse. Non si tratta di una sorta di contratto bilaterale alla pari. Il giusto comportamento di Dio nei confronti del popolo precede la risposta giusta del popolo. Precede ed è eccedente. Il comportamento di Dio è giusto, non perché conforme a una norma astratta del dovuto e della parità. Dio è fedele a se stesso. La norma è lui stesso. La giustizia dell'uomo, invece, sta nella sua conformità al comportamento di Dio. L'uomo deve muoversi nella giustizia che Dio ha concretamente mostrato al suo popolo. Giusto è l'uomo che guarda il mondo, il popolo e se stesso con il medesimo sguardo di Dio. «La pratica della giustizia da parte degli uomini trova la sua norma nel giusto comportamento di Dio».

E proprio perché, come detto, la giustizia di Dio è «eccedente», ben oltre la parità tra il dare e l'avere, così anche la giustizia dell'uomo va ben oltre quanto è richiesto per puro dovere. Questo vale non solo per quanto riguarda il dovere verso Dio, ma anche per quanto riguarda il rapporto verso l'uomo. La giustizia biblica non si identifica con la stretta parità tra il dare e il ricevere. Questo è un tratto già presente nella sedaqah anticotestamentaria, non soltanto nella concezione evangelica della giustizia. L'immagine più adatta per esprimere la sedaqah, non è il rapporto di un padrone e il suo servo. La sedaqah supera una semplice rivendicazione del salario. La giustizia biblica non si identifica mai del tutto con il nudo concetto di giustizia distributiva.

Mi sembra già possibile trarre una prima conclusione. La giustizia biblica è complessa non soltanto per i molti significati che via via può assumere nei vari casi in cui si esprime, ma anche - e soprattutto - per la profondità e l'ampiezza del suo significato base, mai del tutto assente. Anche quando la giustizia non esprime direttamente il rapporto tra Dio e l'uomo e l'uomo e Dio, ma si declina in rapporti più corti, come tra uomo e uomo o uomo e comunità, il modello è sempre (almeno implicitamente) come Dio guarda l'uomo.

Due esemplificazioni

Una prima esemplificazione - che riprendo dall'antica saggezza di Israele - non esita quasi a confondere la giustizia nei rapporti sociali con la solidarietà. La ragione è che il modello di ogni giustizia è sempre, sia pure sullo sfondo, il modo di comportarsi di Dio. Il libro dei Proverbi condanna l'ingiustizia in tutte le sue forme: la frode, l'usura, soprattutto il sopruso nei confronti dei piccoli e dei deboli: «Non spostare i confini della vedova e non entrare nei campi degli orfani, perché il loro difensore è potente e difenderà contro di tè la loro causa» (23,10-11). Il medesimo libro è poi particolarmente attento a smascherare l'ingiustizia nei processi. È il caso della falsa testimonianza dei giudici corrotti che accettano regali: «L'empio accetta un dono di nascosto per deviare le vie della giustizia» (17,23). L'uomo saggio da voce a chi non ha voce e fa sua la causa dei deboli: «Apri la tua bocca per chi è muto, per la causa di tutti i derelitti! Apri la tua bocca, giudica con giustizia, rendi giustizia all'infelice e al povero» (31,8-9).

Una seconda esemplificazione intende mostrare che la giustizia - persino nei rapporti tra creditori e debitori - va ben oltre il nostro concetto di giustizia. Si legge nel libro del Deuteronomio (24,10-13); «Se fai un prestito qualsiasi al tuo prossimo, non entrerai in casa sua per prenderti il suo pegno; rimarrai fuori e l'uomo al quale hai fatto il prestito ti porterà fuori il pegno. Ma se è un uomo povero, non dormirai col suo pegno: devi restituirgli il pegno al tramonto del sole, dormirà nel suo mantello e ti benedirà e ciò sarà per tè una giustizia al cospetto del Signore tuo Dio».

La giustizia non è senza solidarietà. Non è un'attitudine passiva di imparzialità, quanto piuttosto un appassionato impegno per l'uomo.

Amos, il profeta della giustizia

Tutti i profeti hanno rigorosamente trattato il tema della giustizia e dell'ingiustizia, mostrando che la scelta dell’una o dell'altra coinvolge due opposte visioni della vita, due modi opposti di vedere Dio e l'uomo. La giustizia non è una virtù "isolabile" dal complessivo (e ordinario) modo di pensare Dio, l'uomo e il mondo.

Già il profeta Amos, il primo dei profeti scrittori, denuncia con particolare forza e acutezza l'ingiustizia in tutte le sue forme. Non potendo qui parlare di tutti i profeti, scelgo appunto Amos come esempio particolarmente adatto al nostro tema7. Lo sguardo del profeta segue due direzioni: Israele e le nazioni. Ciò è comune a tutti i profeti e molto significativo. E significativo che lo sguardo del profeta non si chiuda su Israele: Dio si interessa anche agli altri popoli. Però il profeta non condanna le nazioni perché non praticano la religione di Israele, ne anzitutto perché combattono Israele, ma più semplicemente perché commettono delitti contro l'uomo. Per esempio: «Hanno deportato popolazioni intere per consegnarle a Edom» (1,6); «Hanno deportato popolazioni intere [...] senza ricordare l'alleanza fraterna» (1,9); «Hanno sventrato le donne incinte di Galaad per allargare il loro confine» (1,13). Come si vede, il profeta non mira a convenire i popoli alla religione di Israele ma all'uomo. Prendere come unità di misura l'uomo, come fa Amos, significa fare un discorso religioso e insieme laico, disinteressato e universale. Certo più interessante per noi è il discorso di Amos nei confronti di Israele. Sedaqah e mispat (diritto) sono due parole chiave della predicazione di Amos. La prima giustizia, ovviamente, è verso Dio: di qui quella verso gli uomini. Se si turba il primo rapporto, si turba anche il secondo. A una falsa concezione di Dio corrisponde un falso rapporto con gli uomini. Le varie forme di ingiustizia e oppressione si riassumono per Amos in una parola: violenza. Una violenza diffusa, penetrata dovunque, eretta a sistema, giustificata. Amos può parlare di «regno di violenza» (6,3).

L'oracolo contro Israele che si legge in 2,6-8 è estremamente interessante. La serie delle denunce si apre descrivendo l'ingiustizia e l'avidità nei rapporti economico-sociali e nel-l'amministrazione della giustizia: «Hanno venduto il giusto per alcune monete d'argento e il povero per un paio di sandali». Poi si denuncia la perdita del senso morale: figlio e padre frequentano la stessa donna profanando il nome del Signore. Infine, si stigmatizza una pratica cultuale falsa e idolatra: bevono il vino dei multati nella casa del loro Dio. La traiettoria è quanto mai interessante; dall'ingiustizia all'idolatria, dall'oppressione del? uomo al disonore di Dio. È anche interessante notare che i verbi che il profeta usa per esprimere le forme concrete dell'ingiustizia sono quantomai indicativi: vendere, smerciare, vendere all'asta, acquistare, falsificare, rimpicciolire, maggiorare; opprimere, maltrattare, essere avido, calpestare, accumulare. L'ingiustizia viene perpetrata nei palazzi, nelle case lussuose, nei tribunali, nei santuari, nella piazza del mercato, nella pubblica via.

A questo punto possiamo riassumere in un quadro sintetico la situazione sociale che il profeta descrive. Il primo urto è contro un benessere sfacciato e mal distribuito, che porta a una vita lussuosa, incurante della miseria che sta accanto. Più m profondità, il profeta scorge che questo benessere è frutto di ingiustizia e genera ingiustizia, e rende ciechi: la rovina è imminente e nessuno se ne accorge. Il tutto è poi accompagnato da un culto falso: parole e sacrifici, riti, ma non vita e giustizia. In questa situazione il profeta è colui che si assume il compito di smascherare l'ingiustizia dietro il benessere, la falsità dietro il culto, ed è colui che - nella generale sonnolenza - getta un grido di allarme per la rovina imminente.

Il fondamento dei diritti dell'uomo

Sin qui ci siamo per lo più occupati di alcuni testi biblici nei quali compare esplicitamente il vocabolo giustizia. Ma ci sono altri testi di riferimento che - quantunque senza la presenza del termine - sono molto utili per il nostro discorso. Per non dilungarmi mi accontento di pochi semplici appunti.

Un primo testo degno di osservazione è Lv 25, in cui si proclamano le modalità del giubileo. E indubbio che l'istituto del giubileo esprime il desiderio di creare le condizioni per una giusta convivenza. A questo scopo vengono proclamate tre libertà: la libertà delle persone oppresse, a cui vengono condonati i debiti; la libertà delle proprietà, che tornano agli antichi proprietari; la libertà della terra, che è lasciata riposare. Ma qual è la radice di queste tré libertà? Da dove vengono dedotte? Certo, si sa che la terra ha bisogno ogni tanto di riposo; si sa che si deve impedire la formazione del latifondo ecc. Però la Bibbia va, a modo suo, subito alla radice; tutto questo va fatto «perché la terra è mia» (Lv 25,23). È un'affermazione del primato di Dio. E proprio perché la terra è di Dio, nessuno può vantarne la proprietà a suo esclusivo vantaggio, nessuno può accumulare rubando spazio agli altri, nessuno può mancare di rispetto alla terra. Con questo il Levitico già mostra alTevidenza che il riconoscimento del primato di Dio comporta e si concretizza nella giustizia tra gli uomini.

Ma c'è di più. La Bibbia è in grado di offrirci anche altri fondamenti, ancor più generali e profondi, per riconoscere e difendere i diritti dell'uomo.

Israele non deduce i diritti dell'uomo riflettendo sull'uomo (o riflettendo soltanto e principalmente sull'uomo), ma riflettendo su Dio e la sua azione salvifica. Il fondamento non è qualcosa che l'uomo ha in sé, visibile per se stesso. Naturalmente anche questo punto di partenza è possibile, probabilmente doveroso. Ma ciò che è tipicamente biblico è diverso: la dignità dell'uomo è colta nell'atteggiamento di Dio verso l'uomo. Un atteggiamento che non soltanto fonda la dignità dell'uomo e la riconosce, ma interviene attivamente per difenderla. Di qui scaturisce non solo il riconoscimento del valore dell'uomo, ma l'esigenza di un movimento di solidarietà verso l'uomo. Per la

Bibbia i diritti dell'uomo sussistono soltanto dentro un movimento di attiva solidarietà.

L'uomo biblico ha dunque scoperto la propria dignità sperimentando la vicinanza di Dio, non tanto sperimentando la propria superiorità sulla creazione (cfr. Sai 8). La dignità dell'uomo è riflessa, ricevuta. La dignità dell'uomo è coram Deo. Questo non significa impoverire l'uomo, ma, al contrario, collocare la sua dignità in qualcosa di assoluto, in qualcosa di cui non si può disporre.

Soggetto di dignità e diritti è l'uomo in quanto voluto, creato, amato e difeso da Dio. Nel produrre questa dignità sono in azione sia il Dio creatore sia il Dio salvatore.

L'esperienza del Dio salvatore e del Dio creatore Costituiscono per Israele il luogo ermeneutico (accanto alle sollecitazioni della storia, ovviamente) dell'individuazione dei diritti.

Dall'esperienza del Dio salvatore discende un movimento di solidarietà attiva, l'esigenza/dovere di prendersi a carico i diritti di ogni uomo, del debole, dell'indifeso. Dal Dio creatore discende l'universalità di questi diritti e del movimento di solidarietà di cui necessitano; ma perché quest'universalità sia davvero tale, sottratta a ogni possibile esclusione, occorre l'approfondimento del Dio misericordioso, tipico questo del Nuovo Testamento. Dall'universalità del Dio creatore potrebbero infatti pur sempre rimanere esclusi i peccatori.

La verità imprigionata nell 'ingiustizia

Passando al Nuovo Testamento mi sembra opportuno partire da una grandiosa pagina di Paolo (Rm 1,18-32). E una pagina che riprende una profonda convinzione biblica, specialmente dei profeti, che noi però non abbiamo ancora esplicitamente osservato.

lo Sguardo di Paolo è rivolto alla totalità del mondo e della storia umana. Si parla infatti di «uomini» (1,18), senza specificare di quali popoli e di quali religioni. E si parla di «fin dalla creazione». Il panorama è dunque il più ampio possibile. Ovviamente è chiaro che un discorso come questo, che riguarda in generale l'umanità, non riguarda le singole persone. Ed è anche chiaro che si parla di una situazione di fatto, non certo di una necessità teologica o altro.

Paolo non vuole dire che l'umanità sia priva di valori positivi. Il suo scopo, però, è qui di individuare il germe della distruzione, della confusione e della disgregazione che appunto caratterizza la storia umana. Questo germe è l'idolatria, che è contro l'uomo, non soltanto contro Dio. L'idolatria disgrega. Per Paolo perdere il contatto con Dio equivale a perdere ogni corretto rapporto con se stessi, con gli altri con il mondo.

Ma si tratta di un'idolatria descritta come un tener costretta e soffocata la verità nell'ingiustizia (1,18). Il verbo è al presente: non solo una situazione passata, ma una situazione attuale. E si parla di ingiustizia, non semplicemente di falsità. Avesse scritto che la verità è soffocata dalla falsità, sarebbe stato più ovvio. Ma per Paolo la verità non è soffocata da una falsità in generale, ma da una falsità interessata. E l'ingiustizia che impedisce alla verità - pur presente in qualche modo - di affacciarsi e di esprimersi. Le storture che Paolo elenca (l,26ss) riguardano tutte le relazioni personali, impersonali e comunitarie, compreso l'accecamento dello spirito, privo di ogni capacità di discernimento: ciò che è male lo si ritiene bene.

Si tratta di un quadro dai toni molto forti, non c'è dubbio. Naturalmente Paolo è anche convinto che il mondo poteva essere diverso, ma è l'uomo che lo ha reso tale. Una situazione di fatto che risale all'inizio, ma pur sempre una situazione storica, procurata, causata dall'uomo, non una necessità teologica o antropologica.

In una situazione idolatra, come questa, non può che manifestarsi «l'ira di Dio», cioè il castigo. Ma il castigo discende da Dio in quanto Egli permette che l'uomo peccatore si procuri da sé la propria rovina. Il testo dice per tré volte «li abbandonò». L'uomo vuole essere lasciato a se stesso, e Dio lo lascia. E questo il modo divino di essere giudice. Potremmo dire che l'ira di Dio così intesa è una sorta di legge di creazione. Se l'uomo si sottrae alle strutture che gli danno stabilità, dirczione e senso, si sfascia, come qualsiasi altra costruzione intelligente. E la legge delle cose. Se un palazzo non si sottomette alle strutture che lo sorreggono, crolla. Così l'uomo: imprigionando la verità nell'ingiustizia, peggio confondendo l'ingiustizia con la verità - una forma questa di idolatria sottile e devastante - smarrisce se stesso e le sue relazioni. Certo Dio ama le sue creature, ma non al punto da impedire l'esercizio della loro libertà. Quello che fa crollare il mondo dell'uomo - questo crollo è, appunto, l'ira di Dio -non sono violenze che incombono dall'esterno, come spesso nel linguaggio apocalittico e, qualche volta, anche nel linguaggio profetico. È un cancro che corrode dall'interno. L'ingiustizia - soprattutto l'ingiustizia giustificata - porta con sé la propria condanna, stravolgendo alla radice le fondamenta della convivenza.

Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia

Mt 6,25-34 è una pagina sapienziale, persino ovvia. È un passo che si trova nel discorso della montagna, dove si parla della giustizia del discepolo, che non solo si distingue da quella dei pagani, ma anche da quella degli scribi e dei farisei (5,20). E dunque un passo che intende illustrare l'originalità cristiana. E tuttavia è una pagina di stampo sapienziale, una proposta, oserei dire, di sano umanesimo.

Il verbo «affannarsi» è il verbo principale che attraversa tutto il passo. Affannarsi (merimnan) non è semplicemente lavorare, ne essere previdente, ne affaticarsi. Significa essere nel-l'ansia, nel? angoscia, perennemente col fiato sospeso. Un modo di vivere che rivela un rapporto sbagliato con le cose, con la vita e con Dio.

Ma ci sono anche altri verbi significativi. Parlando della ricerca deviata dei pagani, Matteo utilizza il verbo epizetén, desiderare con bramosia. E parlando degli uccelli e dei fiori - che vanno guardati con attenzione (emblépein) - annota che, al contrario degli uomini, non «tesoreggiano» e non «ammassano» (6,26). Questi verbi dicono molto bene il motivo che rende deviata la ricerca: non per l'oggetto (il cibo, il vestito, la vita: beni essenziali), ma per la modalità con cui vengono cercati: l'ansia, la bramosia, rammassare.

Il Cibo e i vestiti indicano bisogni fondamentali. L'errore non sta ne! cercarli, quasi fossero cose secondarie, irrilevanti, per le quali non vale la pena di perdere tempo e fatica. L'errore non sta nel cercare questi beni, ma nel sopravvalutarli, quasi fossero capaci di risolvere il problema di fondo che - lo si voglia o no - è quello di trovare sicurezza e serenità in una vita che sembra tutto vanificare («tarme e ruggine distruggono»). Per liberare l'uomo dall'ansia e dall'angoscia per il cibo e il vestito e per l'accumulo, Gesù non fa leva soprattutto sul disincanto di queste cose, ma sulla fiducia nel Padre.

A questo punto del discorso si inserisce l'imperativo «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno poste davanti» (6,33). Che cosa significa «il regno di Dio e la sua giustizia?». Non è una domanda facile, ma è essenziale, perché è proprio la scelta prioritaria del Regno e della sua giustizia che determina la qualità, la misura e le forme dell'uso del mondo, che non è certo una rinuncia alle cose, ma un modo diverso di guardarle e di goderne. Il Regno non è Dio in se stesso, un Dio fermo, ma Dio in relazione con l'uomo: l'amore di Dio è a favore dell'uomo, Dio che ama l'uomo: come Dio guarda l'uomo, ogni uomo. Tutte queste espressioni si sforzano di farci comprendere il tratto più essenziale del Regno. E la sua giustizia è il modo giusto con cui Dio si comporta verso l'uomo: un comportamento che l'uomo deve, a sua volta, far proprio ed estendere agli altri. La «giustizia» nella Bibbia, e particolarmente in Matteo, ha sempre due facce: dono di Dio e compito dell'uomo, amore che discende da Dio e fraternità.

La tesi, che mi pare utile indicare subito, è che il primato del Regno non soltanto lascia spazio ad altre cose, ma è la condizione perché queste possano essere alla portata dell'uomo, di ogni uomo. Il primato del Regno crea lo spazio per il buon vivere dell'uomo nel mondo, per il buon uso dei beni. È l'idolatria che mortifica e divide. Il vero sbaglio - si badi bene - non sta nel fatto di aver bisogno di cibo, del vestito e di serenità di fronte al domani, ma nell'illusione di garantirsi tutto questo accumulando, anche invadendo lo spazio degli altri. Il primato del Regno e della sua giustizia, invece, libera l'uomo dall'ansia dell'accumulo, una libertà necessaria perché resti per tutti lo spazio per vivere.

Il primato di Dio è umanesimo. Se Gesù dice di porre il Regno al primo posto, non è per salvare il Regno, ma per salvare lo spazio della vita dell'uomo, della vita mondana in tutte le sue relazioni e le sue potenzialità, compreso il godimento delle cose stesse, per tutti.

Beati gli affamati e assetati di giustizia

Introdurre in un discorso sulla giustizia le beatitudini evan-geliche può sembrare a molti eccessivo. E invece no. La visione che sottosta alle beatitudini è altissima, ma anche profondamente umana. Può bastarci qualche cenno.

Si può leggere la beatitudine della giustizia (Mt 5,6) come rivolta a tutti gli affamati e assetati della terra, invitandoli a trasformare la loro sete in fame e sete di giustizia. E difatti Gesù non si rivolge in primo luogo ai ricchi e ai saggi, perché diano le briciole del loro superfluo agli affamati. Si rivolge direttamente agli affamati (ad ascoltarlo sono infatti le folle di malati e di bisognosi: Mt 4,23), perché trovino la forza di rizzarsi in piedi e farsi protagonisti del loro cammino. Ma se in primo luogo la beatitudine della giustizia è rivolta agli affamati è altrettanto vero che essa è rivolta anche ai sazi, impegnandoli in un discorso che richiede profonda conversione.

L'uomo delle beatitudini vive proteso in un'appassionata ricerca della volontà di Dio. La «giustizia» è la volontà di Dio, li suo disegno di salvezza, proprio quel disegno che Gesù ha solennemente dichiarato al battesimo di essere venuto a compiere; «È bene che venga compiuta ogni giustizia» (Mt 3,15). Le metafore della fame e della sete significano, poi, la totalità della ricerca di questa giustizia: una ricerca appassionata che afferra l'uomo dalla testa ai piedi, dal mattino alla sera. L'assetato desidera l'acqua con tutto se stesso, un desiderio che ridimensiona ogni altro desiderio. Così l'affamato. Beato è chi impegna tutto se stesso nella ricerca della giustizia di Dio e pone questa ricerca al di sopra di ogni altra, come abbiamo già visto.

Una breve conclusione

Possiamo arrestarci qui. Certamente esistono altre pagine neotestamentarie che toccano il nostro argomento. Ma la loro lettura non farebbe che confermare sostanzialmente quanto già abbiamo acquisito.

Mi permetto, tuttavia, di ribadire due acquisizioni che la nostra lettura della Scrittura ha continuamente incontrato in merito a questa virtù. La prima è che la giustizia è una relazione che non vive da sola, ma sempre all'interno di una visione globale dell'uomo, della società e del mondo. E la seconda è l'importanza - e la Bibbia non esita a parlare di necessità! – che assume per la comprensione della giustizia il riconoscimento del primato di Dio. Anche se va detto - con altrettanta forza che una scorretta concezione del primato di Dio porterebbe a conseguenze non meno disastrose della sua negazione.



Nessun commento:

Posta un commento