giovedì 28 febbraio 2019

La morte di Cristo secondo S. Paolo



Ho detto che c'è una stretta connessione tra la risurrezione e la vita terrena di Gesù, culminante nella sua morte. Ora è opportuno soffermarsi più lungo sulla morte, un evento fondamentale, il vertice della sua vicenda umana: «Proclamare la risurrezione di Gesù non significa altro che annunciare la perenne validità e fecondità salvifica della sua autodonazione sulla croce. Certo sarebbe incompleto anche l’annuncio della Croce senza la Risurrezione. Ma il thesaurus ecclesiae, il capitale a cui attingere sta nella morte di Geù: è alla sua ricchezza che la risurrezione rende semplicemente possibile l’accesso» (R. Penna, Parola Fede…, cit., p. 122).



Obbedienza ed espiazione


 Il punto di partenza è dare valore all’obbedienza di Gesù. Da questo lato Egli è simile agli altri messaggeri di Dio.
I profeti, spesso incontrarono opposizione alla loro predicazione e molti di loro, pur di rimanere fedeli alla loro missione, affrontarono la persecuzione.
Per capire meglio, abbiamo conosciuto magistrati che ritenevano che fosse loro dovere lottare contro la mafia fino al punto da venire uccisi. Qualcuno di loro ha realizzato questo impegno gravoso pensando di eseguire una missione ricevuta.
Gesù rimase fedele alla sua missione anche se i suoi oppositori cercavano di farlo morire, e continuò ad obbedire a Dio Padre. Del resto, aveva accettato, volontariamente, di vivere come un uomo qualsiasi, senza onori, privilegi o protezioni speciali. Era stato toccato dalla sofferenza lungo l'intero corso della sua vita. Non soltanto nella fatica dei viaggi, nella fame o nella sete, ma soprattutto nell'opposizione, nel rifiuto, nel misconoscimento. Tutto questo giunge al culmine con la morte in croce.
Ora dobbiamo abbandonare il discorso sull’obbedienza per riflettere sul concetto di espiazione, più difficile.


La morte di Gesù in croce ha avuto il significato di un'espiazione?
Paolo usa questo termine in un passo delle lettera ai Romani: «È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue» (Rm 3,25).
Limitiamoci all’essenziale. Paolo afferma: Gesù, donando a Dio tutto se stesso, tutta la sua vita (è questo il significato di sangue), ha ottenuto da Lui il perdono dei nostri peccati. Questa idea non l’ha suggerita Paolo, per primo, ma l’ha ripresa dall’insegnamento della Chiesa, prima di lui. Egli l’ha soltanto ripresa e avvalorata.
Ora dobbiamo chiederci: che significa espiazione? Questa concezione l’ha troviamo espressa nell’Antico Testamento.
In primo luogo si esercita tra le persone: chi ha provocato un danno ad un altro, chiede a lui il perdono e la riconciliazione ma, per ottenere tale risultato, deve essere disposto a risarcire il male provocato.
Lo stesso si applica anche nei rapporti tra l’uomo e Dio. Chi pecca, viene perdonato, se riconosce e ripara in qualche modo il male compiuto. L'Antico Testamento prevedeva varie forme di espiazione. Dio, per generosità, aveva stabilito che il compimento di alcuni gesti rituali servissero per ottenere il suo perdono (Lv 23,26; 2 Cr 29,24). L'uomo non era costretto ad una riparazione totale. Non avrebbe mai potuto risarcire in modo conveniente rispetto alla gravità o alla molteplicità delle sue colpe.
Prevalse, col tempo, la convinzione che il migliore atto di riparazione consistesse nel condurre una vita retta: «Cosa gradita al Signore è tenersi lontano dalla malvagità, sacrificio di espiazione è tenersi lontano dall’ingiustizia» (Sir 35,5). Chi aveva peccato, riparava al male compiuto cercando di vivere un'esistenza più conforme ai comandamenti. L'obbedienza era, quindi, l'espiazione più gradita a Dio.
In questa prospettiva della vita come atto di culto, il sacrificio migliore veniva offerto da chi dava la sua vita a vantaggio degli altri. Così avevano fatto coloro che, all'epoca della rivolta dei Maccabei, combattevano per Israele contro i pagani, in difesa della religione. La morte di chi aveva affrontato la battaglia per salvare gli altri (1 Mac 6,44) o il martirio a difesa della fede (2 Mac 7,37 ss.), venne considerato uno strumento di espiazione a vantaggio di tutto il popolo. Era possibile, quindi, non soltanto riparare i peccati personali ma anche a quelli altrui.
Precisato questo, ritorno al discorso sull’obbedienza che avevo interrotto. L’obbedienza di Gesù fino alla morte aveva avuto un valore d’espiazione, come lo aveva avuto la morte dei martiri. Ho detto che in questo caso, Paolo ribadisce una convinzione già tradizionale.
Ora, proprio per la sua perfetta obbedienza a Dio, Gesù è una totale novità. Diventa così il nuovo Adamo, rappresentante di tutta l'umanità: ciò che ha fatto Lui è come se l’avessimo compiuto tutti noi. Grazie alla sua obbedienza, tutti siamo stati costituiti giusti: «Come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).
In Cristo, tutta l'umanità offre a Dio un sacrificio dell'obbedienza. Egli ci rappresenta tutti e attraverso il suo dono, tutti ripariamo i nostri peccati. Gesù ha agito a nostro vantaggio (e al posto di tutti noi?): «Noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti» (2 Cor 5,14).


Il concetto d'espiazione rimane, comunque, disagevole. Che cos'ha di tanto inquietante? Il verbo greco usato da Paolo (hilaskomai) può significare anche placare l’ira. Gli antichi offrivano sacrifici per placare le divinità adirate, talora incollerite a tal segno da pretendere, per vendetta, che venisse sacrificata loro una vittima.
Ritenere che Paolo abbia pensato qualcosa del genere sarebbe un totale fraintendimento, un vero rovesciamento del suo messaggio. L'apostolo, infatti, dichiara che è stato Dio a prendere l'iniziativa della riconciliazione e del perdono. Di per sé, nel caso d'un conflitto tra due persone, è sempre l'offensore a dover muoversi per primo per ottenere la riconciliazione. Sarà lui a cercare le modalità per placare l'offeso. Nel caso di Gesù, è vero il contrario. Dio, l'offeso, anziché prendere provvedimenti punitivi o vendicativi, si pone alla ricerca degli uomini che l'odiavano in mondo ingiusto. Si mostra un padre che, per amore del figlio che lo ha bistrattato, vuole ugualmente ristabilire una comunione a vantaggio del figlio.
Chiarito tale equivoco, possiamo affrontare il messaggio paradossale espresso da Paolo in un passo famoso: «… Dio, ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5, 18-21).




Il peso della maledizione


Sperando d’aver chiarito il significato dell’obbedienza di Gesù, avvalorata come dono d’espiazione, guardiamo ora un altro aspetto nel tentativo di comprendere il significato della sua morte.
Noi associamo la croce, in primo luogo, ad un intenso dolore fisico ma per gli uomini del suo tempo era connessa all'infamia. Il suo supplizio suggeriva che l'autorità romana l'avesse catturato e condannato come un criminale. Per gli ebrei, inoltre, quel tipo di condanna veniva letta come una totale sconfessione della missione di Gesù da parte di Dio, come se avesse voluto dare la prova che quel sedicente profeta era in realtà un falso profeta. Chi pendeva da un albero (o da un palo), infatti, era considerato una maledizione. «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità (Dt 21, 22-23)».
Certamente Paolo aveva applicato a Gesù questa dichiarazione della Legge e, a suo parere, il testo biblico testimoniava senz’ombra di dubbio che Gesù era un falso Messia e che era stato sconfessato da Dio.
Dopo l'apparizione di Gesù Risorto, Paolo comprese che quella presunta infamia, era in realtà la massima glorificazione. Gesù, nell'incontrare il peggio di quanto può accadere nella vita e nell’immergersi in esso, sperimentò la tenebra più densa, ma proprio lì portò la luce dell'amore, continuando la sua dedizione a Dio e ai fratelli. Non poteva agire in modo più sublime. Sarebbe stato facile fare il profeta o il Messia nell’essere attorniato da folle acclamanti, nel ricevere onore dalle autorità religiose e politiche. Gli altri fondatori religiosi avevano conosciuto il successo ed erano stati riconosciuti da discepoli. Soltanto Gesù morì abbandonato e misconosciuto, in solitudine, mentre la sua missione era apparsa del tutto fallimentare. Dette prova, così facendo, di un amore impensabile, sconosciuto nella storia degli uomini.
Paolo, anziché provare vergogna nell'annunciare un Messia crocifisso, comprese che proprio quell'evento era un massimo punto di forza: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2,2).
Era l'attestato sommo dell'amore di Dio per gli uomini: per richiamarli a sé e ad una vita veramente umana, era stato disposto a sacrificare il suo stesso Figlio, l'amato, ad esporlo alla loro reazione. A sua volta, Gesù, pur di insegnarci la verità e farci camminare in essa, in obbedienza al disegno del Padre, aveva accettato di affrontare anche l'orrore.
Quanto Dio aveva compiuto per tutti, lo avrebbe fatto per ognuno di loro. Paolo sentiva d'essere stato amato personalmente da Cristo: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La nuova religione stava tutta in questo grande punto di forza: qualcuno mi ama in modo straordinario, molto di più di quanto ognuno possa amare se stesso.
La morte del Messia
Paolo era stato molto colpito dalla crocifissione di Gesù e la esponeva in modo molto vivo fino a quasi da farla rivivere ai suoi ascoltatori (Gal 3,1). Questo era una sua particolarità perché in generagli evangelizzatori parlavano della morte di Gesù senza scendere nei particolari; si limitavano a illustrarne il significato salvifico per non trovarsi in grave imbarazzo.
Pensava: se Gesù era Messia, non avrebbe dovuto morire. Gli ebrei ritenevano che se il Messia doveva essere il capo di un popolo di santi, avrebbe dovuto anche essere esente da peccato (Is 60,1: «il tuo popolo, tutti saranno giusti»). Se era senza peccato, non avrebbe neanche dovuto morire perché la morte era considerata una penalità imposta per il peccato. Rimaneva un’unica soluzione: Gesù aveva scelto di morire: «Diede se stesso per i nostri peccati» (Gal 1,4); era «il Figlio di Dio che diede se stesso per me» (Gal 2,20). Per quale motivo? Desiderava che la sua morte fosse a vantaggio dell’umanità, per un atto d’amore.
«Paolo rimase talmente sopraffatto da questa intuizione, che non riusciva a pensare alla morte di Cristo senza volere che anche gli altri apprezzassero la straordinaria profondità e forza dell’amore che essa rivelava… Di qui il suo correttivo all'insegnamento tradizionale. Nelle sue lettere egli cita due inni liturgici. Uno dei due dice: «Si umiliò facendosi obbediente fino alla morte», e Paolo aggiunge: «e alla morte in croce» (Filippesi 2,8). L'altro inno parla di Dio che riconcilia a sé tutti gli esseri per mezzo di Cristo, e Paolo interpreta precisando: «facendo la pace mediante il sangue della sua croce» (Colossesi 1,20)… Per Paolo era di grande importanza che la gente da lui convertita conoscesse quello che Gesù aveva detto e fatto, e così egli lo trasmetteva loro nella sua predicazione orale (2 Corinzi 11,4). Ma in ultima analisi non era questo a rendere unico Gesù… Per Paolo, il fatto che Gesù avesse avuto la possibilità di scegliere se morire o meno lo distingueva da tutti gli altri, per i quali la morte era inevitabile. Per questo la morte di Gesù divenne la chiave che schiudeva il senso della sua vita. Essa rivelò a Paolo che quello che rende una persona autenticamente umana è l’amore che sacrifica se stesso, così come mostrato da Cristo. Ed egli voleva che i suoi lettori prendessero a cuore soprattutto questo» (J. Murphy O’Connor, Paolo…, p. 56).

da Vincenzo Bonato 
INTRODUZIONE AL PENSIERO DI PAOLO
Ancora Milano 2018, pp. 31- 43

De Adhaerendo Deo Accostarsi a Dio


La tradizione ha trasmesso una preziosa opera di teologia spirituale attribuita, con riserve, a S. Alberto Magno, dal titolo De Adhaerendo Deo [Testo critico: Albertus Magnus, Opera omnia, ed. Pierre Jammy (Lyon, 1651), vol. XXI (f. p. 1-11)]. Nuova traduzione in lingua italiana: Accostarsi a Dio, una guida pratica, a cura di Alessio Piana, Edizioni Appunti di viaggio, Roma 2017.
Il titolo deriva dalla Sacra Scrittura, soprattutto dai salmi. Traduce la radice ebraica dbq: attaccarsi, aderire. In senso religioso indica la dedizione dell’uomo a Dio: aderire, legarsi, affezionarsi, unirsi, restare fedeli. È un verbo tipico del Deuteronomio e della tradizione deuteronomista (Dt 10,20; 11,22 Gs 22,5 2 Re 18,6) (Cf. L. Alonso Schokel, Dizionario di Ebraico biblico, San Paolo, Milano 2013, 167-168). Cf. anche Sal 63,9: «A te si stringe l’anima mia»; Sal 73,28: «Per me, il mio bene è stare vicino a Dio» (in entrambi i passi, nella versione latina della Volgata, compare il verbo adhaerere).

Il titolo dell’opera si potrebbe tradurre in questo modo: Il dovere di aderire a Dio oppure La necessità di unirsi a Dio. Perché abbiamo questa necessità? L’autore vuole che troviamo la strada per raggiungere la nostra pacificazione. Si muove nell’ambito della convinzione espressa già da S. Agostino: «Signore, ci hai creati per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te». L’autore dell’opera è mistico, ossia una persona che ha conosciuto per esperienza ciò che insegna. La sua dottrina è il suo vissuto. Ha sperimentato che l’uomo può unirsi a Dio, trasformarsi in lui fino a diventare un unico spirito, godere della beatitudine «qui nella grazia e lassù nella gloria» (79).



Il cuore della vita di fede


L’autore si rivolge, quindi, a chi brama unirsi a Dio per suggerire in che modo realizzare tale aspirazione: «Il fine della perfezione cristiana è la carità che unisce a Dio» (31). Ecco la preposizione essenziale: solo la carità unisce a Dio. Essa «è la via di Dio agli uomini e degli uomini a Dio… Egli non può dimorare dove non c’è la carità. Chi ha la carità, possiede Dio, perché Dio è carità» (80).
Questa virtù si sviluppa in noi mediante la purezza del cuore: «Fra tutti gli esercizi spirituali, la purezza del cuore occupa il primo posto» (46).
La carità, più che un sentimento, è il modo di essere. La purezza del cuore corrisponde al distacco completo da tutto (46), ed equivale, quindi, a libertà. In altre parole, il cristiano riesce ad amare in modo autentico nella misura con cui vive nel distacco oppure nella libertà. L’Opera poggia su due piloni perché tratta un breve discorso sull’unione con Dio tramite il distacco (31).



Il distacco


Che cos’è? Come si attua? L’esercizio s’impone come indispensabile perché la tendenza dell’uomo è piuttosto quella di lasciarsi trascinare da desideri e da impulsi impetuosi. L’attaccamento provoca come conseguenza la perdita della libertà; anziché dominare i sentimenti e padroneggiare gli eventi, l’uomo si lascia travolgere da essi. «Si disperde e si divide in tante parti quanti sono i suoi desideri» (58). Le persone allora appaiono come travolte da un movimento vorticoso, coinvolte in una corsa senza meta, debilitate da una stanchezza senza riposo (58). Il risultato è la delusione. L’esperienza del disinganno è ben rilevata dalle parole amare di una protagonista di un romanzo di Francesco Biamonti: «La festa, tanto attesa, e che tardava a venire, era passata senza mai cominciare. Anche il dono di sognare era finito» (Le parole La notte, Einaudi, Torino 1998, 65).
Come sfuggire a questo turbinio? Dio ha donato agli uomini i suoi comandamenti proprio perché ottengano la libertà tramite il possesso di sé.
In primo luogo, il distacco si ottiene nell’imparare a vivere in perfetto accordo con la volontà divina. È necessario, allora, osservare i comandamenti ed evitare il peccato, un atto che contrasta con la carità.
È necessario, in seconda istanza, evitare tutto ciò che può smorzare il fervore dell’amore (anche se ciò a cui si accetta di rinunciare, è cosa lecita).
Compare infine un terzo elemento. L’obbedienza a Dio non si esaurisce nell’osservanza dei comandamenti ma richiede l’accettazione umile e pacifica di quanto accade: «Accetta con calma imparzialità qualunque cosa, quale ne sia l’origine, nel silenzio e nella tranquillità, come se ti venisse dalla mano paterna della divina provvidenza» (44; cf. 63).
La sottomissione al volere di Dio, come si scopre nelle evenienze, non è affatto né umiliante né distruttiva, ma al contrario permette di fortificare la persona. Consente anzi di raggiungere l’obiettivo più elevato: «Tale unione di spirito e amore, per la quale l’uomo si conforma in tutto alla volontà eterna e suprema, avviene affinché si diventi per grazia ciò che Dio è per natura» (48).
La pratica del distacco, quindi, supera il semplice valore etico; rappresenta senz’altro un ottimo comportamento ma, nella sua profondità, ottiene come risultato quello di deificare l’uomo, mediante la conformazione a Cristo: «Il cuore, nel tuo intimo, si trasformerà all’istante in Gesù Cristo» (46).
L’uomo (o più precisamente la sua anima) deve tornare ad essere somigliante a Dio come lo era quando era stato da Lui creato. Dio vuole imprimersi in lui come il sigillo nella cera.
Come avviene tale impressione? L’anima è dotata di tre potenze: ragione, volontà e memoria. Il sigillo del divino compare quando la ragione, illuminata, conosce Dio; quando la volontà è mossa soltanto dall’amore, e quando la memoria è assorta nella vita futura. In altri termini, si tratta di vivere raccolti in Dio. Chi viene a stabilirsi in questa condizione, possiede un anticipo della beatitudine e può pensare di aver ottenuto il massimo traguardo che poteva conseguire, la sua stessa perfezione (38-39).
Il contrario del distacco, come ho precisato, è l’essere trascinato dalle bramosie e dalle passioni. Non è necessario pensare a qualcosa di particolarmente grave perché a distoglierci dall’unione con Dio è sufficiente tenere un comportamento leggero e dissipato nel quotidiano: «Ecco perché il diavolo, con sollecitudine, cerca di impedire l’esercizio [del distacco], che considera principio e preludio di vita eterna e di cui è invidioso. Si sforza pertanto di distogliere sempre la mente da Dio, con tentazioni o passioni, con preoccupazioni mutili e affanni confusi, con turbamenti, conversazioni dissolute e irragionevoli curiosità; e ancora con libri futili, con incontri inopportuni, con chiacchiere e novità, con dure prove e avversità, ecc. Queste cose talvolta sono solo peccati lievi, e talora non lo sono affatto, e tuttavia sono sempre di grande impedimento alle azioni e alle opere sante. E perciò, seppure tali attività sembrassero utili o necessarie, piccole o grandi che siano, sono da rigettare come nocive e pericolose, allontanandole dai sensi» (42-43).
Al contrario, anziché disperdersi in pensieri e parole inutili o precipitare a compiere azioni inique, è necessario che l’anima, con tutte le sue potenze, sia raccolta in Dio al punto da formare con Lui un solo spirito (48).
Vediamo ora altri atteggiamenti che ci fanno conoscere bene la strada della libertà. È davvero libero, chi non si lascia più condizionare dal giudizio degli altri, al punto da non notare neppure se é deriso o, al contrario, apprezzato (52), chi non si lascia irretire da qualche amore sensuale verso una persona o qualche altra creatura (53). 



Unione con Dio


La purezza apre l’accesso all’unione con Dio. L’uomo ha la possibilità di diventare un solo spirito con Lui (79) e, vivendo in piena comunione con Lui nella gioia e nell’amore, trovare riposo nel godimento del Creatore (38), al punto che appare possibile nel tempo, proprio in questa vita travagliata, ottenere una caparra o una pregustazione della futura pienezza (57 e 79). L’unione presenta un carattere trinitario in quanto l’unità che è del Padre con il Figlio e del Figlio con il Padre passa anche in noi (84).
Perché l’uomo deve cercare Dio? Una risposta, breve ma completa ed efficace: «Cerca e ama l’unico bene perfetto, nel quale si trovano tutti i beni, e sarà sufficiente… Perciò Giovanni scrive: Questa è la vita eterna che conoscano te (Gv 17,3) e il Salmista: Mi sazierò della tua presenza (Sal 16,15)» (68).
Questa risposta è tuttavia la conclusione di un ragionamento più articolato. In un primo passo è opportuno riconoscere che tutte le cose «in ogni momento hanno bisogno di Dio per esistere, sopravvivere e agire» (65). Osservate nella loro intima essenza sono venute dal nulla, sono circondate dal nulla e ritornano al nulla. Ne consegue che «nessun godimento dell’amore… è più utile, perfetto e beato del sommo e vero bene che si trova in Dio, unico e vero bene» (66). Soltanto Dio è sufficiente a sé, riempie di sé ogni cosa ed «è più presente e più intimo alle cose di quanto esse lo siano a se stesse» (66).
In conclusione: Dio non è visibile ai sensi ma deve essere l’oggetto di tutti i nostri desideri. È inestimabile poiché la sua bontà e perfezione sono infinite (56-57).
Il mezzo più efficace in assoluto per poter raggiungere la perfetta comunione con Dio, come è stato richiamato al principio, è l’amore. Questa qualità offre lo slancio decisivo per superare ogni ostacolo che si frappone tra il nostro desiderio e il traguardo desiderato:  «L’amore non trova riposo che nel bene amato, ossia nel possesso pacifico e completo» (79). «Si dirige con veemenza verso di lui e non trova pace fino a quando non lo ha raggiunto» (80).
Dopo aver parlato del movimento innescato dal sentimento ardente, espone il risultato più completo conseguito dell’amore, che consiste «nell’unire e trasformare l’amante nell’amato e l’amato nell’amante, affinché l’uno diventi l’altro» (80). Come può accadere questo nel nostro rapporto con Dio? In che modo avviene tale trasformazione? Dobbiamo richiamare il ruolo delle potenze dell’anima e, in questo caso, delle facoltà cognitive e di quelle appetitive (o affettive). La facoltà conoscitiva è capace di condurre l’amato nell’amante a motivo «della dolcezza e del piacere con cui l’amato è rievocato nel pensiero dell’amante… come se entrasse dentro di lui» (80-81). La facoltà appetitiva unisce l’un l’altro in due maniere: a motivo della compiacenza e del sentimento d’affetto, pieno di gioia provato dall’amante nei confronti dell’amato ma poi soprattutto poiché induce l’amante a conformare i propri desideri a quelli dell’altro (81). In sintesi, «l’amore porta l’amante fuori di sé e lo conduce nell’amato, facendolo interiormente congiunto a lui» (81).
Il cammino è arduo. Chi cerca Dio deve affrontare molte difficoltà e superare gravi ostacoli (75). Bisogna riconoscere che siamo incapaci d’amore e d’ogni altro bene. Tale constatazione non induce all’avvilimento ma a confidare in Dio e quindi in ogni circostanza dobbiamo ricorrere alla preghiera «in quanto colpevoli, miseri, indigenti, mendicanti, infermi, deboli, sudditi, schiavi, figli» (83). Egli ci eleverà ogni giorno finché ogni comportamento, ogni volontà del cuore diventi una sola e continua preghiera (85).
Evitando la dissipazione, si elimina l’ostacolo vero che impedisce la profondità della preghiera (43). Già nel primo capitolo, A. ricorda che il momento particolare nel quale il credente può sperimentare il raggiungimento dell’unione con Dio è la preghiera personale, intima e silenziosa, perché particolarmente in questa pratica, l’orante «si dilata, s’immerge, si estende, s’infiamma, si dissolve» in se stesso (33), o meglio: «si inabissa, si unisce e resta saldamente congiunto a Dio» (42).




Osservazioni conclusive


La proposta dell’opera si muove all’interno della spiritualità renano-fiamminga ed è, sia pure in modo piuttosto limitato, influenzata dal neoplatonismo. In comune con questo movimento filosofico troviamo il tema dell’ascesa dell’uomo (della mente) a Dio, innescata dal desiderio di Lui (eros). Dio è concepito come Sommo Bene che attrae per la sua bellezza e sazia in modo pieno chi si unisce a Lui; anzi è l’unico che può soddisfare la ricerca di felicità presente, in misura prepotente, in ogni uomo.
Un vantaggio di questa prospettiva teologica sta nel richiamare l’essenziale della ricerca religiosa la quale, per essere autentica, deve proporsi la comunione con Dio, l’adesione a Lui, attraverso un rigoroso esercizio di purificazione. Soltanto l’impegno continuo di conversione e di purificazione rende possibile lo sviluppo del vero amore, la virtù decisiva per attuare l’adesione a Dio. Questo impegno deve essere assunto da ogni credente in modo personale e convinto.
A differenza del neoplatonismo, il Dio, oggetto della ricerca dell’amante, ha un carattere personale. È un Dio con il quale è possibile costruire un dialogo intimo ed aperto. Dio, a differenza dell’Uno, ama gli uomini ed è venuto a cercarli per elevarli a sé. La carità è in primo luogo la forza che ha indotto Dio a scendere per farci salire fino a Lui.
Inoltre la comunione con l’Assoluto è partecipazione alla comunione del Figlio con il Padre. Il credente può deificarsi (divenire per grazia ciò che Dio è per natura, per quanto possibile all’uomo) perché riceve il dono di rendersi conforme a Cristo.
Il De adhaerendo Deo potrebbe essere raggiunto dalle critiche che Soloveitchk rivolge alla mistica nel suo complesso. L’autore, infatti, si mostra interessato a cercare l’appagamento personale, senza nutrire alcuna preoccupazione per il resto della comunità. Che dire a tale proposito? Intanto attribuiamo anche a lui, lo stesso merito che assegniamo a tutta la mistica: i mistici testimoniano, tramite la loro stessa esperienza, che soltanto l’adesione a Dio edifica la persona e le comunica il vero appagamento.
L’autore, tuttavia, non espone quello che definiamo come ritorno agli uomini, testimoniato da molti altri mistici. Questo non significa che non abbia vissuto anche questa dimensione ma certamente non ne parla e ciò rimane una lacuna interna dell’Opera.
Un’altra lacuna è il silenzio circa la pratica sacramentale e liturgica. La ricerca di Dio si muove nell’ambito esclusivamente personale, in totale assenza di un cammino comunitario. In questo caso, pure, vale ciò che ho rilevato sopra, ossia l’autore può averla vissuta, senza poi svilupparla in modo esplicito. È probabile che egli, in sintonia con altri autori spirituali, abbia voluto evidenziare ciò che deve essere considerato come essenziale e imprescindibile in qualsiasi forma e istituzione religiosa, pena la sua falsificazione: «Che cosa conta lo stato, la santità della professione, l’abito della perfezione, la tonsura, una condotta di vita esteriore, senza lo spirito di umiltà e di verità in cui Cristo abita per mezzo della fede nata dalla carità?» (36).
Soltanto l’adesione sincera a Dio grazie al distacco, alla conquista della libertà da se stessi, alla perfetta purificazione di tutto ciò che impedisce la piena comunione con Lui è il vero traguardo di una vita di fede. Aver richiamato ciò, con forza, è il contributo migliore di questo scritto. 

domenica 24 febbraio 2019

Joseph Dov Beer Soloveitchik SOLITUDINE DELL'UOMO DI FEDE



La solitudine dell’uomo di fede


Joseph Dov Beer Soloveitchik, rabbino d’origine lituana e molto stimato all’interno dell’ebraismo, ha proposto un’acuta meditazione sulla scomoda situazione dell’uomo di fede, in ogni epoca ma, particolarmente, nel mondo contemporaneo [La solitudine dell’uomo di fede, Salomone Belforte e C., Livorno 2016].
La sua riflessione prende le mosse da due testi biblici che parlano della creazione dell’uomo, l’uno al primo capitolo e l’altro al secondo del libro della Genesi.


«Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cieloe su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gn 1,26-28).

«Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente… Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. » (Gn 2,7.15).

Nel primo testo, l’uomo è creato ad immagine di Dio; nel secondo viene modellato dalla polvere della terra.
Il primo Adamo riceve il mandato di riempire la terra e di soggiogarla, mentre il secondo si limita a coltivare il giardino e di custodirlo.
Nel primo racconto, maschio e femmina sono creati simultaneamente; nel secondo, Adamo compare per primo ed Eva in un secondo momento, come suo aiuto (Gn 2,21-24).
Secondo Soloveitchik, la creazione dell’uomo è stata presentata in un doppio racconto per evidenziare la duplicità dell’essere umano, in quanto, in ogni persona umana sono presenti i tratti tipici dei due Adamo.
Osserviamo le caratteristiche del Primo Adamo. Essere ad immagine di Dio significa ricevere la capacità di esercitare un’intensa creatività, a imitazione di Dio, che si esprime in diverse modalità. L’uomo riceve infinite risorse e gode soprattutto dell’intelligenza, allo scopo di migliorare la sua posizione nell’ambiente in cui si trova. Si propone, perciò, di dominare e imbrigliare le forze naturali, ponendolo al suo servizio. La ricerca scientifica è la massima manifestazione dell’uomo audace, desideroso di realizzare le proprie risorse e di migliorare la sua condizione. Priva di questo progresso incessante, la mera esistenza istintuale sarebbe deprivata di dignità quale esistenza impotente» (20).
La creatività si estende inoltre nel campo della creazione estetica, come anche nell’ambito normativo. «La sua coscienza è stimolata non dall’idea del bene, ma dall’idea del bello. La sua mente ricerca non il vero, bensì il piacevole e il funzionale» (23). Questo impulso non è segno di ribellione a Dio ma piuttosto un modo di eseguire la sua volontà. Soloveitchik denomina maiestatico, questo tipo d’uomo.


Passiamo ora al Secondo Adamo. Questi non è interessato ad ottenere il potere e il controllo sul cosmo ma a comprendere il motivo dell’esistenza dell’universo e desidera vivere in comunione con il suo Creatore. Dio soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Il soffio, ricevuto da Dio stesso, non corrisponde al possesso di qualche talento divino ma testimonia il suo anelito incessante per Dio (26).
Mira ad ottenere un’esistenza redenta, ben diversa da una vita dotata di dignità. La redenzione non è ottenuta attraverso il controllo sull’ambiente ma mediante il controllo di sé (38), poiché una vita redenta è una vita disciplinata. «L’essere umano persegue la dignità ogni volta che trionfa sulla natura. Egli trova la redenzione, invece, quando è sopraffatto dal Creatore della natura. La dignità è scoperta dall’apice del successo; la redenzione negli abissi della crisi e del fallimento… il Secondo Adamo fu formato dalla polvere della terra, affinché  la conoscenza delle umilisse origini fosse parte integrante dell’io di Adamo» (38-39).
Sperimenta in primo luogo la solitudine (Cf. Gn 2,20). «Essere significa essere l’unico, singolare e differente, com tale “solo”». Solitudine (e insicurezza) provengono dalla consapevolezza della propria unicità ed esclusività. Nessun altro esiste come questo io, e la sua particolare esistenza non può essere ripetuta, imitata o esperita da altri (42). La solitudine riflette il nucleo stesso dell’esperienza dell’io; non è affatto una situazione provvisoria o accidentale.
Dal momento che soffre per la solitudine, è in ricerca di compagnia. Cerca una vicinanza di un altro soggetto il quale, sebbene unico e singolare come lui, padroneggi l’arte del mettersi in comunicazione e che formi, assieme a lui, una comunità. Questo tipo di’amicizia non è ottenuto attraverso la conquista, ma mediante la resa e la ritirata. Per il Secondo Adamo, quindi, comunicare e intrattenere stretti rapporti spirituali sono atti sacrificali redentivi. Aspira ad integrarsi nella comunità di fede, che appare già nell’alleanza tra Dio e Abramo. Nessuno può preservarci dalla solitudine. Il rimedio si trova nell’esperire un nuovo genere d’amicizia che si trova in una comunità esistenziale (42).


Una comunità di fede è ben distinta da una comunità naturale; la prima è una comunità di doveri, la seconda d’interessi. La comunità di fede, nata nel fallimento e nelle angustie, è caratterizzata dalla presenza di tre membri: io, tu, Egli (Dio). Dio diventa membro di questa comunità, si associa agli uomini, ne condivide l’esistenza. L’unità solidale di Dio con gli uomini è un elemento indispensabile per la comunità d’alleanza (43). «Noi incontriamo Dio, in seno alla comunità di alleanza, in quanto compagno e membro. Naturalmente, per quanto calato all’interno della struttura di questa comunità, Dio si presenta come la guida, il maestro e il pastore. La guida, cionondimeno, è parte integrante di una comunità, il maestro è inseparabile dai suoi allievi e il pastore non abbandona mai il suo gregge. Tutti costoro appartengono ad un unico gruppo. L'alleanza coinvolge Dio all’interno della società degli uomini di fede: II Dio dinanzi al Quale i miei ladri hanno camminato, il Dio che è stato il mio pastore per tutta la mia vita (Gen 48,15). Dio è stato il pastore di Giacobbe e il suo compagno. La comunità di fede, radicata e articolata nell’alleanza, trova manifestazione in una triplice unione di persone: io, tu ed Egli (Lv 26,12)».
Il Primo Adamo si sente provocato dal cosmo mentre il Secondo cerca il dialogo con Dio all’interno dell’Alleanza. L’annuncio dell’esistenza di Dio, predicato dal cosmo, è debole ed equivoco. Nella rivelazione cosmica, l’uomo sente Dio molto vicino, presente in tutti i fenomeni naturali ma lo avverte ancora di più, come misterioso ed inaccessibile. Questa dicotomia cancella ogni sentimento d’intimità e d’immediatezza e rende complicato il rapporto con Lui. L’uomo di fede, al fine di redimere se stesso dalla sua solitudine, vuole incontrare Dio a livello personale, in una situazione in cui possa essere vicino a Lui e sentirsi libero in sua presenza (48).


Il luogo dell’incontro personale con Dio è la preghiera. La contemplazione del cosmo non può spingere l’uomo a pregare nell’intimità perché l’adorazione estatica, sempre indiretta e impersonale, non rappresenta ancora un incontro personale con Dio. Esso avviene piuttosto nella comunità d’alleanza. «Attraverso il suono della voce divina che si rivolge all’uomo con il suo nome, Dio, ricercato dall’uomo lungo le infinite rotte dell’universo, è scoperto come vicino all’essere umano e in intimità con lui, mentre gli sta di fronte o accanto» (51).
Questo tipo di relazione costituisce il nucleo della comunità profetica. Questa è costituita dalla discesa di Dio sul monte e dall’ascesa sul monte dell’essere umano, in risposta alla chiamata divina. Qui avviene un rapporto diretto e personale che apre un colloquio faccia a faccia. La preghiera è la continuazione dell’esperienza profetica. Quando un essere umano si rivolge a Dio, chiamandolo con i toni familiari del Tu, in quel momento si rinnova lo stesso evento dell’incontro profetico dell’alleanza (52).
Comunità profetica e comunità orante s’appoggiano sopra tre fondamenta: io, tu, Egli. La differenza tra le due esperienze non sta nella sostanza del dialogo ma nel suo ordine d’apparizione. All’interno della comunità profetica, è Dio a prendere l’iniziativa (Egli parla e l’uomo ascolta), nell’altra l’iniziativa spetta all’uomo. La parola della profezia è di Dio e l’uomo l’accoglie; viceversa, la parola della preghiera viene dall’uomo e il Signore l’ascolta.
Il profeta  in cui Dio confida e a cui affida la sua parola eterna, rappresenta sempre molti anonimi; sono il loro a cui il messaggio è destinato. «Nessun essere umano, per quanto grande e nobile, è degno della parola di Dio se crede che questa parola sia sua privata proprietà che non debba essere condivisa con gli altri» (56). Egli, quindi, non prega mai esclusivamente per se stesso.
Entrambe le comunità scoprono, assieme alla relazione intima con Dio, un messaggio etico. Qualsiasi incontro con Dio si prolunga in un messaggio normativo (57), altrimenti non sarebbe mai un’esperienza di alleanza, la quale prevede l’assunzione di responsabilità e di obblighi.
L’esperienza profetica è contrapposto a quella mistica che, a suo giudizio, non sarebbe altro che una sottile forma di egoismo. Nella mistica, l’uomo cercherebbe se stesso nell’appagamento personale e, quindi, rifiuterebbe un compito di responsabilità verso gli altri. La mistica sarebbe elitaria mentre la preghiera profetica avrebbe un carattere democratico essendo rivolta a tutti i contraenti l’alleanza.
Dalla preghiera autentica sgorga sempre un deciso impegno etico e, viceversa, soltanto l’orazione che esce da un cuore puro è gradita a Dio: «La preghiera è sempre annunciatrice di una riforma morale» (61) «Dio porge orecchio alla preghiera, se essa s’innalza da un cuore contrito…» (61). «La preghiera deve essere innestata in una vita orante, consacrata alla realizzazione dell’imperativo divino…» (64).
La comunità profetica garantisce la promozione della fraternità tra gli uomini. «L’amicizia, non in quanto relazione sociale di superficie ma come relazione esistenziale profonda tra due individui, è realizzabile unicamente in seno all’ordito della comunità di alleanza, in cui le profondità delle singole personalità si mettono in relazione tra di loro ontologicamente e in cui l’impegno assoluto verso Dio e verso il compagno sono l’ordine del giorno» (65-66). Le relazioni tra gli uomini presenti anche nella comunità naturale, rimangono a livello di superficie, non oltrepassano i limiti dell’utilitarismo. Offrono esperienze di collegialità, socievolezza, educazione e gentilezza piuttosto che di vera amicizia, la quale viene donata da Dio all’interno del patto d’alleanza (66).
Infine la comunità d’alleanza consente il superamento della dissoluzione dell’uomo nelle spire del tempo. L’uomo vive l’esperienza dell’estraneità del mondo: «è avvertito di un passato senza fine che si è dipanato prima di lui ed è pure a conoscenza di un futuro senza fine che sfreccerà via dopo che egli cesserà d’esistere» (66). Nascita e morte appaiono eventi arbitrari in un flusso che sembra annientare l’individuo. L’uomo sperimenta la transitorietà e l’evanescenza dell’esperienza dell’ora, che non è giustificata né da un prima né da un dopo. Solo la comunità d’alleanza può offrire una prospettiva. «Rettrospettivamente, l’uomo dell’alleanza ri-esperisce l’incontro con Dio, da cui l’alleanza ha avuto origine, in quanto promessa, speranza e visione. Relativamente al futuro, invece, egli scorge la piena realizzazione escatologica di questa alleanza, con le sue promesse, speranze e visioni» (67).


Il primo e il Secondo Adamo non sono due persone diverse, bensì un’unica persona. In ogni soggetto umano dimorano due tipi di uomo: il Primo Adamo, regale e creativo e il Secondo Adamo, umile e docile. Dio ha voluto tutto ciò e il rifiuto di una delle due componenti, equivarrebbe ad un atto di disapprovazione del piano divino sulla creazione.
L’uomo di fede quindi, per esplicito volere di Dio, oscilla tra la comunità dei credenti e quella naturale, maiestatica (78). «A motivo di questo progressivo movimento da un’orbita a un’altra, l’essere umano non si sente a casa in nessuna delle due comunità» (79). In questo errare consiste il senso di solitudine dell’uomo di fede.
Sarebbe naturale ed auspicabile che i due tipi d’uomini s’incontrassero ma, in modo particolare nella nostra contemporaneità, essi appaiono incompatibili l’un l’altro. L’uomo maiestatico sembra chiudersi sempre di più nella propria orgogliosa sicurezza. Pretende d’identificarsi con la totalità della persona umana e, in questo modo, offre di sé un’immagine demoniaca (90). Talora sembra avvicinarsi all’uomo di fede ma, in realtà, egli non apprezzare la fede nel suo nucleo più autentico ma si limita a gradire soltanto certe manifestazioni culturali della fede (90). Valuta quindi anche la religione in termini utilitaristici e considera l’azione religiosa uno strumento cui egli può accrescere la propria felicità (82). Spesso è alla ricerca dei poteri terapeutici e redentivi insiti nella fede dal momento che essa offre sostegno e conforto nelle angustie (84). Ciò nonostante rimaneo estraneo al vero movimento della fede: «L’atto di fede è primigenio, dirompente con forza elementare, al pari di una esperienza eudemonistico-passionale che tutto consuma e che tutto pervade, in cui si manifestano i nostri più segreti bisogni, aspirazioni, passioni e timori… (86). L’uomo di fede è insensatamente impegnato, pazzo di amore per Dio. Sostenetemi con focacce d’uva passa, rinfrancatemi con le mele, perché sono malata d’amore» (88).
Da parte sua, l’uomo di fede non è incline al compromesso (86). Appare incapace di comunicare la forza della sua esperienza, non tanto per la sua fragilità ma a motivo della sua enormità. Anche se il messaggio culturale della fede muta costantemente, con il fluire del tempo, l’atto di fede in sé è immutabile. «La sua essenza è caratterizzata da fissità e da perenne identità» (91). Infatti non è frutto di azioni culturali e creatrici dell’essere umano, ma è piuttosto come qualcosa offerto all’uomo, quando quest’ultimo si lascia sopraffare da Dio. Solo se si mantiene in tutta la sua integrità, la fede diventa terapeutica.
La solitudine dell’uomo di fede, nella società contemporanea, comprende anche l’isolamento sociale (92) a cui lo costringe la presunzione dell’uomo maiestatico.


Il profeta Eliseo, ben rappresenta l’uomo maiestatico: è un uomo di potere, intraprendente e ricco. Elia, al contrario, profeta errante, solo, povero, unicamente interessato a Dio e al valore dell’Alleanza con Lui, rievoca la figura del Secondo Adamo. Eliseo si lascia affascinare da Elia e lo segue. Operando questa scelta, decise di abbandonare a se stesso definitivamente il suo ambiente di vita? In realtà, in seguito, egli fece ritorno alla società per testimoniare ed istruire. Spesso sperimentò la frustrazione del rifiuto; mai, però, si disperò e si rassegnò. «Disperazione e rassegnazione sono sconosciute all’uomo dell’alleanza, che trova il trionfo nella sconfitta, la speranza nel fallimento» (95). Proprio per il fatto di essersi trovato solo, incontrò l’Uno che è Solo. Oggi, l’uomo di fede, deve sobbarcarsi la stessa fatica assunta da Eliseo.




Proviamo a tracciare ora delle osservazioni conclusive e a formulare una rilettura cristiana della meditazione di Soloveitchik.
Il progresso a favore degli uomini, nella ricerca scientifica, nella creatività artistica, nella vita politica è voluto da Dio stesso. Non può esistere concorrenza tra Dio e l’uomo, tra la fede religiosa e l’azione mondana.
Scandagliando l’intimo della persona umana, mette bene in evidenza la sua duplicità: l’uomo è, nello stesso tempo, grande e misero. Deve, opportunamente, impiegare le sue risorse creative ma anche predisporsi a compiere gesti sacrificali per poter entrare in relazione con i suoi simili. Una vera comunione con il prossimo si attua soltanto all’interno della comunità d’Alleanza, dove il prossimo acquista un valore assoluto.
Abolisce ogni forma d’individualismo nella preghiera; sostiene la necessità che essa favorisca un comportamento etico adeguato e generi un senso di responsabilità verso la comunità, se intende essere un’esperienza autentica e non una parvenza, vuota di senso.
Tuttavia, Primo e Secondo Adamo non sarebbero due figure da porre in contrasto tra loro, in modo netto. Qualcosa dell’uno deve essere presente anche nell’altro. Se così non fosse, una loro intesa risulterebbe impossibile. Dentro di noi scorgiamo delle tensioni legittime che sono sì distinte ma non opposte tra loro.
Ciò diventa più chiaro se, anziché limitarci all’analisi testo della Genesi, diamo uno sguardo a tutto il percorso biblico. Un passo della riflessione sapienziale sembra fondere le caratteristiche dei due Adamo:

«Il Signore creò l’uomo dalla terra e ad essa di nuovo lo fece tornare… Li rivestì di una forza pari alla sua e a sua immagine li formò. …Discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore diede loro per pensare. Li riempì di scienza e d’intelligenza e mostrò loro sia il bene che il male. Pose il timore di sé nei loro cuori, per mostrare loro la grandezza delle sue opere,  e permise loro di gloriarsi nei secoli delle sue meraviglie. Pose davanti a loro la scienza e diede loro in eredità la legge della vita, affinché riconoscessero che sono mortali coloro che ora esistono. Stabilì con loro un’alleanza eterna e fece loro conoscere i suoi decreti. I loro occhi videro la grandezza della sua gloria, i loro orecchi sentirono la sua voce maestosa. Disse loro: «Guardatevi da ogniingiustizia!» e a ciascuno ordinò di prendersi cura del prossimo (Sir 17,1-14)

L’uomo ad immagine di Dio non è soltanto colui che domina sul creato, ma anche colui che riceve una propensione alla comunione con Lui. Nella sua attività creatrice, mentre imita la potenza del Creatore, imita anche la sua bontà. La creazione, infatti, non è soltanto un segno della potenza divina ma anche della sua generosità. Di conseguenza, l’uomo ad immagine di Dio domina il creato con profondo rispetto, animato da un senso profondo di responsabilità verso gli altri uomini.



All’interno della fede cristiana, l’uomo maiestatico è figura anticipatrice del Cristo Risorto. La riflessione del salmo ottavo sull’uomo creativo ha favorito tale associazione. Il salmista, che medita sulla povertà e sulla potenza dell’uomo, si meraviglia e si compiace del riguardo amorevole con il quale Dio ha onorato l’uomo, perché questi, pur essendo di per sé un nulla, ha ricevuto il dominio su tutto il creato:

«Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Sal 8,5-7).

Nella visione cristiana, la promessa annunciata all’uomo si è realizata in modo particolare nella risurrezione di Cristo. È il Risorto a ricevere il dominio su tutto (Cf. Eb 2,9). Introducendo nel mondo il Regno di Dio, Gesù realizza ciò che si propone l’uomo maiestatico. Il Regno di Dio presuppone la vittoria sulla miseria, la malattia e il peccato, e quindi, sulla morte. Tuttavia il dominio di Cristo è in fase di realizzazione. Egli è stato insediato in autorità ma non ha ancora ottenuto il pieno successo del suo dominio, proprio come avviene per l’uomo creativo. È chiaro che il Risorto non opera da solo ma agisce attivando la nostra collaborazione. Non rende superfluo l’impegno degli altri uomini, ma piuttosto offre loro un modello, una forza d’impegno e una garanzia di riuscita. L’annuncio del Regno porta a compimento il disegno divino già tracciato nella creazione.
Gesù può essere prefigurato anche nel Secondo Adamo, interessato ad aderire all’Alleanza, con Dio e con i fratelli. Nella stipulazione dell’Alleanza, Dio si renda prossimo all’uomo, molto più vicino di quanto ha fatto (e continua a fare) nella rivelazione cosmica, fino a presentarsi a lui nella figura dell’amico. Non rimane soltanto un Mistero santo.
Gesù si offre come la massima vicinanza di Dio al mondo. L’uomo non si trova soltanto più di fronte ad una serie di precetti ma ad una persona concreta che, osservandoli, si offre come modello e guida. Grazie alla sua rigorosa obbedienza, può inaugurare la Nuova Alleanza, già annunciata dai profeti. Introduce un nuovo Patto che non annulla il Primo ma lo conduce alla perfezione. Come era prefigurato nella scala di Giacobbe, in Lui Dio scende presso gli uomini e conversa con loro e l’uomo sale fino a Dio e si unisce a Lui. Gesù Risorto conduce l’umanità fino al cielo stesso, fino alla destra di Dio. L’aspettativa insita già nell’antica Alleanza raggiunge ora il suo traguardo definitivo.
All’interno del rapporto dell’Alleanza riacquista senso l’esperienza mistica. Fuori da questo rapporto, essa può degenerare in privilegio, in pretesa; può isterilirsi nella ricerca spasmodica del vantaggio personale, nella fusione impersonale con il divino, nella rinuncia alla testimonianza profetica e all’urgenza etica. All’interno dell’Alleanza, invece, questi rischi scompaiono. La vicinanza con Dio, di carattere mistico, viene donata al profeta perché sia rafforzato nella sua missione e rinvigorito nel suo impegno doloroso.

«Mosè rimase con il Signore quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiar pane e senza bere acqua. Egli scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza, le dieci parole. Quando Mosè scese dal monte Sinai – le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal monte – non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con lui» (Es 34,28-29)

Nel colloquio intimo con Dio, sul monte o in una tenda separata da tutte le altre tende (Cf. Es 33,10-11), Mosè assimila le qualità divine, come viene testimoniato dallo splendore del suo volto. Solo così diventa capace di farsi carico delle colpe del popolo e di presentarsi davanti ad esso come un inviato affidabile.

Al culmine della sua vicenda di fede, il cristiano non è un uomo solo che conosce il Solo. Certamente, anche nell’ipotesi migliore, egli non può ottenere una comunione con gli altri così esaustiva da eliminare la sua solitudine. Inoltre, come credente, può trovarsi di fatto isolato in un ambiente indifferente o perfino ostile. Nel rapporto con Dio, però, egli si trova a vivere con Cristo in Dio, quale membro del Corpo della Chiesa, nello Spirito Santo, in un’esperienza gioiosa di comunione. 

venerdì 22 febbraio 2019

Tratti di Spiritualità



Purificazione del cuore


Che cosa avviene, allora, nella vita del discepolo toccato dalla grazia? Riprendiamo alcuni suggerimenti proposti dalle testimonianze appena riferite, e allarghiamo lo sguardo ad altre esperienze, lungo il corso della storia cristiana.
Lo Spirito è innanzitutto libertà, possesso di sé e pacificazione. Dio non vuole che abbiamo padroni sopra di noi. Un uomo, infatti, diventa schiavo di ciò che lo domina (Cf. 2 Pt 2,19). Quando cominciamo a ricevere il suo influsso, cominciamo a desiderare e a conseguire l’autodominio. Niente ci deve sopraffare. La battaglia decisiva e più ardua, è quella che riguarda il possesso di noi stessi: «È meglio la pazienza che la forza di un eroe, chi domina se stesso vale più di chi conquista una città» (Prov 16,32). Per questo motivo, Dio esige in primo luogo la purificazione del cuore. Molti cristiani ritengono di essere sani (cioè spirituali), a motivo di certe pratiche (veglie, digiuni, pellegrinaggi, elemosine)

« ma sono dominati nell’intimo da malattie nascoste terribili.... come vane opinioni, boria, arroganza, diffidenza, tracotanza, ipocrisia, vanagloria, viltà, turpi pensieri. È detto: l’uomo guarda il volto, Dio vede il cuore. Bisogna ottenere che l’uomo sia trovato sano all’esterno come all’interno...» (Pseudo Macario…, Discorsi, 189).

Dobbiamo, allora, sviluppare in noi la grazia del Battesimo che ci ha reso partecipi della morte e della risurrezione di Cristo. Moriamo e risorgiamo con Lui perché lasciamo che Cristo Risorto attui in noi il significato della sua Pasqua: morte al peccato e vita nuova.
Gregorio di Nissa quando espone il progetto di purificazione suggerisce di assimilare le caratteristiche dell’amore tracciate da Paolo nell’inno alla carità. Spegnere in noi sentimenti negativi come l’invidia, il rancore o la tracotanza è il modo indispensabile per far crescere in noi l’amore. Purificare il cuore significa in pratica togliere ciò che impedisce la comunione con gli altri. Corrisponde alla nascita e alla crescita in noi nell’amore; è manifestazione della nuova creazione, assimilazione della luce di Cristo. L’amore comincia a svilupparsi in noi grazie all’autodominio. Tuttavia non basta fare il bene, bisogna agire con retta intenzione, in spirito di gratuità. San Paolo dichiara che è possibile compiere gesti eroici senza essere animati dall’amore e che questo fare, anche se è eclatante agli occhi degli uomini, rimane vuoto, e viene disprezzato da Dio stesso (Cf. 1 Cor 13,1-3).

«Non basta fare opere buone, ma bisogna farle bene. Affinché le opere nostre sian buone e perfette, è necessario farle col puro fine di piacere a Dio. Questa fu la degna lode che fu data a Gesù Cristo: “Ha fatto bene ogni cosa” (Mc 8, 37). Molte azioni saranno in sé lodevoli, ma perché sono fatte per altro fine che della divina gloria, poco o niente valgono presso Dio. Egli rimunera le nostre opere a peso di purità. Nella misura in cui la nostra intenzione è pura, il Signore gradisce e premia le nostre azioni. Quanto è difficile a trovare un'azione fatta solo per Dio!» (de Liguori, Pratica…, 88).



Abbandono filiale

Gesù si rapportò con il Padre con grande fiducia e perciò si sottomise in tutto a Lui. L’abbandono fiducioso in Dio in qualsiasi circostanza, diventa anche un atteggiamento fondamentale del cristiano, benché non sia facile, acquisirlo e conservarlo.
Il credente accetta tutto ciò che gli capita e in ogni evento coglie la mano di Dio. È vero che gli avvenimenti negativi sono causati dall’uomo e sono un prodotto della sua malizia. Tuttavia la persona pervasa dallo Spirito Santo non si attarda a cercare le motivazioni o le responsabilità, poiché sa che anche l’avvenimento che non è causato in modo diretto da Dio, rimane comunque nell’ambito della sua provvidenza.

«In ogni circostanza benedici il Signore Dio e domanda che ti sia guida nelle tue vie e che i tuoi sentieri e i tuoi desideri giungano a buon fine, poiché nessun popolo possiede la saggezza, ma è il Signore che elargisce ogni bene e abbassa chi vuole fino al profondo degli inferi» (Tb 4,19).

I santi godono nel ricevere questa disposizione interiore. Il credente maturo non pensa male di Dio (cf. Dt 1,27); anzi pensa sempre bene di Lui.

«Pensare bene di Dio consiste nel ricevere con gratitudine tanto le cose prospere come le avverse, credendo, senza dubitare, che procedono dalla sua somma bontà e misericordia, poiché dice egli stesso nella sacra Scrittura: Io quelli che amo li correggo e li educo (Ap 3,19)» (Camilla da Varano, La purità…, 45).

L'affidamento a Dio ci procura un senso profondo di gioia e di pace (Cf. Fil 4,4-7):

«Se gli uomini conoscessero l'amore del Signore per noi, si abbandonerebbero completamente alla sua santa volontà e vivrebbero nel riposo di Dio, come figli di re. Il re si preoccupa di tutto: del regno, della famiglia, del figlio, mentre il figlio vive tranquillo a palazzo. Tutti lo servono e egli gode di tutto senza preoccupazioni. Allo stesso modo chi si abbandona alla volontà di Dio vive nel riposo, è contento del proprio destino anche se è malato o povero o perseguitato. È tranquillo, perché la grazia dello spirito Santo è con lui, la dolcezza dello spirito Santo lo consola» (Sivano, Nostalgia..., 150).


Amore per il nemico


I desideri dello Spirito conducono alla vita e alla pace. L’uomo di Dio, allora, è una persona gioiosa, pacifica, umile. Paolo si attende che i suoi cristiani siano dotati di amabilità (Fil 4,5). Del resto,

«Non c’è atteggiamento che tanto edifichi il prossimo, quanto la benignità nel trattare con lui. Nello sguardo sorridente e nella delicatezza dei gesti, dobbiamo portare l'immagine espressa della benignità di Gesù Cristo. Se siamo costretti a negare quel che non è lecito concedere senza offesa della coscienza, dobbiamo mostrarci così benigni, che gli altri, sebbene non è questo che volessero in un primo tempo, si allontanino contenti, provando affetto per noi» (de Liguori, Pratica…, 81-82).

L’amabilità viene riversata, spontaneamente, sui poveri, sugli ammalati, sulle persone irritanti ed indisponenti.
S’impone qui un altro elemento pasquale significativo: l’amore per i nemici. Gesù ci ha dato questo comando paradossale, esclusivo del Vangelo. Questo comando suggerisce che la proposta di Gesù non è soltanto etica ma teologica. Che cosa voglio dire con questo? Egli non chiede soltanto al discepolo di vivere con rettitudine ed onestà ma di divenire un imitatore dell’amore di Dio, di agire com un figlio. Egli dovrà comportarsi meglio dei pagani più onesti. C’è un di più da esibire. Non si tratta di entrare in gara con altri né di dare spettacolo di sé ma di rivelare nella vita chi è Dio, nel mostrare in sé la luce divina rivelata a noi per dono. Non si deve amare per qualche strategia: ad esempio, mostrarsi remissivi per persuadere il nemico a rinunciare alla violenza. Anche questo è utile ma il discepolo ama perché non riesce più ad odiare. È divenuto un altro; in lui traspare un amare che viene da altrove, dal cielo.

 [La persona maturata nell’amore] se viene perseguitata…, non solo non prova il minimo risentimento per quelli che le fanno o le vogliono fare del male, ma li circonda di maggiori attenzioni; e se li vede in qualche travaglio, ne rimane teneramente afflitta, sino ad essere disposta a far di tutto per sollevarli. Li raccomanda istantaneamente al Signore, e rinuncerebbe volentieri ad alcune delle sue grazie affinché Dio le concedesse a loro, ed essi non l’offendessero più (Teresa d’Avila, Castello interiore, VII,3,5 Opere 950).

Teresa non sta comunicando ciò che si propone di fare né ciò che intende suggerire ad altri. Mostra ciò che ormai è affiorato in lei e ciò che è diventata. Nella piena maturazione, il cristiano non è più uno che si sottomette alla Parola di Dio, lottando contro se stesso, ma è una persona che è diventata quella parola. La compassione, il perdono, la disponibilità al servizio diventano un modo di sentire e di vivere spontaneo.
Lo attesta anche Silvano del Monte Athos. Egli non è un teorico ma un testimone ed attesta più volte di aver conosciuto, nel senso di avere sperimentato, la grazia di Dio o l'azione dello Spirito Santo: «È molto diverso credere soltanto che Dio esiste, averne una conoscenza che deriva dalla natura o dalle Scritture, e conoscere il Signore nello Spirito Santo» (Nostalgia…, ).
La vita del cristiano, infatti, riceve una svolta fondamentale quando comincia ad affiorare in lui la carità, un sentimento di compassione universale, rivolta a qualsiasi tipo di disagio, fisico e morale. In una parola, lo Spirito Santo rende il credente simile al Signore: «Chi ha conosciuto Dio nello Spirito Santo… assomiglia al proprio maestro, Cristo Figlio di Dio, e gli è diventato simile» (Nostalgia..., 63).
Lo Spirito Santo insegna particolarmente l'amore per i nemici. Silvano insiste molto su questo tema:

«L'anima non può avere pace se non pregherà per i nemici… Il Signore mi ha insegnato ad amare i nemici. Senza la grazia di Dio non possiamo amare i nemici, ma lo Spirito Santo insegna l'amore e allora avremo compassione perfino dei demoni, perché si sono staccati dal bene, hanno perso l'umiltà e l'amore per Dio» (Nostalgia..., 144).

L'amore per i nemici non è inteso come un gravoso dovere, ma come una grande opportunità: «Vi imploro, provate! Se qualcuno vi offende o vi disprezza o vi prende ciò che è vostro o perseguita la Chiesa, pregate il Signore dicendo: “Signore non tutti siamo creature; abbi pietà dei tuoi servi e volgili al pentimento”, e allora, sensibilmente, porterai la grazia nella tua anima».
Questo sentimento non sorgerà all’improvviso ma sarà l’esito di un lungo tirocinio: «All'inizio costringi il tuo cuore ad amare i nemici e il Signore, vedendo le tue buone intenzioni, ci aiuterà in tutto e l'esperienza stessa ti istruirà. Ma chi pensa male dei nemici, in lui non c'è amore di Dio né l'ha mai conosciuto» (Nostalgia..., 144).




Assenza di giudizio


Connesso all’amore per i nemici, l’amico di Cristo vive un sentimento verso gli altri che è caratterizzato da una radicale assenza di giudizio nei confronti di qualsiasi uomo:

«In che cosa consiste la purità della mente verso il nostro prossimo? In questo: che non lo giudichiamo mai, ma che sempre l'onoriamo e lo reputiamo pietoso e onesto, perché la vera purità verso il prossimo è nell'amarlo con Dio e per Dio e non dirne male, ne nuocergli con la bocca o con il cuore. Questa è la vera osservanza dei comandamenti divini» (La purità…, 51)

Silvano, in seguito al dono dell'amore, ha sentito germogliare in lui un profondo sentimento di umiltà e con l'umiltà con un senso di pace, anche questo profondo e totale.

«Lo Spirito Santo crea in noi l'umiltà. Essa consiste, nel suo aspetto più profondo, nel ritenere se stessi peggiori di tutti: l'anima sana ama l'umiltà, come le ha insegnato lo spirito; e anche se ancora non lo conosce, si considera tuttavia la peggiore di tutti» (Nostalgia..., 60).

Non si tratta di una valutazione di merito ma di un sentimento autentico suscitato dalla grazia, a prescindere da qualsiasi reale classificazione. La persona umile si colloca all'ultimo posto con spontaneità.

«Non credere di aver fatto profitto nella perfezione se non ti tieni per lo peggiore di tutti, e se non desideri di esser posposto a tutti. Così hanno fatto tutti i santi. Si consideravano i maggiori peccatori del mondo, e si meravigliavano di come la terra li sostenesse e non si aprisse loro sotto i piedi; e ciò lo dicevano con vero sentimento… Chi è vero umile, venendo umiliato più s'umilia. Sì, perchè il vero umile non mai crede di esser umiliato abbastanza quanto merita» (de Liguori, Pratica…, 118).



Rinnegamento di sé


Il credente può cominciare ad amare Dio spinto da motivi d’interesse; in questa fase, forse, è interessato ancora più a se stesso che a Dio. In seguito s’impone un altro tipo di motivazione poiché l’amare esige la purificazione e il distacco da sé. Chi ama davvero, è capace di dimenticarsi; comincia quasi a non esistere più. Teresa d’Avila, osservando ciò che vedeva accadere in se stessa, si è accorta che ormai agiva soltanto per amore di Dio, dimentica d’ogni suo vantaggio:

«Innanzitutto il non pensare a se stessi fino a dimenticarsi di esistere… né si ricorda come per lei ci sia cielo, vita, gloria, impegnata com’è nell’ottenere quella di Dio» (Tutte le opere, 1463)

Non si tratta di un invito all’autodistruzione ma di una sollecitazione non vivere più per se stessi, nella ricerca dei propri vantaggi, ma di vivere per Dio e per la salvezza degli altri. Così scopriamo meglio il significato della proposta evangelica del rinnegamento di se stessi. Di conseguenza, il vero discepolo, pur desiderando la comunione piena con Cristo in cielo, è disposto a vivere qualsiasi travaglio sulla terra, se questa sopportazione viene a vantaggio del Vangelo:

Pur sapendo, come sanno, che la dipartita dell’anima dal corpo porta ad un godimento maggiore di Dio, non ci fanno caso e neppure pensano alla gloria dei santi… Scoprono la loro gloria nel potere servire in qualche cosa il crocefisso» (Teresa d’Avila, Tutte le opere, 1465)

È possibile allora guadagnare, quindi, una vera gratuità d’amore.



Conclusione

Ora possiamo fare nostra l’esperienza di Gesù: «Tutta la ricchezza di Cristo è destinata ad ogni uomo e costituisce il bene di ciascuno. Non ha vissuto la sua vita per sé, ma per noi… Tutto ciò che ha vissuto, egli fa sì che noi possiamo viverlo in lui e che egli lo viva in noi. Con l’incarnazione si è unito in certo modo a ogni uomo» (CCC 519 e 521). Egli, l’unico vero Figlio di Dio, si è fatto uomo, affinché gli uomini diventino figli di Dio.
Soltanto chi accetta di diventare una proprietà del Signore, lo guadagna anche come tesoro inesauribile. Quando ci proponiamo di non vivere più per noi stessi (in balìa nostro egoismo), quando ci disponiamo (finalmente) a non essere più nostri, ma del Signore, allora possiamo far nostra tutta la ricchezza di Cristo. «Cristo, infatti, quelli che lega a sé li libera, e quelli che stringe fortemente a sé, li scioglie» (Ambrogio, Commento sui salmi, 45,17). Finché vogliamo vivere senza Cristo, perdiamo Cristo ma perdiamo anche noi stessi.
Quando smettiamo di essere noi stessi, i peccatori di sempre, diventiamo finalmente noi stessi. «Chi viene meno a se stesso per unirsi alla Forza, perde ciò che gli è proprio per ricevere ciò che è eterno» (Ambrogio, Commento al Salmo 118, XI,7). 

A Donato. A Diogneto


Testimonianze

In questa parte osserviamo in quali modalità sia comparsa l’azione dello Spirito Santo nella vita del credente e quali risultati abbia prodotto la carità, infusa dallo Spirito. Più che esporre i doveri del cristiano, voglio mostrare ciò che egli può diventare, che cosa può accadere in lui. Si tratta di ascoltare il canto nuovo che i redenti hanno appreso, rendendo candide e luminose le loro vesti nel sangue dell’Agnello.
Comincio con l’esporre due testimonianze che provengono dal cristianesimo più antico.

A Donato

Nella tradizione cristiana primitiva, evangelizzare significava, in primo luogo, mostrare, nella concretezza, la novità assoluta del Vangelo. Gli evangelizzatori erano in primo luogo dei testimoni che offrivano allo sguardo dei loro interlocutori lo stile della vita cristiana, percepita come un’esistenza paradossale, ossia tale da suscitare stupore: «Vivendo in città greche e barbare, adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale» (A Diogneto, 63).
Chi li incontrava, si trovavano di fronte ad una novità irritante ed affascinante. Irritante perché il modo sentire comune a cui era abituati era sconvolto; affascinante perché, nello stesso tempo, percepivano un valore indiscutibile in ciò che veniva proposto:

«I pagani nell’ascoltare dalla vostra bocca le parole del Signore le ammirano perché belle e grandi. Quando da noi ascoltano che Dio dice: Non c’è merito per voi se amate quelli che amano, ma c’è merito se amate i nemici e quelli che vi odiano, ammirano il massimo della bontà» (Seconda lettera ai Corinti, I Padri Apostolici 224).

Come avveniva l’annuncio? Il messaggio passava di bocca in bocca, tramite l’entusiasmo di chi aveva creduto e sperimentato la vita cristiana. Lo attesta questa testimonianza: Cipriano, convertito da poco, narra la sua vicenda all’amico Donato, rimasto ancora pagano ma aperto verso il cristianesimo.  Non gli espone i dettagli di cronaca della sua conversione ma il contenuto essenziale suo cammino interiore. Vuole che l’amico possa ritrovarsi nella descrizione della sua vicenda. Venuto a sapere che era possibile intraprendere una nuova esistenza, si chiedeva tra sé se era realmente possibile un cambiamento radicale, una autentica novità di vita: «Ritenevo estremamente difficile e duro per le mie abitudini d’un tempo ciò che la misericordia divina mi prometteva per condurmi alla salvezza» (Donato, 81). La proposta del Vangelo affascinava il giovane ma gli sembra troppo arduo il passo e impossibile conseguire l’obiettivo desiderato.
Descrive gli allettamenti che distolgono da una vita sobria, dai quali in parte si era lasciato trascinare e nei quali anche il suo interlocutore si era lasciato coinvolgere: pranzi succulenti, abiti preziosi, l’ansia di conquistare una posizione di prestigio, il bisogno di divertimenti: «... il vizio del bere, stimola; la collera, infiamma; l’avidità, tormenta; la crudeltà, stimola; l’ambizione affascina; la passione travolge» (Donato, 83). Per un certo periodo, dubitò di poter trovare la libertà. Pensò che i mali compiuti, costituissero la sua identità immutabile.
Fu per lui una sorpresa la potenza della grazia, sperimentata in seguito al battesimo. Cipriano rivela all’amico l’evento accaduto, non delle semplici teorie o vaghe speranze. L’infamia venne spazzata via; una nuova luce, proveniente dall’alto, si riversò nell’animo ormai purificato. I dubbi si chiarirono, diventò possibile compiere ciò che prima gli sembrava impossibile: «Cominciava ad appartenere a Dio, ciò che ormai era animato dallo Spirito» (Donato, 85).
 Il mutamento vissuto presuppone che Cipriano fosse animato da una convinzione di fede solida e da una generosa corrispondenza alla grazia, ma egli dirige la sua attenzione sull’agire di Dio; non evangelizza se stesso ma vuole essere testimone della misericordia ricevuta: «Appartiene a Dio, dico, a Dio, tutto ciò che possiamo fare. Grazie a Lui viviamo, grazie a Lui siamo forti, grazie a Lui abbiamo accolto quell’energia che qui nel mondo ci permette di riconoscere in anticipo gli indizi della vita futura» (Donato, 85-86).
Dopo aver narrato in sintesi la sua vicenda, cerca di portare l’amico a riflettere sulla situazione morale in cui versava la società. Sapendo che Donato, anche se ancora pagano, non era una persona corrotta e degenerata, comincia a puntare l’indice contro le consuetudini sociali più riprovevoli, che avevano già suscitato il disgusto d’entrambi. Nè la religione pagana né la cultura greco-romana erano riuscite a liberare la società da azioni turpi e violente, anzi le avevano confermate. Il confronto tra cristianesimo e paganesimo non avviene a livello della riflessione filosofica, dove anche quest’ultimo aveva raggiunto delle aspirazioni molto nobili, ma a livello del comportamento delle masse abbandonate al loro degrado. Cipriano affianca l’amico nella riprovazione dei giochi gladiatorii. L’abilità retorica accentua il disgusto morale: «Si prepara il gioco dei gladiatori perché il sangue diletti la folle brama di occhi crudeli... Si uccide l’uomo per il piacere dell’uomo e diventa arte il saper uccidere: non solo si compie ma si insegna il delitto» (Donato, 93). L’interesse di questa denuncia non sta soltanto nella riprovazione di una consuetudine disumana, ma nel fatto che la persona convertita al Vangelo, non si rinchiude nell’ambito del privato, non si limita a godere della propria liberazione personale ma si prende a cuore l’intera società. Non si isterilisce nella semplice condanna ma diventa fermento di rinnovamento facendo leva sul desiderio di bene presente in ogni uomo, anche in quello più degradato.
Passa in rassegna tanti altri comportamenti riprovevoli ai quali posso soltanto accennare: la rappresentazione teatrale di fatti crudeli od osceni. Spesso le divinità diventano incentivo all’immoralità: Venere sfrontata, Marte adultero, Giove pederasta. «Imitano gli dei che adorano; per quegli infelici anche le regole della loro religione diventano incitamento al delitto» (Donato, 97). Denuncia la corruzione nei tribunali; la virulenza con cui si abbatte l’avversario ma anche la crudeltà del giudice, l’amoralità dell’avvocato, l’uso della tortura (Donato, 99-101).
Cerca di rendere consapevole l’amico dell’incoerenza morale manifestata dagli stessi pagani: da una parte compiono il male e si giustificano, dall’altra accusano gli altri di fare le medesime malvagità, già compiute anche da loro. «Alla luce del sole sono accusatori; in privato, colpevoli.... condannano fuori ciò che compiono dentro, concedono volentieri ciò di cui accusano gli altri, purché sia concesso pure a loro» (Donato, 99). Uno strumento efficace di evangelizzazione era quello di risvegliare l’amore del bene e il disgusto del male. Soltanto l’adesione alla novità di Cristo diventava, per esperienza, una forza liberatrice. Il cristianesimo valeva perché era una medicina efficace, l’unico ritrovato sicuro per garantire un comportamento veramente umano. Il fatto che molti, pur avendo creduto in Cristo, almeno in apparenza, fossero caduti di nuovo nel male dal quale sembravano liberati definitivamente, non era in grado di smentire la testimonianza biografica di Cipriano: chi crede davvero in Cristo e corrisponde al suo dono di grazia, può sperimentare una liberazione totale e definitiva. A volte ciò avveniva in mondo repentino, altre volte richiedeva tempo e la necessità di affrontare una dura lotta, ma il risultato era sicuro.
Cipriano non si limita ad attestare a Donato la possibilità di uscire dal male ma anche quella di godere di un’esistenza piena. Lo avverte che ora sta godendo di una tranquillità placida e sicura, e gli ricorda che il tesoro più sublime dimora all’interno della coscienza. Possiamo godere dei doni della generosità di Dio perché il suo dono è gratuito e facile da ottenere: «Come il sole spontaneamente riscalda, la sorgente sgorga, la pioggia bagna, così si effonde lo spirito celeste» (Donato, 113)
L’ultimo tratto dello scritto è un invito a sperimentare personalmente ciò che Cipriano ha già conosciuto. Non deve dipendere dalle esortazioni dell’amico ma può diventare a sua volta un testimone: «Mantieni la preghiera o la lettura continua (dei libri biblici). Ora sii tu a parlare con Dio, ora sia Dio a parlare con te. Egli ti istruisca, Egli ti educhi. Nessuno renderà povero colui che Egli ha reso ricco» (Donato, 117).

A Diogneto

Una seconda testimonianza di rilievo di come avveniva l’evangelizzazione, la troviamo nella lettera a Diogneto. Non conosciamo né l’autore, né il destinatario e neppure la datazione precisa dell’opera. Sappiamo soltanto che è uno scritto appartenente all’epoca cristiana più antica.
Secondo l’autore dello scritto, il cristianesimo non è una scoperta degli uomini e non appare come una dottrina filosofica elaborata da qualche pensatore. È una realtà che presenta dei caratteri paradossali, aspetti contrastanti (anche se non opposti) che danno origine ad una tensione inesausta e benefica. Ad esempio, il cristianesimo appartiene appieno a questo mondo ma è estraneo ad esso. I cristiani, vivendo in questo modo con le medesime necessità degli altri, hanno un’origine divina, tendono uno stile di vita divina, hanno una destinazione divina. «Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni terra straniera è patria loro, e ogni patria è terra straniera» (Diogneto, 63). Seguono poi alcune esemplificazioni di carattere pratico. L’autore riferisce circa le nome di vita abbracciate dal cristiano: «Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne» (Diogneto, 63).
Fin qui il comportamento del cristiano può essere definito paradossale (o degno di stupore) in quanto rende possibile attuare un’integrità di vita, un’onestà autentica, che era obiettivo comune a tutti. Il tenore paradossale del cristianesimo, tuttavia, appare con maggior vigore la dove fa trasparire la luminosità propria del messaggio evangelico, la dove sia realmente attuato: «Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti e vengono condannati... Sono ingiuriati e benedicono...» (Diogneto, 65).
L’autore prosegue usando la celebre immagine del cristianesimo come anima del mondo (Diogneto, 65-67). L’autore attinge ad una  antropologia di carattere dualistico, in quanto la relazione tra anima e corpo è intesa anche in termini di ostilità reciproca.
Al di là di questi aspetti più problematici, ciò che appare utile anche per noi, nel tempo presente, è l’invito ad assumere una responsabilità nei confronti del mondo: i cristiani, partecipando alla vita comune, devono perfino sostenere il mondo; anzi hanno un compito a favore degli uomini al quale non devono sottrarsi: «Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare» (Diogneto, 67). Questa convinzione, soprattutto se rapportata con le difficoltà che essi dovevano affrontare in quel tempo, è del tutto impressionante: «Non vedi che, gettati alle fiere perché rinneghino il Signore, non si lasciano vincere? Non vedi: quanto più sono puniti, tanto più crescono? Questo non è opera dell’uomo, ma è potenza di Dio, prova della sua presenza» (Diogneto, 69-71). Avendo una responsabilità nei confronti degli uomini, i cristiani non devono mai lasciarsi vincere, abbandonare la loro opera, vinti dallo scoraggiamento. In che cosa consiste la responsabilità del cristiano verso la società? Non si limita soltanto a fornire cittadini onesti o ad avvalorare i beni morali, ma a conservare la figura di Cristo, la sua memoria e la sua presenza. Il dono dei cristiani agli uomini è donare il Signore Gesù, evitando di rinnegarlo. Si proponevano questa missione, quanti, piuttosto che rinnegarlo, preferivano affrontare una morte crudele.
Infatti chi è Gesù? Perché è così prezioso? Egli costituisce il massimo dono di Dio agli uomini, «la verità, la parola santa e incomprensibile», apparsa tra gli uomini ma infusa anche nei loro cuori (Diogneto, 67).
Il regno di Dio si differenzia nettamente da quelli umani poiché Egli non viene per imporre una tirannide, non vuole incutere paura e ottenere degli adoratori forzati. Dio mandò il Figlio «come chi salva, per persuadere, non per fare violenza. A Dio non si addice la violenza. Là mandò per chiamare non per perseguitare» (Diogneto, 69).
Comincia, poi, ad addentrarsi nell’esposizione della fede cristiana. A questo punto emerge una preoccupazione che dovrebbe rimanere fondamentale per chi s’accinge ad intraprendere un’opera di evangelizzazione in qualsiasi epoca. Essa consiste nel far conoscere agli uomini la forza della bontà di Dio e la singolarità del suo amore. Bisogna prendere mosse da questo punto capitale, enuclearlo con precisione, evidenziarlo; solo in seguito si dovrà esporre tutti gli elementi della dottrina cristiana, di per sé piuttosto elaborati, mostrandoli come siano parti essenziali d’un disegno fondamentale, riassumibile nel termine amore di Dio per noi.
«Dopo che la nostra ingiustizia giunse al colmo e fu dimostrato che come risultato spettava il castigo e la morte, venne il tempo che Dio aveva stabilito per manifestare la sua bontà e la sua potenza. Non ci odiò, non ci respinse, non si vendicò» (Diogneto, 73-75). Solo ora l’autore presenta il motivo per il quale i cristiani devono assumersi la responsabilità nei confronti degli altri uomini, quand’anche risultassero malvagi. Essi imitano l’agire di Dio il quale, vedendoci sprofondati nel male, non soltanto ci sopportò ma si addossò i nostri peccati. Egli non si propose solamente di usare pazienza, ma volle modificare realmente la triste situazione degli uomini. Decise allora di mandare il proprio Figlio per farsi carico dei nostri mali e comunicarci i suoi beni divini. Significativo che venga attribuita a Dio la disponibilità ad addossarsi i nostri peccati, un sentimento che, genere, viene assegnato soltanto a Gesù.
Il risultato di tutto questo impegno sarebbe quello di renderci persuasi del suo amore: «Ha voluto che ci fidiamo della sua bontà e lo consideriamo nostro sostentatore, padre, maestro, consigliere, medico, mente, luce, onore, gloria, forza, vita, senza preoccuparsi del vestito e del cibo» (Diogneto, 75).
Dopo avergli fatto conoscere questo progetto, promette a Diogneto un futuro radioso: «Conosciutolo hai idea di quale gioia sarai colmato?» (Diogneto, 77). Egli si assumerà il compito di diventare imitatore della sua bontà.