giovedì 11 dicembre 2025

SERVIZIO FRATERNO

1. L’accettazione dell’altro come creazione originale di Dio

«Poi sorse fra loro una disputa su chi di loro fosse il maggiore» (Lc 9,46). Sappiamo bene chi semina questa disputa fra le comunità cristiane. Ma forse non teniamo abbastanza presente che nessuna comunità cristiana può formarsi senza che, prima o dopo, questa disputa nasca in essa. Appena degli uomini si mettono insieme, ecco che incominciano a osservarsi gli uni gli altri, a giudicarsi, a classificarsi secondo un determinato ordine. E con ciò, già sul nascere di una comunità, inizia una terribile, invisibile, spesso inconscia lotta di vita e di morte. «Nacque fra loro una disputa», è quanto basta per distruggere una comunità. Perciò per ogni comunità è di importanza vitale guardare in faccia, fin dal primo momento, questo pericoloso nemico ed estirparlo subito. Non si può perdere tempo, poiché sin dal primo momento dell'incontro con l'altro l'uomo cerca la sua posizione di combattimento, dove può resistere all'altro. Ci sono uomini forti e uomini deboli; se lui non è forte, ebbene, si arroga il diritto del debole e lo adduce in campo contro i forti. Ci sono uomini dotati e uomini meno dotati, uomini semplici e uomini dal carattere difficile, uomini pii e meno pii, uomini socievoli e misantropi. Forse che il meno dotato deve prendere posizione quanto quello dotato?

Il difficile di carattere quanto il semplice? E se non sono dotato, forse, però, sono pio; se non sono pio, forse non voglio nemmeno esserlo; non può l'uomo socievole al momento, conquistare tutti per sé ed esporre alle critiche quello meno socievole? ed il misantropo divenire il nemico invincibile ed infine vincitore dell'uomo socievole? quale uomo non troverebbe con sicuro istinto il luogo in cui può resistere e difendersi? e non cederebbe mai e poi mai ad un altro; chi non difenderebbe la sua posizione con tutto il suo istinto di autoaffermazione? Tutto ciò può accadere tra le persone più colte o anche tra le più pie; ma l'importante è che una comunità cristiana sappia che certamente in un qualche angolino «sorge fra loro la disputa su chi è il maggiore fra loro». È la lotta dell'uomo naturale per l'autogiustificazione. Egli trova se stesso solo nel confronto con gli altri, nel giudizio, nella critica del prossimo. Autogiustificazione e critica vanno sempre insieme, come giustificazione per grazia e servizio sono sempre uniti. La maniera più efficace per lottare contro i nostri cattivi pensieri spesso è di metterli radicalmente a tacere. Com'è certo che lo spirito di autogiustificazione può solo essere superato dallo spirito di grazia, tuttavia i singoli pensieri pronti a criticare vengono limitati e soffocati col non concedere loro mai il diritto di farsi largo, tranne nella confessione del peccato, della quale dovremo ancora parlare.

Chi sa dominare la propria lingua, sa anche dominare il proprio corpo (Giac. 3,3 ss.). Sarà quindi una regola fondamentale di ogni vita comunitaria proibire al singolo di parlare del fratello in assenza di lui. È ben chiaro che con ciò non si intende proibire la parola personale intesa a richiamare il fratello, e di questo si parlerà ancora. Ma non è permesso parlare dietro le sue spalle, anche quando le nostre parole possono assumere l'apparenza di benevolenza e di aiuto, perché, proprio così travestite, si infiltrerà sempre di nuovo lo spirito di odio per il fratello con l'intento di fare del male. Non è qui il momento di parlare delle singole limitazioni da applicare a questa regola; la decisione deve essere presa di volta in volta. Si tratta di cosa chiara e biblica. «Tu siedi e parli contro il tuo fratello, tu diffami il figlio di tua madre... Ma io ti riprenderò e ti metterò tutto davanti agli occhi» (Salmo 50,20 ss.). «Non parlate gli uni contro gli altri, fratelli. Chi parla contro un fratello o giudica suo fratello, parla contro la legge e giudica la legge. Ora se tu giudichi la legge, non sei un osservatore della legge, ma un giudice. Uno soltanto è il legislatore e il giudice, Colui che può salvare e perdere; ma tu chi sei che giudichi il tuo prossimo?» (Giac. 4,11 s.). «Nessuna cattiva parola esca dalla vostra bocca; ma se ne avete una buona che edifichi, secondo il bisogno, ditela, affinchè conferisca grazia a chi l'ascolta» (Ef 4,29).

Lì dove sin dall'inizio sarà mantenuta questa disciplina della lingua, ogni singolo farà una scoperta impareggiabile: cesserà di osservare continuamente l'altro, di giudicarlo, di condannarlo, di assegnargli il suo preciso posto dove lo si può dominare e così violentarlo. Sarà ora in grado di lasciar libero completamente il fratello, come Dio glielo ha messo accanto. Lo sguardo gli si allargherà e guardando i fratelli, con sua somma meraviglia, riconoscerà per la prima volta la gloria e la grandezza del Dio creatore. Dio non ha fatto l'altro come lo avrei fatto io; non me lo ha dato come fratello, perché io lo domini, ma perché in lui io trovi il mio Creatore. Nella sua libertà di creatura il mio prossimo diviene per me motivo di gioia, mentre prima mi dava solo fastidio e pena. Dio non vuole che io modelli il prossimo secondo Pimmagine che pare buona a me, cioè secondo la mia propria immagine; ma nella sua libertà di fronte a me ha fatto il mio prossimo a Sua immagine.

Non posso mai sapere in precedenza quale debba essere l'immagine di Dio nel prossimo; sempre di nuovo questa assumerà una forma diversa e nuova, che dipende dalla libera creazione di Dio. A me può anche sembrare strana, indegna di Dio. Ma Dio crea l'altro a immagine e somiglianzà del suo Figliolo, del Crocifisso: anche questa immagine a me era pur parsa strana, indegna di Dio, prima che l'avessi compresa. 

2. Vivere similmente nella grazia del perdono di Cristo

E allora forza e debolezza, saggezza e stoltezza, dotato o non dotato, pio o meno pio, tutta la diversità dei mèmbri nella comunità non sarà più ragione di dissenso, giudizio, condanna, cioè di autogiustifi-cazione, ma sarà causa di allegrezza e di servizio reciproco. Anche così ogni membro della comunità ha il suo posto ben preciso; non più quello in cui potrà affermarsi con maggior successo, ma quello in cui potrà meglio servire. In una comunità cristiana Punica cosa che importa è che ognuno sia anello indispensabile di una catena. Solo lì dove anche l'ele-mento più piccolo è ben saldo, la catena non si spezzerà. Una comunità che permette che in essa vi siano mèmbri inutilizzati, ne sarà distrutta. Sarà perciò bene che ogni singolo riceva anche un compito preciso a servizio della comunità, perché in momenti di dubbio sappia che anche lui non è inutile o inutilizzabile. Ogni comunità cristiana deve sapere che non solo i deboli hanno bisogno dei forti, ma che anche i forti non possono fare a meno dei deboli. L'esclusione dei deboli è la morte della comunità. Nella comunità non dovrà regnare l'autogiustificazione e con ciò violentamento, ma giustificazione per grazia e perciò servizio. Chi nella sua vita ha provato una volta la misericordia di Dio, non desidera altro che servire. Non lo attira più l'alto trono di giudice; egli vuole vivere in basso, con i miseri e gli umili, perché Dio lo ha trovato lì in basso. «Non abbiate l'animo alle cose alte, ma lasciatevi attirare dalle umili» (Rom. 12,16).

Chi vuol imparare a servire, deve prima imparare a tenere se stesso in poco conto. «Nessuno abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere» (Rom. 12,3). «Conoscere bene se stessi e imparare a tenersi in poco conto è il massimo compito e quello più utile. Non mettere in luce se stessi, ma avere sempre una buona opinione degli altri, questo è vera sapienza e perfezione» (Thomas a Kempis),

«Non vi stimate saggi da voi stessi» (Rom. 12, 16). Solo chi vive del perdono dei suoi peccati in Gesù Cristo può provare la giusta umiltà, sapere che egli con la sua sapienza era giunto completamente alla sua fine quando Cristo gli perdonò, si ricorderà della sapienza dei primi uomini che volevano conoscere che cosa è bene e che cosa è male e in questa sapienza perirono. Ma il primo uomo che nacque su questa terra fu Caino, il fratricida: ecco il frutto della sapienza dell'uomo! Poiché il cristiano non può ritenere se stesso saggio, non terrà più in gran conto neppure i suoi piani e le sue intenzioni, saprà che è un bene se la sua volontà viene spezzata nell'incontro con il prossimo. Sarà pronto a ritenere la volontà del prossimo più importante e urgente della propria. Che importa se il proprio piano sarà contrastato? Non è meglio servire il prossimo che spuntarla con la propria volontà?

Ma non solo la volontà, anche l'onore del prossimo è più importante del mio: «Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» (Gv. 5,44). Il desiderare di essere onorati impedisce la fede. Chi cerca il proprio onore non può più cercare Dio e il prossimo. Che male c'è se sono trattato ingiustamente? Non mi sono, forse, meritato un castigo ben maggiore da parte di Dio, se Dio non mi trattasse secondo la sua misericordia? Non mi viene reso anche nel-l'ingiustizia mille volte ciò che mi merito? Non sarà utile e bene per la mia umiltà che io impari a sopportare in silenzio e con pazienza mali così minimi? «Lo spirito paziente vai meglio dello spirito altero» (Eccl. 7,8). Chi vive della giustificazione per grazia accetta anche offese e ingiustizie senza protestare, ma anzi vede in esse la mano del Signore che punisce e fa grazia, insieme. Non è buon segno se non si vogliono più sentire e sopportare queste cose senza richiamarsi subito al fatto che anche l'apostolo Paolo, per es., si è fatto forte del suo diritto di cittadino romano, e che Gesù, a colui che lo percosse, disse: «Perché mi percuoti?» (Gv. 18,23). In ogni modo nessuno di noi agirà veramente come Gesù e Paolo, se non avendo prima imparato, come questi, a tacere di fronte a offese e scherni. Il peccato della ipersensibilità e permalosità, che tanto facilmente fiorisce nella comunità, ci fa vedere sempre di nuovo quanto diffuso sia un errato concetto dell'onore, cioè quanta mancanza di fede regna ancora nella comunità.

Ed infine deve essere detta ancora un'ultima cosa: non ritenere se stessi saggi, tenersi dalla parte degli umili, senz'altro — senza voler dire grandi parole, ma parlando in piena sobrietà —, significa ritenere se stesso il più grande dei peccatori. Questo risveglia tutte le forze di opposizione dell'uomo naturale, ma anche del cristiano consapevole di sé. Pare una esagerazione, quasi una mancanza di sincerità. Eppure l'apostolo Paolo ha detto di sé che egli è il primo tra i peccatori (1 Tim. 1,15), e questo proprio quando parla del suo servizio di apostolo.

Non può essere vera coscienza dei propri peccati, senza che conduca in questo abisso. Se i miei peccati, in qualche modo, confrontati con quelli degli altri, mi paiono minori, meno gravi, vuoi dire che non riconosco ancora veramente il mio peccato. Necessariamente il mio peccato è il più grave ed il più riprovevole. Per il peccato degli altri l'amore cristiano trova tante giustificazioni; solo per il mio non ci sono scuse. Perciò esso è il più grave. Deve trovare il fondo di questa umiliazione chi vuoi servire il fratello nella comunità.

Come, infatti, potrei servire umilmente, senza ipocrisia, colui il cui peccato in realtà mi pare veramente più grave del mio? Non devo sentirmi superiore a lui, posso avere ancora una speranza per lui? Sarebbe un servizio ipocrita. «Non credere di essere progredito un passo nella tua opera di santificazione se non senti profondamente di essere peggiore di tutti gli altri» (Thomas da Kempis).

3. Ascoltare il fratello come ascoltiamo la Parola di Dio

Come si effettua, ora, un servizio fraterno nella comunità? Oggi tendiamo a rispondere subito che l'unico vero servizio al prossimo è il servizio reso

on la Parola di Dio. È vero che nessun altro servizio può essere considerato di pari importanza, e che, anzi, ogni altro servizio deve sempre essere improntato a questo. Cionostante una comunità cristiana non è formata solo da predicatori della Parola. Si potrebbe abusarne terribilmente se si volessero trascurare alcune altre cose.

Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l'amore di Dio incomincia con l'ascoltare la sua Parola, così l'inizio dell'amore per il fratello sta nell'imparare ad ascoltarlo. È per amore che Dio non solo ci da la sua Parola, ma ci porge pure il suo orecchio. Altrettanto è opera di Dio se siamo capaci di ascoltare il fratello. I cristiani, e specialmente i predicatori, credono spesso di dover sempre 'offrire' qualcosa all'altro, quando si trovano con lui; e lo ritengono come loro unico compito. Dimenticano che ascoltare può essere un servizio ben più grande che parlare. Molti uomini cercano un orecchio che sia pronto ad ascoltarli, ma non lo trovano tra i cristiani, perché questi parlano pure lì dove dovrebbero ascoltare. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non saprà neppure più ascoltare Dio; anche di fronte a Dio sarà sempre lui a parlare. Qui ha inizio la morte della vita spirituale, ed infine non restano altro che le chiacchiere spirituali, la condiscendenza fratesca che soffoca in tante belle parole pie. Chi non sa ascoltare a lungo e con pazienza parlerà senza toccare veramente l'altro ed infine non se ne accorgerà nemmeno più. Chi crede che il suo tempo è troppo prezioso per essere perso ad ascoltare il prossimo, non avrà mai veramente tempo per Dio e per il fratello, ma sempre e solo per se stesso, per le sue proprie parole e per i suoi progetti.

La cura d'anime dei fratelli si distingue dalla predicazione essenzialmente per il fatto che al compito di annunziare la Parola si aggiunge quello di ascoltare. Si può anche ascoltare a mezzo orecchio, convinti di sapere già quello che l'altro ha da dirci. È un modo di ascoltare impaziente e distratto, che disprezza il fratello e aspetta solo di poter finalmente prendere la parola e liberarsi dell'altro. Questo non è compiere la propria missione, e certamente anche qui nel nostro atteggiamento verso il fratello si rispecchia il nostro rapporto con Dio. Se noi non riusciamo più a porgere il nostro orecchio al fratello in cose piccole, non c'è da meravigliarsi se non siamo più capaci di dedicarci al massimo tra i servizi consistenti nell’ascoltare, affidatici da Dio, cioè quello di ascoltare la confessione del fratello. Il mondo pagano sa, oggi, che spesso si può aiutare un altro solo ascoltandolo seriamente; avendo riconosciuto questo, vi ha impostato una propria cura d'anime laica, alla quale accorrono numerosi gli uomini, anche i cristiani. Ma i cristiani hanno dimenticato che il compito dell'ascoltare è stato loro affidato da Colui il quale è l'uditore per eccellenza, alla cui opera essi sono chiamati a collaborare. Dobbiamo ascoltare con l'orecchio di Dio, affinchè ci sia dato di parlare con la Parola di Dio.

4. Ognuno porti il peso dell'altro

II secondo servizio che, in una comunità cristiana, l'uno deve rendere all’altro, è l'aiuto concreto e attivo. Si pensa in primo luogo a piccoli e semplici servizi materiali. In ogni vita comunitaria se ne trovano un'infinità. Nessuno è troppo alto per un piccolo servizio al prossimo. La preoccupazione per la perdita di tempo che spesso un tale servizio materiale comporta, è segno di una eccessiva importanza attribuita al proprio tempo e lavoro. Dobbiamo essere pronti a lasciarci interrompere da Dio. Dio contrasterà sempre di nuovo, anzi, ogni giorno, le nostre vie e i nostri piani, mandandoci persone con le loro richieste e necessità. Possiamo passare oltre senza badare a loro, preoccupati come siamo dell'importanza della nostra giornata, così come il sacerdote passò oltre senza curarsi dell'uomo caduto in mano ai predoni — forse egli era addirittura immerso nella lettura di un passo biblico'. — E così noi passiamo oltre senza vedere il segno della croce nella nostra vita, il quale vorrebbe indicarci il vero valore delle vie di Dio e non delle nostre.

È un dato di fatto piuttosto strano che proprio cristiani e teologi spesso ritengono il loro lavoro così importante e urgente che si irritano per una interruzione. Credono di servire Dio in questo modo e disprezzano invece la via di Dio «tortuosa, eppure diritta», come canta Gottfried Arnold. Non vogliono saperne di un'interruzione del cammino degli uomini. Eppure fa parte della disciplina dell'umiltà non risparmiare la propria mano dove essa può rendere un servizio, e non voler decidere del proprio tempo ma lasciare che lo riempia il Signore. Nel convento il giuramento di obbedienza fatto all'abate toglie al monaco il diritto di disporre del proprio tempo. Nella vita comunitaria evangelica al posto di questo voto subentra il servizio reso liberamente al fratello. Solo lì dove le mani non si sentono superiori all'opera di amore e di misericordia nel quotidiano servizio fraterno, la bocca può annunziare, piena di letizia e in maniera credibile, la Parola dell'amore e della misericordia divina.

In terzo luogo parliamo del servizio inteso a sostenere il prossimo. «Portare i pesi gli uni degli altri» (Gal. 6,2). La legge di Cristo è una legge del 'portare'. Portare vuoi dire sopportare, soffrire insieme. Il fratello è un peso per il cristiano, soprattutto per il cristiano. Per il pagano l'altro non diviene nemmeno un peso, egli infatti evita di lasciarsi aggravare da qualcuno, mentre il cristiano deve portare il peso del fratello. Deve sopportare il fratello. Solo se è un peso, l'altro è veramente un fratello e non un oggetto da dominare. Il peso degli uomini per Dio stesso è stato così grave che Egli ha dovuto piegarsi sotto questo peso e lasciarsi crocifiggere. Dio ha veramente sopportato gli uomini nel corpo di Cristo. Ma così li ha portati come una madre porta il figlioletto, come un pastore porta l'agnello perduto. Dio accettò gli uomini ed essi lo oppressero fino a terra, ma Dio restò con loro ed essi con Dio. Nel sopportare gli uomini Dio ha mantenuto la comunione con loro. È la legge di Cristo che si è compiuta sulla croce. Ed i cristiani partecipano a questa legge. Essi devono sopportare il fratello; ma quello che è più importante, essi sono anche in grado di portare il fratello, sotto la legge che è compiuta in Cristo. La Scrittura parla assai spesso di 'portare'. Essa esprime con questa parola tutta l'opera di Gesù Cristo: «Erano le nostre malattie che Egli portava; erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato... Il castigo è stato su lui, per cui abbiamo pace» (Is. 53,4 s.). Perciò essa può dire che tutta la vita dei cristiani è un portare la croce. Qui si realizza la comunione del corpo di Cristo. È la comunione della croce nella quale uno deve sentire il peso dell'altro. Se non lo sentisse non ci sarebbe comunione cristiana. Se si rifiuta di portarla, rinnega la legge di Cristo.

In primo luogo è la libertà dell'altro, di cui prima abbiamo parlato, ad essere un peso per il cristiano. Va contro la sua presunzione, eppure egli deve ammetterla. Potrebbe liberarsi di questo peso, togliendo la libertà all'altro, violentandolo, imponendogli la propria immagine. Se invece lascia che Dio gli dia l'impronta della sua immagine, gli concede la sua libertà e porta lui stesso il peso di questa libertà del-l'altra creatura. Della libertà dell'altro fa parte tutto ciò che intendiamo quando diciamo: essere, individualità, carattere; ne fanno parte anche le debolezze e stranezze, che mettono così gravemente alla prova la nostra pazienza, ne fa parte tutto ciò che produce la quantità di attriti, contrasti e scontri tra me e l'altro. Portare il peso del prossimo vuoi dire sopportare la realtà di creatura dell'altro, accettarla e, sopportandola, goderne.

Ciò diviene particolarmente difficile là dove forti e deboli sono uniti nella fede in una comunità. Il debole non giudichi il forte, il forte non disprezzi il debole. Il debole si guardi dall'orgoglio, il forte dalla indifferenza. Nessuno difenda i propri diritti. Se il forte cade, il debole si guardi dal provarne piacere; se il debole cade, il forte lo aiuti gentilmente a rimettersi in piedi. L'uno ha bisogno di tanta pazienza quanta l'altro. «Guai a colui che è solo e cade senza avere un altro che lo rialzi» (Eccl. 4,10).

A questa sopportazione reciproca nella libertà allude certo anche la Bibbia quando raccomanda: «Sopportandovi gli uni gli altri» (Col. 3,13). «Vi esorto a condurvi con ogni umiltà e mansuetudine, con longanimità, sopportandovi gli uni gli altri con amore» (Ef. 4,2). Alla libertà dell'altro si aggiunge, il suo abuso nel peccato, che per il cristiano diviene un peso quando si tratta di un fratello. È ancora più diffìcile sopportare il peccato dell'altro che non la sua libertà, perché nel peccato si infrange la comunione con Dio e con i fratelli. Qui il cristiano soffre la frattura della comunione creata in Gesù Cristo con l'altro. Ma proprio nel saper sopportare questo peso si manifesta veramente la immensa grazia divina. Non disprezzare il peccatore, ma saperlo portare, vuoi dire non doverlo considerare perduto, poterlo accettare, potergli conservare la comunione mediante il perdono. «Fratelli, quand'anche uno sia stato colto in qualche fallo, rialzatelo con spirito di mansuetudine» (Gal. 6,1). Come Cristo ha portato noi quando eravamo peccatori e ci ha accettati così, noi, nella comunione con Lui, possiamo portare i peccatori e riceverli nella comunione con Gesù Cristo mediante il perdono dei peccati. Noi possiamo portare i peccati del fratello, non occorre che giudichiamo. Questa è una grazia concessa al cristiano; infatti, quale peccato è commesso nella comunità senza che egli debba esaminare se stesso ed accusarsi per la sua propria infedeltà nella preghiera e nell'intercessione, per la sua mancanza di servizio fraterno, di ammonimento fraterno e di consolazione, per il suo proprio peccato, per la sua indisciplinatezza spirituale, con la quale ha danneggiato se stesso, la comunità e i fratelli? Poiché ogni peccato del singolo pesa su tutta la comunità e la accusa, perciò la comunità canta inni di grazia, in tutto il dolore che prova per il peccato del fratello e sotto tutto il peso che per questo ricade su di essa, perché essa è ritenuta degna di prendere su di sé il peccato e di perdonare. «Ecco, così li porti tutti, ed essi ti portano a loro volta, ed ogni cosa, buona e cattiva, è in comune» (Lutero).

5. Testimoniare con la vita l'uno all'altro la consolazione e il giudizio di Dio

II servizio del perdono viene reso giornalmente dall'uno all'altro. Avviene senza parole, nell'intercessione reciproca; e ogni membro della comunità che non si stanca di rendere questo servizio, può star sicuro che questo servizio viene reso dai fratelli anche a lui. Chi sostiene l'altro, sa di essere sostenuto, e solo in questa forza può portare anche lui. Lì dove si rende il servizio di ascoltare, di aiutare concretamente, di portare fedelmente, può anche essere reso il servizio massimo, cioè quello della Parola.

Si tratta qui della parola da uomo a uomo, libera, non legata a ministero, tempo e luogo. Si tratta della situazione unica nel mondo, in cui un uomo testimonia all'altro con parole umane tutta la consolazione di Dio, i suoi ammonimenti, la sua bontà e la sua severità. Questa parola è circondata da un'infìnità di pericoli. Se prima non si è ascoltato bene, come si potrebbe trovare la parola adatta all'altro? Se è in contrasto con l'aiuto concreto, come potrebbe essere parola credibile e verace? Se non nasce dalla prontezza a portare l'altro, ma da impazienza e da spirito di violentamento, come potrebbe essere parola liberatrice e salutare? E al contrario, proprio lì dove realmente si ascolta, si serve, si porta, facilmente si tace. La profonda diffidenza di fronte a tutto ciò che è solo parola, spesso soffoca la parola che dovremmo rivolgere al fratello. Che cosa può fare una debole parola umana per il prossimo? Dovremmo aumentare ancora il numero di parole vuote? O dobbiamo, come i routiniers spirituali, parlare con parole che passano accanto al reale bisogno dell'altro? Che cosa v'è di più pericoloso che pronunciare la Parola di Dio più del necessario? e chi, d'altro canto, si assume la responsabilità di aver taciuto dove dovrebbe aver parlato? Quanto più semplice è annunziare la parola ordinata dal pulpito che dire questa parola completamente libera, tra la responsabilità di tacere e quella di parlare.

Alla paura della propria responsabilità di fronte alla Parola si aggiunge la paura del prossimo. Quanto costa, talora, pronunciare il nome di Gesù Cristo anche solo di fronte ad un fratello! Anche qui un sentimento giusto è misto ad uno errato. Chi ha il diritto di penetrare nell'intimo del prossimo? Chi ha il diritto di chiedergli ragione, di colpirlo, di abbordarlo riguardo alle cose ultime? Non sarebbe certo segno di avvedutezza cristiana affermare semplicemente che ognuno ha questo diritto, anzi, questo dovere. Potrebbe di nuovo prender piede lo spirito di violentamento nella forma peggiore. L'altro, infatti, ha il suo proprio diritto, la sua responsabilità ed anche il suo dovere di difendersi di fronte ad intrusioni illecite. L'altro ha il suo proprio segreto, che non può essere violato senza grave danno, segreto che non può rivelare senza distruggere se stesso. Non è un segreto di ciò che sa e sente, ma il segreto della sua libertà, della sua redenzione, del suo essere. Eppure questo sentimento così giusto si trova in prossimità alquanto pericolosa delle parole di Caino: «Sono io forse il guardiano di mio fratello?» (Gen. 4,9). Il rispetto della libertà del prossimo, che apparentemente ha una ragione spirituale, può sottostare alla maledizione di Dio; «Io domanderò conto del suo sangue alla tua mano» (Ez. 3,18). Lì dove cristiani vivono insieme, prima o dopo necessariamente avverrà che uno annunci all'altro la Parola e la volontà di Dio. È impensabile che non si parli una volta, in conversazione fraterna di quelle cose che per ognuno sono di vitale importanza. Non è cristiano se uno coscientemente nega all'altro il servizio decisivo. Se non riusciamo a pronunciare la Parola, dobbiamo esaminare noi stessi se non vediamo nel nostro fratello solo la sua dignità umana, che non osiamo violare, e così dimentichiamo la cosa più importante, e cioè che anche lui, per quanto anziano, altolocato, importante, possa essere, è, un uomo come noi, che, peccatore, invoca la grazia divina, che ha le sue pene come noi, che ha bisogno di aiuto, consolazione e perdono come noi.

La base, sulla quale i cristiani poggiano per entrare in vero colloquio gli uni con gli altri, è che sanno l'uno dell'ahro di essere pure peccatori, perduti e abbandonati, nonostante tutti gli onori umani, se non trovano aiuto. Con questo non si disprezza l'altro, non lo si disonora; anzi, gli si rende l'unico vero onore che l'uomo possiede, cioè che come peccatore è partecipe della grazia e della gloria di Dio, che è figlio di Dio. Questa conoscenza da alla parola del fratello la necessaria libertà e sincerità. Ci rivolgiamo la parola richiamandoci ali'aiuto di cui abbiamo bisogno ambedue. Ci esortiamo reciprocamente a seguire la strada indicata da Cristo. Ci ammoniamo a non cedere alla disobbedienza che è la nostra rovina. Siamo miti e siamo duri l'uno verso l'altro, perché conosciamo la bontà e la severità di Dio. Perché dovremmo temere l'un l'altro, se ambedue non abbiamo da temere che Dio? Perché dovremmo pensare che il fratello non ci capirebbe, dal momento che noi abbiamo pur compreso molto bene quando un uomo qualunque, forse con parole assai infelici, ci ha annunziato la consolazione o l'ammonimento di Dio? O crediamo che possa essere! anche un solo uomo, che non abbia bisogno di consolazione e di ammonimento? Perché Dio, se così fosse, ci avrebbe donato la comunione con fratelli?

Quanto più impariamo a lasciarci dire dall'altro la Parola, ad accettare umilmente anche un duro ammonimento e rimprovero, tanto più liberi ed obiettivi saremo nel dire una parola noi.

Chi rifiuta per sé, per troppa vanità o sensibilità, una seria parola del fratello, non potrà neppure annunziare, in tutta umiltà, la Parola all'altro, perché teme che sia rifiutata e si sentirebbe offeso da questo. L'ipersensibile diventerà sempre un adulatore, e con ciò ben presto anche dispregiatore e calunniatore del fratello. L'umile, invece, si attiene allo stesso tempo alla verità e all'amore. Si attiene alla Parola di Dio e da questa si lascia condurre verso il fratello. Non cercando ne temendo nulla per sé, può aiutare il prossimo mediante la Parola.

Indispensabile, perché ordinato dalla Parola divina, è l'ammonimento lì dove il fratello cade in aperto peccato. L’esercizio della disciplina nella comunità incomincia nella cerchia più ristretta. Dove il rinnegamento della Parola di Dio nell'insegnamento o nella vita mette in pericolo la vita del gruppo comunitario e con ciò tutta la comunità, lì è necessario osar dire la parola che ammonisce e castiga. Nulla può esservi di più crudele di quella bontà che lascia l'altro nel suo peccato. Nulla può esservi di più misericordioso del duro rimprovero che richiama il fratello dalla via del peccato. È un servizio di misericordia, un'ultima offerta di sincera comunione, se lasciamo che la Parola di Dio rimanga lì, sola, tra noi, a giudicare e aiutare. Non siamo noi, allora, a giudicare; Dio solo giudica e il giudizio di Dio è di aiuto e salutare.

Possiamo servire il fratello fino in fondo solo non sollevandoci mai sopra di lui; lo serviremo ancora, quando gli diciamo la Parola di Dio che giudica e separa, quando, obbedendo a Dio, interromperemo la comunione con lui. Sappiamo pure che non è il nostro amore umano che ci permette di restare fedeli all'altro, è l'amore di Dio che raggiunge l'uomo solo attraverso il giudizio. La Parola di Dio stesso serve l'uomo giudicandolo. Chi accetta il servizio reso dal giudizio divino, ha trovato aiuto.

6. L'autorità come servizio fedele a Cristo

Qui è il punto dove si manifestano i limiti di ogni azione umana per il fratello. «Nessuno può in alcun modo redimere il fratello, ne dare a Dio il prezzo del riscatto d'esso. Il riscatto dell'anima dell’uomo è troppo caro e non sarà mai sufficiente» (Salmo 49,8). Questa rinuncia ad ogni possibilità propria è appunto la premessa e la conferma dell'aiuto liberatore, che solo la Parola di Dio può dare al fratello. Non è in mano nostra la vita del fratello, non possiamo tenere unito ciò che vuole spezzarsi, non possiamo tenere in vita ciò che vuole morire. Ma Dio congiunge ciò che sta per spezzarsi, crea comunione dove regna la separazione, dona grazia mediante il giudizio. Egli ha messo la sua parola sulla nostra bocca. Vuole che venga annunziata da noi. Se impediamo la sua Parola, il sangue del fratello peccatore ricadrà su di noi. Se annunziamo la sua parola, Dio salverà per nostro mezzo il fratello. «Chi converte un peccatore dall'errore della sua vita, salverà l'anima di lui dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Giac. 5,20).

«Chiunque fra voi vorrà essere primo, sarà serve di tutti» (Afe. 10,43). Gesù ha legato ogni autorita nella comunità al servizio. Vera autorità c'è solo lì dove si compie il servizio dell'ascoltare, aiutare, portare ed annunziare la Parola.

Ogni culto per una persona che si estende a particolari qualità, a eccezionali capacità, forze, talenti di un altro — anche se si tratta chiaramente di qualità spirituali — è un sentimento terreno e non trova posto nella comunità cristiana, anzi la avvelena.

Se oggi si sente tanto spesso la necessità di 'figure episcopali', di 'personalità sacerdotali', di persone che abbiano vera autorità lo si deve soprattutto al fatte che si prova il bisogno di ammirare un uomo, di imporre un'autorità umana visibile, perché la vera autorità derivante dal servizio sembra troppo umile. E questo è segno di malattia spirituale. Nulla si oppone più nettamente a questo bisogno del Nuovo Testamento stesso, lì dove descrive la figura del vescovo (1 Tim. 3,1 ss.). Non vi appaiono per nulla entusiasmanti capacità umane, brillanti qualità di una personalità spirituale. Vescovo è l'uomo semplice e fedele nella sua vita e nella sua fede, che compie onestamente il suo servizio nella comunità. La sua autorità dipende dal modo di servire. Nell'uomo stesso non vi è nulla di ammirevole. La smania di autorità fittizia, in fondo, non cerca che di erigere nella Chiesa una qualche immediatezza, un legame umano. La vera autorità è consapevole che ogni immediatezza proprio nel campo dell'autorità è un male, che essa può affermarsi solo nel servizio di colui che, unico, ha autorità. La vera autorità sa di essere legata, nel senso più stretto, alla Parola di Gesù: «Uno solo è il vostro maestro, e voi siete tutti fratelli» (Mt. 23,8). La comunità non ha bisogno di personalità brillanti, ma di fedeli servitori di Gesù e dei fratelli. E realmente essa non manca delle prime, ma di questi ultimi. La comunità concederà la sua fiducia solo ai semplici servitori della Parola di Gesù, perché sa che da questi sarà guidata non in base a sapienza ed orgoglio, ma secondo la Parola del buon Pastore. La questione spirituale della fiducia, strettamente connessa con quella dell'autorità, si decide in base alla fedeltà con cui uno serve Gesù Cristo, e mai in base alle qualità eccezionali di cui dispone. Autorità nella cura d'anime può averla solo il servitore di Gesù, che non cerca la sua propria autorità, ma che pone se stesso sotto l'autorità della Parola ed è un fratello tra fratelli.

Da Bonhoeffer, VITA IN COMUNE


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