lunedì 10 marzo 2025

Beati i poveri, miti ed aflitti

 beati i poveri di spirito

Beati i poveri di spirito perche di essi e il regno dei cieli. 

Davanti a noi sta Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, che si è fatto il più piccolo fra tutti e perciò, anche nella sua natura umana, è il più grande nel regno dei cieli. Gesù, che si è fatto povero per farci ricchi, esulta nello Spirito santo e dice: «Ti glorifico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché le cose che rimangono nascoste ai saggi e ai prudenti tu le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così piacque a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio, e nessuno conosce il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Lc 10,21-22). 

Questa è l'economia divina: che Cristo renda partecipi della sua conoscenza esistenziale del Padre tutti quelli che lo seguono nella sua umiltà, nella sua vocazione di servo di Dio e servo degli uomini. Maria e Giuseppe rappresentano gli umili, gli anawîm del paese che aspettano il Messia come servo che riscatta i poveri e gli oppressi. Essi saranno beati se verrà il regno di Dio nella persona di Cristo servo. 

Quando Gesù parla la prima volta pubblicamente nella sinagoga di Nazaret, cita egli stesso il grande cantico del servo del Deuteroisaia: « Lo spirito del Signore è sopra di me, perché egli mi ha unto. Mi ha mandato a evangelizzare i poveri, ad annunziare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, a rimandare gli oppressi in libertà e a proclamare un anno di grazia del Signore ». E Gesù dice chiaramente ai suoi ascoltatori: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete udita poco fa con i vostri orecchi » (Le 4,18- 21). Soprattutto quelli che sono generosi verso i poveri riconosceranno Cristo. «Voi conoscete bene la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, il quale si è fatto povero per voi, essendo ricco, per arricchire voi con la sua povertà » (2Cor 8. 9). Questa parola così entusiasta di Paolo apostolo ci insegna che Cristo è venuto per arricchirci non con beni materiali, ma con la sua povertà. Se lo imitiamo, in quanto servo umile e povero, prenderemo parte al suo regno con tutte le benedizioni che ne seguono. Cristo vive e può vivere l'esistenza del servo povero, perché è unto dallo Spirito, ripieno della gioia e della beatitudine; e come servo trova la sua felicità nell'aiutare il povero, nel liberare l'oppresso, nel guarire il malato. Cristo che si è fatto povero non cerca la sua gloria e la sua volontà. Non proclama il suo regno, ma quello del Padre, Perciò il Padre lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è sopra ogni nome. Egli si chiama Signore, anche in vista del la sua scelta di farsi servo di tutti, soprattutto dei poveri e degli oppressi. Se Cristo non si fosse fatto umile servo, per noi sarebbe impossibile la nuova beatitudine: «Beati i poveri di spirito». 

Cristo si è consacrato a servizio della moltitudine, perché anche noi fossimo consacrati in verità. La consacrazione ci viene dallo Spirito santo. La Chiesa continua l'evento di Pentecoste, in quanto assimilata con Maria, umile ancella, a Cristo servo. Solo per mezzo dello Spirito santo possiamo intuire la via della beatitudine percorsa da Cristo servo. Lo Spirito santo rinnova e vivifica l'animo dei discepoli facendo sentire la ricchezza e la gioia del Vangelo. Nella potenza dello Spirito santo Cristo ci ha liberati dalla schiavitù collettiva del peccato, dalle strutture soffocanti che si moltiplicano senza sosta a causa dell'orgoglio individuale e collettivo. 

Nella misura in cui ci affidiamo totalmente a Cristo e lo seguiamo proprio in quanto servo, saremo anche noi liberati da ogni desiderio di dominare e di possedere. Cristo riceve tutto quello che è e possiede come dono del Padre; lo riceve con spirito di gioia e di riconoscenza, e lo comunica a noi suoi fratelli. Per poter vivere con i poveri, per i poveri e uniti a Cristo dobbiamo accogliere con riconoscenza il dono dello Spirito santo che ci libererà dalla tristezza e dalla superficialità. Nella misura in cui afferriamo la gioia del Vangelo, possiamo vivere umilmente e dedicarci al servizio della moltitudine, soprattutto dei più poveri. Solo chi si impegna a vivere sotto la guida dello Spirito santo sarà trasformato ed esprimerà in tutta la sua vita la gratitudine. E così l'uomo spirituale, l'uomo eucaristico considera tutto dono dell'unico Padre, in vista di tutti. Il discepolo di Cristo può gioire di tutto quanto ha ricevuto perché non lo ritiene egoisticamente per sé, ma lo considera come missione: l'impegno di comunicare insieme alla gioia del Signore anche i suoi doni. L'uomo spirituale è gioioso nel Vangelo, non considera le sue capacità e i beni terreni come un privilegio da custodire gelosamente per se stesso. Al contrario, egli troverà la vera beatitudine nel comunicare i doni di Dio, nel trasformarli in quello che lui vuole, cioè in legami e manifestazioni di giustizia e carità fraterne. Chi vive sotto la guida dello Spirito santo è riconoscente per tutti i doni di Dio; non avrà bisogno di troppe cose; potrà vivere esemplarmente la semplicità e la modestia e gioire anche nelle situazioni di povertà. Questo non esclude il suo diritto di gioire anche quando si trova ben provveduto di tutto ciò che è necessario per una vita veramente umana. 

Spesso è stato dichiarato dalla Chiesa che le beatitudini, anzi tutto il Discorso della montagna, hanno anche un lato sociale. Lo ha proclamato Benedetto XV dopo la prima guerra mondiale e lo ha applicato non solo alla vita sociale in genere, ma anche alla vita politica. Chiediamoci allora che cosa può dirci la prima beatitudine in prospettiva politico-sociale. 

Ogni persona, che vive con convinzione e con gioia la prima beatitudine, è un segno del regno irradia e ispira speranza e incoraggiamento. Là dove il regno di Dio è accolto con gioia e gratitudine nessuno più sfrutterà il povero, l'handicappato o emarginato; nessuno più cederà all'egoismo collettivo. Finiranno l'oppressione, l'ingiustizia, il razzismo là dove è veramen- te accolto il grande dono, la ricchezza infinita del Regno. La beatitudine portataci da Cristo, umile servo, per mezzo della sua passione e morte, è un conforto per i poveri e gli oppressi, anche là dove non sono ancora convertiti gli oppressori e i ricchi. Sono certamente beati e segno della grazia potente di Dio i sofferenti e i poveri che vivono la pace interiore, sviluppando la propria personalità, la bontà, la comprensione in mezzo alla miseria e alla sofferenza: perché sono beati quelli che portano la croce con Cristo. Essi saranno una sorgente di grazia per tutti e un appello urgente ai ricchi perché si convertano. Ma non possiamo fermarci a questa riflessione. La prima beatitudine non è un calmante che spinge i poveri a rassegnarsi nelle situazioni ingiuste. I poveri sono evangelizzati efficacemente solo da comunità di credenti che cercano sinceramente la giustizia e la pace sociale. Il regno di Dio comporta che l'uomo si lasci guidare dai doni di Dio. Per ciò chi ha ricevuto cinque talenti, li impiegherà tutti a servizio del bene comune. Coloro che si lasciano guidare dalla gratitudine si uniranno nello sforzo continuo di creare condizioni di vita e strutture giuridiche, sociali, culturali, economiche, internazionali che onorino Dio e il suo Regno. Far buon uso della grazia di Dio, di tutte le nostre capacità e dei beni terreni significa sempre servire il prossimo. Ma occorre anche un impegno esplicito e diretto a pro- muovere la giustizia sociale, per poter vivere pienamente per sé e per gli altri la prima beatitudine. Sono quindi beati i poveri dovunque la venuta del regno di Dio si annuncia per mezzo di quelli che seguono Cristo servo e povero, predicando così efficacemente il Vangelo con la sua giustizia e la sua pace. Sono beati anche i ricchi quando si convertono effettivamente al Vangelo e acquistano uno spirito di povertà e di servizio. 

Già nel secondo secolo un grande teologo, Clemente Alessandrino, pose la questione in un libro: «Quale ricco può essere salvato?». 

Non si chiedeva se anche il ricco possa essere salvato, perché certamente il regno di Dio è offerto a tutti, anche ai ricchi. Chiedeva invece quale ricco concretamente è salvato. La risposta è chiara: «Solo il ricco che accetta il regno di Dio considerando tutto ciò che possiede, comprese le sue capacità e la sua formazione professionale, come beni affidati dal Padre comune per il bene di tutti i fratelli. In un certo senso i religiosi sono dei benestanti. La comunità garantisce effettivamente la sicurezza. Anche il popolo cristiano è sempre disposto a venire in loro soccorso se si trovano nella necessità. Siamo ricchi noi religiosi soprattutto in vista della nostra vocazione. Abbiamo il tempo per meditare il Vangelo, per vivere felici alla presenza di Cristo. Ma solo se tutta questa ricchezza spirituale diventa servizio a favore dei più poveri, di quelli cioè che non conoscono ancora il Signore, possiamo gioire della beatitudine promessa da Cristo povero a coloro che si fanno servi degli altri. Così la prima beatitudine significa riconciliazione nella diversità dei doni dati per la giustizia, nella concordia e nella fraternità. La beatitudine dei poveri non è una fra tante; è la prima e il fondamento di tutte le altre beatitudini. 


beati i miti

Beati i miti perché erediteranno la terra.

 Accostiamoci a Cristo che ci insegna la dolcezza, la pazienza, l'impegno non violento a favore delle folle. Se conosciamo Cristo nella sua amabilità e se ci lasciamo trasformare da lui, sarà una benedizione per tutta la terra. Ricordiamo subito che il mite beato è Cristo stesso. Egli porta in sé la gioia infinita del Padre nello Spirito santo ed è venuto sulla terra proprio per riguadagnarla all'amore diDio Padre per mezzo della sua tenerezza. Possiamo chiamare Cristo la tenerezza incarnata. Egii ci invita ad accostarci a lui: «Venite a me voi tutti che sietestanchi e affaticati ed io vi ristorerò. Imparate da me chesono mite e umile di cuore e troverete riposo alle animevostre» (Mt 11,28-29). Cristo non è venuto per sottomettere a sé la terra per mezzodella spada. Egli non ha bisogno e nemmeno è tentato difar uso di qualunque forma di manipolazione. La sua pedagogia è dialogica, liberante, perché paziente e gentile. Il suo amore fa appello al cuore e all'intelligenza dell'uomoper suscitare un'autentica convinzione della coscienza. Così I'uomo che sperimenta la forza d'attrattiva del suo amore, potrà dare il proprio consenso, il più libero e il piùgioioso. I Vangeli testimoniano abbondantemente la squisitezza dianimo e la pazienza infinita di Gesù. Guardiamo con quanto amore e comprensione accoglie Maria Maddalena che era una peccatrice ben conosciuta come tale in tutta la città. 

Il servo di Dio per mezzo del suo delicato amore le restituisce l'immagine di Dio, trasformandola in una nuova persona e le ridà la dignità di figlia di Dio; perciò essa, attratta da un tale amore, lo amerà molto. Malgrado tutta la loro rozzezza e incomprensione, Gesù si mostra sempre estremamente tollerante e cortese con i suoi apostoli. Quando Giuda viene per tradirlo con un bacio egli si esprime ancora una volta con l'energia divina e umana della sua amabilità, chiamandolo amico. Proprio la sua pazienza e la sua gentilezza dinanzi alla stoltezza e ingratitudine di tanti uomini, anche degli stessi suoi discepoli, (anche la nostra) costituiscono un grande miracolo, che ci svela l'eterna gioia e beatitudine di Cristo e la forza del suo amore misericordioso. Noi saremo beati se ci accostiamo a Cristo, se viviamo sotto lo sguardo dei suoi occhi colmi d'amore per noi. Se rendiamo grazie sempre e dovunque per la soavità di Cristo, sperimentata, si cambierà il nostro cuore e lo Spirito santo, che rinnova il volto della terra, ci darà parte di questa grande virtù di Cristo umile servo. Nel primo carme del Deuteroisaia Iddio presenta il suo servo prediletto come il modello della mansuetudine: «Non griderà e non farà clamore, non sgriderà la gente in piazza, non spezzerà la canna fessa né spegnerà il lucignolo fumigante» (Is 42,23). 

Stare vicini a Cristo e meditare sulle sue virtù, lodarlo peri suoi doni e il suo tenero amore, è il privilegio che ci è stato dato in vista della moltitudine. Chi sa rimanere accanto a Cristo imparerà gradualmente questa grande virtù e beatitudine che è la prima condizione della nostra attitudine apostolica. La pazienza e la dolcezza però non debbono essere intese come inerzia. Nella tradizione cattolica infatti la dolcezza che sopporta, viene presentata come la parte più nobile della fortezza e sta a indicare la forza insuperabile dell'amore, della benevolenza e del rispetto per gli altri; quella che sa raccogliere tutte le energie del cuore, dell'affetto, dell'intelletto, della volontà e anche delle passioni in un impegno infaticabile a favore del Vangelo. Solo così possiamo attrarre gli uomini all'amore misericordioso di Dio. Quanto potremmo fare per il regno di Dio se per mezzo della mitezza e della pazienza fossimo capaci di evitare tutte le esplosioni d'insofferenza che purtroppo spesso dissipano le migliori energie dell'uomo! Siamo beati quando con la gentilezza e la benevolenza sappiamo convincere gli altri che è venuto il regno di Dio e che Cristo esaltato vuol attrarre tutti al suo cuore. 

Mi sembra che dobbiamo comprendere in questa luce la dichiarazione del Vaticano II sulla libertà religiosa. La Chie sa fa appello a tutti i credenti perché guadagnino la terra a Cristo e alla sua Chiesa mediante la testimonianza di bontà e di gentilezza nello spirito del Vangelo. Quando, in fatti, tutto il nostro modo di sentire e agire è permeato dalla tenerezza evangelica, diventa assurdo pensare all'uso di minacce, discriminazioni, manipolazioni o ricorsi al «braccio secolare». Chi crede veramente in Cristo umile servo e nella potenza dello Spirito santo, mai si permetterà un modo scortese ouna parola sgarbata. Un vecchio proverbio dice: «Amico, hai torto, perché sei scortese». 

A riguardo mi colpì molto una confidenza fattami da un vescovo dell'America Latina durante il Concilio. Nella sua umiltà disse di non ritenersi all'altezza di giudicare le diverse correnti teologiche presenti nel Concilio; perciò seguiva gli uni o gli altri a seconda del grado di mitezza da essi dimostrato. La mitezza è infatti frutto dello Spirito. Confucio dice nei suoi libri sacri: «I quattro doni, i più preziosi che il cielo elargisce al sapiente, sono: la benevolenza, la gentilezza, la giustizia e la prudenza ». In maniera simile al Vangelo, Confucio spiega che la benevolenza e la bontà si manifestano nel saper sempre rispettare gli altri, nel trattarli con assoluta gentilezza e nel trovare sempre dei rapporti di amicizia, nell'intuire volentieri il bene. degli altri. Questo grande pedagogo afferma che la genti del rispetto, per cui non la si può imparare tanto allo specchio o attraverso delle tecniche esterne. Al contrario la gentilezza stessa è lo specchio del cuore. In tali considerazioni Confucio si accostò molto al Cristo. E possiamo pensare che non si limitasse alle sole parole. Ma certo in Cristo troviamo il modello perfetto. Egli, per mezzo della sua mansuetudine vissuta fino alla croce, manifesta la benevolenza del Padre e la sua bontà per guadagnare il genere umano. Lo adoriamo proprio in quanto ci rivela sulla croce una tenerezza senza limiti.

Guardiamo come parla alle donne che piangono sulla sua sofferenza e con quanta dolcezza assicura al ladrone pentito che gli sarà dato un posto in paradiso accanto a lui. Se è vero che tutti, ma particolarmente noi religiosi siamo chiamati alla testimonianza e all'evangelizzazione, è indispensabile e urgente che impariamo questa soavità e mitezza che sole ci permetteranno di portare Cristo ai nostri fratelli e di attrarli al suo Vangelo.

Il Nuovo Testamento insiste spesso sulla necessità della correzione fraterna. Questa però, come ci insegnano Cristo e i suoi apostoli, non dev'essere fatta brontolando e criticando acidamente, perché così ci riveleremo incapaci di esercitare tale grande opera di misericordia spirituale. Non provochiamoci a vicenda. Fratelli, se qualcuno è stato sorpreso in qualche peccato, voi che siete spirituali, correggetelo con spirito di grande dolcezza; e bada a te stesso, perché anche tu puoi cadere in tentazione. Portate il fardello gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo » (Gal 6,1). I grandi santi e dottori della Chiesa sostenevano la tesi che la correzione fraterna dovesse essere considerata, in un certo senso, un sacramento, o meglio una delle espressioni del sacramento della riconciliazione. Non volevano con ciò sminuire l'importanza della confessione, ma precisavano bene le condizioni che permettono alla correzionefraterna di acquistare un senso sacramentale e divenire segno convincente della presenza di Cristo paziente tra di noi. Dev'essere fatta con grande amabilità e accolta conuguale mitezza, e sfociare poi nella preghiera comune aCristo paziente che perdona e attrae a sé tutti i miti e gliumili di cuore. L'importanza della mitezza evangelica per la vita sociale è evidente. I rapporti umani, soprattutto nella vita economica, culturale, sociale, politica e internazionale, sono spesso avvelenati da una critica acida e violenta. E proprio perché manca quella benevolenza e quel rispetto che si manifestano nella gentilezza, spesso si arriva all'uso della violenza. 

I religiosi sono, a questo riguardo, sale della terra, animatori della virtù del discernimento, che è possibile solo nella gentilezza, e danno un grande contributo alla Chiesa e all'umanità perché si purifichino sempre meglio. Fermiamoci su un punto in particolare. Si è già riflettutosull'importanza delle opinioni pubbliche per la salvezza del mondo. Ebbene, se non siamo d'accordo con un programma televisivo, con un articolo di una rivista o di un giornale, non scriviamo una lettera scortese, ma esprimiamo il nostro dissenso con la più grande gentilezza. Abbiamo poi buona speranza di essere ascoltati se frequentemente esprimiamo il nostro apprezzamento per gli sforzibuoni e soprattutto ben riusciti. E se dobbiamo muoveredelle critiche, è molto più efficace farlo con una domandagentile e con argomenti convincenti che non con parole dure. Alcuni anni fa nei momenti dell'esplosione generale dicontestazione, a un religioso abbastanza contaminato da questa tendenza, diedi come penitenza di astenersi durante un anno intero da ogni critica alla sua comunità e alla gerarchia e, in quanto possibile, da ogni critica contro chiunque. Egli si convinse e osservò bene questa penitenza. Dopo alcuni mesi mi disse: «Non ho più bisogno di fare della critica acida, perché ora i confratelli mi ascoltano volentieri». I religiosi in genere non hanno una vocazione politica. Ma essi potrebbero molto influire sulla civiltà e sulla politica come animatori dello spirito di non violenza. Mahatma Gandhi può essere per noi un grande esempio. Giorno per giorno meditò il vangelo della non violenza e lo scopri nelle beatitudini. Ci lasciò questa istruzione: «Non è possibile imparare l'azione non violenta con tecniche psichiche. Anche se uno conosce tutte queste tecniche, la sua attività sarebbe facilmente manipolazione psichica. Invece, se arriviamo a quella profonda e permanente coscienza della nostra unione con Dio che ci unisce a tutti i nostri fratelli, ci sarà possibile l'azione non violentae convincente». 

Cristo è il grande sacramento della bontà di Dio proprio per la sua mitezza; proprio perché si sa unito, nella sua missione, a tutti gli uomini. Perciò dialoga anche con i farisei. Se Cristo usa talora parole forti, non dobbiamo dimenticare che solo a lui compete il giudizio. Il fatto poi che, malgrado questo, egli usi molto raramente parole forti e solo una volta cacci i venditori dal tempio, sarà un motivo in più per imitare sempre la sua gentilezza. La persona che si distingue per queste qualità potrà anche permettersi una volta o due una contestazione, parole chiare e convincerà proprio perché tali parole decise, risolute, sono espresse da una persona gentile. Non c'è posto per noi religiosi tra i guerriglieri. La nostra vita comune e la nostra presenza nel mondo dovranno contribuire all'unirsi degli uomini nell'azione non violenta, mite e paziente per la giustizia e per la vera pace. 


beati gli afflitti

Beati gli afflitti perché saranno consolati.

Nella contrizione e nella compassione verso il prossimo accostiamoci a Cristo, l'afflitto beato, che è consolato dallo Spirito santo. Cristo è l'incarnazione della beatitudine degli afflitti perché si è aflitto e si è lasciato affliggere dalla compassione per noi. Egli ha considerato la miseria dei peccatori e tutta la miseria del genere umano come parte della sua vita e missione. Ha portato la croce: la sua passione è chiamata beata perché è manifestazione della compassione che il Padre celeste ha per noi, una compassione efficace e consolante per quelli che altrimenti sarebbero perduti. Nel Discorso della montagna, Cristo c'invita a seguirlo e ci dà il comandamento nuovo: «Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). La breve redazione del Discorso della montagna, in Luca, traduce questo invito ponendo l'accento sulla compassione: «Siate dunque pieni di compassione come il Padre vostro celeste» (Lc 6,36). Gesù nella sua compassione è l'immagine della perfezione infinita di Dio Padre. Alla grande preghiera di Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta», Gesù risponde: «Chi ha veduto me, ha veduto il Padre » (Gv 14,8-9). Questo dice Gesù al momento in cui si prepara a manifestare la compassione e l'amore infinito nella sua beata passione e per mezzo della sua morte. 

Cristo non è venuto a cercare il proprio piacere e la propria gloria, perciò non si affligge mai per motivi di interesse o soddisfazioni personali. La sua afflizione è il supremo segno dell'amore e della compassione del Padre celeste, e della sua completa solidarietà con noi. Quando la compassione e passione di Cristo raggiungono il massimo d'intensità nell'Orto degli ulivi, il Padre invia un angelo perché lo consoli; ciò esprime la dinamica inerente alla compassione di Cristo, che è partecipazione completa tanto alla compassione che alla beatitudine del Padre celeste. La consolazione non è mai venuta meno nel cuore di Cristo, neppure nel drammatico momento della crocifissione, perché mai egli ha cercato la propria volontà, bensì quella del Padre suo. Per questo è stato continuamente certo che il Padre lo avrebbe confortato e glorificato. Il grande esempio di questa beatitudine è il Cristo risorto che ci presenta le mani e il cuore squarciato: testimonianza della sua afflizione, compassione e, insieme, della colazione ricevuta nella glorificazione. Beati saremo anche noi se non ci affliggeremo più per motivi egoistici, ma entreremo con Cristo nella passione e compassione che abbraccia tutti gli uomini. Già da un punto di vista psicologico e sociale, si costata che non possono gioire, nè sperimentare vera consolazione coloro che non sono capaci di soffrire in compassione vera e attiva con gli altri. Il famoso etologo Konrad Lorenz, premio Nobel per i suoi studi sul comportamento sociale degli animali, ma anche grande terapeuta, ha scritto un saggio sugli «Otto peccati mortali della società del nostro tempo»; tra questi ha posto l'incapacità di soffrire per e con gli altri. Coloro che non sanno soffrire mossi dalla compassione, sono anche incapaci della vera gioia, perché non sono psicologicamente possibili una gioia e un conforto autentici che non siano comuni, partecipati. Né si può gioire con gli altri quando non si sa soffrire in profonda compassione, e soffrire là dove è urgente portare una parte del fardello altrui. San Paolo distingue chiaramente l'allizione che configura l’uomo con il mondo frustrato dal peccato, dall'attizione che porta alla salvezza: «La tristezza secondo Dio produce un salutare pentimento che non si rimpiange, perché con duce a salvezza, mentre la tristezza del mondo procura la morte» (2Cor 7,10). Sono molti gli aflitti, i tristi, i frustrati, gli acidi per i quali non vale il «beato» di Cristo, perché essi sono tali a causa del loro egoismo e si ostinano nella ricerca dei propri interessi, del proprio piacere, chiudendosi agli altri. Il pentimento non sarà mai autentico nelle persone che si chiudono totalmente davanti alla miseria e alla sofferenza degli altri. Dobbiamo ben guardare alla qualità delle nostre afflizioni. Non sono rari coloro che non riescono a chiudere occhio quando sono stati contraddetti o non compresi bene da qualcuno, mentre mai sono commossi e insonni dinanzi all'enorme sofferenza delle centinaia di milioni di persone affamate, dei popoli sfruttati e oppressi, degli africani del Sud Africa o della Rodesia. Purtroppo sono numerosi quelli che riescono a dormire tranquilli tra le ricchezze, anche dinanzi alla fame e all'estrema miseria di tanti popoli e classi sociali del mondo. Tutti costoro non sono per nulla beati: saranno sempre delle creature agitate, tristi, incapaci della vera gioia che viene da Dio e porta a Dio, perché si ostinano a rimanere prigionieri del loro egoismo. L'afflizione che manifesta la venuta del regno di Dio, è il dolore profondo per i nostri peccati, è sofferenza per i numerosi peccati del mondo che offendono Dio e aumentano la miseria e l'ingiustizia della società. Ogni peccato ha un aspetto sociale terrificante. Chi fa il male che potrebbe evitare e trascura il bene che potrebbe e dovrebbe fare, aumenta la miseria e la schiavitù del peccato nel mondo. Nella contrizione che porta alla salvezza è ancora più fortemente insito un aspetto sociale. Il cristiano si affligge perché i suoi peccati hanno impoverito il mondo, hanno diminuito la salvezza. Se avesse seguito fedelmente la grazia, egli potrebbe irradiare salvezza, bontà, benevolenza e gioia. Ogni volta che si trascura la grazia si diventa più tristi, nel senso che non si aumenta la beatitudine. E perciò il vero pentimento considera non soltanto la perdita dei meriti, ma anche l'ingiustizia fatta nei riguardi del prossimo. E così in ogni atto autentico di pentimento è presente, almeno inizialmente, non solo l'amore rinnovato verso Dio Padre, ma anche e al tempo stesso, un amore e una giustizia nuovi verso la comunità. Questo aspetto del pentimento e della penitenza si esprime bene nell'attuale rito del sacramento della riconciliazione, soprattutto nelle celebrazioni comunitarie. Non. basta tuttavia seguire le nuove norme; dobbiamo intuire la loro dinamica, la tensione verso una conversione che contiene in sé compassione e slancio per il bene comune. E perciò dobbiamo inserirci in queste celebrazioni con grande fervore. Se insieme ci affliggiamo davanti al Signore, riceveremo anche la grazia più abbondante per un rinnovamento comune. Quanto più solidale è il pentimento, tanto più grandi saranno anche la gioia e la pace comuni. L'afflizione salvifica che contiene questa dimensione solidale, ci unisce a Cristo che ha sofferto per tutti e tutti vuole salvi. Sono beati coloro che dopo ogni atto di peccato ricorrono subito a Dio con profondo dolore per averlo offeso, e con grande fiducia. Così essi non aumentano la miseria del peccato nel proprio cuore e nel mondo. E chi si rattrista davanti a Dio, sarà disposto a umiliarsi anche davanti al fratello al quale ha fatto ingiustizia con il suo peccato. I credenti che camminano nella via delle beatitudini, non si affliggono tanto per aver fatto brutta figura, quanto perché hanno offeso Dio, infinitamente buono, e per aver privato il prossimo della luce che potrebbero procurargli se fossero più uniti a Cristo. 

Papa Giovanni XXIII è vissuto così: è stato l'uomo che ha saputo affliggersi del dolore degli altri e gioire con gli altri, proprio perché ha vissuto e sperimentato anche la fiducia che scaturisce dall'autentico atto di contrizione. Nel suo diario spirituale scrive di aver rinnovato il suo proposito di fare prontamente un atto di dolore con grande fiducia subito dopo ogni difetto, « e poi, Giovanni, avanti come se Gesù ti avesse dato un bacio». Molti buoni propositi risultano inefficaci e preparano il cammino alla perdizione perché chi li ha fatti non vuole mortificare il proprio egoismo, portare la croce e riparare per i propri peccati. Sono inefficaci i propositi che non scaturiscono da quell'afflizione che ci unisce con la beata passione e compassione di Cristo. Saranno beati invece coloro che hanno il coraggio di rinunciare a tutto ciò che ostacola il cammino verso l'intima amicizia con Dio e la unità fraterna che onora Dio Padre onnipotente. Infatti l'afflizione inerente alla negazione di se stessi e al distacco, porta già la vicinanza del Signore e la gioia della sua amicizia. Sono beati gli afflitti da ogni tipo di sofferenza là dove il regno di Dio è accolto, perché non mancheranno mai un fratello o una sorella credenti che avranno per essi vera compassione e si prodigheranno per confortarli e far superare le cause delle loro afflizioni. Se siamo veramente credenti e seguiamo Cristo sulla montagna della beatitudine, non vivranno più nell'isolamento gli anziani e i poveri perché si troverà sempre qualcuno che andrà a visitarli. Dalla vera afflizione che ci unisce con Cristo scaturiscono tutte le opere di misericordia che mirano a vincere la più grave tristezza, quella di non essere amati e aiutati. Se siamo credenti autentici, saranno beati e consolati sia gli affamati del nostro vicinato, sia quelli lontani dell'India e del Bangladesh. Se siamo animati dalle beatitudini, saranno consolati anche coloro che ancora non conoscono Cristo e perciò sentono più pesante il peso dell'afflizione. I veri credenti infatti faranno ogni sforzo per portare loro il Vangelo della beata passione, morte e risurrezione di Cristo, il Vangelo della vita eterna che comincia già quaggiù dove gli uomini si affliggono in una compassione che porta frutto nella carità e nella giustizia. 

Bernard Haering  da "Beatitudini. Testimonianza e impegno sociale".


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