La Lettera agli Ebrei è in realtà un’omelia pronunciata da un autore a noi sconosciuto. Più che una lettera, è una splendida omelia, che si chiude con alcune frasi destinate a una comunità lontana. È probabile che l'Autore abbia pensato più volte questa omelia perché il testo è scritto con tanta cura ed era adatto ad essere proclamato in diverse comunità cristiane. Dalla chiusura si arguisce che l'Autore era un apostolo itinerante. La tradizione ci dice che apparteneva al gruppo di San Paolo e tutto si capisce bene in questa luce. L'inizio quindi non ha niente di epistolare: non è espresso il nome dell'Autore, né quello dei destinatari, né si inizia con un saluto.
È uno scritto teologico di importanza capitale. Enuncia un messaggio originale e coraggioso: dichiara che Gesù è Sommo Sacerdote. Di per sé egli non poteva far parte cella classe sacerdotale perché questo ministero era un privilegio esclusivo dei membri della tribù di Levi. Gesù però inaugura un nuovo tipo di sacerdozio: non offre doni o sacrifici d’animali nel tempio ma offre a Dio tutto se stesso, tutta la sua vita dedita a Dio e ai fratelli.
Il sacerdote esercitava un compito di mediazione: avvicinava Dio agli uomini e gli uomini a Dio. Per svolgere in modo adeguato questo ufficio doveva essere gradito a Dio agli uomini. Dapprima l’autore della Lettera espone il motivo per il quale Gesù è vicino a Dio e gradito a Lui. In seguito parla della sua vicinanza agli uomini, suoi fratelli.
L'Esordio della lettera agli Ebrei (Eb 1,1-4)
Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte ein diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli, ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
L’esordio è un testo magnifico nel quale l'Autore prepara il suo tema. L'Autore non parla ancora del sacerdozio di Cristo e della Nuova Alleanza, ma prepara questo tema con una frase splendida che comprende i primi quattro versetti e che ci dà una visione molto ampia di tutta la rivelazione biblica. Il sacerdozio di Cristo diventa così il centro di tutta la rivelazione biblica.
Dio è in relazione con noi
L'affermazione principale: Dio ci ha parlato e ci ha parlato nel suo Figlio. Così il Figlio viene presentato subito come mediatore della Parola di Dio. Questa prima indicazione prepara l'affermazione principale della lettera: Cristo è il mediatore della Nuova Alleanza, il sommo sacerdote della Nuova Alleanza.
Infatti il primo passo per stabilire un'alleanza consiste sempre nel parlarsi. Le parole non bastano, ma sono indispensabili. Senza parole non è possibile stabilire un'alleanza. Dio, dice l'Autore, ci ha parlato. La caratteristica del nostro Dio quella di un Dio che parla agli uomini. Dio è entrato in comunicazione con noi, ha preso l'iniziativa di stabilire con noi una relazione personale, che è diventata poi un'alleanza nel sangue di Cristo.
Il Dio della Bibbia non è un Dio della natura. È un Dio creatore, un Dio che entra in comunicazione personale. In questa frase l'Autore non esprime il contenuto del messaggio divino, non precisa che cosa abbia detto Dio, non elenca una serie di verità che Dio avrebbe comunicato. Spesso si parla della rivelazione come di un insieme di verità a cui bisogna aderire con fede. Questo è un aspetto certamente importante, ma per l'Autore non è l'aspetto principale. La cosa importante è che Dio si sia messo in comunicazione con noi. Parlare con una persona vuol dire stabilire una comunicazione con essa. È vero che in certi casi il contenuto oggettivo del messaggio può avere più importanza della relazione personale (ad esempio, nella corrispondenza commerciale). Invece, quando si tratta di una lettera scritta a un parente, a un amico, il contenuto spesso è secondario, ciò che conta è la relazione personale; scopo della lettera non è tanto lo scambio di notizie quanto quello di mantenere un relazione.
È stato ed è lo scopo di Dio: stabilire e mantenere una relazione con noi. Dio ci ha parlato per entrare in comunione con noi, per preparare e stabilire la Nuova Alleanza. È un Dio tanto grande, tanto santo, tanto diverso da noi, che ha preso l'iniziativa di rivolgersi agli uomini per stabilire una relazione e per approfondirla. Questo ci dovrebbe mettere nello stupore. Dio ha parlato a noi, Dio continua a parlarci. Il Signore vuole entrare in un rapporto personale più profondo con ciascuno di noi. Vuole parlare al cuore, in maniera più intensa, più intima, come dice il profeta Osea.
L'Autore non parla del contenuto del messaggio, ma nomina soltanto le persone: Dio che parla e i destinatari del messaggio, che sono i Padri nei tempi antichi, noi adesso; i mediatori della Parola di Dio che sono i profeti nei tempi antichi e il Figlio adesso.
A volte capita che certe persone non si parlino perché non vogliono entrare in relazione tra loro. I motivi possono essere diversi: differenza di livello sociale, differenza di razza, di opinioni, divergenze politiche, ecc. Nel Vangelo di Giovanni vediamo come una donna samaritana si meravigliava perché Gesù le rivolgeva la parola: "Come mai tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono samaritana?". L'evangelista spiega che i Giudei non avevano buone relazioni con i Samaritani. Effettivamente li disprezzavano perché erano di una razza mista, non autentici israeliti e la loro religione era considerata dubbia (Sir 50,25-26). L'evangelista si riferisce a questa convinzione, ma mostra che Gesù ha preso l'iniziativa di parlare a una donna samaritana, perciò ha stabilito una comunicazione con lei sapendo di fare così la volontà del Padre. Per spiegare questo suo sorprendente comportamento, dirà al discepoli alcuni momenti dopo: «É mio cibo fare la volontà del Padre». La volontà del Padre è proprio la comunicazione per preparare la comunione. Gesù insegna alla samaritana l'autentica relazione con Dio, cioè l'autentica adorazione, la mette sulla via della relazione profonda con Dio. Similmente Gesù vuole mettere anche noi sulla via dell'autentico rapporto con Dio nella Nuova Alleanza. Ci sono poi persone che si parlavano, ma non si parlano più; erano in comunicazione ma hanno interrotto le relazioni perché si sono ritenute offese o trattate ingiustamente. Dio avrebbe avuto tanti motivi per non parlarci più, ma vediamo nell'Antico Testamento che non si è mai rassegnato alla rottura delle relazioni, sempre ha voluto rientrare in comunione con il suo popolo. L'Autore della lettera può dire che "a più riprese e in più modi Dio ha parlato ai Padri nei tempi antichi". L'Autore insiste sulla pluralità, mette gli avverbi all'inizio della sua frase a più riprese e in più modi Dio ha parlato. Una cosa stupenda!
Tempi e modi della comunicazione di Dio
L'Autore della lettera agli Ebrei distingue due periodi di comunicazione della Parola di Dio e due specie di mediatori.
a) Il primo periodo è quello antico: Dio ha parlato in tempi antichi al suo popolo per mezzo di Mosè. Come dice la conclusione del Deuteronomio, non è più sorto nessun profeta uguale a Mosè. Poi sono venuti Samuele, Elia, Eliseo e i profeti. Tutto l'Antico Testamento è pieno di parole ispirate rivolte da Dio al suo popolo nel suo disegno di alleanza.
b) Il secondo periodo è quello escatologico, cioè definitivo. L'Autore dice letteralmente: "All'estremità dei giorni che sono questi". È una espressione biblica in cui si annunciava l'intervento decisivo del Signore. L'Autore ha l'audacia di affermare che questo tempo è venuto, ci siamo ormai. Viviamo nel periodo escatologico perché Dio ha ormai introdotto il suo messaggio definitivo scegliendo come mediatore della parola il proprio Figlio. Questi stabilisce una relazione molto più stretta tra Dio e noi in quanto il Figlio è intimamente unito al Padre. Non si può immaginare un mediatore della parola più perfetto di lui. Così viene preparato il tema del sacerdozio di Cristo. Il Figlio sarà il nostro mediatore, il nostro sacerdote. Per diventare il sommo sacerdote perfetto dovrà acquistare l'altra relazione, cioè la relazione stretta con noi. Cristo non è soltanto un portatore della Parola di Dio, come erano i profeti, ma Egli stesso è la Parola, il Verbo, in cui noi troviamo la pienezza della Parola di Dio e la pienezza anche dello Spirito di Dio, inseparabile dalla Parola di Dio. Dio ha allacciato relazioni personali con ciascuno di noi ed è il momento di ravvivare il senso di questa relazione personale tanto stupenda: si tratta della relazione di un povero essere umano con il Dio santo e perfetto.
La gloria del figlio
Non appena nominato il Figlio, l'Autore rimane come affascinato dalla sua persona, lo contempla nella sua gloria e non riesce più a parlare di altro. Non si tratta quindi di contemplare una gloria lontana, ma la gloria di colui che ci introduce personalmente nella comunione con Dio.
Comincia dicendo che Dio ha costituito il Figlio erede di tutte le cose (Eb 1,2). L'eredità è una cosa che viene alla fine, non all'inizio. Perché l'Autore parla subito dell'eredità? Ne parla perché contempla il Figlio nella sua gloria attuale. Il suo sguardo va sempre direttamente a Cristo nella sua gloria e questo corrisponde all'esperienza cristiana fondamentale che deve riflettere sempre meglio la nostra esperienza. Dopo la Pasqua e la Pentecoste, i cristiani sanno di essere in una relazione intima con Cristo glorificato e per mezzo di lui con il Padre. Dicendo questo, l'Autore infatti riprende la dichiarazione di Gesù risorto. Alla fine del Vangelo di Matteo si dice che gli è stato dato "ogni potere in cielo e in terra" (Mt 28,18). Questa eredità ricevuta da Cristo al compimento del suo mistero pasquale lo riveste di ogni potere.
Gesù afferma il compimento, nella sua persona, della celebre profezia di Daniele sul figlio dell'uomo. Nel capitolo 7 del libro di Daniele viene infatti descritta una visione impressionante di Dio, chiamato l'Anziano dei giorni seduto sul suo trono e poi il profeta dice che vede venire sulle nubi del cielo uno, simile ad un Figlio di uomo. A Lui fu dato potere regale e dominio, tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano, il suo potere è un potere eterno che non tramonta mai e il suo regno non avrà mai fine (cfr. Dn 7,13-14). Questa profezia trova compimento perfetto nella glorificazione pasquale di Gesù perché Egli riceve dal Padre il potere regale e il dominio su tutti i popoli della terra, ma anche ogni potere in cielo. Il progetto di Dio di dare all'uomo il dominio di tutto, si doveva realizzare attraverso un uomo che rappresentasse l'umanità intera e che fosse allo stesso tempo Figlio di Dio e figlio di Davide. Nella promessa di Natan a Davide, Dio diceva per mezzo del profeta: "Sarò per lui il padre ed egli sarà per me il figlio" (2Sam 7,14). La gloria di Cristo coincide con il compimento di tutto questo immenso disegno di Dio che ci deve far esultare.
L'Autore prosegue dicendo: "Per mezzo del quale aveva fatto anche i secoli o i mondi". Per poter essere l'omega, il punto ultimo della storia Cristo doveva essere anche il punto iniziale di tutto. Come dice il Quarto Vangelo: "Nessuno è mai salito al cielo fuorché colui che è disceso dal cielo" (cfr. Gv 3,13). Nessuno può alzarsi all'altezza stessa di Dio se non chi è stato già all'altezza di Dio fin dall'inizio: il Figlio di Dio. Quindi la contemplazione della gloria primordiale di Cristo completa la visione della sua gloria attuale. Cristo è stato mediatore di tutta la creazione. E questo manifesta anche l'ampiezza della sua potenza di mediazione.
L'Autore non si accontenta di queste due espressioni, già molto sostanziose, e vuole esprimere l'essere stesso del Figlio, non soltanto che cosa ha fatto, ma che cosa ha ricevuto, che cosa sia. E lo definisce allora irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza.
La prima espressione, irradiazione della gloria di Dio, si ispira ad un brano del capitolo settimo del libro della Sapienza, nel quale viene descritta la sapienza nella relazione con Dio. Il libro della Sapienza parla della sapienza come di un effluvio del potere divino, di una emanazione della sua gloria. Ma l'Autore non si accontenta di queste due espressioni. Preferisce parlare di irradiazione della gloria divina, e questo serve a farci capire la distinzione tra la persona del Padre e la persona del Figlio, ma allo stesso tempo la loro unità indissolubile poiché l'irradiazione non si può separare dalla fonte della luce.
Poi ha coniato un'altra espressione che non si trova altrove nella Bibbia: impronta della sostanza di Dio per manifestare la relazione estremamente stretta tra il Figlio e Dio. Non parla soltanto di immagine, ma di impronta. Tra una persona e la sua immagine, il suo ritratto, c'è separazione. L'impronta invece viene da un contatto diretto e forte, per cui risulta più fedele. Il Figlio non è una riproduzione di Dio a distanza, ma una riproduzione diretta della sostanza di Dio.
La purificazione dai peccati
A questo punto l'Autore fa una breve presentazione della tappa decisiva della storia della salvezza, dopo aver anche definito il ruolo del Figlio nel mantenimento della creazione. Cioè parla del mistero pasquale di Cristo che, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, si è assiso alla destra della maestà del Padre. Qui vediamo già spuntare il tema del sacerdozio di Cristo. Compiere la purificazione dei peccati è un compito specifico del sacerdozio. Con questa azione il Figlio ha tolto l'ostacolo che impediva la relazione di alleanza e ha stabilito la comunicazione per mezzo di quel movimento potente della glorificazione che lo ha fatto passare da questo mondo al Padre e grazie al quale ci ha anche aperto una via. L'ostacolo maggiore dell'alleanza era costituito dal peccato, perciò era indispensabile la purificazione. L'Autore per ora non spiega come questa purificazione sia stata ottenuta, non parla né di sofferenza, né di passione, né di morte perché qui voleva restare nella prospettiva positiva e gloriosa. Più avanti darà spiegazioni molto profonde sulla passione e la morte di Cristo. La sua glorificazione viene espressa con l'immagine presa dal salmo 109: «Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra». L'Autore prepara abilmente il tema del sacerdozio rifacendosi al salmo 109 dove ci sono due oracoli: il primo all'inizio sul sedersi alla destra di Dio e l'altro, più solenne ancora, poiché si tratta di un giuramento di Dio (Dio ha giurato e non si smentirà) che proclama il sacerdozio di Cristo: "Tu sei sacerdote". Così l'Autore ha preparato il suo tema di alleanza e di sacerdozio in questo esordio tutto illuminato dalla gloria di Cristo e termina dicendo che Cristo è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che egli ha ereditato.
Il nome di Cristo
Qual è il nome ereditato da Cristo dopo il suo mistero pasquale? In alcuni passi del Nuovo Testamento, nell'inno cristologico della lettera ai Filippesi, il nome è Kyrios, Signore. Ma per l'Autore della lettera agli Ebrei, il nome che esprime meglio la gloria di Cristo è quello proclamato da Dio nel salmo 109, cioè quello di sacerdote. Dio ha proclamato suo Figlio sommo sacerdote e perciò l'Autore mostrerà nei primi capitoli che Cristo è mediatore perfetto perché ha in modo perfetto le due relazioni necessarie per la mediazione: la relazione con Dio in quanto è il Figlio di Dio (è un aspetto essenziale del suo nome) e la relazione con gli uomini perché è fratello nostro. Questi due aspetti vengono sintetizzati nel titolo di sommo sacerdote perfetto.
Conferenza di A. Vanhoye; estratta dalla registrazione ed elaborata da V. Bonato.
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