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| Donzellino Verona |
Nel Nuovo Testamento si incontra una varietà di forme caritative. E questo è vero. Tuttavia altrettanto numerosi e fondamentali sono i tratti comuni. Il primo di questi è la costante memoria di Gesù di Nazaret. Per comprendere la carità e le sue forme i primi cristiani hanno subito guardato alle concrete e storiche modalità dell'esistenza di Gesù. Che cosa sia carità, i primi cristiani non l'hanno dedotto da concezioni già note, ma dalla singolarità dell'evento di Gesù.
Parlando di Gesù il Vangelo non si stanca mai di evidenziare la sua incondizionata accoglienza dei poveri, dei peccatori, degli stranieri, degli ammalati, del disprezzato «popolo della terra», della folla anonima che revangelista Matteo (4,24) descrive molto significativamente in questo modo: «La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed egli li guariva». Questa carità di Gesù è testimoniata da tutte le fonti, ed è certamente un tratto storico tra i più sicuri.
La prassi di carità di Gesù non si ferma alle cose e ai bisogni, ma raggiunge le persone. Per questo si può parlare di «accoglienza». I suoi gesti esprimono predilezione e amicizia, come riconoscono i suoi stessi avversari: «Ecco un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori» (Le 7,34). La carità di Gesù non soltanto aiuta e soccorre, ma fa spazio dentro di sé, solidarizza con gli uomini e si fa carico di loro. Fa festa con loro. Oltre che di accoglienza, si può parlare di «condivisione».
L'accoglienza di Gesù verso i poveri, gli stranieri, gli ammalati, i peccatori scaturisce da un'esperienza religiosa singolare, da una precisa idea di Dio. Ciò risulta particolarmente dalle parabole della misericordia (Le 15), dove Gesù fa la teologia della sua prassi di accoglienza. NelTaccoglienza di Gesù è in gioco l'idea di Dio, e la differenza di comportamento tra lui e gli scribi e i farisei che lo criticano, non è semplicemente pastorale, ma teologica. Per Gesù Dio è il Padre che non cessa di amare il figlio lontano e al suo ritorno lo accoglie prontamente. Dio è il pastore che va in cerca di chi si è smarrito. Con la sua accoglienza Gesù intende svelare questo volto del Padre, esserne la trascrizione storica e visibile: Dio ama ogni uomo, senza differenze, e dunque accogliere ogni uomo è la cosa più importante da fare.
La carità di Gesù raggiunge il cuore dell'esistenza, non solo alcuni momenti di essa. Dice un modo di esistere, un modo di pensare e gestire l'intera vita, non solo un modo di fare. Ciò appare dalla categoria evangelica di «servizio», sotto la quale Gesù riassume la sua intera vita, dall'inizio alla croce: «II Figlio dell'uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la vita in riscatto per le moltitudini» (Me 10,45).
Gesù ha guardato il mondo a partire dagli ultimi: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli: sì, o Padre, perché così è piaciuto a Tè» (Mt 11,25-26). L'espressione «sapienti e intelligenti» designa le élites religiose di Israele, rabbini e farisei, che restavano ciechi di fronte alla chiarezza delle parole di Gesù e irritati di fronte alla sua predicazione a favore dei poveri (se ne scandalizzavano). Di conseguenza, «piccolo» non si oppone ad «adulto» (e quindi non designa i bambini), ma si oppone a «sapiente» e «intelligente».
«Piccoli» sono gli uomini senza cultura, senza competenza religiosa, senza abilità dialettica, senza la parola facile. Concretamente, al tempo di Gesù erano i così detti «uomini della terra», i poveri contadini della Galilea, che i dottori della legge e i farisei tenevano in nessun conto. Nella teologia di Gesù, i piccoli sono invece al centro dell'attenzione del Padre. Perciò vedere il mondo dalla loro parte significa vederlo dall'an-golatura giusta. Partire dagli ultimi è dunque un criterio er-weneuticn indispensabile, se si vuole vedere il mondo come lo vede Dio. Va perciò capovolta l'abitudine di guardare il mondo a partire dai primi: lo si vede inevitabilmente deformato!
Accade non raramente che chi si preoccupa degli emarginati si trovi, a sua volta, emarginato, nella misura in cui la sua scelta di solidarietà non resta gesto isolato, ma si fa proposta di nuova esistenza, progetto che allarma il sistema consolidato, sociale e religioso, che se ne sente minacciato. Gesti isolati e clamorosi sono per lo più accettati da tutti, perché non intaccano il modo di pensare ne il sistema di vita: non così quando ci si incontra con un progetto che è, nel contempo, denuncia delle vere cause dell'emarginazione e proposta di nuovi valori, diciamo di nuova cultura. Qui sorge l'incomprensione, l'isolamento, perfino la condanna. La stessa comunità cristiana non sempre riesce a capire, resta sostanzialmente indifferente e a volte non accoglie ma giudica. E un'esperienza che Gesù ha vissuto.
Possiamo trarre una conclusione. La carità di Gesù è una realtà piena, che afferra l'uomo interamente nella sua persona e nei suoi gesti: è servizio, accoglienza, condivisione, universalità. Questa carità è - anche oggi, come sempre - proclamata, ma spesso retoricamente. Quando la si incontra concretamente disturba, nei suoi confronti si diventa subito critici e guardinghi. La pastorale - quella vera, quella che si vede e si fa, non che semplicemente si dice - è il test della verità della propria teologia. E da quale pastorale che si mostra quale teologia!
il primo e il secondo
Con il termine carità si intende, anzitutto, l'amore di Dio per noi, poi il nostro amore per Dio, infine l'amore tra noi. Le tre direzioni dell'amore sono strettamente congiunte. L'amore di Dio per noi è la ragione, il modello e la misura di ogni altro possibile amore. Certo, l'amore dell'uomo per Dio è la prima e più alta tensione del cuore umano. Tuttavia qui noi vogliamo dare una particolare attenzione all'amore tra noi. Lo fanno anche i testi del Nuovo Testamento.
Nella versione di Marco, Gesù risponde allo scriba affermando che l'amore a Dio e al prossimo insieme - non l'uno senza l'altro - costituiscono il comandamento più importante di tutti (12,30-31): opinione che lo stesso scriba condivide, ribadendo che si tratta del comandamento che «sta al di sopra (perissóteros) di tutti gli olocausti e i sacrifici» (12,33).
Nella versione di Matteo, Gesù spiega ancora meglio come si debba intendere la centralità dell'amore a Dio e al prossimo: «A questi due comandamenti è sospesa tutta la Legge e i Profeti» (22,40). Il verbo che l'evangelista adopera (kremdnnumi: essere sospeso) evoca l'immagine di una catena che pende sorretta dal gancio: se si staccasse dal gancio, si affloscerebbe. Così va pensato il rapporto tra il duplice comandamento e i molti precetti: il comandamento dell'amore non li riassume, ne li abolisce, ne li sostituisce, ne li sminuisce nella loro importanza. Semplicemente - e più profondamente - li sorregge, dando loro consistenza, senso e direzione.
Ma dopo aver visto che insieme - mai l'una senza l'altra! -le due direzioni dell'amore costituiscono il centro della Legge, occorre osservarle più da vicino nel loro reciproco e interno rapporto: una tensione complessa e sottile che dice al tempo stesso la somiglianzà e la differenza, l'unità e la distinzione. Le due direzioni dell'amore sono strettamente congiunte, inseparabili, ma non sovrapponibili. Infatti, si parla pur sempre di un «primo» e di un «secondo», e di una diversa misura: «con tutte le forze» l'amore verso Dio, «come te stesso» l'amore verso il prossimo. Dunque la compattezza che caratterizza il duplice comandamento nei confronti degli altri precetti, non sopprime la sua interna articolazione. Non si può esaltare l'amore per il prossimo al punto da far scomparire la sua differenza con l'amore per Dio: anche nell’amore Dio resta Dio e il prossimo resta il prossimo.
Diversa la misura dell'amore per Dio e dell'amore per il prossimo, ma non la natura profonda. L'uomo non possiede due modi per amare, ma uno. Il verbo agapan è il medesimo, sia che si tratti dell'amore per Dio sia che si tratti dell'amore per il prossimo. Agapan non è riducibile all'obbedienza (se si tratta di Dio) ne al servizio (se si tratta del prossimo). Esprime in ogni caso slancio, sentimento, dedizione, legame: amore, appunto.
LA CARITÀ DEI PRIMI CRISTIANI
La comunità di Gerusalemme
La prassi di Gesù continua - secondo il racconto degli Atti - nella prassi dei primi cristiani. Descrivendo la prima comunità, Luca due volte precisa che i cristiani «avevano tutto in comune» (2,44 ; 4,3 2 ) e che «vendevano le loro proprietà» (2,45 ;
4,34-35). I beni messi in comune venivano poi distribuiti «a ciascuno secondo le sue necessità» (4,35).
La motivazione che spinge questi primi cristiani a mettere in comune i loro beni non è una preoccupazione ascetica, ne una visione pessimistica del mondo, ne una mistica della povertà, ma la fede nell'unico Padre, la comune appartenenza al Signore, la convinzione di essere figli dello stesso Dio. Ciò che spinge i primi cristiani è, dunque, una teologia. Non a caso i passi parlano di «credenti» (At 4,32) e suppongono un diretto riferimento al dono dello Spirito e alla conversione. Si tratta di una fraternità che l'uomo non scopre guardando in se stesso, ne semplicemente guardando l'altro. È una parentela che ha la sua radice in alto, in un dono che solo l'evento di Gesù è riuscito pienamente a svelare. La responsabilità verso l'altro va collocata nell'orizzonte del dono, di un dono che precede sia chi da sia chi riceve.
L'ideale perseguito non era, dunque, la povertà, ma la condivisione, cosicché «nessuno fosse tra loro bisognoso» (At 4,34). Luca dice che «erano un cuor solo e un'anima sola» (At 4,32), espressione, questa, fondamentale per capire le due facce inseparabili della solidarietà cristiana, che è insieme intcriore ed esteriore, coinvolge l'anima e il corpo. La sua radice è nel cuore dell'uomo. «Cuore e anima» dice la totalità e designa il centro della persona. Potremmo parafrasare così: tutta la persona - a partire dal suo centro e dalle sue radici - deve protendersi nella fraternità.
La prassi caritativa della prima comunità cristiana si è dapprima manifestata in forme spontanee: ciascuno distribuiva i suoi beni al fratello che ne aveva bisogno. Ma ben presto si è solidificata in forme organizzative e istituzionali. In At 6 si parla, infatti, di una distribuzione quotidiana per le vedove.
Questa attenzione ai fratelli bisognosi non era un gesto isolato, ma rientrava in una solidarietà più generale: scaturiva dalla decisione di vivere da fratelli. L'attenzione ai poveri era parte di una solidarietà che abbracciava Finterà esistenza; descritta ampiamente nei primi capitoli degli Atti, non era una prerogativa di Gerusalemme, ma una costante di tutte le comunità. Infatti le giovani comunità del mondo pagano si ricorderanno dei poveri di Gerusalemme (At 11,29-30) e Paolo dirà ai presbiteri di Efeso (At 20,35): «In ogni occasione vi ho mostrato che, così lavorando occorre prendersi cura dei deboli e ricordarsi della parola di Gesù che disse: "È più bello dare che ricevere ».
Più grande è la carità
Nelle sue lettere Paolo ricorda frequentemente il tema della carità. Capiva che le sue comunità ne avevano bisogno. Egli è un grande missionario e sa che l'amore evangelico è per sua natura universale. Tuttavia - e può sorprendere - la sua attenzione è prevalentemente diretta all'amore intracomunitario, tra fratelli nella fede (Gai 6,10). Il testo paolino che maggiormente si presta al nostro scopo è senza dubbio l'inno della carità che si legge nella Prima lettera ai Corinti. Inserito tra una discussione sui carismi (e. 12) e un richiamo ad alcune norme per l'ordinato svolgimento dell'assemblea della Parola (e. 14), l'inno alla carità (e. 13) mostra subito le sue intenzioni: rivolgersi ai mèmbri della comunità per ricondurli ali'essenza della vita cristiana, a ciò che veramente conta, e incamminarli sulla strada della vera ricerca di Dio: «Vi mostrerò una strada migliore di tutte» (12,31).
L'inno alla carità si divide in tré strofe. Nella prima (13,1-3) Paolo dice ciò che si può essere, si può avere e si può fare, senza tuttavia contare nulla. Allude a tré figure di cristiani: chi possiede il dono delle lingue, e tuttavia non comunica nulla; chi conosce, profetizza e fa miracoli e tuttavia non è nulla; chi è tutto generosità, generosità senza limiti, e tuttavia non è niente. Queste tré figure di cristiano non concludono nulla, perché manca loro la carità. Ma che cos'è allora la carità?
Nella seconda strofa (13,4-7) entra in scena l'uomo della carità o, meglio, la stessa carità personificata. Per delinearne la figura, Paolo utilizza soltanto verbi, non aggettivi. Il suo interesse non è l'essenza della carità, ma le sue manifestazioni che ne testimoniano la presenza e ne delineano il volto. Sono tutti verbi attivi, che tuttavia non si preoccupano di che cosa fare e a chi farlo, bensì di come porsi di fronte ali'altro. Sono tutti verbi che esprimono relazione. La carità non si identifica con le azioni che si compiono, ma è qualcosa che le precede, le suscita e le accompagna. La carità sembra qualificare la persona che agisce più che la sua azione. Tra le due strofe la contrapposizione è nettissima. Ma non si tratta, come spesso si dice, delia contrapposizione che corre tra l'eccezionalità e la quotidianità, tra il clamore e la semplicità, ancor meno tra il dire e il fare. È più profonda, più alla radice: è tra l'agire, l'avere, il dare da una parte, e un modo di relazionarsi da!T altra.
Anche la terza strofa (13,8-13) è attraversata da una opposizione, che però ci pone su un'altra dimensione: tra la ricerca di ciò che passa (le manifestazioni dello Spirito che i Corinti tanto cercavano) e di ciò che rimane; tra il cristiano bambino
(quello che si affida a certi carismi) e il cristiano adulto e maturo; tra rincontro confuso, imperfetto con Dio (cercato nei prodigi e in tutto ciò che appare straordinario) e il vero incontro che in qualche modo già anticipa la «visione» di Dio. Una comunità matura non si lascia distrarre da altre cose, ma punta diritta alla carità, precisamente alla carità così semplice, così quotidiana, descritta nella seconda strofa. Per Paolo le manifestazioni dello Spirito, di fronte alle quali i Corinti tanto si esaltavano, non sono delle vere irruzioni dell'eterno nell'oggi. L'eterno è apparso sulla croce e continua ad apparire nella predicazione della croce. I doni dello Spirito, che tanto piacevano ai Corinti, sono delle manifestazioni transitorie. Tutte passeranno con questo mondo. Paolo oppone ciò che passa a ciò che resta: la fede, la speranza, la carità. Ma l'epifania più profonda di Dio, esperienza che meglio anticipa già oggi il futuro, è quella dell'amore. Si può anche andare oltre: la carità non soltanto segna la differenza tra ciò che passerà con questo mondo e ciò che invece rimarrà anche nell'altro mondo, ma segna anche la differenza - già ora - tra un modo confuso e infantile di cercare Dio e un modo adulto e fermo di cercarlo. Il cammino della maturità cristiana punta in direzione della carità.
Nessuno ha mai visto Dio
Un passo particolarmente importante per comprendere la carità cristiana si trova nella Prima lettera di Giovanni (4,7-16). Si tratta di un passo certamente complesso: è attraversato da intrecci molteplici, sottili e non sempre facilmente afferrabili. Ma per il nostro scopo basta accennare sinteticamente a quattro motivi. Il primo è la ripetuta sovrapposizione tra l'amarsi scambievolmente e il rimanere in Dio. Se cade il primo scompare completamente anche il secondo. L'amore reciproco è la verità del rimanere in Dio. Il secondo motivo, anch'esso ribadito lungo tutto il passo, è il legame - e anche qui si potrebbe parlare di sovrapposizione - tra l'amore fraterno e la conoscenza di Dio. Dio è amore ed è unicamente nella serietà e nella concretezza della fraternità che si fa esperienza di lui. E una regola che non ammette eccezioni: «Chi non ama non ha conosciuto Dio» (4,8). Il terzo motivo è il forte radicamento dell'esperienza cristiana, di ogni esperienza cristiana, nell'evento di Gesù. È qui che si è manifestato l'amore, l'amore nella sua piena trasparenza e nella sua efficacia. È soltanto guardando Gesù Cristo, icona dell'amore di Dio per noi, che comprendiamo la ragione, la natura e lo spessore dell'amore tra noi. Il quarto motivo, forse il più importante di tutti, è la ferma risposta che viene data a ogni pretesa di vedere Dio: «Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo reciprocamente, Dio rimane in noi» (4,12). Il verbo al tempo perfetto dice che la visione diretta di Dio non è data a nessuno, ne ieri ne oggi. L'unico spazio in cui fare esperienza di Dio è l'amore reciproco, la comunione tra noi: l'amore reciproco non è la visione, tuttavia è un'autentica e obiettiva esperienza di Dio, un'autentica e obiettiva comunione con Dio.
La comunità di Giacomo: fede e carità
Giacomo scrive la sua lettera nel tentativo di sottrarre le sue comunità al facile rischio di una fede ricca di parole e di dottrina, ma povera di gesti concreti, corporali, di carità. Egli avverte acutamente una situazione di pericolo, quella di un cristianesimo in cui va persa la serietà morale, a tutto vantaggio delle discussioni verbali e dei troppi documenti. Per questo egli ricorda subito che la religione «pura e senza macchia davanti a Dio» risulta di sentimento sociale e di distanza dal mondo: «Fare visita agli orfani e alle vedove nella loro afflizione, custodirsi puri dal mondo» (1,27). Orfani e vedove rappresentano l'essere indifeso e impotente: persone che soffrono per miseria e ingiusta oppressione. Giacomo è un uomo pratico e va dritto allo scopo; se incontrate un fratello o una sorella nudi e senza cibo, e qualcuno dicesse loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi, e non desse loro ciò che è necessario per il corpo, che cosa gioverebbe? Così anche la fede, se non ha le opere, è del tutto morta» (2,16-17). Un ricco che di fronte a un povero affamato e infreddolito, si limitasse a parole di augurio, compirebbe un gesto del tutto inutile e insincero. Così la fede senza le opere è inutile e insincera. Non semplicemente imperfetta, o manchevole, ma morta, inerte come un cadavere. Non si può neppure più parlare di fede. Non è un caso che tra le possibili opere che incarnano la fede, Giacomo abbia scelto un'opera di misericordia. Le opere della fede sono le opere del-l'amore; in esse si realizza, cioè diventa vera, e non altrimenti. Una fede che non si esprime nelle opere di misericordia è illusione. Soltanto dalle opere si è certi della sua presenza. Giacomo sa benissimo che la fede è abbandono fiducioso in Dio e che deve farsi proclamazione pubblica, ma è convinto che fiducia e proclamazione siano soltanto un abbozzo: diventano fede vera, reale, quando si traducono in opere. «Mostrami la tua fede», egli dice non senza qualche ironia (2,18). Mostrami, cioè fai vedere, porta allo scoperto. La fede non è soltanto qualcosa da pensare, ne solo da dire e proclamare, ma da mostrare: deve diventare visibile.
Ancora più vivace, se possibile, il quadro che Giacomo traccia in 2,1-6. Un passo da leggere per intero. Entra nell'assemblea un ricco ben vestito e lo si invita a sedere, entra un povero col vestito logoro e lo si lascia in fondo, in piedi. Sembra una parabola. Le comunità di Giacomo .sono in maggioranza composte da poveri e umili. Ma non mancano alcuni ricchi e nobili. E si fanno distinzioni! Mettere al centro i ricchi trascurando i poveri significa porsi in netta antitesi con il comportamento di Dio e l’esempio di Gesù: «Dio non ha forse scelto i poveri secondo il mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del Regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero». Assumere comportamenti diversi nei confronti dei ricchi e dei poveri è una tentazione facile, se si pensa che non soltanto i ricchi, a volte, pretendono un trattamento privilegiato, ma sono gli stessi poveri spesso a concederlo spontaneamente. Mi sembra che questa seconda sia la prospettiva di Giacomo. Non si rivolge, infatti, al ricco perché non pretenda un'accoglienza diversa, ma si rivolge ali'assemblea perché non faccia discriminazioni. Che simili discriminazioni avvengano nei rapporti sociali è già cosa grave, ma che avvengano persino nella celebrazione liturgica è ancora peggio!
L'intento di Giacomo è di scuotere la coscienza degli ascoltatori, che forse vivono simili atteggiamenti senza darvi peso. E invece non sono cose da poco. Giacomo non esita a definire coloro che ragionano e si comportano in questo modo come «arbitri corrotti», «giudici dai giudizi perversi». Una tale comunità è del tutto mondana. Le discriminazioni sono il segno e il frutto di una mentalità malata. È dal modo concreto con cui si trattano i poveri e i ricchi, persino da atteggiamenti apparentemente insignificanti - come quando trattieni i primi sulla porta e fai accomodare i secondi in sala - che si comprende se sei evangelico o mondano.
VERITÀ E CARITÀ
Una preoccupazione e una convinzione
Non è raro oggi sentire e leggere, non senza qualche punta polemica, che «la prima carità è la verità». E questo è certamente giusto. Ma è anche altrettanto facile sentire e leggere che la carità è oggi l'unica parola che l'uomo è ancora disposto ad ascoltare, l'unica parola credibile e convincente. E anche questo è vero. Già la ragionevolezza di ambedue le affermazioni, che a prima vista sembrerebbero elidersi, suggerisce che il rapporto verità/carità è probabilmente circolare, e non si lascia catturare dentro categorie che dicono semplicemente il prima e il dopo. Ma anche ci avverte che occorre precisare quale verità e quale carità.
Chi sottolinea che «la prima carità è la verità», è probabilmente mosso dalla preoccupazione che il cristianesimo non si riduca a un semplice operare caritativo, a un fare generoso ma al tempo stesso confuso, quasi incurante della necessità di idee ferme su Dio, l'uomo e la morale. Chi invece sottolinea che la carità è l'unica cosa che conta, è probabilmente mosso dalla preoccupazione di superare un cristianesimo di idee, di verità astrattamente enunciate e proclamate, di molte parole, sottolineando che il grande male di oggi non è l'esagera2Ìone della carità, o la confusione della carità, ma l'indifferenza, una sorta di inerzia che solo la forza della carità sembra ancora in grado di smuovere. E importante capire che verità e amore in qualche modo si sovrappongono. All'uomo non basta essere ama-
to, ne gli basta amare. Non ha bisogno solo di amore, ma di senso: un senso che si può trovare soltanto nell'amore di Dio, non semplicemente nell'amore dell'uomo. Per questo carità e verità sono inseparabili.
Per questo non si potrà mai mettere tra parentesi la Parola che racconta - che racconta l'evento di Gesù Cristo! - ne la questione della verità, neppure per far posto alla carità. Ma è anche chiaro che «dire la verità del Vangelo» non è semplicemente elencare con esattezza e completezza un blocco di conoscenze, anche se l'esattezza e la completezza sono essenziali. Il Vangelo mostra la sua verità proprio nella carità. La carità è il centro del Vangelo, non semplicemente una sua necessaria conseguenza pratica, ne semplicemente la prova che lo rende credibile. Dunque, la carità è il centro dell'annuncio ed è segno della sua credibilità: la carità è tutte e due le cose simultaneamente. Ed è il segno della credibilità del Vangelo non perché vi aggiunge qualcosa dall'esterno, ma perché lo lascia, per così dire, trasparire, visibilizzandolo, quasi facendolo toccare con mano. La carità è la lieta notizia. E questo un pensiero a cui siamo poco abituati.
Parola e pane
Alle folle che lo accerchiano da ogni parte Gesù dona la sua Parola, «spiegando loro le molte cose» (Me 6,34). E questo rimane ancora oggi il compito primario della Chiesa che, sull'e-sempio del suo Maestro, è chiamata a compiere l'annuncio del Vangelo come primo e fondamentale atto di carità verso l'uomo.
Ma poi Gesù, per le stesse folle, moltiplica i pani, ordinando ai suoi discepoli di distribuirli: «Date voi loro da mangiare». Così il compito della Chiesa è contemporaneamente il dono della Parola e del pane. Ma quale il rapporto tra i due doni? Un semplice accostamento dovuto al fatto che l'uomo ha bisogno sia di verità sia di amore, o qualcosa di più? In altre parole, il le-
game tra verità e carità avviene nelTuomo che di ambedue ha bisogno, o è già nell'origine, nella natura stessa del Vangelo, nella persona di Gesù, in Dio? Riferendosi al discorso del capitolo 6 di Giovanni, si può comprendere che «il pane della Parola di Dio e il pane della carità non sono pani diversi: sono la persona stessa di Gesù che si dona agli uomini». Anzitutto si può osservare che, mentre nel racconto di Marco Gesù prima dona la Parola e poi il pane, nel racconto di Giovanni, invece. Gesù prima sfama le folle e poi rivolge loro un discorso. Dunque non si può concludere: prima la Parola e poi, solo poi, la carità. Se mi è permesso, oserei dire che il rapporto Parola e carità non si riconduce a un prima e a un dopo. La Parola - così almeno nel passo giovanneo - spiega il gesto, non perché vi aggiunge qualcosa che non c'è, ma perché ne rivela il senso profondo, un senso che si coglie soltanto ponendo il gesto della carità in collegamento con l'evento e la persona di Gesù. E in questo spazio che si può giustamente parlare del primato della Parola. Se la Parola può rivendicare una priorità non è perché è qualcosa di più ampio della carità, ma perché è la "spiegazione" della carità.
Il primato dell’annuncio della verità non deve perciò intendersi come un primato che lascia sì spazio a una carità necessaria, doverosa, ma pur sempre aggiunta, una sorta di prolungamento dell'annuncio e dunque, alla fine, qualcosa di secondario. In realtà è il contrario: è proprio nel primato dell'annuncio che si fonda la centralità della carità.
Affermare il primato dell'annuncio significa, infatti, affermare il primato dell'evento di Gesù Cristo, non di altro. Nel-l'eventO di Gesù la carità trova il suo insostituibile fondamento, che la trasfigura, dandole una forma e una forza capaci di "rinviare". Non riconoscendo il primato dell'evento di Gesù, o anche solo lasciandolo in ombra, la carità cristiana perderebbe ogni forza rinviante, e non sarebbe più la traccia dell'amore di Dio, e così perderebbe ogni possibilità di essere "Vangelo".
La carità del Crocifisso
II Vangelo della carità è soprattutto da leggere nella contemplazione della croce. La carità, che veramente può dirsi Vangelo, è la carità di Dio apparsa sulla croce, non la nostra. Di questa divina e sorprendente carità, l'esperienza cristiana è chiamata a farsi figura, traccia visibile, parola tra gli uomini, trasparenza. Quest'ultima metafora va compresa nel suo duplice significato di pienezza e di rinvio. La carità della comunità cristiana è Vangelo, unicamente se rinvia senza ombre, senza porsi in mezzo, all'amore di Dio apparso sulla croce di Cristo. Nessun nostro impegno basta a manifestare l'amore di Dio, che supera ogni attesa e ogni desiderio. E dunque necessario esplicitamente "rinviare". Come Gesù, in ogni suo gesto, è stato la trasparenza del Padre, allo stesso modo la Chiesa, nelle molteplici forme del suo servizio, deve rivelare il volto di Dio, non anzitutto se stessa.
Ma perché tutto questo sia vero, occorre che la comunità cristiana comprenda che sulla croce di Cristo non soltanto è apparsa la pienezza della carità, ma si è anche fatta chiara la via che occorre percorrere per manifestarla. La prima faccia della croce è la manifestazione dell'amore gratuito, donato e libero di Dio. Ma la seconda faccia è la sconfitta, o l'apparente inutilità, di questo stesso amore. La croce è l'icona di un amore donato, ma è anche l'icona di un amore tradito, inchiodato, rifiutato, non capito: «Ha salvato altri, non può salvare se stesso».
La carità è la «bellezza» che più di ogni altra cosa incanta l'uomo, la traccia più visibile e convincente di Dio. Ma al tem pò stesso è anche, o sembra, la realtà più fragile; affascinante ma improduttiva; troppo spesso nella storia appare meno torte della violenza, della stretta e inesorabile giustizia, dello stesso egoismo, persino della menzogna. Sono le due iacee della croce: la forza rivelatrice dell'amore e la sua sconfìtta che sembra inesorabilmente smentire la verità della sua rivelazione.
Non si comprende la carità senza la fede nella risurrezione. Ma c'è chi vorrebbe che la forza vittoriosa dell'amore apparisse prima della risurrezione. E qui trova spazio la più grande tentazione, di cui abbiamo già parlato: quella di ricorrere a vie diverse da quelle della croce per mostrare che la verità e la carità di Dio sono sempre vincenti. Ma in questo caso la verità e la carità non sono più rinvianti, non sono più trasparenti, e di conseguenza non sono più "Vangelo".
Letta alla luce del Vangelo e della croce resistenza di Gesù appare caratterizzata dal "dono totale di sé". Un'esistenza in dono, questa è l'identità di Gesù. Conducendo un'esistenza in dono, Gesù non soltanto ha amato gli uomini, ma ha rivelato il volto del Padre. Non soltanto ha amato gli uomini, ma ha loro rivelato la verità, che è appunto l'amore di Dio. Rivelare Dio e donarsi per gli uomini non sono state per Gesù due cose diverse, due compiti, ma una sola cosa, un solo compito. In Gesù la verità e la carità si sovrappongono.
Celebrando l'eucaristia - per esempio - la Chiesa rinnova la memoria della vita del Signore, una vita in dono, e qui trova la forza e la dirczione per entrare con tutta se stessa nella logica del dono. Ma il rapporto «memoria» e «carità» può anche essere, in un certo senso, correttamente rovesciato, intravedendo in tal modo che il nesso è ancora più intimo. E vivendo la logica del dono di sé che la Chiesa fa memoria del Signore. La nostra carità è la memoria, oggi, del Signore.
Se questo è vero, allora per verificare la propria fedeltà o, al contrario, per avvertire le proprie contraddizioni, la comunità cristiana deve misurarsi sul criterio "eucaristico" del dono di sé. E questo, infatti, il tratto che identifica sempre il Signore Gesù: il Crocifisso come il Signore risorto, il Gesù storico come il Cristo glorioso presente ora nella Chiesa con il suo Spirito.
Per "discernere" - come dice Paolo (ICor 11) - il Corpo del Signore non è sufficiente celebrare nel pane e nel vino la realtà della presenza del Signore, ma occorre celebrare un tipo di presenza, un'esistenza in dono. Dire che Dio è qui, in mezzo a noi, non è tutta la fede cristiana. La novità del Dio di Gesù Cristo è il dono di sé. Non comprende l'eucaristia, ne la novità cristiana, chi non comprende la carità.
LE NOTE DELLA CARITÀ
Pubblicità e trasparenza
La prima nota della vera carità è la trasparenza. Vangelo, infatti, è la carità di Dio, non la nostra. Il nostro amore è "Vangelo" a patto che lasci trasparire l'amore di Dio. Perché gli uomini - lo sappiano o no - cercano l'amore di Dio, non semplicemente il nostro. Il nostro è troppo piccolo, veramente poca cosa nei confronti dell'amore di Dio che si è manifestato sulla croce di Gesù. Anche il nostro amore verso i fratelli può però diventare grande - Vangelo, appunto -, ma solo se ci si mette da parte per attirare l'attenzione su Dio, non su noi stessi. È questa la trasparenza che trasforma la carità - la nostra carità - in Vangelo. La semplice solidarietà è nobilissima, ma non è ancora annuncio del Vangelo, non è ancora missione. Lo diventa quando si fa segno della carità di Dio.
L'evangelista Matteo conclude le beatitudini con una frase che chiarisce molto bene il discorso che stiamo facendo: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (5,16). Matteo teme che il cristiano si nasconda, perciò ricorda che la luce è fatta per farsi vedere: «Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio». La luce è fatta per brillare e, allo stesso modo, il Vangelo è fatto per essere annunciato pubblicamente. «Davanti agli uomini», dice la pubblicità e l'universalità. Ho usato il termine "Vangelo", ma in realtà Matteo dice «le vostre opere buone». Per l'evangelista le opere buone - che devono brillare - sono le opere della carità, come è chiarito nel grande affresco del giudizio: mi avete sfamato, vestito, visitato, accolto (25,31-46). Queste opere sono «nostre», ma devono farsi trasparenti tanto che chi le vede non rende gloria a noi, ma al Padre. È così che la carità - anche la più semplice e quotidiana carità - diventa annuncio del Vangelo.
Concretezza
Una seconda nota, necessaria per trasformare la nostra carità in Vangelo, cioè in uno specchio dell'amore di Dìo, è la concretezza. L'amore di Dio non sopporta di restare semplice intenzione, o parola, ma si fa sempre gesto e opera, storia, qualcosa che si tocca e si vede. Ma la concretezza della carità di Dio non si arresta qui. La carità di Dio raggiunge la persona nella sua singolarità, nel suo nucleo profondo, oltre i suoi bisogni. La concretezza dell’amore di Dio non è il semplice aiuto, ma l'accoglienza. La differenza è grande: l'aiuto raggiunge i bisogni dell'uomo, l'accoglienza raggiunge la persona. Così fu la carità di Gesù, specchio trasparente di quella di Dio. Al peccatore e all'ammalato Gesù non ha offerto soltanto il perdono o la salute, ma vicinanza. E difatti non ha guarito il lebbroso a distanza, ma lo ha toccato. E non soltanto ha perdonato i peccatori, ma ha mangiato con loro. Non ha mai offerto denaro, ma sempre ha offerto accoglienza. Se porgi un pezzo di pane, sulla porta di casa. a un povero che ha fame, lo hai forse aiutato, ma non l'hai accolto. Se invece lo fai entrare in casa, lo accogli. Di fronte al bisognoso non devi fermarti all'aiuto: devi farlo entrare nella tua vita, dargli spazio nella tua casa, nella tua comunità, nella tua mente. Questa è la differenza tra l'aiuto e l'amore. Solo il secondo è annuncio di Vangelo.
Gratuità
La terza nota della carità è la gratuità e l'eccedenza. Chi osserva il Crocifìsso assiste allo spettacolo di un amore tanto gratuito e sconfinato da apparire incredibile. La gratuità è al centro della croce ed è il segno più rivelatore dell'amore di Dio. Perciò la Chiesa e il cristiano, se vogliono ridisegnare la figura dell'amore di Dio apparso in Gesù, devono improntare alla gratuità tutte le loro forme di servizio all'uomo. La verità dell'impegno cristiano per l'uomo è la gratuità, e molti sono i modi che la manifestano: l'universalità, la predilezione per gli ultimi, il primato della verità in ogni situazione.
Ma ciò che maggiormente colpisce nella carità di Dio manifestatasi sulla croce è la sua eccedenza. La carità di Dio, che ha preso figura in Gesù Cristo, non è misurata sul bisogno dell'uomo, ma sulla ricchezza straordinaria della generosità di Dio. E molto più grande dei bisogni dell'uomo. Di qui il coraggio di saper offrire agli uomini un dono (e una notizia) che va oltre le loro richieste. È guardando Dio che la Chiesa apprende come servire l'uomo.
La gratuità della carità («come io ho amato voi») è il segreto della sua forza: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,3). L'amore gratuito è una categoria che come poche altre sa unire due co-S£ Che alle Volte noi mettiamo in contrasto: l'identità e il dialogo. La carità è il cuore dello spettacolo della croce, e dunque è il cuore deU'identità cristiana. Ma la carità è anche un'esperienza che ogni uomo in qualche modo comprende, che ogni uomo in qualche modo può condividere, sia pure a livelli diversi. Posti di fronte all'amore, all'amore gratuito e universale, tutti gli uomini comprendono che esso è verità, la verità di Dio e dell'uomo.
Voglio insistere. La categoria chiave, emergente da tutto quanto ho detto, è la gratuità. È questa una categoria teologica e antropologica insieme. Va proclamata, mostrata, attualizzata. E la sfida, è la misura. Non è soltanto categoria religiosa, profetica, personale: è l'architrave di ogni discorso sulle relazioni comunitarie, persino di ogni discorso sulla solidarietà sociale. Si intuisce che richiede un coraggioso capovolgimento culturale. Nessun timore: la gratuità non è mai a scapito della giustizia o della reciprocità nelle relazioni, ma è il fondamento che le sorregge. E la prima educazione alla gratuità è l'apertura alla gioiosa accoglienza della gratuità di Dio, paradossalmente più difficile dell'accettazione della sua giustizia. Soltanto chi ha incontrato un Dio che è gratuità, è in grado di aprirsi a sua volta alla gratuità verso i fratelli. Chi sbaglia la concezione di Dio, immaginando un Dio rinchiuso nelle strettoie della rigorosa giustizia del tanto/quanto, non sarà mai un uomo di gratuità, ma sempre soltanto un difensore della stretta giustizia. Questo uomo però non ha compreso il Vangelo.
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