il creatore abita il tempo e la storia
La prima pagina della Bibbia presenta una riflessione molto elaborata del popolo d'Israele durante e dopo l'esilio in Babilonia (587- 538 a.C.). Questa esperienza e il confronto con la religione e la cultura mesopotamiche hanno obbligato gli israeliti a ripensare la loro fede. Era diventato necessario riformularla in un linguaggio nuovo per rispondere alle sfide del presente. I problemi principali erano due.
Primo, la presa di Gerusalemme, la distruzione del tempio e la fine della monarchia potevano apparire, secondo la mentalità dell'epoca, come una sconfitta del Dio d'Israele, incapace di difendere il suo popolo e la sua città santa. Se gli dei di Babilonia sono più potenti del Dio d'Israele, perché non adottare la religione dei vincitori? Israele non ha ceduto a questa tentazione perché è riuscito a dimostrare che il suo Dio era di gran lunga superiore agli altri dei. Gen 1,1-2,3 è uno dei testi che serve a questa dimostrazione.
Secondo, Israele aveva perso alcune istituzioni essenziali all'esistenza di un popolo in quel tempo: la monarchia, vale a dire l'autonomia politica, e il tempio, che era il simbolo della propria identità religiosa. Il racconto della creazione apre una via che permetterà a Israele di fare a meno di questi due elementi senza perdere niente delle sue antiche tradizioni religiose. L'idea essenziale di questo testo è che il Dio d'Israele, quello che poi parlerà ai patriarchi e a Mosè, il Dio che farà uscire il suo popolo dall'Egitto e lo condurrà nella terra promessa, è nientemeno che il creatore dell'universo. Non è pertanto una divinità locale o nazionale, ma il Dio dell'universo e, quindi, anche il Dio della Mesopotamia, di Babilonia o della Persia. È il Dio di tutte le nazioni. Per mostrarlo, l'autore del brano spiega per esempio che Dio - il Dio d'Israele - ha creato gli astri, vale a dire il sole, la luna e le stelle.
In altre parole, il Dio d'Israele ha creato quello che i potenti popoli della Mesopotamia consideravano come loro divinità. Se è così, il Signore d'Israele è molto superiore a queste divinità. Infine, il ragionamento poggia su un principio essenziale del pensiero antico: quello che era prima è sempre più importante di quello che segue. In Gen 1, il Dio d'Israele esisteva prima di tutto il creato - lui e lui solo esisteva all'inizio (Gen 1,1)- e quindi è «più importante» di tutto l'universo. In parole più teologiche, egli trascende tutto il creato. La conseguenza è chiara: se il Dio d'Israele è tale, non vi è alcuna ragione di abbandonarlo per onorare divinità inferiori. L'ambiente nel quale il brano è stato redatto ne spiega un ulteriore tratto. Le immagini usate per descrivere la creazione, specialmente il suo inizio, riecheggiano testi e rappresentazioni mesopotamici in cui il creato emerge dalle acque e dalle tenebre come una pianura emerge lentamente dalle acque dopo un allagamento. Questo fenomeno si osservava nelle grandi pianure della Mesopotamia pressoché ogni anno. Le piogge dell'inverno e lo scioglimento della neve sulle montagne provocavano ogni primavera grosse piene e allagamenti. Poi l'acqua si ritirava, le terre riapparivano e si poteva seminare. In Israele, invece, le immagini sono diverse: la creazione assomiglia piuttosto alla trasformazione di una steppa desertica in un'oasi irrigata e fertile (vedi Gen 2,4b-25).
Dio crea il mondo in sette giorni e dieci parole; vi sono quindi dieci opere distribuite in sette giorni. Fra i giorni sono più importanti: il primo, il quarto e il settimo, vale a dire i due giorni che si trovano alle «estremità» della settimana e quello che sta proprio in mezzo a essa. Nel primo giorno Dio crea la luce, nel quarto gli astri, vale a dire il calendario e l'orologio dell'universo, e nel settimo si riposa. Questi tre giorni hanno un elemento in comune: sono in stretta relazione con il tempo. La creazione della luce inaugura l'alternanza del giorno e della notte, che è il ritmo basilare del tempo. Gli astri hanno come funzione di segnalare «le feste, i giorni e gli anni». Come detto, Dio crea un «calendario cosmico». Infine, nell'ultimo giorno della settimana, il settimo, Dio si riposa. In tutto il brano predomina in ogni caso la dimensione temporale. Il tempo è più importante dello spazio. E significativo, per esempio, che il brano si concluda con la celebrazione di un tempo sacro, il sabato, e non, come in diversi racconti antichi dello stesso genere, con la costruzione di un tempio o di un palazzo per il dio creatore. Il Dio d'Israele non ha un tempio, ma un tempo sacro. Il primo santuario sarà costruito molto dopo, nel deserto (Es 35-40). Mosè riceverà le istruzioni per questa costruzione che, in ogni modo, non è statica ma si sposta con il popolo. Anche qui prevale la dimensione temporale: la presenza di Dio è dinamica perché accompagna il popolo nelle sue peregrinazioni nel deserto, verso la meta finale che è la terra promessa. Il Dio d'Israele abita la storia del suo popolo. Per tornare al nostro brano, il popolo che non ha più santuario può nondimeno venerare il suo Dio perché può contemplare la sua attività durante la settimana e celebrarlo durante il tempo sacro del sabato.
Il ruolo della Sapienza
Pr 8,22-30 è un testo in cui la Sapienza fa il proprio elogio. In poche parole, essa afferma di essere più antica di tutte le altre creature e di essere stata presente quando Dio ha creato il mondo. Ritroviamo in queste affermazioni l'idea che ciò che precede nel tempo è più importante: la Sapienza è superiore a tutte le creature perché è stata generata prima di esse (Pr 8,22). È un altro modo per dire che la Sapienza vale più di tutte le cose di questo mondo. Nella Bibbia, la Sapienza è anzitutto un «saper fare» e corrisponde raramente a un sapere meramente intellettuale.
La Sapienza mostra che esisteva prima di tutte le creature (8,24-26), poiché era presente quando Dio ha creato l'universo (8,27-31). La sapienza è sempre alla presenza di Dio, si diverte davanti a lui e trova le sue Delizie con gli uomini.
1. «E io mi divertivo davanti a lui tutto il tempo, mi divertivo nell'universo» (Pr 8,30-31). La Sapienza si presenta anche come l'architetto dell'universo. La traduzione del termine è discussa, però vi sono buoni motivi per pensare che questo sia il significato più adatto al contesto. La Sapienza avrebbe quindi partecipato attivamente alla creazione. Per esempio ne avrebbe tracciato la pianta e concepito l'organizzazione. Dio ha creato l'universo «con Sapienza». Come si manifesta questa Sapienza» nell'universo? Come ritrovarla? Essa afferma che «trova le sue delizie fra gli uomini». Sarà dunque presente nel nostro mondo. Dove si trova questa abilità nell'arte di vivere?
2. Un punto interessante per un'ulteriore riflessione è l'immagine della Sapienza che «si diverte» davanti a Dio e in tutto l'universo. L'idea è probabilmente di origine egiziana. In Egitto, infatti, la Sapienza (Maat) è una divinità che presiede all'ordine dell'universo. Ogni mattina, quando si alza, si presenta in tutta la sua bellezza davanti al dio creatore dell'universo. Costui la vede, l'ammira e trae la sua ispirazione da questa visione per creare o governare l'universo. In Pr 8, questa Sapienza «si diverte» davanti a Dio. Il verbo usato in ebraico si ritrova con una leggera variante - nel nome Isacco (egli ride) e significa ridere, divertirsi, giocare. Ciò vuol di re che la Sapienza che ispira Dio nella sua opera creatrice si diverte e trova piacere in questa attività. La creazione è frutto non di uno sforzo, di un bisogno, ma di un piacere, di un divertimento. Dio non crea l'universo perché ne ha bisogno, perché era necessario. Lo crea gratuitamente, per pura generosità. Non lo crea perché deve servi re, dividiamo le nostre attività in due re, essere utile o giovare a qualcuno, un valore in se stesso. In gene e categorie: facciamo cose utili e cose inutili. Il brano ci insegna che esiste una terza categoria, più fondamentale: Cose che non sono immediatamente utili, ma neanche inutili. Sono gratuite valore in sé stesse. Si fanno perché uno trova piacere nel farle. Come ritrovare questa dimensione nella vita quotidiana?
Il Dio vicino
«Scenderò con te in Egitto» (Gen 46,3). In questo versetto si rivela un aspetto particolare del Dio della Bibbia, ossia sua anima nomade. Il Dio dei patriarchi ama viaggiare e deve essere strettamente apparentato ai beduini del deserto. Egli rimarrà fedele alla sua vocazione di viandante e non rinuncerà facilmente al suo bastone di Pellegrino. Ad esempio quando Davide deciderà di costruire una bella casa, invierà il profeta Natan per dirgli: «Tu mi vuoi costruire una casa per farmi abitare lì? Davvero non ho mai abitato in una casa giorno che trassi i figli di Israele dall'Egitto ma sono andato vagando in una tenda» (2 Sam 7,5). Dio non sembra molto compiaciuto all'idea di dover rinunciare alla sua tenda traslocare in una casa di cedro. Egli tuttavia si è piegato a malavoglia a questo nuovo stile di vita. Il testo di Genesi 46, tornare al nostro argomento, illustra bene questo tratto del carattere divino nella Bibbia. Giacobbe se ne va in Egitto e Dio non resiste alla tentazione di accompagnarlo . Non vuole mancare l'occasione: «Aspetta, ci vengo con te!». Detto fatto si unisce alla carovana di Giacobbe e dei suoi figli che scendono in Egitto per ritrovarvi Giuseppe. Il Dio dei patriarchi è un viandante che non è attaccato ai luoghi, bensì alle persone. Sarà il Dio di Abramo Isacco e di Giacobbe e non di luoghi precisi. Non è il Dio che si va a visitare in alcuni santuari famosi, nei luoghi di pellegrinaggio conosciuti. Lui è il Dio Pellegrino non il Dio dei pellegrinaggi. Si fa Pellegrino perché i patriarchi sono Pellegrini perché vuole accompagnarli sulle strade di questo mondo.
Il Dio degli esiliati
«La sola cosa che chiedo al Signore, quella che cerco per davvero, è abitare nella casa del Signore per tutti i giorni della mia vita, per contemplare la soavità del Signore e ammirare il suo tempio» (Sal 27,4). Questo versetto del Salmo 27 traduce in termini poetici una certezza diffusa nella cultura dell'antico Israele così come in tutto il mondo antico: si vive bene solo a casa, fra la propria gente nel proprio paese.
Il Signore è buono e generoso nella sua terra, la terra d'Israele, ed è una vera maledizione doverla lasciare per vivere in esilio in un altro paese. Davide, quando è costretto da Saul a vivere nel deserto, si lamenta amaramente di essere stato allontanato «dall'eredità del Signore», come se dovesse «servire dei stranieri» (1Sam 26,19). Ora Davide si trova nel deserto di Giuda, a poca distanza dalla sua città, Betlemme, in una regione conosciuta. Vivere in un deserto, fuori della terra, in definitiva, significa dover «servire altri dei» perché il Signore regna solo nella sua terra.
L'idea di un Dio creatore dell'universo, il Signore di tutti i popoli emerge soltanto tardi nella coscienza religiosa di Israele.
L'esilio è un'esperienza drammatica perché equivale a perdere tutto quello che rende la vita possibile: una casa, il sostegno di una famiglia o di un clan e la protezione del Dio presente nel Tempio. Quello che vale per l'individuo, vale ancora di più per il popolo. La più terribile maledizione che minaccia il popolo infedele è proprio l'esilio in una Terra straniera.
L'esperienza dell'esilio, tuttavia, ha avuto un effetto diverso su alcuni grandi personalità. Penso in particolare ai profeti Geremia ed Ezechiele. Il loro messaggio segna una svolta nella fede di Israele e permise di superare i limiti della mentalità appena descritta. Secondo gli schemi abituali, la distruzione del Santuario e la fine del regno di Giuda equivalevano a un finimondo. Se Dio non ha più Tempio, è come un sovrano che non possiede più alcun palazzo più regnare. Ma il Dio di Israele non cedette il suo posto agli dei Babilonesi e se le cose presero un'altra piega, lo dobbiamo in gran parte a Ezechiele. Dov'è Dio se il tempio è distrutto? Dio avrà un'altra dimora? Ezechiele afferma che il Dio di Israele non ha aspettato che la sua dimora fosse profanata dai Babilonesi. Ma se ne è andato prima. Egli descrive la partenza della gloria del Signore dal tempio di Gerusalemme (11,22-24). Afferma che il Dio di Israele può muoversi, non è una divinità statica, legata a un luogo particolare, a un santuario, bensì una divinità capace di spostarsi. Per questa ragione la gloria di Dio che risiedeva nel tempio viene a visitarlo in Babilonia e questo significa che Dio non ha abbandonato il suo popolo bensì viene a trovarlo con tutta la sua gloria in terra d'esilio.
La sua ricerca di un Dio presente in ogni situazione della sua storia è descritta nel libro dell'Esodo. Il Dio onnipotente che rivelò la sua gloria quando fece sparire gli egiziani nel mare colui che apparve in tutta la sua maestà sul monte Sinai, viene ad abitare in mezzo al suo popolo. Non sarà più lontano, né presente soltanto in momenti particolari; sarà presente ogni giorno e accompagnerà il popolo durante tutto il suo cammino nel deserto. L'entrata solenne del signore nella tenda dell'incontro è descritta nel capitolo 40 dell'esodo, l'evento è fondamentale. Il Dio dell'esodo non è soltanto presente alla fine del viaggio che Israele raggiungerà dopo tanti anni. Dio non aspetta il suo popolo nella terra. Egli viene a condividere la condizione precaria di chiunque viaggia nel deserto. Dio non è solo la meta da raggiungere alla fine del viaggio, bensì i fa parte del viaggio che diventa il luogo privilegiato della sua presenza. Il Dio eterno accetta di abitare nelle effimero nel transitorio, non disdegna di tenere compagnia alla fragilità umana. Il Nuovo testamento dirà l'ultima parola. Il Vangelo di Giovanni riprende due immagini essenziali dell'Esodo, la tenda e la gloria: il Verbo si è fatto carne ha piantato la sua tenda fra noi e abbiamo visto la sua gloria (Gv 1,14).
Mosè, quando chiede di vedere la gloria del Signore, pertanto di vedere il suo Dio presente in mezzo al suo popolo curarsi che Dio sia ancora disposto ad accompagnarlo nel suo cammino verso la Terra promessa. La richiesta di Mosè si integra perfettamente nelle trattative di questi capitoli, in cui cerca di convincere Dio a non abbandonare Israele benché sia un popolo ribelle. La risposta di Dio alla richiesta di Mosè è doppia.
In un primo momento, egli promette al Profeta che esaudirà la sua supplica: Io farò passare tutta la mia bontà davanti a te (Es 33,20). Dio usa il verbo passare per descrivere il modo in cui si manifesterà. Non dice io starò davanti a te e io farò stare tutta la mia bontà davanti a te. L'elemento dinamico è essenziale è il testo esclude ogni possibilità di una visione statica.
In un secondo momento Dio aggiunge a quali condizioni si farà vedere. Egli collocherà a Mosè nella fenditura della roccia e mentre passerà, di Mosè con la sua mano in modo che il profeta non lo possa vedere in faccia. Una volta passato Mosè potrà vederlo Dio di spalle perché si sarà già allontanato.
Questi versetti testimoniano una riflessione sulla condizione umana e sulla nostra incapacità di avere una visione completa ed esauriente del mistero di Dio. Fra le tante interpretazioni del brano, ve n'è una che mi pare degna di essere menzionata, quella di Gregorio di Nissa. Quando egli commenta il nostro passo si chiede perché Mosè possa vedere Dio solo di spalle e non a «faccia a faccia». La sua risposta è nello stesso tempo molto semplice e molto illuminante: si vede Dio di spalle perché passa davanti a Mosè per guidare Israele nel deserto verso la Terra promessa. Chi vuol vedere Dio, deve quindi seguire Dio: «L'insegnamento che Mosè, quando cerca di vedere Dio, riceve sulla maniera di poterlo vedere è la seguente: seguire Dio ovunque vi conduce, questo è vedere Dio. In effetti il suo passaggio significa che gli conduce colui che lo segue. Non è possibile a colui che ignora la via, di viaggiare in sicurezza senza guida. La guida gli mostra la via mentre lo precede . La salvezza per Israele consiste nel camminare. La perdizione invece è fermarsi o peggio ancora tornare indietro verso l'Egitto.
Il Dio del quotidiano
Il narratore descrive con grande semplicità una scena di ospitalità per mostrare con quanta dirigenza e premura il patriarca riceva ospiti di cui non conosce l'identità. Tutto si traduce in parole gesti semplici che manifestano con esemplare sobrietà l'atteggiamento di Abramo. Il Patriarca corre per salutare i tre ospiti e si affretta ad andare da Sara nella tenda per chiedere di preparare in fretta delle focacce; corre di nuovo verso l'armento per scegliere un vitello grasso e lo fa preparare in fretta. Un anziano non corre volentieri e questa corsa inoltre avviene nell'ora calda della giornata. Non abbiamo molti dettagli perché tutto deve essere pronto in poco tempo. Non abbiamo la risposta di Sara nella descrizione della lunga preparazione del pane e non si sofferma sullo svolgimento delle operazioni concrete della macellazione all'arrostimento della carne sul fuoco. Al narratore importa solo mostrare le disposizioni di Abramo che vuole offrire ai suoi ospiti un pasto raffinato e molto abbondante. Un punto merita di essere rilevato: si tratta di una scena familiare in cui nessun gesto è eccezionale. La solennità della scena traspare soltanto nella cortesia di Abramo, nella fretta dei preparativi e nella qualità del pasto offerto. Ancora una volta il racconto coniuga la densità del contenuto con la descrizione di gesti ordinari. Non si tratta di una visione mistica, non siamo rapiti al settimo cielo ma ci troviamo in una cucina. Il Dio della Bibbia può manifestarsi nella quotidianità e non necessariamente nella fantasmagoria di una teofania come quella del monte Sinai.
Su questo punto il Nuovo Testamento non si discosta dall'Antico ma lo approfondisce. Gesù laverà a lui stesso i piedi dei suoi discepoli. Nell'avvicinarsi del momento più importante della sua vita, la gravità del momento non solo esclude un gesto umile come quello della lavanda dei piedi, al contrario è la gravità del momento che si manifesta in modo incomparabile nell'atteggiamento semplice di un maestro che si mette a servizio dei suoi servi. «Sono in mezzo a voi come colui che serve» dice Gesù. Questa frase riassume meglio di lunghi discorsi un messaggio centrale della Bibbia: la sublimità di un'esperienza si rivela anche nell'umiltà di mansioni quotidiane e gesti consueti. “Lo spirituale è anch'esso carnale” (Peguy).
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