Il mio intento è di spiegare la parola «castità» inserendola - ed è una scelta che ritengo giusta - nella beatitudine dei puri di cuore. Per essere compresa, la castità va inserita nel centro del Vangelo, e non perché sia una parte di questo Vangelo, ma perché è una modalità che lo esprime tutto, una finestra che permette di scorgere l'intero panorama. Ridotta a un particolare, la castità perde il suo senso, il suo fascino e la sua forza.
La castità non è una virtù che ha unicamente attinenza con la pratica sessuale, ma coinvolge la persona intera, e ne esprime la visione globale della vita. La castità non soltanto lascia trasparire la verità della sessualità (e non invece il suo rifiuto o la sua paura), ma la verità dell'amore di Dio e dell'uomo.
Per questo la castità aderisce alla persona e l'accompagna in tutte le situazioni in cui questa è chiamata a vivere. Certo, la castità assume differenti modalità nei diversi stati di vita; nell'adolescenza e nell'età matura, nel fidanzamento e nel matrimonio, nella vedovanza, nell'eventualità di un matrimonio che conosce la separazione, nella scelta della verginità. Modalità diverse, anche profondamente diverse, ma sempre espressive della medesima logica. La castità è una virtù che tocca la struttura dell'uomo, non semplicemente lo stato in cui vive.
La parola «castità» dice subito e bene l'austerità e il dominio di sé. Ma questa è solo una faccia della castità: una faccia essenziale, da non tacere, tanto essenziale che senza di essa la castità non si regge. Ma non è l'unica faccia, ne quella che da sola manifesta la novità evangelica.
Il dominio di sé che la castità richiede non è certamente quel modo di considerarsi padrone di se stesso che da poi diritto a fare ciò che si vuole. Ma non è nemmeno quella nobile e austera padronanza di sé che si sforza di dominare le proprie passioni prendendole in pugno, padroneggiandole. Il dominio di sé evangelico è capovolto: non sta nel farsi padrone, ma nel consegnarsi. Il dono di sé evangelico è fare spazio - dentro se stessi - alla signoria di Cristo.
Questa concezione evangelica del dominio di sé - ma potremmo anche dire dell'ascesi, della penitenza, della mortificazione - è una profonda novità, e segna la differenza tra il Vangelo e il mondo.
Beati i puri di cuore
Abbiamo scelto di leggere la castità all'interno della beatitudine dei puri di cuore (Mt 5,8), ma la beatitudine dei puri di cuore deve, a sua volta, essere compresa alla luce di tutte le altre. Le beatitudini di Matteo sono otto, ma delineano tutte insieme una sola figura spirituale. E questa figura è Gesù. L'uomo delle beatitudini non è anzitutto il discepolo, ma Gesù. Le beatitudini, di conseguenza, acquistano senso, concretezza e spessore unicamente se vengono collocate dentro l'intera vita di Gesù, il cui punto di massima espressività è la croce. E devono essere lette tenendo fermo un dato antropologico biblico di fondamentale importanza, cioè l'unità dell'uomo: un dato, questo, che non va circoscritto a una cultura particolare, nel nostro caso la cultura semitica, perché è all'interno dell'evento stesso di Gesù Cristo.
Accettare l'unità dell'uomo significa comprendere che l'uomo è chiamato a vivere in una sola linea, corpo e anima. E significa comprendere che le manifestazioni del corpo rinviano alla persona, manifestandola, esattamente come quelle manifestazioni che noi diciamo «spirituali». La castità trova spazio e senso in una concezione antropologica che valorizza il corpo, non in una antropologia che, invece, considera il corpo e le sue manifestazioni come una parte inferiore, o esterna, alla vera realtà dell'uomo.
Ma torniamo alla beatitudine dei puri di cuore. Biblicamente il cuore dice il nucleo intimo e unificante della persona. Non soltanto slancio e amore, ma anche ragione, pensiero e intelligenza. La castità è un preciso modo di vivere tutte queste cose: i sentimenti come i pensieri, l'amore come l'intelligenza. Unita al «cuore» - che, come sto dicendo, non è un generico richiamo all'interiorità, ma un coinvolgimento di tutta la persona - la purezza esprime anzitutto la totalità dell'appartenenza a Dio. Puro di cuore è chi a Dio non nasconde nulla, ma gli consente di entrare in tutti gli angoli della sua persona e in tutti i settori della sua vita. Il contrario del puro di cuore è l'uomo doppio, diviso: alcune cose a Dio, alcune cose a se stesso. Il puro di cuore è chi vive una sola appartenenza (e per questo è libero da tutte le altre ! ); il contrario del puro di cuore è chi vuole spartirla con diversi padroni (Mt 6,24).
Oltre che per la totalità dell'appartenenza a un solo Padrone, la purezza di cuore si qualifica per la totalità della ricerca di Dio. Al di sopra di ogni altra cosa, con tutto se stesso, il puro di cuore cerca il regno di Dio e la sua giustizia (Mt 6,33). Può essere impegnato in molti lavori, può persino essere indaffarato, tuttavia il puro di cuore è al tempo stesso immobile, fermo, fìsso al centro, interamente proteso in una sola direzione. Il contrario del puro di cuore è l'uomo frantumato, disperso, incapace di vivere secondo un'unica logica.
Ma nella totalità dell'appartenenza e nella concentrazione della ricerca - che sono le due prime note della purezza di cuore - è necessariamente inclusa la definitività. Nella totalità e nella concentrazione è incluso il "per sempre". Il puro di cuore si dona al Signore tutto e per sempre, e imbocca con tutto se stesso una strada che egli considera definitiva. Il contrario del puro di cuore, invece, è l'uomo che, qualsiasi scelta faccia, mantiene sempre alle spalle un'uscita di sicurezza.
Il puro di cuore, infine, si distingue per la sua trasparenza. Egli lascia trasparire se stesso, senza finzioni. Il contrario è l'ipocrita, l'uomo mascherato, prigioniero di sé, che si nasconde perché pauroso di comunicare, di esporsi e di donarsi. Bisogna precisare, però, che la trasparenza del puro di cuore non si arresta qui. Infatti il puro di cuore non soltanto lascia trasparire se stesso, senza finzioni, ma si rende disponibile a farsi trasparenza dell'amore di Dio. È proprio qui che l'appartenenza al Signore trova la sua più alta espressione. Non basta cercare Dio appassionatamente, al di sopra di ogni altro interesse, ma occorre lasciarlo trasparire da tutto se stesso: da ogni gesto, da ogni parola, da ogni scelta. Il puro di cuore è tanto trasparente che non ferma l’attenzione su di sé, ma rinvia a Dio, come quando l’acqua di un ruscello è così limpida che se ne vede il fondo. E questo perché la verità che egli dice non è sua, ma di Dio. E l'amore che egli manifesta non è suo, ma di Dio.
Come assicura la beatitudine, la totalità, la concentrazione, la profondità e la trasparenza rendono il puro di cuore capace di «vedere» Dio: la pienezza del suo volto nel futuro, e le sue tracce - che molti non vedono, ma che il puro di cuore sa vedere dovunque, anche quando sembrano cancellate - nel presente.
La gratuità dell'amore
La beatitudine dei puri di cuore, come già si diceva, non sta senza le altre. Né riesce - da sola - a offrire in modo compiuto tutti i fondamenti necessari per comprendere la lieta notizia della castità. Almeno tre idee importanti - che le beatitudini nel loro insieme sottolineano con molta forza - devono qui essere riprese.
La prima è la gratuità, suggerita in modo particolare dalla beatitudine dei poveri di spirito. Povero di spirito è Gesù, che è vissuto ponendo tutta la propria fiducia in Dio e non in se stesso. Povero di spirito è Gesù, che ha condotto una vita itinerante, povera, sobria ed essenziale. Povero di spirito è Gesù, che ha compreso se stesso (persona ed esistenza) in termini di gratuità: un dono che si fa dono, un amore dato che prolunga un amore ricevuto. La gratuità e la verità dell'amore di Dio. Ed è al tempo stesso la verità del nostro amore. Certo l'amore - quello di Dio come quello dell'uomo - tende alla reciprocità, ma questa non è la sua radice né la sua misura. Se ami nella misura in cui sei ricambiato, il tuo non è vero amore. E se sei amato solo nella misura in cui dai, non ti senti veramente amato. Soltanto chi comprende questa gratuità nativa, originaria, dell'amore - che non è dovere ma bellezza - può comprendere la lieta notizia della castità.
Un secondo tratto importante è la coincidenza, se così si può dire, tra l'amore di Dio e l'amore dell'uomo. L'ho appena suggerito notando che la gratuità è la verità di ambedue; ma molte altre cose si devono dire. La totalità, la concentrazione, la definitività, la trasparenza e la gratuità - questi i tratti dell'uomo delle beatitudini - devono prendere forma e concretezza nelle relazioni con gli altri uomini. Non c'è altro luogo per farlo. Lo dicono le beatitudini dei misericordiosi, dei costruttori di pace, dei miti e dei perseguitati. Questo volgersi totalmente e gratuitamente agli uomini non è una semplice conseguenza del nostro volgersi totalmente a Dio, ma ne è la figura, il risvolto umano, la forma visibile e tangibile. E poi non si dimentichi che se noi possiamo amare, è solo perché Dio ci ama per primo. Il nostro amore è un prolungamento del suo. Il nostro volgersi agli uomini è, perciò, la figura di come Dio guarda ogni uomo. Ma allora è proprio vero che non ci sono due amori - uno di Dio e uno dell'uomo - ma uno solo: il primo è la radice e la misura del secondo, e il secondo è l'ombra umana del primo. Questo è importante. L'amore di Dio non mi toccherebbe, se non lo vedessi - fatto visibile e umano - nell'amore di chi mi ama e nella mia gioia (e fatica) di amare. Ma l'amore dell'uomo - l'amore che ricevo come l'amore che dono - mi deluderebbe, se non lo vedessi come un'ombra dell'amore di Dio.
Un terzo tratto importante - sempre suggerito dalle beatitudini - è la consapevolezza che il mondo non è il tutto dell'uomo. L'uomo ha bisogno di Dio, non soltanto dei suoi doni. Il puro di cuore lo sa, e non si illude di trovare la sua piena realizzazione nelle esperienze che ora può vivere, neppure nell'esperienza dell'amore. Per questo è sereno e lieto. Sereno perché - a differenza di chi pone nel mondo il proprio tutto - non è avido di possesso, né di forsennate esperienze, né di affrettate relazioni, né di vivere a ogni costo. E lieto, perché il rifiuto di fare del mondo il proprio tutto non impoverisce la gioia dei doni di Dio, ma la esalta. E questo è proprio vero. Solo l'uomo che punta totalmente verso Dio trova l'indispensabile libertà per godere del mondo. L'uomo che invece fa del mondo il suo idolo, non ama veramente il mondo, lo idolatra ma non lo ama; e il suo atteggiamento nei confronti del mondo è insieme servile e arrogante; non lo guarda veramente, non lo rispetta, unicamente teso a possederlo e a sfruttarlo. Chi punta verso Dio - e si libera dall'ansia dell'accumulo e dalla paura di perdersi - vede nel mondo e nelle cose un dono di Dio, un dono per tutti. E vi si accosta con animo libero e atteggiamento gratuito, con la gioia di scorgere nelle cose un rimando verso la pienezza.
La castità, trasparenza di vero amore
II discorso fatto sin qui ha certamente toccato alcuni punti essenziali del Vangelo, che ora però dobbiamo rileggere ponendoli più direttamente in rapporto con la castità e, dunque, con quella sfera profonda e delicata, altamente espressiva della persona, che è la sessualità. Il desiderio è di riuscire in qualche modo a mostrare non soltanto la positività della castità - il suo valore, la sua utilità - ma la sua bellezzn. È solo quando se ne intravede la bellezza che si comincia a capire davvero il Vangelo.
Scelgo come punto di osservazione il matrimonio, non perché mi interessi qui il matrimonio, ma perché nella relazione matrimoniale si possono vedere con particolare chiarezza le note essenziali, costanti, della castità, note da riprodurre in ogni forma concreta di castità; non è diffìcile accorgersi che sono le medesime note dei puri di cuore.
La castità non è senza ascesi. Anche (e forse soprattutto) nel matrimonio l'ascesi mantiene un valore altissimo, necessario per vivere la sessualità nella sua verità, cioè nella sua capacità di esprimere donazione, dimenticanza di sé, gratuità. Anche reciprocità, certamente. Ma una reciprocità sorretta, e spezzata, dalla gratuità. L'amore matrimoniale costruisce la reciprocità, ma viene prima della reciprocità. Non si lascia imprigionare nella logica della parità tra il dare e l'avere. Gioisce nella reciprocità dell'amore, ma non vi si arresta. Se lo facesse, la stessa reciprocità - fondata sulla parità tra il dare e l'avere - sarebbe assai fragile. Un'alleanza misurata sulla parità non dura a lungo. Per reggersi deve scaturire da un amore che sa dare più di quanto riceve. Vale per il matrimonio quanto Gesù ha detto per la carità, che è il segno del vero discepolo: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13,34). «Gli uni gli altri» dice la reciprocità. Ma il «come io ho amato voi» dice un di più, che dilata la reciprocità, indicandone al tempo stesso il fondamento.
È chiaro, a questo punto, che per la castità intendo l'ascesi e la gioia di una sessualità vera, capace cioè di esprimere gratuità e dono di sé. Chi non si educa all'ascesi della castità - che non è dunque rinuncia ma crescita nella gratuità - non sarà mai capace non soltanto di una scelta celibataria, ma neppure di una scelta matrimoniale.
È anche chiaro, a questo punto, che la castità è sì esigente, come tutto il Vangelo, ma il distacco e la fatica che essa richiede nascono dall'aver trovato un "di più". Per questo la castità è lieta notizia.
Suona come un paradosso, e invece dice una profonda verità: anche la relazione matrimoniale deve racchiudere in se stessa un'apertura alla verginità. Questo non per rinnegarsi, come se le espressioni dell'amore matrimoniale fossero un "purtroppo", ma perché l'amore matrimoniale sia vero, cioè definitivo, qualsiasi cosa succeda. La gratuità è l'anima profonda dell'amore, di ogni forma di amore. La gratuità rende stabile l'amore. Anche se l'altro ti abbandona, il tuo amore verso di lui non viene meno. Soffri, ma non viene meno. È come l'amore del Crocifìsso: rifiutato, dona la vita per chi lo rifiuta. Il matrimonio è chiamato a questa profondità di alleanza, che Gesù ha pienamente svelato nella sua vita e nella sua croce, ma che - a ben guardare - è già deposta come un germe nella struttura creazionale, nativa, dell'amore.
La fedeltà all'alleanza nel caso/limite di un matrimonio spezzato - un caso/limite che tuttavia, in forme molteplici, fa realmente parte del rischio dell'alleanza, del rischio dell'amore - non è solo indicativa del fatto che il Vangelo richiede a tutti, in qualsiasi stato di vita, la disponibilità al martirio. È invece proprio indicativo della natura della reciprocità coniugale, che è alleanza definitiva. Si comprende che il coniuge, che vive la solitudine di un'alleanza spezzata, è chiamato a una forma di castità che non è semplice assenza di rapporti sessuali, ma fedeltà. Non semplice mortificazione, ma testimonianza concreta di un legame che non torna indietro.
Ho fatto questo discorso sul caso/limite non perché mi interessi in se stesso, ma perché è come uno specchio in cui si possono scorgere con chiarezza tutta particolare le note dell'amore quotidiano, l'anima profonda che sempre deve accompagnare l'amore, anche nella felice situazione di un matrimonio riuscito.
La castità è una lettura escatologica dell'amore. Ciò significa che la solitudine che ogni uomo - anche nell'amicizia più profonda, anche nell'alleanza più riuscita - sperimenta, non va letta e vissuta come frustrazione, ma come nostalgia di una pienezza che solo Dio può dare. Comprendere in questo modo l'incompiutezza dell'amore è castità. Casto è chi non si illude, né pretende, di trovare tutto, ora, nell'amore che gli è donato. Egli ama profondamente, coraggiosamente, ma non esaspera il suo bisogno di amore, non lo trasforma in pretese assillanti e incontentabili, invadenti, ne si illude di riempire il suo bisogno di pienezza cercando gratificazioni altrove, al di fuori dell'alleanza che ha stretto, o al di fuori della vocazione che egli ha accolto. Solo questo amore casto è un amore che raggiunge veramente la persona nella sua libertà: ama la persona, non ciò che essa può dare in cambio, ne il progetto che essa si vuole costruire. Ama la persona comunque diventi, lasciandole la sua libertà, correndo il rischio della sua libertà.
La trasparenza più trasparente
Come segno del primato di Dio, della relativizzazione del mondo e di vero amore a Dio e al mondo, Gesù ha scelto il "segno" del celibato. È un segno che si colloca al cuore della vita e tocca il centro della persona. Un segno che si pone nella realtà più vera e più delicata dell'uomo, che è la sua forza di amare e la sua gioia di essere amato.
Per il credente il fatto che Gesù - che certo non poteva rare tutte le scelte storiche possibili, anche se di tutte è il punto di riferimento, avendo Egli esemplificato una logica che deve guidare ogni vocazione - abbia scelto tra tutte il celibato, non è privo di significato, come non sono prive di significato le sue scelte di povertà, di non violenza e di croce. Gesù ha certamente fatto le sue scelte non a caso, ma per svelare nel modo più trasparente possibile il volto di Dio e la verità dell'uomo: chi è Dio per l'uomo e chi è l'uomo davanti a Dio. Tanto più che - soprattutto per quanto riguarda il celibato - non si può parlare di scelta culturale, dettata o condizionata dai costumi del tempo. È stata, anzi, una scelta del tutto innovativa, contro il pensare comune. Per la sua scelta celibataria Gesù è stato probabilmente deriso, certo incompreso. La fede comune sosteneva, infatti, l'obbligo di sposarsi per obbedire al comandamento del Dio creatore: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gen 1,28).
Se Gesù ha scelto la verginità, è perché questa è una trasparenza, se così si può dire, più trasparente, dove il "più" non dice necessariamente una superiore perfezione (questione un poco discussa che non è qui il caso di riprendere), ma certo una modalità più radicale: quella, appunto, di lasciare trasparire Dio soltanto, nel modo più diretto possibile, senza porsi in mezzo.
E difatti la verginità è un modo di amare, tirandosi da parte. Chi sceglie la verginità sceglie di donarsi e di amare totalmente - di amare totalmente Dio e gli uomini -, ma al tempo stesso sceglie dì tirarsi da parte. Di fronte a chi lo ama e vorrebbe porlo al centro, egli ricorda: non sono io il tuo centro, ma Dio. E si tira da parte, perché chi io ama si volga a Dio. E se qualcuno vuole inserirsi nel centro della sua vita, quasi vantando una priorità nel suo amore, egli ricorda: non tu sei il centro della mia vita, ma Dio.
È così che la verginità esalta - con una luminosità tutta particolare - l'anima profonda, più vera, di ogni modo di amare, che è il rinvio a Dio.
La verginità è la trasparenza "più trasparente" del primato di Dio: un primato che, come ci hanno suggerito le beatitudini, è totalità di appartenenza, concentrazione e definitività. Riconoscere il primato di Dio significa, anzitutto, comprendere che la verità dell'uomo è l'essere amato da Dio. E in questo amore che l'uomo ritrova se stesso. Ed è proprio della gioia di essere amati da Dio che la verginità è trasparenza e proclamazione. Come si fa trasparenza della nostalgia di Dio, esprimendola in una ricerca appassionata del suo volto, tanto appassionata da non concedersi distrazioni.
Qualche conclusione
L'ideale tracciato richiede l'accompagnamento della comunità e dei suoi testimoni. Non si vivono le beatitudini da soli, né lo sposato né il non sposato, ma in compagnia. E richiede la pazienza e la gradualità di un itinerario: per di più un itinerario mai concluso, ne sempre lineare. Soprattutto richiede una continua crescita nella fede: proprio quella fede che sa che ciò che non è possibile all'uomo è possibile a Dio. L'uomo delle beatitudini è un uomo che ha il coraggio di osare, non ponendo però la fiducia in se stesso, bensì in Dio.
Ma anche se difficile o non ovvia, o proprio per questo, sono convinto che la proposta della purezza di cuore sia una carta vincente. L'uomo ha bisogno di tendere a un di più. Sta qui la sua verità. Le cose ovvie, le stesse novità a misura della sua immaginazione, non lo soddisfano. Appena le raggiunge, sono subito vecchie. L'uomo si compie superandosi.
Ma termino ritornando all’idea iniziale, alla scommessa, cioè, da cui siamo partiti: la castità, in tutte le sue forme, non è semplice comandamento, ma lieta notizia. La castità, come tutte le altre esigenze della sequela, richiede distacco e ascesi, fatica e allenamento, una consuetudine conquistata giorno dopo giorno. E, come ogni vera libertà, esige concentrazione e fedeltà. E tuttavia resta lieta notizia. Il centuplo promesso da Gesù non è là dove si fanno sconti, ma dove la proposta evangelica splende nella sua interezza. Solo così si può comprendere - non teoricamente, ma concretamente, vivendo - che le esigenze de Vangelo conducono a una scoperta che tutto capovolge: non il il discepolo che dona se stesso a Dio, ma è Dio che si dona a discepolo; non è il discepolo che dona le cose che lascia a Die ma è Dio che insegna al discepolo un nuovo modo di goderle.

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