sabato 13 aprile 2019

Ratzinger: Santità della Chiesa




La santità della Chiesa
(terza parte articolo di Ratzinger)

1. Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo creare un’altra Chiesa affinché le cose possano aggiustarsi? Questo esperimento già è stato fatto ed è già fallito. Solo l’amore e l’obbedienza a nostro Signore Gesù Cristo possono indicarci la via giusta. Proviamo perciò innanzitutto a comprendere in modo nuovo e in profondità cosa il Signore abbia voluto e voglia da noi.

In primo luogo direi che, se volessimo veramente sintetizzare al massimo il contenuto della fede fondata nella Bibbia, potremmo dire: il Signore ha iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è il vero antidoto al male. La forza del male nasce dal nostro rifiuto dell’amore a Dio. È redento chi si affida all’amore di Dio. Il nostro non essere redenti poggia sull’incapacità di amare Dio. Imparare ad amare Dio è dunque la strada per la redenzione degli uomini.

Se ora proviamo a svolgere un po’ più ampiamente questo contenuto essenziale della Rivelazione di Dio, potremmo dire: il primo fondamentale dono che la fede ci offre consiste nella certezza che Dio esiste. Un mondo senza Dio non può essere altro che un mondo senza senso. Infatti, da dove proviene tutto quello che è? In ogni caso sarebbe privo di un fondamento spirituale. In qualche modo ci sarebbe e basta, e sarebbe privo di qualsiasi fine e di qualsiasi senso. Non vi sarebbero più criteri del bene e del male. Dunque avrebbe valore unicamente ciò che è più forte. Il potere diviene allora l’unico principio. La verità non conta, anzi in realtà non esiste. Solo se le cose hanno un fondamento spirituale, solo se sono volute e pensate - solo se c’è un Dio creatore che è buono e vuole il bene - anche la vita dell’uomo può avere un senso.

Che Dio ci sia come creatore e misura di tutte le cose, è innanzitutto un’esigenza originaria. Ma un Dio che non si manifestasse affatto, che non si facesse riconoscere, resterebbe un’ipotesi e perciò non potrebbe determinare la forma della nostra vita. Affinché Dio sia realmente Dio nella creazione consapevole, dobbiamo attenderci che egli si manifesti in una qualche forma. Egli lo ha fatto in molti modi, e in modo decisivo nella chiamata che fu rivolta ad Abramo e diede all’uomo quell’orientamento, nella ricerca di Dio, che supera ogni attesa: Dio diviene creatura egli stesso, parla a noi uomini come uomo.

Così finalmente la frase «Dio è» diviene davvero una lieta novella, proprio perché è più che conoscenza, perché genera amore ed è amore. Rendere gli uomini nuovamente consapevoli di questo, rappresenta il primo e fondamentale compito che il Signore ci assegna.

Il primo compito che deve scaturire dagli sconvolgimenti morali del nostro tempo consiste nell’iniziare di nuovo noi stessi a vivere di Dio, rivolti a lui e in obbedienza a lui. Soprattutto dobbiamo noi stessi di nuovo imparare a riconoscere Dio come fondamento della nostra vita e non accantonarlo come fosse una parola vuota qualsiasi. Mi resta impresso il monito che il grande teologo Hans Urs von Balthasar vergò una volta su uno dei suoi biglietti: «Il Dio trino, Padre, Figlio e Spirito Santo: non presupporlo ma anteporlo!». In effetti, anche nella teologia, spesso Dio viene presupposto come fosse un’ovvietà, ma concretamente di lui non ci si occupa. Il tema «Dio» appare così irreale, così lontano dalle cose che ci occupano. E tuttavia cambia tutto se Dio non lo si presuppone, ma lo si antepone. Se non lo si lascia in qualche modo sullo sfondo ma lo si riconosce come centro del nostro pensare, parlare e agire.

2. Dio è divenuto uomo per noi. La creatura uomo gli sta talmente a cuore che egli si è unito a essa entrando concretamente nella storia. Parla con noi, vive con noi, soffre con noi e per noi ha preso su di sé la morte. Di questo certo parliamo diffusamente nella teologia con un linguaggio e con concetti dotti. Ma proprio così nasce il pericolo che ci facciamo signori della fede, invece di lasciarci rinnovare e dominare dalla fede.

Consideriamo questo riflettendo su un punto centrale, la celebrazione della Santa Eucaristia. Il nostro rapporto con l’Eucaristia non può che destare preoccupazione. A ragione il Vaticano II intese mettere di nuovo al centro della vita cristiana e dell’esistenza della Chiesa questo sacramento della presenza del corpo e del sangue di Cristo, della presenza della sua persona, della sua passione, morte e risurrezione. In parte questa cosa è realmente avvenuta e per questo vogliamo di cuore ringraziare il Signore.

Ma largamente dominante è un altro atteggiamento: non domina un nuovo profondo rispetto di fronte alla presenza della morte e risurrezione di Cristo, ma un modo di trattare con lui che distrugge la grandezza del mistero. ... L’Eucaristia è declassata a gesto cerimoniale quando si considera ovvio che le buone maniere esigano che sia distribuita a tutti gli invitati a ragione della loro appartenenza al parentado, in occasione di feste familiari o eventi come matrimoni e funerali. L’ovvietà con la quale in alcuni luoghi i presenti, semplicemente perché tali, ricevono il Santissimo Sacramento mostra come nella Comunione si veda ormai solo un gesto cerimoniale. Se riflettiamo sul da farsi, è chiaro che non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa inventata da noi. Quel che è necessario è invece il rinnovamento della fede nella realtà di Gesù Cristo donata a noi nel Sacramento...


3. Ed ecco infine il mistero della Chiesa. Restano impresse nella memoria le parole con cui ormai quasi cento anni fa Romano Guardini esprimeva la gioiosa speranza che allora si affermava in lui e in molti altri: «Un evento di incalcolabile portata è iniziato: La Chiesa si risveglia nelle anime». Con questo intendeva dire che la Chiesa non era più, come prima, semplicemente un apparato che ci si presenta dal di fuori, vissuta e percepita come una specie di ufficio, ma che iniziava ad essere sentita viva nei cuori stessi: non come qualcosa di esteriore ma che ci toccava dal di dentro. Circa mezzo secolo dopo, riflettendo di nuovo su quel processo e guardando a cosa era appena accaduto, fui tentato di capo­volgere la frase: «La Chiesa muore nelle anime». In effetti oggi la Chiesa viene in gran parte vista solo come una specie di apparato politico. Di fatto, di essa si parla solo utilizzando categorie politiche e questo vale persino per dei vescovi che formulano la loro idea sulla Chiesa di domani in larga misura quasi esclusivamente in termini politici. La crisi causata da molti casi di abuso ad opera di sacerdoti spinge a considerare la Chiesa addirittura come qualcosa di malriuscito che dobbiamo decisa­mente prendere in mano noi stessi e formare in modo nuovo. Ma una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza.

Gesù stesso ha paragonato la Chiesa a una rete da pesca nella quale stanno pesci buoni e cattivi, essendo Dio stesso colui che alla fine dovrà separare gli uni dagli altri. Accanto c’è la parabola della Chiesa come un campo sul quale cresce il buon grano che Dio stesso ha seminato, ma anche la zizzania che un «nemico» di nascosto ha seminato in mezzo al grano. In effetti, la zizzania nel campo di Dio, la Chiesa, salta all’occhio per la sua quantità e anche i pesci cattivi nella rete mostrano la loro forza. Ma il campo resta comunque campo di Dio e la rete rimane rete da pesca di Dio. E in tutti i tempi c’è e ci saranno non solo la zizzania e i pesci cattivi ma anche la semina di Dio e i pesci buoni. Annunciare in egual misura entrambe con forza non è falsa apologetica, ma un servizio necessario reso alla verità.

In quest’ambito è necessario rimandare a un importante testo della Apocalisse di San Giovanni. Qui il diavolo è chiamato accusatore che accusa i nostri fratelli dinanzi a Dio giorno e notte (Ap 12, 10). In questo modo l’Apocalisse riprende un pensiero che sta al centro del racconto che fa da cornice al libro di Giobbe (Gb 1 e 2, 10; 42, 7-16). Qui si narra che il diavolo tenta di screditare la rettitudine e l’integrità di Giobbe co­me puramente esteriori e superficiali. Si tratta proprio di quello di cui parla l’Apocalisse: il diavolo vuole dimostrare che non ci sono uomini giusti; che tutta la giustizia degli uomini è solo una rappresentazione esteriore. Che se la si potesse saggiare di più, ben presto l’apparenza della giustizia svanirebbe. Il racconto inizia con una disputa fra Dio e il diavolo in cui Dio indicava in Giobbe un vero giusto. Ora sarà dunque lui il banco di prova per stabilire chi ha ragione. «Togligli quanto possiede - argomenta il diavolo - e vedrai che nulla resterà della sua devozione». Dio gli permette questo tentativo dal quale Giobbe esce in modo positivo. Ma il diavolo continua e dice: «Pelle per pelle; tutto quanto ha, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia» (Gb 2, 4s). Così Dio concede al diavolo una seconda possibilità. Gli è permesso anche di stendere la mano su Giobbe. Unicamente gli è precluso ucciderlo. Per i cristiani è chiaro che quel Giobbe che per tutta l’umanità esemplarmente sta di fronte a Dio è Gesù Cristo. Nell’Apocalisse, il dramma dell’uomo è rappresentato in tutta la sua ampiezza. Al Dio creatore si contrappone il diavolo che scredita l’intera creazione e l’intera umanità. Egli si rivolge non solo a Dio ma soprattutto agli uomini dicendo: «Ma guardate cosa ha fatto questo Dio. Apparentemente una creazione buona. In realtà nel suo complesso è piena di miseria e di schifo». Il denigrare la creazione in realtà è un denigrare Dio. Il diavolo vuole dimostrare che Dio stesso non è buono e vuole allontanarci da lui.

L’attualità di quel che dice l’Apocalisse è lampante. L’accusa contro Dio oggi si concentra soprattutto nello screditare la sua Chiesa nel suo complesso e così nell’allontanarci da essa. L’idea di una Chiesa migliore creata da noi stessi è in verità una proposta del diavolo con la quale vuole allontanarci dal Dio vivo, servendosi di una logica menzognera nella quale caschiamo sin troppo facilmente. No, anche oggi la Chiesa non consiste solo di pesci cattivi e di zizzania. La Chiesa di Dio c’è anche oggi, e proprio anche oggi essa è lo strumento con il quale Dio ci salva. È molto importante contrapporre alle menzogne e alle mezze verità del diavolo tutta la verità: sì, il peccato e il male nella Chiesa ci sono. Ma anche oggi c’è pure la Chiesa santa che è indistruttibile. Anche oggi ci sono molti uomini che umilmente credono, soffrono e amano e nei quali si mostra a noi il vero Dio, il Dio che ama. Anche oggi Dio ha i suoi testimoni («martyres») nel mondo. Dobbiamo solo essere vigili per vederli e ascoltarli.

Il termine martire è tratto dal diritto processuale. Nel processo contro il diavolo, Gesù Cristo è il primo e autentico testimone di Dio, il primo martire, al quale da allora innumerevoli ne sono seguiti. La Chiesa di oggi è come non mai una Chiesa di martiri e così testimone del Dio vivente. Se con cuore vigile ci guardiamo intorno e siamo in ascolto, ovunque, fra le persone semplici ma anche nelle alte gerarchie della Chiesa, possiamo trovare testimoni che con la loro vita e la loro sofferenza si impegnano per Dio. È pigrizia del cuore non volere accorgersi di loro. Fra i compiti grandi e fondamentali del nostro annuncio c’è, nel limite delle nostre possibilità, il creare spazi di vita per la fede, e soprattutto il trovarli e il riconoscerli.

Alla fine delle mie riflessioni vorrei ringraziare Papa Francesco per tutto quello che fa per mostrarci di continuo la luce di Dio che anche oggi non è tramontata. Grazie, Santo Padre!

mercoledì 10 aprile 2019

La Grazia operante prima di Cristo


Numerosi passi del Nuovo Testamento testimoniano espressamente che in Cristo furono create tutte le cose [...]. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui (Col 1,16). In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo (Ef 1,4). Tutto è stato fatto per mezzo della Parola (Gv 1,3) e per questo la Parola era già nel mondo e con l'incarnazione egli venne tra i suoi (Gv 1,10), vale a dire nella realtà che egli compenetra e segna con la sua presenza. 
Questa presenza salvifica di Dio vale, in modo particolarmente esplicito, per l'eone veterotestamentario. Secondo Paolo, Cristo, come roccia spirituale, accompagnava già Israele che camminava nel deserto (cf. 1 Cor 10,4); è Lui che ha rivolto la sua parola a Mosè e ai profeti (cf. Gv 5,46). La legge dell'Antico Testamento è dello Spirito (Rm 7,14); essa è stata per noi pedagogo, fino a Cristo (Gal 3,24), avendo così una «funzione propedeutica» verso di lui. In breve: la creazione, che è stata creata in Cristo, per mezzo di lui e verso di lui orientata, di lui che è la pienezza, perfetto compimento di tutte le cose (Ef 1,23), è di fatto segnata, sostenuta e avvolta dalla grazia di Dio in Gesù Cristo. Qui non si tratta semplicemente del «Logos al di sopra della storia», ma di Gesù Cristo, che Dio guarda come Redentore fin dal principio della creazione.

Infatti, Dio poté «osare» l'opera di una creatura libera, che avrebbe potuto decidersi anche contro di lui, solo perché fin dal principio aveva deciso di salvarla, attraverso il proprio «impegno», dalla sua autodistruzione e dal destino di morte, da essa stessa procurato. È su questa linea che si potrebbe comprendere 1 Pt 1,19, dove si dice che Cristo, l'Agnello, fu predestinato fin dalla fondazione del mondo a redimerci mediante il suo sangue. 
In questo contesto si può forse collocare anche un pensiero di Ireneo di Lione: «II Verbo di Dio [...] il nostro Signore, che si è fatto uomo negli ultimi tempi, è nel mondo e in quanto è invisibile sostiene tutte le cose ed è impresso in forma di croce in tutto il creato, perché come Verbo di Dio governa e dispone tutte le cose». Ciò significa: Il Logos, nel quale e in vista del quale Sono State create tutte le cose, in un certo modo è presente nella creazione a priori rispetto a tutto ciò che in essa accade ed è presente precisamente nella forma kenotica della croce, dunque volendo mostrare il suo amore estremo e sanare le ferite della creazione. Perciò, Dio poteva «rischiare» la creazione poiché egli a fuori poteva affrontare tale rischio alla sola condizione di coinvolgere se stesso in esso e di aprire, prendendo se stesso come punto di partenza, una via attraverso un intrico impenetrabile. E ciò è avvenuto mediante la passione del suo proprio Figlio - che ha patito il male «attraversandolo». In questo senso, anche per Hans Urs von Balthasar, come per Karl Rahner, tutta la creazione è già da sempre pre-redenta, «e precisamente già prima della sua creazione e quindi anche prima della sua possibile e reale caduta». Infatti, in quanto Dio ha assunto ancora una volta il rischio del peccato mediante la disponibilità del Figlio a perseverare nel sì anche dentro il no della ribellione, e ha garantito così il buon esito della creazione, c'è in un senso totalmente e pienamente reale una preredenzione «eterna» della creazione.
Essa si fonda sulla volontà salvifica incondizionata di Dio e si manifesta nel fatto che, in ogni tempo, ci sono state persone che hanno potuto dire il loro sì a Dio e lo hanno potuto realizzare in una vita «redenta», vale a dire veramente libera. Di qui «sgorga» in un certo modo la figura di Maria, nella quale si vede chiaramente questa «pura luce» divina, non in lei soltanto, tuttavia in lei in un modo singolare, in lei che doveva diventare la madre di Dio. Infatti «da qualche parte sulla terra deve risuonare una risposta non parziale ma totale, non approssimativa ma assolutamente chiara alla sua parola. E ciò deve accadere proprio lì dove si compie la sua venuta. Egli deve essere accettato e accolto dalla terra, altrimenti non potrebbe in alcun modo arrivarci».

Questo sì della creazione totalmente riuscito è però preceduto da innumerevoli sì (come è anche seguito da altri innumerevoli sì). Non sorprende, quindi, che tutto l'Antico Testamento sia pieno di momenti in cui si rinnova la grazia di Dio, vale a dire la sua liberazione, la sua vicinanza e la sua attenzione. «Da Abramo in poi, la storia del popolo di Dio è piena delle azioni salvifiche di Dio». E proprio questo che non è stato sufficientemente messo in evidenza dalla dottrina agostiniana del peccato originale, sebbene in altri contesti Agostino avesse assolutamente sostenuto resistenza «anticipata» di una fede cristiana prima di Cristo e avesse parlato di uomini prima di Cristo che erano pieni di Spirito Santo (cf. p. 145) : non c'è solo la storia di perdizione e di peccato, di cui Paolo scrive: tutti hanno peccato (Rm 3,23), ma c'è anche la storia della salvezza inaugurata da Dio e da lui sempre ricominciata e confermata, nella quale egli, per esempio, dona a Israele una vita vera, buona e felice, che viene anche effettivamente accolta e vissuta da chi la riceve (si pensi alla lode della fede dei padri in Eb 13), una salvezza che non è indipendente da Gesù Cristo, ma che viene donata e resa possibile «in vista di lui». Tutta la grazia è quindi «grazia di Gesù Cristo». Essendo tutta la creazione e la storia della salvezza segnata da questa grazia, «ciò che precede» (per esempio, gli interventi salvifici dell'Antico Testamento) avviene «nella forza di ciò che segue» (la redenzione storica mediante Gesù Cristo). Ecco come Karl Rahner riassume questi aspetti:
«Nel caso in cui e a motivo del fatto che la grazia di Cristo fu presente e operante nel mondo già prima di Cristo, gli eventi che si fondano su questa grazia precristiana di Cristo, in virtù della loro teleologia interna (quand'anche nascosta), portano avanti il corso 'immanente' della storia verso l'evento di Cristo, di modo che sia giusto dire anche: questo accade perché quelli furono. Si deve quindi dire: quelli furono così perché in futuro doveva accadere questo».
Maria si trova in questo grande contesto, ma non è la sola. Infatti, anche Noè, Abramo e Mosè... sono «Maria», o meglio: Maria ricapitola tutti coloro che non soccombono nella situazione di condanna del «peccato originale», ai quali Dio ha donato un nuovo inizio e per i quali ha inaugurato la salvezza e questo anche prima dell'evento «storico» della redenzione in Gesù Cristo. Questa «redenzione prima della redenzione», e precisamente a motivo della «fede» dell'uomo è nota, come abbiamo già brevemente notato sopra, anche ad Agostino. Lo vediamo, per esempio, quando parla dei «giusti» nelle epoche prima di Cristo: «quei giusti sono membra del Cristo in forza della fede nella sua incarnazione, non ancora avvenuta per quei tempi, ma ventura». Della «fides» (allo stesso modo della «ecclesia
ab mitlow) Si deve parlare senza interruzione «inde ab initlO mundl»\ cambiano invece le condizioni storiche esterne nelle quali si formula la fede, a seconda che essa «sia a conoscenza» in modo «implicito» o «esplicito» dell'incarnazione di Dio, oppure che essa la attenda ancora nella «speranza». «Tempora variata sunt, non fides». Ciò vale espressamente, per esempio, per Geremia (1,5: Prima di formarti nel grembo materno, [...] ti ho consacrato) e per Isaia (49,1.5: Il Signore mi ha plasmato suo servo dal seno materno). Questa «azione preveniente» di Dio non vale solo nei confronti di singole persone e non consiste semplicemente in un «prima» temporale, ma è il segno (in un certo modo «trascendentale») sotto il quale si trova l'intera creazione e, in modo particolare, la storia della salvezza «ufficiale» e quindi anche l'Antico Testamento.
In questo senso G. Lohfink e L. Weimer considerano il dogma della immunità di Maria dal peccato originale come addirittura «provvidenziale», al fine di esprimere il rapporto di Maria (e in senso più ampio di tutto il Nuovo Testamento) con il popolo di Dio dell'Antico Testamento. Però si deve fare anche un altro, forse molto più importante passo: Maria non rappresenta solo l'antica alleanza, ma tutta la storia dell'umanità, ovunque in essa ci siano salvezza e redenzione dalla situazione di condanna del peccato «in vista di Gesù Cristo». Certamente questo a priori della grazia si concentra, dal punto di vista della storia, nell'evento Cristo, poiché qui «la salvezza del mondo si verifica in modo definitivo e irrevocabile come opera di Dio». Ma esso non inizia qui, piuttosto si manifesta qui in una forma insuperabile, e precisamente in quanto, mediante il sì di Maria, può trovare una via di accesso irrevocabile e straordinaria nella storia. Essendo coinvolta profondamente in questo evento di «centralizzazione» della grazia, «traducendo» nel mondo l'a priori della grazia nella sua forma insuperabile, Maria stessa è «il «caso» assoluto e radicale dell'uomo redento, colei che fu redenta in maniera più perfetta e, per questo, l'archetipo del redento e della chiesa in generale», come dice Rahner, formulando il principio centrale della sua mariologia.
Affrontiamo già qui  la seguente questione: di fronte all'a priori della grazia, che significato hanno «ancora» l'incarnazione nella storia e la redenzione mediante la passione e la croce di Gesù Cristo? Per chiarire la problematica, in questa sede è possibile presentare in estrema sintesi due punti di vista.
Primo: l'«essere-sempre-già-superati» dalla grazia non deve significare in nessun modo negare o ridimensionare la croce di Gesù. Esso però amplia le dimensioni di ciò che significa redenzione. Già in Ireneo di Lione la redenzione è molto di più della semplice liberazione dal peccato. In lui la redenzione compiuta dal Figlio di Dio significa anche, anzi addirittura soprattutto che l'essere umano viene «condotto» verso l'incorruttibilità e la pienezza della gloria, verso la rivelazione dell'amore e della bontà di Dio. In questa prospettiva, inoltre, sarebbe anche possibile vedere maggiormente L'Immacolata concezione nel suo aspetto positivo, considerandola cioè come fondazione della creazione pura e non, in primo luogo, come «immunità fin dal principio» dal peccato e dalla colpa. Il «donare la grazia a priori» andrebbe compreso come apertura di una via affascinante verso la gloria di Dio piuttosto che principalmente come «risoluzione di un problema proveniente dal passato», nel senso di liberazione dal peccato (senza che questo aspetto debba essere negato anche solo in minima parte).
Secondo: in senso del tutto generale, si deve dire che l’agire di Dio non è paragonabile all'arrivo di un meteorite. L'uomo che ne è interpellato viene preparato secondo quanto affermano le già citate parole di Rahner: «Nel caso m cui e a motivo del fatto che la grazia di Cristo fu presente e operante nel mondo già prima di Cristo, gli eventi che si fondano su questa grazia precristiana di Cristo in virtù della loro teleologia interna (quand'anche nascosta), portano avanti il corso "immanente" della storia verso l'evento di Cristo». Anche se l'agire di Dio è in atto ed è efficace già «prima» di Cristo, o apparentemente «indipendentemente» da Cristo, e anche se viene percepito come tale, 1 essere umano non e in grado di conoscere da se stesso fin dove arrivi l'impegno di Dio per la sua creazione. Dio mantiene davvero la sua fedeltà alla creazione m ogni circostanza, davvero non ritira mai la sua alleanza e le sue promesse? Che dire degli uomini che consapevolmente e liberamente hanno cercato la lontananza radicale da Dio e vi vogliono restare? L'essere umano è allora abbandonato a se stesso, destinato a soccombere nell'inferno da lui stesso creato? E quali sono le strade e gli strumenti che permettono all'uomo di porre freno alla forza distruttiva del male che avanza sempre in modo nuovo?
Tutte queste domande e molte altre simili restano senza risposta fino alla comparsa del Redentore Gesù Cristo. Allo stesso modo resta indeciso anche l'esito della storia umana. Per questo afferma giustamente il Vaticano II: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo» (CS 22). Tutto questo si realizza, si attua e si chiarifica solo nell'evento della redenzione compiuto da Gesù Cristo dentro la storia. Solo in Gesù Cristo, così Karl Rahner, la storia dell'autocomunicazione di Dio è «diventata [...] irreversibile e si mostra in forma storica come escatologicamente vittoriosa». Soltanto a partire da Gesù Cristo diventa chiaro che il fossato tra il Creatore e la creatura, ma anche tra il Dio santo e l'uomo peccatore, è chiuso, anzi è sempre stato chiuso fin dal principio, poiché Dio  si è comunicato all'uomo totalmente, radicalmente e senza riserve. Soltanto a partire da Cristo sappiamo: «II genere umano ha il suo posto presso Dio».

In questo senso il compimento definitivo e la pienezza di tutti i doni salvifici di Dio sono raggiunti nell'evento Cristo. Con esso il fondamento che rende possibile la libertà, l'amore di Dio, che supera ogni confine e si svuota in modo radicale, entra in quanto tale nello spazio concreto della libertà creaturale, spezza il circolo vizioso della (non-)libertà che si chiude in se stessa, instaura un modello definitivo e normativo della libertà, istituendo così uno spazio comune permanente di libertà, uno Spazio che non è revocabile e che, nelle condizioni della storia, non è superabile: la chiesa.

Appunti da: G. Greshake, Maria-Ecclesia, Queriniana, Brescia 2017,  pp. 273-279

martedì 9 aprile 2019

Cooperare con Dio?


Appunti da Maria-Ecclesia “Collaboratrice di Dio”; in Gisbert Greshake, Maria-Ecclesia, Queriniana, Brescia 2017, 483-506

La cooperazione degli uomini all’opera di Dio compare già nelle prime pagine della Bibbia.
Abramo riceve il ruolo di essere benedizione per tutti i popoli della terra. Il dono della fede non viene dato ad esclusivo vantaggio personale ma chiama  al servizio degli altri. Il patriarca rimane sempre un riferimento perché la comunità d’Israele supplica Dio contando sulla mediazione di Abramo: «Non ritirare da noi la tua misericordia, per amore di Abramo, tuo amico» (Dn 3,35). Una funzione simile viene esercitata da Geremia (2 Mc 15,14), anzi Dio cerca un uomo che si ponga sulla breccia di fronte a Lui e interceda per altri (Ez 22,30).
Paolo definisce se stesso e i propri collaboratori come collaboratori di Dio (2 Cor 6,1). A partire da questa base deve essere compresa anche la posizione di Maria come mediatrice. Nella communio sanctorum ogni credente è unito ad ogni altro credente, ognuno può sostenere l’altro e intercedere per lui. Ciò che viene detto in merito a Maria, riguarda tutta la rete della comunione dei santi come mediazione vicendevole della salvezza: ognuno/a è per l’altro chiesa, ognuno/a è per l’altro Maria (492-493).


Concorrenza tra Dio e l’uomo?


Non si pone così una concorrenza tra Dio e l’uomo?
Non si toglie nulla alla sovranità di Dio (anzi essa diventa più grande ancora), se Egli dona alla creatura la dignità di un suo operare proprio e se conserva questa dignità anche nel peccato.
Dio vuole e crea l'operare proprio della creatura, anzi il suo co-operare al suo piano di salvezza. Sminuire la creatura significherebbe sminuire la grandezza di Dio poiché questa si dimostra nel modo più grande possibile nel concedere un agire proprio e un cooperare con Lui. La gloria di Dio consiste appunto nel far esistere e far agire la creatura stessa, nel suo libero dono della libertà. Dio non si mostra un'origine concorrente accanto alla libertà umana, ma come la libertà che concretamente rende possibile, fa essere e libera la libertà umana, che viene così posta in una autonomia altissima. Grandezza di Dio e libertà e forza dell’uomo crescono in modo direttamente e non inversamente proporzionale. La differenza fondamentale tra Creatore e creatura è insormontabile. Eppure: Dio è tanto più grande quanto più rende grande e fa essere grande l'uomo. (487)
Come il Figlio eterno di Dio si unisce intimamente alla natura umana e in questo modo è il mediatore tra Dio e l'umanità, così lo Spirito si unisce alla chiesa al fine di realizzare di volta in volta, dentro la contemporaneità dello spazio e del tempo, degli individui e delle comunità, la redenzione realizzatasi una volta per tutte nel Figlio di Dio.
In questo modo lo Spirito Santo (e mediante lui il Signore glorificato ripieno dello Spirito) è il vero soggetto di ogni mediazione salvifica. È lo Spirito colui che rende presente sempre di nuovo («media») e porta al compimento l’opera di Cristo nel suo insieme, la sua parola e il suo esempio, le sue azioni liberanti e salvifiche, «per la crescita del corpo». Egli lo fa appunto mediante l’essere e l'agire della chiesa. Così la chiesa è sia sacramento di Gesù Cristo, in quanto Cristo porta avanti la sua opera salvifica mediante la chiesa, sia - in altro modo - sacramento dello Spirito Santo, in quanto lo Spirito, come «mediazione» dell’unico mediatore Gesù Cristo, ne rende presente l’azione in modo sempre nuovo. (489)
Come esercita la sua opera nella Chiesa, così lo Spirito la esercita anche in Maria, nella Maria-Ecclesia.

In che modo Gesù Cristo, salvezza del mondo, arrivi agli uomini di oggi, in una società secolarizzata? Attraverso persone che credono, nelle quali Cristo è presente secondo le parole di Paolo: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20), di più ancora: nelle quali Cristo «nasce di nuovo» e «ha preso nuova forma».
Chi vive nella fede in mezzo a persone che non credono, porta a loro Cristo. E Cristo le santifica, allo stesso modo in cui, in un matrimonio, il coniuge credente «santifica» il non credente, come scrive espressamente Paolo: «II marito non credente, infatti, viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente» (1 Cor 7,14). Quindi, per portare ad altri Cristo e la sua salvezza non servono atti «aggiuntivi» di evangelizzazione e di missione, che oggi di fronte a un rifiuto ampiamente diffuso da parte dei destinatari sono in ogni caso piuttosto controproducenti. Una vita che in modo risoluto è condotta a partire dalla fede è essa stessa «evangelizzazione».
Dobbiamo rendere attraente la fede cristiana per coloro che non credono attraverso l'esempio, la bontà, il contatto» ed essere con il nostro esempio una predica vivente: la differenza tra la loro vita e quella dei non cristiani deve attirare la loro stima. [...] Dobbiamo essere un vangelo vivente.


Sostituzione e rappresentanza


L’idea della rappresentanza vicaria, vale a dire la convinzione che uno possa presentarsi davanti a Dio per gli altri e che Dio dia valore a questo intervento l'uno per l'altro, appare di frequente lungo la storia della salvezza veterotestamentaria. Nella relazione di alleanza è attestata la convinzione che ogni individuo, possa diventare «punto di irruzione» della salvezza (o della perdizione) per le altre persone. Dio fa dipendere la salvezza, che solo lui può donare, anche da noi uomini, di modo che ciascuno sia responsabile, a modo proprio, degli altri, anzi di tutto il popolo. Uno può e deve avere il compito di essere «amministratore della grazia» (1 Pt 4,10) per gli altri, e questo fino al punto che uno sia chiamato e sia messo in grado di rappresentare davanti a Dio gli altri uomini o addirittura tutto il popolo.
Lo stesso Israele si riconosce nell’immagine del servo di Dio, sentendosi chiamato a rappresentare i «popoli» intervenendo a loro favore affinchè siano anch'essi accolti dentro la comunione con Dio (e tra di loro), per arrivare infine a Gesù Cristo, nel quale la rappresentanza vicaria giunge al suo compimento.
In tutti questi esempi la rappresentanza vicaria è qualcosa di totalmente diverso dal fare qualcosa che «sostituisce materialmente» ciò che doveva fare un altro.
Si deve distinguere attentamente tra essere un rappresentante ed essere un sostituto. Un esempio: in una fabbrica metallurgica per motivi di salute è assente un lavoratore di cui c'è urgente bisogno nella catena di montaggio. Che cosa si deve fare? Deve andarci qualcun altro! Costui è un rappresentante? No, egli è un sostituto, qualcuno che adesso fa il lavoro che normalmente è eseguito da un altro. Fondamentalmente, chi sia questo sostituto non fa nessuna differenza, la cosa importante è che il lavoro sia fatto, che la catena non si fermi, che il montaggio possa andare avanti.
Totalmente diverso è il caso del rappresentante. Un rappresentante prende il posto di un altro o di molti altri in modo totalmente personale. Egli vuole intervenire per loro, desidera che siano presenti nelle sue azioni e che grazie ad esse possano ricavarne un bene e un vantaggio. Colui che rappresenta è interessato alla persona, a questo altro (a questi altri). Nel fare questo egli considera le sue azioni letteralmente come provvisorie, come qualcosa che provvede. Egli non ha desiderio più grande se non che l'altro, per il quale interviene, possa assumere personalmente e liberamente il posto che è stato pensato per lui. Chi svolge questa rappresentanza vicaria procede quindi nella speranza che l’altro poi arrivi nel posto nel quale egli lo ha preceduto. Così egli - a differenza del sostituto - è colui che procede, che provvede, che in un certo modo risponde «provvisoriamente» per l'altro o gli altri e che prende il loro «posto» fino a quando loro stessi lo occuperanno e adempiranno il loro compito.
Chi è rappresentato fa parte, prende parte o (dapprima) «passivamente» all'azione di colui che esercita la rappresentanza oppure può cercare «attivamente» di arrivare al «posto» nel quale egli viene rappresentato «provvisoriamente».



Maria e la rappresentazione vicaria


Già con il suo ruolo di «resto santo di Israele», Maria ha un posto di rappresentanza per tutto il popolo di Dio, anzi per tutta l'umanità. Per essa ella è liberamente disponibile ad accogliere la venuta del Figlio di Dio, che in lei assume la natura umana per mettersi «all'ultimo posto» come nostro fratello, abbracciando e sostenendo così tutto il mondo e portandolo al Padre.
Nel suo sì «rappresentante», che Maria ha detto all'incarnazione e che ha portato avanti in tutte le sue conseguenze (fino alla croce e alla venuta dello Spirito Santo [At 1,14]), lei ha detto implicitamente sì anche ali'opera redentrice e salvifica di Cristo. Non è lei stessa ad essere la Redentrice e la Santifìcatrice, ma è colei che per prima si è aperta alla redenzione e alla santificazione portate da Cristo, che le ha «fatte accadere» e le ha lasciate operare in se stessa. Ella non è neanche la Mediatrice della salvezza (anche se, con molte precisazioni che ne delimitano il significato, è stata ed è chiamata così), ma è colei che - in riferimento all'evento «oggettivo» della salvezza e della redenzione - ha detto sì all'unica mediazione della salvezza in Gesù Cristo, facendo così entrare la salvezza nel mondo e in questo senso mediandola al mondo. Maria ha così un ruolo di rappresentanza (nel senso indicato) per tutti noi, per tutta l'umanità: lei è eletta da Dio come suo dono che precede ed è da lui chiamata come colei che precede e precorre, che si rende presente per gli altri fino a quando tutti prenderanno il proprio posto e si apriranno ad accogliere il dono e il compito della salvezza.
Un compito analogo di rappresentanza a favore dell'umanità è proprio della chiesa. Anch'essa è il grande dono che precede, dono di Dio al mondo per mezzo del quale la fede e il frutto della redenzione sono trasmessi, permettendo così a ogni singolo individuo di appropriarsene. Finché ciò non avviene, la chiesa occupa il proprio posto di rappresentante nella fede, nella speranza e nella carità, e non da ultimo nella lode di Dio per tutti, per tutta l'umanità. In questa prospettiva, il cristianesimo delle origini, mostrando una grande «autocoscienza», ha compreso la propria esistenza come un «pro-essere» a favore del mondo.
La cooperazione deve essere visibile e sperimentabile e prendere, perciò, la forma di segno. Ciò avviene mediante il ruolo insostituibile del ministero ordinato. Nel ministero della Chiesa non avviene quindi la sostituzione di Cristo da parte di un’autorità umana, ma è lui stesso che si rende efficace, attuando la presenza irrevocabile della sua azione nel segno efficace che rimanda a lui.


Azione produttiva e azione espressiva


Per quanto riguarda la chiesa nel suo insieme, nelle nazioni dell'Occidente, l’agire della chiesa sta non di rado sotto il primato della prestazione e dell'efficienza. Il fare ha in mente l’efficienza e la produzione di oggetti, istituzioni o processi. In una simile prassi la persona si impadronisce, come causa efficiente, della realtà esistente e la «sottomette» alle proprie idee e ai propri scopi. Nell'epoca moderna l’agire umano sta quasi esclusivamente sotto il segno di questa prassi produttiva. Non è però possibile che questo sia il modo in cui l’essere umano coopera all’azione di Dio. Egli non può catapultarsi con le proprie forze dentro la relazione con Dio e con il prossimo, non può neppure riunire e dare sostegno al popolo di Dio, ne può ottenere il futuro del regno di Dio che è stato promesso.
Nondimeno, attualmente ampi segmenti della vita ecclesiale e della prassi pastorale sono connotati da questa specie di «agire produttivo». Di fronte a ciò si deve sottolineare con forza che la prassi ecclesiale, che è prassi della fede, non può e non deve muoversi nelle dimensioni dell’agire produttivo; essa richiede un'altra modalità che brevemente può essere detta «agire espressivo». Qui con agire si intende qualcosa di totalmente diverso: si tratta di «compiere» qualcosa che già c’è prima di noi o che ci è dato in precedenza. Si tratta di praticare un agire nel quale qualcosa che è dato in precedenza si «da corpo», si «esprime», si «simboleggia», sviluppandosi così «nella pienezza della sua essenza». Un esempio semplice di questo tipo di prassi può essere il gesto di porgere una rosa tra due persone che si amano. Si tratta, infatti, indubbiamente di fare qualcosa, una prassi, però è un fare che non produce qualcosa, ne costruisce, ne trasforma un oggetto. Qui viene piuttosto espresso l’amore reciproco che già c’è, che in questo modo può sviluppare
Ogni coopcrazione del singolo o della chiesa con Dio può appartenere soltanto al genere della prassi espressiva nella quale si rappresenta, si da corpo a ciò che Dio stesso fa nell'essere umano, con lui e per mezzo di lui. Infatti, ogni agire umano, ogni agire pastorale della chiesa da se stesso non può operare nulla «per la salvezza» - qui ogni operazione è, come dice giustamente la dogmatica, grazia pura, indisponibile - e non può ne deve dunque costituirsi sotto la parola programmatica «efficienza». L agire che nasce dalla fede è autentico solamente quando da corpo all'agire di Dio e lo rende visibile nel segno, in modo del tutto semplice e calmo, senza pressione della prestazione o del successo. Di questo modo di agire si può dire con Paolo: Ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me (1 Cor 15,10), e anche: È Dio, che opera tutto in tutti (1 Cor 12,6; cf. anche Eb 13,21). In una simile prassi espressiva - ne è un criterio la rinuncia all’efficienza in grande stile e l’attenzione amorosa verso i poveri, i piccoli e tutto ciò che «non porta niente» - in questa prassi l’agire di Dio stesso arriva alla «pienezza della sua essenza» poiché in tal modo il suo amore gratuito - il suo piano di ricapitolare in Cristo tutte le cose e di introdurci nella sua vita - appare visibilmente e concretamente nelle strutture del mondo e risplende nel segno della coopcrazione umana.
Maria rappresenta proprio questo genere di «prassi». Ella non fa niente da se stessa. Ella è totalmente aperta per Dio e per la sua azione. Ella «da corpo» a ciò che le è donato. Ella è - per riprendere l'immagine appena usata - un «mazzo di rose» in persona, con il quale viene donato ad altri il dono di Dio che già c'è e che al contempo rimanda alla sua origine e al suo autore. Le grandi cose che avvengono per mezzo di lei sono per lei soltanto occasione e motivo di lodare Dio (Magnificat) e di indicare verso di lui. Così ella tiene davanti agli occhi della chiesa lo specchio nel quale questa può scoprire e deve sempre nuovamente riscoprire la sua essenza: aver trovato grazia e per grazia poter cooperare. 

martedì 2 aprile 2019

Philippe Arino Omosessualità nella Chiesa


Incontrare, anche se per poco tempo, Philippe Ariño, cattolico, Sentinella in Piedi con tendenze omosessuale,  rimane un’esperienza unica. Forse per la sua personalità così enigmatica ed esuberante, forse per l’esperienza che la vita in soli trent’anni gli ha dato, portandolo a essere insegnante di spagnolo, scrittore, critico d’arte, cantante, blogger e ora a cercare di aprire un’accademia d’arte. O forse perché ciò che afferma sui temi dell’omosessualità è così incredibilmente vero, da mettere in crisi la “dittatura del pensiero unico” del gender che si sta impadronendo della nostra società. 


«L’omosessualità è la prima forma di omofobia». A parlare così è Philippe Ariño, omosessuale spagnolo di 34 anni, che oggi insegna lingue a Parigi. Blogger e frequentatore del mondo dell’attivismo Lgbt, nel 2011 ha cominciato a far parlare di sé rivelando di aver cambiato vita. Nel 2013 ha condotto in prima linea la battaglia contro la legalizzazione del “matrimonio per tutti” francese ed è autore del libro Omosessualità controcorrente, che in Francia ha venduto più di 10 mila copie.
È lui che consigliò a Frigide Barjot, ex portavoce della Manif pour tous, di non parlare di eterosessualità, «altrimenti si perde non solo la battaglia, ma la guerra». Intervistato da tempi.it, Arino spiega che «per salvare l’essere umano da se stesso bisogna andare all’origine del problema. Quello che cerchiamo di fare in piazza con i Veilleurs».

Ci racconti la sua storia. Come è cresciuto?
Ho avuto un pessimo rapporto con mio padre e da adolescente non riuscivo ad avere amicizie maschili. Poi ho capito e ammesso che le mie tendenze omosessuali erano il sintomo di una “ferita”, solo così la mia sofferenza ha cominciato a scemare. Essere omosessuali è una sofferenza, non una scelta o un peccato o una cosa innocua: conosco oltre novanta persone con pulsioni omosessuali che sono state violentate. Ora il mondo Lgbt mi odia per quello che dico, ma lo ripeto anche a loro: l’omosessualità è una ferita che non viene alleviata dall’avere rapporti. Se non lo ammetti, non avrai mai pace.

Quando ha cambiato il suo modo di intendere l’omosessualità?
Solo nel 2011 ho scoperto la bellezza della continenza. Avevo cominciato a riconoscere che qualcosa non andava ed ero tornato a frequentare la Chiesa. Durante una conferenza, parlai della mia condizione e mi resi conto che mi aiutava. Non solo, spiegando il mio dramma riuscivo ad aiutare tante persone, persino uomini e donne sposati.

È stato difficile?
Io ho trovato una via, ma ce ne sono tante. Alcuni riescono anche a superare queste pulsioni, io ho scoperto che riconoscendo la mia ferita e offrendola a Cristo e alla Chiesa la mia condizione penosa diventava una festa. Non praticando l’omosessualità non dico “no” alle mie pulsioni, ma “sì” a Dio: è un sacrificio per avere il meglio, il massimo, che prima non avevo. Noi pensiamo che il Signore ci voglia solo se siamo a posto: è il contrario, Lui viene da chi ha bisogno e se offri i tuoi limiti Lui fa grandi cose.

Perché il rapporto omosessuale non la rendeva felice?
Quando avevo rapporti con altri uomini o li guardavo in modo possessivo, sul momento, provavo soddisfazione. Ma ero solo e non mi completavo mai. In quei momenti ti illudi di poter vivere la sessualità come gli altri, ma la verità è che la sessualità si può vivere solo nella differenza sessuale.

Cos’è cambiato concretamente nella sua vita di oggi?
Prima mi sentivo sempre inferiore agli uomini, perché l’omosessualità è invidiosa. Ora, avendo scoperto che Dio mi ama e che sono suo figlio, voluto e amato, non mi sento più inferiore a nessun uomo. E così, dopo una vita, ho scoperto la bellezza dell’amicizia maschile, che non scambierei più con le relazioni di un tempo, in cui fingevo di riuscire a realizzarmi come l’uomo e la donna nei rapporti.

Chi come lei ha rinnegato il suo passato non è molto amato nella comunità Lgtb. Come vive il rapporto con il mondo che ha frequentato?
Mi ha messo nella black list. Mi minacciano e mi danno dell’omofobo, ma non sarei resistito con loro: è un mondo di menzogne, che all’esterno si mostra gaio e dentro è pieno di rabbia e tristezza. La maggioranza degli atti omofobi e degli insulti contro le persone con la mia tendenza provengono da persone che hanno ferite come la mia, che urlano e sbraitano perché sono fragili. Gli attivisti ti applaudono quando parli, ma vieni guardato solo per la tua sessualità, come se fossi un animale o un individuo di serie B che deve avere diritti speciali. Per questo dico che siamo i peggiori nemici di noi stessi. Nella Chiesa invece ho trovato per la prima volta qualcuno che mi ha accolto come persona, tenendo conto di tutto quello che è Philippe.

Lei sostiene nei suoi incontri che l’omosessualità sta dilagando, perché?
C’è una fragilità identitaria crescente. Dilaga perché l’uomo e la donna, anche quelli che vivono insieme, spesso non riconoscono la bellezza della differenza e non si incontrano più. Non sanno perché si sposano, stanno insieme ma sono soli, vivono il rapporto egoisticamente e non entrano in comunione. Resta solo il sentimento, finché dura. Perché siamo arrivati a questa estraneità fra i due sessi? Credo che quando si recide il legame con Dio, tutto ci diventa nemico e anche fra l’uomo e la donna si introduce il sospetto. Invece ci si dovrebbe sposare per aiutarsi a tornare da chi ci ha creati: dove non arriva il maschio, arriva la femmina. Altrimenti resta solo il possesso che divide. E tutto ciò danneggia i figli. Se non partiamo da questa consapevolezza, non risolveremo mai il problema. Se giochiamo la partita su altri campi, è già persa.

Cioè?
Il ministro francese della Giustizia, Christiane Taubira, madre della legge sulle nozze gay, esordì dicendo che bisognava distinguere tra matrimonio eterosessuale e omosessuale. Questa è una bugia terminologica che non ha riscontro nella realtà e che non dobbiamo accettare. Bisogna dire che non esiste l’eterosessualità, esistono solo l’uomo e la donna, diversi e complementari. E poi non si deve escludere dal dibattito la questione omosessuale in sé. Se sta dilagando è responsabilità di ciascuno comprendere cosa sia e da dove venga, facendo capire a tutti a cosa andiamo incontro. Per lo stesso motivo dico sempre che non basta fare un discorso che parta solo dal diritto dei bambini, omettendo e tollerando con indifferenza i rapporti omosessuali. Solo comprendendo la sofferenza che ne deriva e il fatto che si tratta di un’amicizia ambigua, incapace di amore, si capisce che l’unico alveo di crescita per un bambino è la famiglia con madre e padre. Persino nelle coppie dello stesso sesso più stabili, dove si cerca di rispettarsi, non c’è felicità. Ne conosco alcune e spesso sono proprio loro a capirmi. Durante una conferenza, un uomo che conviveva da 20 anni mi disse: «Come hai ragione!». Altre si chiedono: «Ma che vita stiamo facendo?». Se uno capisce questo non può più dire: «Poverini, lasciamoli fare» e passare per caritatevole come accade oggi.

Cosa succederà ai bambini cresciuti in una “nuova” famiglia?
Se il bambino non impara la bellezza della differenza, non sarà capace di amare. Una società che finge di esaltare le differenze, ma poi le tratta come una minaccia, cresce una generazione che non saprà accogliere l’altro. Viviamo in un mondo che rifiuta di guardare in faccia la realtà, con le sue contraddizioni e i suoi limiti, come quello della sessualità, oggi percepito come un pericolo. Questa deformazione della realtà umana sta conducendo a un collasso antropologico. E più avanziamo in questo senso, più cresceranno le forme di solitudine, nevrosi e violenza.

Cosa si può fare?
Come ho detto, rispettare la realtà e cercare di ricomprenderne lo scopo. Quanto a me dico che Cristo, la sua verità e la Chiesa sono la via per amare, essere amato e servire.