Molto si parla - forse anche troppo - della conversione del peccatore. Meno della conversione del giusto. Non basta affermare genericamente che siamo tutti peccatori e, quindi, tutti bisognosi di conversione. Ci sono modalità diverse di conversione ed è bene, a volte, esemplificarle. Nelle nostre comunità ci sono certamente anche uomini giusti, onesti, sinceri e praticanti. Che significa per loro convertirsi? Non può certo trattarsi di un semplice passaggio dalla disonestà all'onestà, ne da una pratica religiosa meno fervente a una pratica più fervente e generosa. La conversione del giusto - ed è la Parola di Dio a dircelo - è un passaggio da un modo di pensare la propria giustizia a un altro. Ciò significa un modo nuovo di pensare Dio, se stessi e gli uomini.
E una conversione che va alla radice. Non si arresta al piano morale: più praticanti, più generosi, più onesti. È una conversione profonda che raggiunge le relazioni, non soltanto le prestazioni. Un esempio. Passare dall'egoismo alla generosità è certamente un cammino di conversione, sempre importante, mai concluso. Tuttavia non è ancora l'essenza della conversione evangelica. Ne basta aumentare la generosità perché lo diventi. Occorre cambiare le relazioni. Si può dare, anche molto, ma sempre in un'ottica vecchia, al di qua della novità evangelica. Personalmente mi pare di vedere nel mondo cristiano molta generosità nell'aiutare, ma molto meno coraggio nel cambiare le relazioni. Questi cristiani sono pronti a dare molto, ma pensano: «Io sono il padrone e tu no!», «io sono cittadino e tu no!».
Per cambiare le relazioni non basta la bontà. Occorre una rigenerazione profonda della propria mentalità. È a questa conversione che il cristiano è chiamato.
Il figlio maggiore, che compare nella seconda parte della parabola del padre e dei due figli (Le 15,11-32), rappresenta molto bene la figura di un giusto fedele e praticante: «Ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando». Ma è un figlio "giusto" che rifiuta di partecipare alla gioia del padre per il ritorno del figlio minore. Il comportamento del padre gli sembra ingiusto, addirittura un torto fatto alla sua obbedienza e al suo lavoro di figlio fedele, quasi che al padre queste cose non interessassero. La gioiosa accoglienza riservata al fratello gli da l'amara sensazione che la sua fedeltà sia del tutto sprecata. Se il peccatore è trattato in quel modo, a che serve essere giusto? Chiuso nello spazio ristretto del suo modo di intendere la giustizia, questo figlio maggiore non capisce il padre, ne che il figlio ritornato è un suo fratello. La parabola indugia sul dialogo tra il padre e il figlio maggiore. È un tratto letterario che, forse, manifesta una convinzione: la conversione del giusto è, a volte, più difficile di quella del peccatore.
La nota essenziale del Dio evangelico, il tratto che maggiormente lo caratterizza, è la gratuità dell’amore. Un messaggio consolante. E tuttavia è forse la cosa a cui l'uomo comune— l'uomo giusto — oppone maggiore resistenza. Perché? Probabilmente per la sua stessa novità. C'è nell'uomo una sorta di inerzia che è difficile smuovere. La novità non si fa subito strada, ne subito riesce a collocarsi al centro, relegando sullo sfondo i vecchi schemi. E questo succede soprattutto quando la novità è teologica, cioè radicale, tale da capovolgere il modo di guardare Dio, il mondo e se stessi.
Il Vangelo conosce la sorprendente scoperta del peccatore che incontra un perdono impensato. Ma conosce anche la sorprendente scoperta del giusto che incontra un Dio che lo porta al di là delle strettoie della propria giustizia, per introdurlo nell'orizzonte ampio della bontà gratuita. Una struttura di rapporti, nella quale persino a Dio è proibito amare gratuitamente; è una gabbia in cui il giusto alle volte è tentato di rinchiudersi; ma in tal modo si chiude alla gioia profonda di condividere la gioia di Dio: quella di essere gratuitamente amato e di amare gratuitamente.
Raccontando nella lettera ai Filippesi la sua conversione, Paolo ricorre a un'espressione davvero molto bella: «Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro alla meta» (3,13-14). Protendersi verso il nuovo che Cristo dischiude, non più rivolti all'indietro, questa è stata la conversione di Paolo. Non dice che ha lasciato le cose di prima perché deluso, avendone compreso il vuoto e l'inconsistenza. Le cose di prima sono rimaste quelle che erano: hanno perso valore perché Paolo si è imbattuto in qualcosa di più grande. Il cambiamento è teologico, non morale. Anzi, la profondità del cambiamento sta proprio nel fatto di non aver lasciato una vita non religiosa, non praticante, non giusta, ma nel fatto che gli si è dischiuso un modo nuovo di rapportarsi con Dio e di intendere la propria giustizia. Non più una giustizia conquistata, ma accolta. Qui sta il capovolgimento che anche il giusto - a volte soprattutto il giusto - è chiamato a compiere. Non basta raccomandargli di osservare con più attenzione i comandamenti, ne basta raccomandargli di essere più generoso, di fare opere di bene. Bisogna aiutarlo ad affidarsi totalmente alla gratuita bontà del Signore, e da questa angolatura osservare con occhi nuovi i propri rapporti con il prossimo e con le cose.
Anche Nicodemo è un uomo giusto, e il suo modo di vedere Gesù è benevolo, ma innocuo. Lo riconosce Messia - e allo stesso modo i cristiani non esiterebbero a riconoscerlo Figlio di Dio - ma si tratta di un riconoscimento di superfìcie, anche se sincero: quale Messia? quale Figlio? Si può confessare Gesù dimenticando la novità di cui è portatore: un modo nuovo, ripetiamolo, di guardare Dio e gli uomini, tutti gli uomini.
Nicodemo è un giusto, che però deve essere «generato di nuovo e dall’alto». L'evangelista Giovanni non ricorre al verbo «convertirsi», ma al verbo «essere generato», sempre nella forma passiva. La generazione dice anzitutto la gratuità. Nessuno genera se stesso. Nel regno di Dio, come nella vita, si entra attraverso la grazia dell'amore, come un neonato, non per forza propria. La metafora della rinascita suggerisce, inoltre, la novità di ciò che avviene. Non è un passaggio dal vecchio al nuovo, ma l'apparizione di qualcosa che è totalmente nuovo. La grande rivelazione da comprendere e alla quale aderire è l'Unigenito innalzato e donato, che svela l'immenso amore di Dio per il mondo e per ogni uomo.
La Parola di Dio ci porta sempre alla stessa conclusione: è la gratuità lo spazio in cui si incontra il vero Dio, e al tempo stesso è la ragione che fa di ogni uomo, chiunque esso sia, un fratello.

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