lunedì 11 maggio 2020

ASPETTANDO GODOT



Estratto dal Blog di Anna Napponi ALI DI PENSIERO
22 aprile 2020

"Waiting for Godot", Beckett: significati, connessioni bibliche, storiche e sociali
 "Waiting for Godot" è un dramma in due atti composto da Samuel Beckett e rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1952. 

0. RIASSUNTO DELLA "NON-TRAMA":


Eh sì... è una non-trama: non c'è avventura e soprattutto non c'è la volontà di cambiamento e di movimento. C'è un'infinita e a tratti anche angosciante attesa.

I due personaggi principali sono i due mendicanti Vladimir ed Estragon (in traduzione italiana: Vladimiro ed Estragone). Entrambi aspettano, in un paesaggio in aperta campagna, un certo Godot... non lo hanno mai incontrato prima, non sanno nulla di lui. E, per di più, non sono sicuri né del giorno né dell'ora dell'appuntamento. Ad un tratto arriva Pozzo, un castellano benestante che porta a guinzaglio il suo servitore Lucky. Pozzo di intrattiene con Vladimir ed Estragon e a un certo punto riparte. Il primo atto si conclude con l'ascesa della luna argentata nel cielo e con l'arrivo di un ragazzo che annuncia ai due mendicanti che Godot arriverà certamente domani- le testuali parole del dramma: "Mr. Godot told me to tell you he won’t come this evening but surely tomorrow."
Il secondo atto è praticamente uguale perché è anch'esso scandito da: attesa, arrivo di Pozzo e Lucky, congedo di questi ultimi due e messaggio del ragazzo: "Godot mi ha detto di dirvi che non verrà stasera ma sicuramente domani".  E il sipario cala.

Ma chi è veramente Godot? Dio? La Felicità? Forse entrambi. Ma a noi lettori non è dato saperlo con certezza. 
Per concludere questo "paragrafo zero", riporto prima una piccola parte del commento critico di Carlo Fruttero:

Vedere in Vladimiro ed Estragone la piccola borghesia che se ne lava le mani, mentre Pozzo, il capitalista, sfrutta bestialmente il proletariato, è perfettamente legittimo, ma altrettanto legittima è la chiave cristiana, per cui tutto, dall'albero che si trova sulla scena e che dovrebbe rappresentare la croce, alla barba bianca di Godot, si può spiegare Vangelo alla mano.

Qui sotto segue una carrellata di mie impressioni e riflessioni a proposito di alcuni passaggi del dramma, che ho appena terminato di leggere integralmente. E' tutto suddiviso in piccoli paragrafi- per quel che riguarda il primo atto, il numero dei paragrafi è contrassegnato con le lettere, per il secondo invece, ci sono i numeri arabi. "Farò parlare" molto anche il testo.

IMPRESSIONI E RIFLESSIONI SULL'ATTO PRIMO:

A. QUALE VERITA'?

Primo rimando biblico, già alla prima scena del primo atto:

Vladimir: Ah yes, the two thieves. Do you remember the story? Two thieves, crucified at the same time as our Saviour. One is supposed to have been saved and the other… (he searches for the contrary of saved)… damned. 
Estragon: Saved from what? 
Vladimir: Hell. 
Estragon: I’m going. 
Vladimir: And yet... (Pause.)... how is it– all four Evangelists were there. And only one speaks of a thief being saved. Why believe him rather than the others? 
Estragon: Who believes him? 
Vladimir: Everybody. It’s the only version they know. 

(Vladimir: Ah, sì, i due ladroni. Ti ricordi la storia? Due ladri, crocifissi insieme al nostro Salvatore. Si dice che uno fu salvato e l’altro… (cerca il contrario di salvato)… dannato. 
Estragon: Salvato da che cosa?
 Vladimir: Dall’inferno.
 Estragon: Vado.
Vladimir: E tuttavia… (Pausa.)... com’è, c’erano tutti gli Evangelisti. E solo uno parla di un ladro salvato. Perché credere a lui piuttosto che agli altri? 
Estragon: Chi gli crede? 
Vladimir: Tutti. È l’unica versione che conoscono.)

Soltanto nel Vangelo di Luca si parla delle reazioni dei due ladroni al vedere Cristo in croce e quindi si mettono in luce le loro parole. Soltanto in Luca è presente un dialogo tra Gesù e il ladrone pentito. Ad uno di essi, cioè a quello che si rende conto di aver perseguito uno stile di vita disonesto e che si pente, Gesù dice: "Oggi sarai con me in Paradiso".
Non voglio andare oltre, per quel che riguarda la teologia e i Vangeli sinottici... A me questo punto ha fatto pensare innanzitutto al contesto in cui Beckett ha scritto "Waiting for Godot": inizio anni '50, inizio guerra fredda. Cinque anni dopo aver scoperto sia gli orrori dei campi di sterminio sia le terribili e devastanti potenzialità della bomba atomica. Gli uomini si sono evoluti dal punto di vista scientifico e tecnologico, ma certe loro creazioni sono in grado di distruggere e di danneggiare  altri popoli. Sono appena terminate delle dittature diaboliche, assetate di potere e purtroppo di sangue, dittature che hanno manipolato migliaia di coscienze. In Europa la gente vorrebbe "ricostruire" un clima diverso, un mondo migliore, un tipo di mondo simile a quello che avrebbero voluto tutti quei partigiani morti per la libertà, fedeli fino in fondo ai loro ideali. Ma in Italia e in Germania la gente patisce la fame. Ad est c'è ancora il regime autoritario comunista, contrapposto al capitalismo americano e a quegli Stati Uniti pervasi dall'ottica consumista alienante, quegli Stati Uniti pieni di grattacieli, e di non-luoghi, quegli Stati Uniti che, nella musica e nelle abitudini, iniziano a influenzare molte nazioni europee.
In un contesto del genere, gli intellettuali arrivano a chiedersi: qual'è la verità? E' stata anche la domanda di Pilato a Gesù, giusto per fare un ulteriore richiamo al Vangelo della Passione.
Di fronte a tutto ciò, una parte degli intellettuali europei, tra cui Samuel Beckett e i francesi della scuola del Nouveau Roman (che però ora riesco a comprendere meglio, al di là di ironie e sarcasmi) si sentono impotenti, sperduti... risentono di un passato recentissimo e violentissimo, risentono delle disuguaglianze economico-sociali... e temono l'energia potente di tecnologie molto negative, come la bomba atomica. Dov'è la verità in questo mondo che ha appena avuto 50 milioni di morti a causa del secondo conflitto mondiale? Cosa può darci sicurezza?

B) L'HOMO "DEMENS":


Vladimir: He said Saturday. (Pause.) I think. I must have made a note of it. (He fumbles in his pockets, bursting with miscellaneous rubbish.) 
Estragon: (very insidious). But what Saturday? And is it Saturday? Or Thursday? 
Vladimir: What’ll we do? 
Estragon: If he came yesterday and we weren’t here you may be sure he won’t come again today. Vladimir. But you say we were here yesterday. 
Estragon: I may be mistaken. (Pause.) Let’s stop talking for a minute, do you mind? 
Vladimir: (feebly). All right.

(Vladimir: Ha detto sabato. (Pausa.) Penso. Dovrei averne preso nota. (Armeggia nelle sue tasche, traboccanti di cianfrusaglie varie.) 
Estragon: (molto insidioso). Ma quale sabato? Ed è sabato? O giovedì? 
Vladimir: Cosa faremo? 
Estragon: Se fosse venuto ieri e noi non fossimo stati qui puoi star certo che non verrà ancora oggi. 
Vladimir: Ma tu dici che noi eravamo qui ieri. 
Estragon: Potrei sbagliarmi. (Pausa.) Smettiamo di parlare un minuto, ti dispiace? 
Vladimir: (fiocamente). Va bene.)

Sembrano due dementi che non ricordano assolutamente nulla. Incerti sul presente, sul passato e sul futuro. Questi due sembrano non avere ricordi. E sembrano non avere la percezione del tempo e dello spazio. Lo spazio, tra l'altro, è sempre uguale. Questa è la fine della seconda scena del primo atto. Nella scena terza, Vladimir ed Estragon, per un momento scambieranno Pozzo per Godot. E... qualche istante dopo, addirittura si dimenticheranno di aver scambiato Pozzo per Godot.

Pozzo: I present myself… Pozzo. 
Estragon (timidly, to Pozzo): You’re not Mr. Godot, Sir? 
Pozzo (terrifying voice): I am Pozzo! (Silence.) Pozzo!

(Pozzo: Mi presento... Pozzo. 
Estragone (timidamente, a Pozzo): Lei non è il signor Godot?
Pozzo (con voce terribile): Sono Pozzo! (Silenzio) Pozzo!)

Per collegarmi alla questione "tempo" di quest'opera: come in "La gelosie" di Robbe-Grillet e come in "L'anneè derniere a Mariembad", anche qui il tempo sembra cristallizzato. Ad un certo punto, Estragon dice (e stavolta lo riporto soltanto in italiano): "Non succede niente, nessuno viene, nessuno va, è terribile".

C) POZZO E LUCKY:


Come si diceva nell'introduzione, Pozzo e Lucky sono rispettivamente servo e padrone.

Partiamo dal fatto che Lucky mi sembra un nome antifrastico: "lucky" è "fortunato"... Mi sembra poco fortunato qualcuno che, per servire un padrone cinico e sprezzante come Pozzo, ha perduto completamente la propria dignità umana e la propria libertà di azione e di movimento (è infatti legato ad un guinzaglio).

Pozzo dice (e anche stavolta riporto soltanto il discorso in traduzione italiana) a Vladimir e ad Estragon, inizialmente un po' sconcertati di fronte alla tirannia che Pozzo esercita su Lucky: "Da notarsi che potrei benissimo trovarmi al suo posto e lui al mio. Se il caso avesse deciso altrimenti. A ciascuno il suo".
Che vuol dire? Il destino mi ha fatto nascere padrone. La mia prepotenza e il mio disprezzo sono giustificati dal "caso", dalla sorte (se fossimo nel Medioevo, "dalla Fortuna").

D) I SOPRANNOMI CHE SI DANNO VLADIMIR ED ESTRAGON:


Di tanto in tanto, nel corso dei loro dialoghi vuoti e a volte senza senso, confusi e privi di memorie, Vladimir chiama Estragon "Gogo" ed Estragon chiama Vladimir "Didi".

Estragon= in Gogo c'è il raddoppiamento di "go", una sillaba che fa già parte del suo vero nome.
Vladimir= in Didi c'è il raddoppiamento di "di", una sillaba che già è inclusa nel suo vero nome.

Didi/ Gogo... 
Didi non potrebbe forse richiamare lontanamente il movimento Dada, sorto in Svizzera nel '16, avanguardia che si serviva, nelle sue "creazioni", del non-senso, di richiami al linguaggio infantile, di collages di ritagli di giornale per formare una poesia?
Dada vuol dire tutto e niente. Ha una moltitudine di significati e al contempo nessuno.

A proposito di infanzia... per far addormentare Estragon, ad un certo punto del secondo atto, Vladimir canta una ninna nanna che fa: ni na na na/ ni na na na.

IMPRESSIONI E RIFLESSIONI SUL SECONDO ATTO:

1) INQUIETUDINE E ANGOSCIA:


Eccolo, secondo me, il punto più rappresentativo dell'angoscia di Vladimir. E' inquieto, perché la sua vita si basa su un'attesa noiosa, monotona, estenuante, priva di colori. E per aspettare chi, esattamente?
Sorbitevi tra poco la filastrocca ripetitiva!
Anche Estragon, comunque, è inquieto. Dirà poco dopo, al compagno di avventure: "Ritrovarmi! Dove vuoi che mi ritrovi? Ho trascinato la mia sporca vita attraverso il deserto! E tu vorresti che ci vedessi delle sfumature! Guarda questo schifo! Non ne sono mai uscito!"
Io credo che il deserto sia simbolo di un vuoto di valori e di relazioni. Il deserto psicologico deriva dalla propria infelicità.


Vladimir: THEN ALL THE DOGS CAME RUNNING
                    AND DUG THE DOG A TOMB 
                    AND WROTE UPON THE TOMBSTONE
                    FOR THE EYES OF DOGS TO COME. 


A DOG CAME IN THE KITCHEN 
AND STOLE A CRUST OF BREAD. 
THEN COOK UP WITH A LADLE 
AND BEAT HIM TILL HE WAS DEAD. 

THEN ALL THE DOGS CAME RUNNING 
AND DUG THE DOG A TOMB… 

He stops, broods, resumes. 

THEN ALL THE DOGS CAME RUNNING 
AND DUG THE DOG A TOMB… 

He stops, broods. Softly. 

AND DUG THE DOG A TOMB

… He remains a moment silent and motionless, then begins to move feverishly about the stage. He halts before the tree, comes and goes, before the boots, comes and goes, halts extreme right, gazes into distance, extreme left, gazes into distance.


( Vladimiro: ALLORA TUTTI I CANI ACCORSERO
E SCAVARONO UNA FOSSA AL CANE
E SCRISSERO SULLA PIETRA TOMBALE
AFFINCHE' TUTTI I CANI LEGGESSERO.

UN CANE ANDO' IN CUCINA
E RUBO' UNA CROSTA DI PANE
ALLORA CON UN MESTOLO
IL CUOCO LO COLPI' A MORTE.

ALLORA TUTTI I CANI ACCORSERO
E SCAVARONO UNA FOSSA AL CANE.

Si interrompe, medita, riprende.

ALLORA TUTTI I CANI ACCORSERO
E SCAVARONO UNA FOSSA AL CANE...

Si interrompe, medita. Dolcemente.

E SCAVARONO UNA FOSSA AL CANE.

Rimane un momento immobile, poi inizia a camminare febbrilmente sulla scena. Si ferma di nuovo davanti all'albero, andirivieni,  davanti alle scarpe, andirivieni, si ferma alla quinta destra, guarda lontano, alla quinta sinistra, guarda lontano.)

2) PERCHE' NEL SECONDO ATTO POZZO E' CIECO E LUCKY MUTO?

Nel primo atto non lo erano. Faccio presto a spiegarlo: stando a ciò che dice Fruttero, cioè, alla contrapposizione capitalismo/proletariato, la cecità di Pozzo forse è anche una cecità morale, oltre che fisica. Si trova in quella posizione, disprezza e insulta continuamente Lucky e non è in grado di farsi un esame di coscienza. E' forse il padrone, il padrone capitalista avido di guadagni e di ricchezza interessato a sfruttare le vite dei dipendenti.

Lucky diventa muto... Se prima dicevo che ha perso la propria dignità, il mutismo rappresenta proprio questo: è muto, inerme e succube dello sfruttamento a cui è sottoposto. E' un sottomesso, punto.

3) CONCEZIONE NEGATIVA SULLA RAZZA UMANA:

Anche qui, basta l'italiano:

Vladimiro: (...) Ma qui, in questo momento, l'umanità siamo noi, ci piaccia o non ci piaccia. Approfittiamone, prima che sia troppo tardi. Rappresentiamo degnamente una volta tanto una sporca razza in cui ci ha lasciati la sfortuna! (...)

La "sporca razza" che sfrutta il prossimo, che non sa amare, che si fa condizionare da ideologie politiche pericolose, che fa le guerre... 

4) LA FELICITA' E DIO LI SI ASPETTANO O LI SI CERCANO?

Più volte Vladimir ed Estragon vorrebbero andarsene da quel luogo, sempre uguale ad ogni ora del giorno. Ma ogni volta l'uno dice all'altro che non si può fare perché si sta aspettando Godot.



Al di là di cosa Godot rappresenti (la felicità o Dio)... io credo che entrambi debbano essere cercati dagli uomini, non attesi. L'attesa di questi "traguardi" è frustrante e non permette di crescere, di mettersi in gioco. Per crescere, cambiare e maturare bisogna evitare la monotonia. In effetti, in questo dramma, tutto è statico. Anche quando i due protagonisti dicono "Andiamo", non si muovono. 

Anna Napponi

giovedì 7 maggio 2020

API E MIELE NELLA BIBBIA


Sollecitato dai post di un amico che ci ha mostrato il lavoro nel suo apiario, mi sono venuti alla mente alcuni passi della Scrittura che parlano delle api. Con ogni evidenza, si tratta nel caso mio di ossessione professionale. Dobbiamo distinguere tra i passi in cui si parl del miele (numerosissimi) e quelli che parlano, invece, delle api. Quest'ultime non si sentono affatto offese per essere state così trascurate, perché sono insetti pieni d'umiltà. Così suppongono gli autori sacri. È umile anche se offre il prodotto migliore tra le cose dolci. Io sto già citando un passo e sto appropriandomi di un pensiero di altri. Ecco allora il passo da cui ho attinto questo messaggio: «Non lodare un uomo per la sua bellezza e non detestare un uomo per il suo aspetto. L’ape è piccola tra gli esseri alati, ma il suo prodotto è il migliore fra le cose dolci. Non ti vantare per le vesti che indossi e non insuperbirti nel giorno della gloria, perché stupende sono le opere del Signore, eppure esse sono nascoste agli uomini» (Sir 11,2-4). 
Le api sono poco belle (ho chiuso la finestra per paura che qualcuna venga a pungermi). Non sono appariscenti, non vestono Prada. Non si curano dell'apperenza ma dell'operato concreto. S'impegnano, perché amano il loro lavoro e lo amano perché produce un lavoro eccellente a vantaggio di tutti. Sono simili a tante persone umili che vivono una vita intensa d'amore, nella fabbrica o in famiglia, senza aspettarsi alcun riconoscimento. 

Questo è un aspetto. Mai leggere la Scrittura soffermandosi sopra un solo passo. Uno sciame di api agitate è piuttosto pericoloso. Isaia parogona i soldati dell'Assiria, la super potenza dell'epoca, che invasero la terra d'Israele ad api piuttosto irritate: il Signore chiamerà «le api che si trovano in Assiria. Esse verranno e si poseranno tutte nelle valli scoscese, nelle fessure delle rocce, su ogni cespuglio e su ogni pascolo» (Is 7,18-19). Le api sono anche un'immagine dei nemici più pericolosi di una singola persona: «Mi hanno circondato come api, come fuoco che divampa tra i rovi,ma nel nome del Signore le ho distrutte (Sal 118,12)». Tuttavia, ecco di nuovo un cambiamento.
L’ostilità stessa può trasformasi in un’occasione per diventare, ancora di più, persone d’amore: «Lo stesso Signore è stato circondato dai persecutori, come le api circondano il favo. Gli empi, non sapendo che cosa facevano, coi tormenti hanno reso più dolce il Signore, affinché vediamo e gustiamo quanto è soave il Signore» (Prospero d'Aquitania). Insomma le avversità della vita e perfino l'ostilità altrui, possono finire con darci giovamento. 
A volte quando postiamo qualche cosa su Facebook, veniamo aggrediti da qualche sciame di passaggio. È il momento, con pazienza, di produrre il miele della carità. L'ira combatte il male, ma soltanto la pazienza lo vince. 

Abbiamo parlato delle api in pochi passi ma significativi. Che cosa si dice del miele nella Bibbia? Le api saranno molto orgogliose perché si parla molto bene del loro prodotto. Ricordate che cosa mangiava Giovanni Battista mentre si trovava nel deserto? Non potendo recarsi alla mensa della Caritas, si accontentava di ciò che trovava ma si dichiarava molto fortunato quando trovava del miele lasciato là da api, selvatiche sì, ma molto gentili (cf Mc 1,6). Avevano simpatia per questo profeta, anche se non si fecero mai battezzare. Il miele, infatti, era considerato da sempre un alimento molto calorico. Secoli prima, Gionata, figlio del re Saul, s'era ridotto allo sfinimento durante una battaglia. Trovato per caso un favo, cominciò a cogliere del miele con la punta di un bastone e si sentì subito rinvigorire: «i suoi occhi si rischiararono» (1 Sm 14,27). 
Era un cibo molto apprezzato. Giobbe parla di uno che «se lo teneva nascosto sotto la sua lingua, assaporandolo senza inghiottirlo, se lo tratteneva in mezzo al suo palato» (Gb 20,12-13). Infatti mi sembra questo il modo più intelligente di mangiarlo: lasciarselo sciogliere in bocca. Secoli dopo (scusate se passo così facilmente da un secolo all'altro ma questo è l'unico modo che ho per farvi capire che sono molto istruito), il vescovo Fenelon dirà che questo è il metodo migliore per fare meditazione: trattenere a lungo qualche espressione per cogliere il senso, per apprezzarla. Purtroppo, invece, ancora adesso si prega ingoiando in fretta, senza capire, senza apprezzare. Così tutto finisce come peso sullo stomaco. Volete escogitare il medo migliore per stufare i fedeli a Messa? Fatela di corsa!
Sto depistando. Ho detto che era un prodotto molto apprezzato. Infatti Giacobbe per ingraziarsi il viceré d'Egitto (che era suo figlio ma non lo sapeva) così consiglia gli altri figli: «Mettete nei vostri bagagli i prodotti più scelti della terra e portateli in dono a quell’uomo: un po’ di balsamo, un po’ di miele, resina e làudano, pistacchi e mandorle» (Gen 43,11). Insomma: frutta secca, profumi, medicinali ma anche miele. Non c'è allora da stupirsi se Dio volendo reclamizzare la terra che voleva donare al suo popolo, dicesse: «La terra dove scorre latte e miele». Primo tentativo di pubblicità turistica. Tenete conto che la Striscia di Gaza c'era già, ma allora non era una striscia. La terra dove il miele scorre come fosse un torrente (non dimenticate che siamo nell'ambito pubblicitario) diventa un segno della grazia sorprendente di Dio. Dal punto di vista cristiano è un'immagine dei doni ricevuti con la conversione e il Battesimo: Introduxit nos Dominus in terram fluentem lac et mel (Introito del lunedì di pasqua). Cioè? Parla più chiaro, mi direte. Ecco una versione un po' libera: «Già qui, per mezzo dello Spirito Santo, veniamo riammessi in paradiso, ritorniamo allo stato di adozione a figli, ci viene dato di compartecipare alla grazia di Cristo... di vivere nella pienezza della benedizione. Tutto questo già da ora e poi nel tempo futuro» (Basilio).

Vi siete chiesti per quale motivo il Battista amava il deserto roccioso di Giuda, predicava e battezzava vicino a Gerico, con tutto il calda che faceva e fa in questo posto? Non poteva andare in un luogo più fresco e nutrirsi un po' meglio? È vero che succhiava anche un po' di miele, del resto necessario per un predicatore privo di microfoni, ma perché voler starsene proprio lì? Il Vangelo non ce lo dice in modo diretto ma possiamo intuirlo. Formulo un'ipotesi verosimile perché, dal momento, che non sono un esegeta diplomato, non posso inventarmene troppo grosse. Il popolo di Dio, quando passò nella terra promessa, provenendo dall'Egitto, era passato proprio da quelle parti. Lì era cominciata la storia del popolo. Secondo il Battista, bisognava ritornare alle sorgenti e ricominciare. Tanto più che incombeva un pericolo. Dio non aveva dato la terra ad Israele in possesso ma, per spiegarci, soltanto in comodato gratuito. Israele doveva abitarla senza guastare l'appartamento, altrimenti il legittimo proprietario si sarebbe fatto vivo per rompere l'accordo. 
Ma il miele che c'entra? Quella era la terra in cui scorreva latte e miele. Tra i doni di Dio c'era anche la sessualità: «Le tue labbra stillano nettare, o sposa, c’è miele e latte sotto la tua lingua» (Ct 4,11). [Non strabuzzate gli occhi: qui si parla, chiaramente, del bacio di pace, prima della Comunione] 
E quello non era ancora niente: «In quel giorno le montagne stilleranno vino nuovo e latte scorrerà per le colline; in tutti i ruscelli di Giuda scorreranno le acque» (Giole 4,18). La terra sarebbe stata così generosa, se il popolo l'avesse abitante in modo conforme allo stile e al progetto di Dio. «Ascolta, o Israele, e bada di mettere in pratica i miei comandi, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele,come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto» (Dt 6,3). Un invito molto promettente, ma, adesso, sentite anche questa, ve la devo dire per onestà professionale: «Osserverete dunque tutte le mie leggi e tutte le mie prescrizioni e le metterete in pratica, perché la terra dove io vi conduco per abitarla non vi vomiti. Non seguirete le usanze delle nazioni che io sto per scacciare dinanzi a voi» (Dt 20,21-22). Si potrebbe dire la stessa cosa così: il posto è bello, basta cavare quelli l'abitano. 
Il vero miele, allora, consiste nell'obbedienza al volere santo di Dio: «I giudizi del Signore sono fedeli, sono tutti giusti, più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante» (Sal 19,10-11). 
Se si fa il contrario che cosa succede? Un amico terribile di Giobbe così pensa a proposito di quelli che rovivano la terra con le loro prepotenze e violenze: «Il cibo gli si trasformerà in veleno di vipere. I beni che ha divorato, dovrà vomitarli, Dio glieli caccerà fuori dal ventre. Veleno di vipere ha succhiato,una lingua di aspide lo ucciderà. Non vedrà più ruscelli d’olio, fiumi di miele e fior di panna; darà ad altri il frutto della sua fatica senza mangiarne, come non godrà del frutto del suo commercio, perché ha oppresso e abbandonato i miseri, ha rubato case invece di costruirle; perché non ha saputo calmare il suo ventre, con i suoi tesori non si salverà. Nulla è sfuggito alla sua voracità, per questo non durerà il suo benessere. Nel colmo della sua abbondanza si troverà in miseria; ogni sorta di sciagura piomberà su di lui» (Gb 20,14-22).
Oggi si direbbe: bisogna aspirare ad uno sviluppo sostenibile. Ho sviluppato tanti spunti senza spiegarne bene neppure uno. Mi scuso col dire: non basta una testa sola a spiegare la Bibbia. 

domenica 3 maggio 2020


Anna Napponi, nel suo interessantissimo blog (Ali di pensiero. Riflessioni di Anna Blogspot.com) ha presentato il celebre racconto di Dino Buzzati «Il colombre».
Ecco come lo ha riassunto:

«Nel giorno del suo dodicesimo compleanno, Stefano Roi, il protagonista del racconto, chiede al padre, capitano di mare e proprietario di un elegante veliero, di accompagnarlo in uno dei suoi viaggi. Il padre esaudisce volentieri la richiesta del figlio. Durante il viaggio, però, Stefano intravede dalla poppa della nave uno strano pesce che sembra inseguire la nave.
Poco dopo, il padre gli rivela con angoscia che quel pesce è un colombre, animale molto temuto dai marinai, divoratore di uomini, visibile soltanto dalla vittima e dai suoi più stretti familiari.
Il capitano decide dunque di far sbarcare subito il figlio e di fargli proseguire gli studi in una città lontana dal mare.
Ma, con il passare degli anni, Stefano diviene sempre più ossessionato dal pensiero del colombre e, dopo la morte del padre, lascia l'ambiente cittadino e decide di intraprendere la vita dei marinai.

"... navigare, navigare era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti, metteva piede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l'impazienza di ripartire. Sapeva che fuori c'era il colombre ad aspettarlo e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente. Un indomabile impulso lo attraeva senza requie(senza pace), da un oceano all'altro."

Divenuto anziano, si accorge di essere molto infelice e di aver consumato la sua esistenza nella fuga dal colombre attraverso i mari. Così una sera, sale su un barchino, si fa calare in mare e rema verso il colombre per colpirlo con un arpione. Ma il colombre, stanco e affaticato, gli dice: "Quanto mi hai fatto nuotare! E tu fuggivi, fuggivi. E non hai mai capito niente. Non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal Re del mare avevo avuto soltanto l'incarico di consegnarti questo." Prima di scomparire tra le onde, l'animale trae fuori la lingua e porge al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente, ovvero, la Perla del Mare, conosciuta dai marinai come la perla che dà agli uomini amore, fortuna e pace nell'animo.
Stefano, amareggiato, riconosce di aver vissuto una non-vita e di aver rovinato la propria esistenza con una fuga inutile».

Fin qui il racconto di Buzzati. In sguito Anna aggiunge la sua interpretazione:
«Potrei provare a dare una mia interpretazione del racconto.
Credo che il misterioso animale rappresenti il futuro. Stefano si sente attratto dal futuro, ma, dal momento che prova anche un incontrollabile timore verso di esso, continua a viaggiare per fuggire dal proprio destino, in preda ad un assurdo pregiudizio trasmessogli dal padre.
Stefano desidera la felicità, l'amore e la pace, ma non è in grado di coglierle laddove sono presenti, dal momento che è succube dei propri timori infondati. Fuggendo nega a se stesso la gioia di vivere.
Certo, egli riesce a realizzarsi dal punto di vista professionale, ma muore solo e infelice, consapevole della propria irrequietudine. Egli diviene ricco materialmente ma povero spiritualmente perché non é abbastanza coraggioso e tenace per poter affrontare le proprie paure e i propri conflitti interiori, anzi, continua a scappare, sia dal colombre che da se stesso.
Io penso che Stefano rappresenti tutte quelle persone che non sanno vivere e che quindi sono incapaci anche di approfittare delle buone opportunità, delle "occasioni d'oro" che la vita potrebbe offrire».

Aggiungo ora, non una nuova interpretazione ma una rilettura del racconto, esponendo ciò che esso mi ha suggerito. Il Signore ci insegue tutta la vita per donarci la sua perla. Nel Vangelo parla de il suo Regno come una perla di grande valore (Mt 13,46). Il colombre si è sobbarcato a grandi fatiche per raggiungere il giovane che voleva suffirgli, Gesù ha sofferto per noi molto più ancora. Anzi ci ha donato la sua stessa vita. Diceva un antico scrittore cristiano: chiunque è veramente consapevole che la Pasqua venne immolata per la sua salvezza, consideri inizio della sua vita il momento in cui Cristo si è sacrificato per lui.
Ma che cosa significa la perla fuori metafora? É il dono della carità, l'amore per Dio e per il prossimo, la capacità di vivere in comunione con Dio, nella sua grazia.
Se uno non vive di questo, non potrà trovare una vera pacificazione nonostante possa ottenere grandi successi in ogni ambito della vita. Perciò accogliamo l'offerta del Colombe, il Cristo:
«Venite, dunque, o genti tutte, oppresse dai peccati e ricevete il perdono. Sono io, infatti, il vostro perdono, io la Pasqua della redenzione, io l'Agnello immolato per voi, io il vostro lavacro, io la vostra vita, io la vostra risurrezione, io la vostra luce, io la vostra salvezza, io il vostro re. Io vi porto in alto nei cieli. Io vi risusciterò e vi farò vedere il Padre che è nei cieli. Io vi innalzerò con la mia destra» (Melitone di Sardi)


domenica 19 aprile 2020

La gloria della figlia del Re è all'interno (Sal 44,14 LXX)


La gloria è all'interno. Che cosa vuo dire? Come possiamo scoprirlo? Se uno stanza si riempie di fumo, l'abitatore deve scappare perché gli bruciano gli occhi e non
può respirare. Allo stesso modo molti non sanno vivere bene con se stessi ma la loro fuga all'esterno non li arricchisce nè li tranquillizza. 
A prescindere dalle motivazioni per le quali un uomo è a disagio con se stesso,  la sorgente della pacificazione sta nel saper pregare. Non parlo di una preghiera occasionale e distratta, ma di una preghiera regolare. Non parlo neppure di una molteplicità di parole, ma del grido del cuore. 
Come si fa a gridare col cuore? Come stare in preghiera più a lungo: il grido non esce per opera nostra ma per impulso dello Spirito Santo. Quello che possiamo fare noi è imparare a star perseveranti. 
Appaiono delle difficoltà. 
La preghiera spontanea la sentiamo più vicina a noi ma dopo un po' non sappiamo più che cosa dire. Le preghiere già pronte e stampate, possiamo, a lungo, sentirle piuttosto estranee. La tradizione ha scoperto, allora, la preghiera breve ripetuta lungo, ripetendo più volte un'espressione avvertita come più personale. Diadoco di Foticea ha suggerito di ripetere semplicemente: Signore Gesù. Così diceva: «Chi vuole purificare il proprio cuore, lo infiammi incessantemente con il ricordo del Signore Gesù, facendo di questo la sua sola meditazione e la sua sola pratica, ininterrottamente». Cassiano preferiva ripetere: O Dio, vieni a salvarmi. In Oriente prevalse la formula: pietà di me peccatore. I salmi possono suggerirci un'infinità di parole, infiammate dallo Spirito. 

Perché ripetere a lungo?
«Colui che vuole purificare l'oro, se lascia anche per poco che si spenga il fuoco del crogiuolo, fa nuovamente indurire la materia già purificata: allo stesso modo, chi si ricorda di Dio ora sì e ora no, ciò che gli sembra di avere acquistato con la preghiera, lo annulla con gli spazi di inattività». «Perché quelli che vogliono liberarsi del proprio marciume, non possono pregare ora sì  e ora no, ma devono essere sempre impegnati nella preghiera, custodendo l'intelletto, anche se abitano fuori da luoghi di preghiera». 

venerdì 10 aprile 2020

Pasqua


Che cosa significa la Risurrezione di Gesù?

1. Prima di tutto la Risurrezione non è un semplice ritorno a questa vita. Lazzaro o il figlio della vedova di Naim, liberati dalla morte per opera di Gesù, in realtà non risorsero (come si dice in modo improprio), ma semplicemente ritornarono a questa vita terrena. Infatti, più tardi, morirono di nuovo mentre una persona risorta (il primo risorto in realtà è stato Gesù) non può più morire perché possiede una vita immortale, eterna. Il corpo di un risorto è spirituale, ossia trasformato radicalmente dallo Spirito Santo. 
2. Risorgendo dai morti, Gesù torna presso Dio Padre.  I nemici di Gesù avevano detto che era un falso profeta. Per giunta castigato da Dio. Ora Dio dimostra il contrario: lo glorifica e lo accredita. Allora è vero che Gesù era stato mandato da Lui. Sulla terra, fu il Figlio a lui gradito in modo pieno, il modello di ogni uomo. 
3. Gesù non soltanto riceve una vita eterna ma viene proclamato come il Signore. Ora siede alla destra del Padre e può portare a compimento la sua missione, interrotta con violenza dai suoi oppositori. Gesù non ha fallito ma anzi riprende il suo compito, a servizio degli uomini, con una energia ancora più efficace e decisiva. La storia del mondo orami è sua. Egli è il Principio (Alfa) ed il compimento (Omega).
4. Il primo risultato della morte e risurrezione è stato l'invio dello Spirito Santo ai credenti. Secondo l'annuncio dei profeti, la nuova creazione sarebbe stata caratterizzata dalla presenza dello Spirito. Ora lo Spirito fa in modo che il discepolo di Gesù continui la sua missione, diventi un altro Cristo. 
5. Morte e Risurrezione sono come due facce della stessa medaglia, sono due aspetti inseparabili. Gesù ottiene la vita eterna perché ha donato tutto se stesso a Dio e agli uomini. La vita eterna è amore. Inoltre, vivendo e morendo nell'amore, Gesù ha accumulato un tesoro che ora distribuisce ai credenti d'ogni epoca. Senza la sua morte, Gesù non avrebbe accumulato alcun tesoro. Senza la risurrezione, il tesoro accumulato rimarrebbe inservibile. 
6. Gesù è tornato là dov'era prima di scendere su questa terra. Non ha avuto nessun vantaggio? Il suo guadagno è stato quello di recuperarci. Il vantaggio di Gesù è il nostro guadagno. Ora riporta a Dio l'umanità e il suo vanto e il suo tesoro sono tutti gli uomini che parteciperanno alla sua gloria d'amore, in terra e in cielo. 

sabato 21 marzo 2020

L'elogio della debolezza in san Paolo


Il mistero di Cristo, morto e risorto, costituisce il nucleo kerigmatico della predicazione apostolica (At 2,23-24; 3,13-15; 4,10; ecc.). Anche Paolo, nelle sue lettere concentra tutto il suo «vangelo» in questo annuncio (1 Cor 15,1-4; 2 Tm 2,8); e sul binomio "Crocefisso-Risorto" costruisce la sua teologia della salvezza universale. I due elementi che definiscono l'evento cristologico sono inseparabili, per cui l'Apostolo può affermare che il suo unico sapere è quello del «Cristo crocefisso» (1 Cor 2,2), senza con ciò prescindere dalla glorificazione del Servo sofferente. Questa è in sintesi l'aspirazione di Paolo: «possa io conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,10-11).
Proprio alla luce del mistero di Cristo, crocifisso e risorto dai morti, Paolo assume paradossalmente come motivo di vanto (1 Cor 1,31; 2 Cor 11,30; 12,5) la caducità umana, che per i sapienti costituisce un problema insoluto, e per gli uomini di questo mondo è oggetto di ripugnanza (1 Cor 1,18-25). La «debolezza» (astheneia), nelle sue valenze di fragilità, umiliazione, sacrificio, sofferenza e sconfitta, invece di essere esecrata come contraria a Dio e all'uomo, è nella fede vista come il luogo m cui si manifesta luminosamente la potenza vivificante del Signore (1 Cor 4,9-13). 
L'Apostolo, ministro di Cristo e suo imitatore (1 Cor 11,1), non solo accetta, ma di più sceglie liberamente la via della debolezza (1 Cor 3,31; 2 Cor 10,10) come fece il suo Maestro (2 Cor 13,4), confidando nella parola del Signore che gli dice: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente (teleitai) nella debolezza» (2 Cor 12,9). 
Per questa ragione Paolo afferma: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,9-10). Non viene qui prospettato l'ideale di un eroismo stoico, né un radicale disprezzo per i valori della vita; ciò che è additato come esperienza credente, esemplarmente vissuta dall'Apostolo nel suo ministero per Cristo, e piuttosto il trionfo della potenza divina che si realizza proprio nella miseria della carne mortale, paragonata a un «vaso di creta» (2 Cor 4,7). Per questa ragione la vita umana si presenta sotto una veste paradossale: «siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2 Cor 4,8-10).

Alcuni testi di Paolo fanno trasparire una certa relativizzazione della realtà terrestre, motivata in certi casi dalla convinzione di un imminente ritorno (parousia) del Signore (1 Cor 7,29-31); in altri casi si può anche rilevare una critica alla «carne» (sarx) quale espressione della concupiscenza peccaminosa (Rm 8,6-8; 1 Cor 3,3; Gai 5,16-17.19-21; 6,8). Ciò non comporta un venire meno dell'impegno quotidiano del cristiano: proprio perché «passa la figura di questo mondo» (1 Cor 7,31), è più urgente operare con un'azione salvatrice dispiegata nella carità (1 Cor 13,8-13; 1 Ts 5,8). 
L'insegnamento apostolico ribadisce in sintesi che a nessuna realtà contingente si debba accordare valore assoluto; la consolazione non viene da ciò che è passeggero, ma dall'annuncio coraggioso della risurrezione: il Cristo «fu crocefisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E anche noi siamo deboli in lui, ma vivremo colui per la potenza di Dio (2 Cr 13,4). Da qui l'affermazione paolina: «Ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi» (Rm 8,18; cfr. 2 Cr 4,17).

Da Pontificia Comissione biblica, Che cos'è l'uomo. Un itinerario di antropologia biblica, LEV, 2019, pp. 39-40

L'uomo a immagine di Dio



Facciamo notare, in primo luogo, che in Gen 1,26 non viene detto
che Dio crea l'essere umano «a sua immagine e somiglianza», come abitualmente ci si esprime, ma letteralmente: «a immagine secondo la somiglianza», il che potrebbe essere reso, con una traduzione dinamica, "a immagine somigliante". Per parlare del medesimo evento, in Gen 1,27 si usa solo il termine «immagine», mentre in Gen 5,1 solo «somiglianza».
Il termine «immagine» (selem) fa riferimento al dipinto o alla statua (1 Sam 6,5.11; Ez 23,14), prodotti che hanno la funzione di rendere visibile ciò che è assente o addirittura invisibile (cfr. Sap 14,15-17). Tale sostantivo ha generalmente una connotazione negativa. Infatti, in diversi passi designa l'idolo (Nm 33,52; 2 Re 11,18; Ez 7,20; 16,17; Am 5,26), realtà che non sente, non parla, non sa agire (Sal 115,5-7), essendo qualcosa di "morto" (Sap 13,18; 15,5); e ciò fa risaltare, per contrasto, la qualità dell'essere umano, che — secondo l'affermazione di Gen 1,26 — è deputato a "rappresentare" Dio proprio perché è vivente e capace di relazione con altri soggetti spirituali. Se è vero che nel Salterio il termine selem è applicato all'uomo nella sua condizione di creatura effimera (Sai 39,7; 78,20), questa sfumatura non contraddice quanto è adombrato dal libro della Genesi; la creatura umana infatti è "figura" di Dio proprio nella fragilità della carne e nella contingenza della storia.                                              
Il sostantivo astratto «somiglianza» (demùt) esplicita il rapporto di similitudine tra due realtà, come avviene appunto tra un determinato soggetto e le sue riproduzioni pittoriche o fittili (Ez 23,15). Quando ricevettero da Dio il privilegio della percezione sensoriale di esseri o eventi sovrumani, gli autori biblici erano costretti a dire che ciò che vedevano era "somigliante" a una realtà terrena (Ez 1,5.26; 10,21-22; Dn 10,16). Ora, Dio è certamente "incomparabile", niente può essere a Lui paragonato (2 Sam 7,22; Is 40,18; Ger 10,6s7; Sai 86,8); eppure — dice la Scrittura — l'uomo porta in sé i tratti del divino. Non pochi commentatori hanno suggerito che il termine «somiglianza» intendesse attenuare il valore dato al sostantivo «immagine», specificando che la copia (l'uomo) non può essere certo considerata identica all'originale (Dio). Pare tuttavia più probabile che con tale termine l'autore di Gen 1 volesse invece sottolineare la privilegiata similitudine tra l'essere umano e il Creatore, che costituisce il fondamento originario del dialogo storico tra i due soggetti. Che Dio abbia voluto fare 'adam a sua immagine, indicherebbe, in altre parole, che Egli ha inteso entrare in una personale relazione di alleanza con lui (Sir 17,12; 49,16; cfr. anche Sai 100,3).
Per quanto riguarda la Bibbia Ebraica, l'espressione «a immagine di Dio» è attestata solo in alcuni passi del libro della Genesi, dove vengono pure suggeriti degli aspetti significativi per il senso della locuzione.
In Gen 1,26 l'annuncio del progetto divino di «fare l'uomo a immagine» della divinità è immediatamente collegato con una frase, tradotta spesso con un imperativo (o iussivo), ma che forse è meglio rendere con una proposizione dal valore consecutivo (o finale): «così che domini sui pesci del mare e sugli uccelli del ciclo e sul bestiame e su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». In questo testo 'àdàm è visto nella sua qualità di sovrano, perché dotato del potere di governo su tutti gli altri esseri viventi. Questa importante dimensione viene ribadita subito dopo, e quasi con le stesse parole, quale attuazione della benedizione divina (Gen 1,28).
Il dominio degli uomini sugli animali, universale ed esclusivo, non potrà essere identificato con un dispotismo accentratore e violento, sia perché, in questa narrazione paradigmatica, a tutti i viventi è data in cibo l'erba dei campi (Gen 1,29-30), sia soprattutto perché la prepotenza non sarebbe conforme all'immagine di Dio: il Creatore infatti esercita la sua autorità per proteggere e promuovere la vita delle sue creature (Sal 36,7; cfr. anche Gen 7,1-3; Gn 4,11; Sal 145,9; Sir 18,13; Sap 11,24), dando loro esistenza, nutrimento, fecondità e un istinto utile alla loro sopravvivenza. L'uomo, quale figura di Dio sulla terra, riceve dunque il compito di assecondare l'attività divina favorevole agli altri viventi.

Da Pontificia Commissione Biblica, Che cos'è l'uomo? LEV 2019,  p. 43-44


Cristo immagine di Dio



È apparso sulla terra, al tempo dell'imperatore Cesare Augusto, un uomo destinato a essere l'erede del trono di suo padre Davide, per un regno che non avrà fine (Lc 1,32-33; 2,11). Per questo riceverà il titolo di «Figlio dell'Altissimo» (Lc 1,32). Tutto ciò che il Creatore aveva voluto donare alla creatura umana con «l'alito» soffiato nelle narici di adàm, tutto ciò che i sapienti avevano desiderato e i profeti avevano promesso, ciò che il Salmista aveva ammirato come prodigio riversato sul «figlio dell'uomo» si è realizzato nella persona di Gesù, figlio di Maria. Un uomo fra gli uomini, il vero uomo.
La sua vita è narrata dai Vangeli, che mediante una dettagliata genealogia, iscrivono la sua vicenda nella storia del suo popolo e dell'intero genere umano. Il vangelo di Matteo sottolinea in particolare il fatto che Gesù è «figlio di Davide» e «figlio di Abramo» (Mt 1,1): beneficiario di alleanze nelle quali Dio gratuitamente elegge e dona, questo «figlio» dal cuore umile e obbediente (Mt 11,29; Gv 4,34; 5,30; 6,38) diventa mediatore e artefice di una nuova e più perfetta comunione con Dio; la sua regalità si estende a tutte le genti, la sua benedizione è fonte di vita eterna per ogni uomo (Mt 25,31-34; Ef 1,3.10). Per l'evangelista Luca invece, Gesù è collocato in una completa sequenza di padri che risale fino ad «Adamo, figlio di Dio» (Lc 3,38); tutta la storia umana, non solo quella del popolo ebraico, ha il suo compimento nel figlio dell'uomo che riporta l'umanità allo splendore della sua prima origine.
I diversi episodi evangelici tratteggiano la figura di una persona che si rivela essere il Cristo (Mc 8,27; Lc 9,20; Gv 1,41), il Santo (Lc 1,35; Gv 6,69), il Figlio di Dio (Mt 14,33; 16,16; 27,54; Mc 1,1). Da questa narrazione ci viene insegnato come riconoscere in lui l'immagine di Dio, così da conoscere, attraverso di lui, il Padre (Gv 6,46; 14,7-9), e ottenere la vita eterna (Gv 17,3). Tutto ciò che Gesù ha detto, tutti i gesti da lui operati rivelano Dio al mondo; perché, come il Creatore (Gen 1,31), anch'egli «ha fatto bene ogni cosa» (Me 7,37). In lui sono presenti tutte le qualità che una creatura può desiderare e tutti i doni che Dio può elargire (Ef 3,8; Col 2,3), così che dalla sua incomparabile ricchezza spirituale ognuno possa essere arricchito (Ef 2,7; cfr. 2 Cor 8,9).
Gesù è il vero re, capace di sottomettere tutte le forze nemiche (Gv 10,28-29; 12,31; 16,33; Eb 2,8): nel deserto sta con le bestie selvatiche (Mc 1,13), impone obbedienza agli spiriti immondi (Mc 1,27), e placa la furia del mare in tempesta (Me 4,39-41), anticipazioni queste figurate del suo trionfo finale, «quando consegnerà il regno a Dio suo Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi» (1 Cor 15,24-27; cfr. Ef 1,22; Ap 20,14). Essendo la perfetta realizzazione del dominio promesso ad adam (Gen 1,26), il regno del Cristo non avviene secondo il modello terreno (Gv 18,36); i governanti, del mondo infatti dominano sulla loro gente opprimendola e sfruttandola (Mt 20,25), prendono i beni dei loro sudditi fino a renderli schiavi (1 Sam 8,10-17), mentre il «pastore buono» si mette al servizio dei suoi fratelli (Mt 20,28) e dona la sua stessa vita per loro (Gv 10,11.15.18). Il titolo di re è posto per Gesù sulla sua croce (Gv 19,19-22). È questa la veritiera immagine regale che il Cristo rivela, nel "compimento" della sua vita (Gv 19,30); in risposta al governatore Pilato, egli infatti dichiara: «Tu lo dici: Io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo, per dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Nella lettera agli Ebrei si dice che il Cristo è stato «coronato di gloria e onore» (cfr. Sai 8,6) «a causa della morte che ha sofferto» (Eb 2,9); Egli è stato «reso perfetto per mezzo delle sofferenze» (Eb 2,10), perché in esse ha mostrato l'amore supremo nei confronti di coloro «che non si vergogna di chiamare fratelli» (Eb 2,11). La medesima dinamica è attestata anche nell'inno di Fil 2,8-11.
Un tale stile di governo, sorprendente o addirittura paradossale, è proprio dello «Spirito»; è infatti quello che caratterizza il governo dell'Altissimo. Principio creatore di ogni bene, il quale esercita la sua sovranità sempre nel rispetto delle sue creature e nella piena mitezza (Sap 11,23-26; 72,18). Gesù di Nazaret è stato «generato» dallo Spirito di Dio (Mt 1,20; Le 1,35), e tutta la sua missione è guidata dallo Spirito che si posa (Mt 3,16) e dimora su di lui (Gv 1,32). «Quello che è nato dallo Spirito è Spirito» (Gv 3,6), e dunque tutto nel Cristo ha natura spirituale, ha cioè potenza divina, infinitamente efficace e al tempo stesso supremamente rispettosa. Dice infatti l'Apostolo: «il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà» (2 Cor 3,17). Se i sovrani della terra impongono il loro dominio con la forza coercitiva, il Cristo al contrario esercita il suo potere, attirando dolcemente con la grazia delle sue parole (Le 4,22; Gv 12,32), con l'umile offerta della verità desiderosa di suscitare il libero consenso. Uno dei titoli frequentemente riconosciuto a Gesù è quello di «Maestro» (Mt 8,19; 19,16; 22,16; Me 9,17; Le 7,40; 11,45; Gv 3,10; 11,28; 13,13; ecc.) o «Rabbi» (Mt 26,25.49; Me 9,5; 10,51; Gv 1,38.49; 4,31; ecc.). Ciò induce a vedere in Gesù una qualità sapienziale, che si dispiega in maniera sistematica nell'ambito dell'insegnamento, cioè nell'offerta della verità che salva. Tuttavia egli non assomiglia ai dottori umani (Mt 7,28-29; Me 1,22), perché il suo sapere è "ispirato" da Dio (Gv 6,63; 12,49-50) e possiede perciò un'autorevolezza unica e universale. La sua è la sapienza del vero sovrano, del re dotato dello spirito di Dio (Is 11,2; 61,1; Sap 9,1-4), è la sola sapienza che vivifica (Gv 6,63.68; Sap 9,18). È insegnando infatti che il Cristo viene in soccorso delle pecore senza pastore (Mt 9,35-36; Mc 6,34), è con la sua voce che le conduce all'ovile e al pascolo (Gv 10,3-4.16).
Poiché Gesù è l'uomo ripieno dello Spirito del Signore, la sua vita sarà quella di un profeta (Mt 21,11; Mc 6,4; Le 4,24; 7,16; 13,33. Tutto nel Cristo è rivelazione del Padre (Mt 11,27), le sue parole esprimono la definitiva e perfetta comunicazione di Dio all'umanità; Egli è, nella carne, lo stesso Verbo che fa conoscere Colui che nessuno può vedere (Gv 1,18). «Consacrato da Dio in Spirito santo e potenza» (At 10,38), rappresenta il vertice spirituale della storia umana, costituisce la realizzazione di ogni attesa (Mt 11,2-6).
Reso "vivente" dallo Spirito, Gesù di Nazaret farà vedere al mondo il principio intimo che lo fa vivere; rivelerà cioè a tutti l'amore del Padre che, in lui, diventa sorgente e motore della sua opera salvifica, definita dall'apostolo Paolo «il glorioso ministero dello Spirito» (2 Cor 3,8). Come Dio il Cristo perdona ai peccatori (Me 2,7.10), come Dio inaugura una nuova alleanza (Me 14,22-24), come Dio «soffia» sui discepoli per comunicare lo Spirito (Gv 20,22), come Dio dona la vita eterna (Gv 10,28). Per questa ragione gli apostoli ed evangelisti attestano che Gesù è «il Figlio di Dio» (Me 1,1; 15,39; Rm 1,4; Eb 1,5; 3,6), «l'Unigenito del Padre» (Gv 1,18), «il primogenito» dei figli di Dio (Rm 8,29; Col 1,15.18); lui e il Padre sono una cosa sola (Gv 10,30). Per questa medesima ragione la tradizione teologica, sviluppata in particolare da Paolo e dalla sua scuola, riproporrà la metafora dell'«immagine di Dio», dando ad essa il suo pieno significato nell'attribuirla a Gesù Cristo (Rm 8,29; 2 Cor 4,4; Col 1,15; Eb 1,3).

Da Pontificia Commissione Biblica, Che cos'è l'uomo? LEV 2019,  p. 55-58. 


Il cristiano, immagine di Dio


Gesù propone ai suoi discepoli la via della perfezione (Mt 19,21), cioè la piena realizzazione dell'essere umano, assumendo come modello Dio stesso nella Sua capacità di amare: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48), «siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). 
La somiglianza con Dio, iscritta nell'atto della creazione, è qui presentata non come un dato di fatto, ma come un dovere, un appello di libertà, un'attuazione dunque affidata all'impegno umano. D'altra parte, il Maestro offre se stesso come la figura da imitare, e sempre nella via dell'amore: «imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), «vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate I come io ho fatto a voi» (Gv 13,15), «come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34; 15,12). Il «nuovo comandamento (Gv 13,34) è già stato praticato da un uomo (Gesù); non è solo possibile (Dt 30,11-14), ma è diventato realtà, ed è perciò principio ispiratore della condotta umana, è luminosa traccia da imitare (1 Ts 1,6).
Perché essere come Dio, o essere come il Cristo, non è solo un precetto, né una semplice orientazione del desiderio per una vita sempre più degna dell'uomo. L'amore è stato donato. Infatti lo Spirito è stato riversato sulla comunità nel giorno della Pentecoste (At 2,1-4), e ogni credente ha ricevuto nel cuore lo Spirito del Figlio (1 Cor 6,19; Gal 4,6; 1 Gv 4,13), così da diventare conforme al Cristo (Rm 8,29), «partecipe della natura divina» (2 Pt 1,4), figlio di Dio in verità (Gv 1,12; Rm 8,14-17; 1 Gv 3,1). 
Il titolo di «figlio di Dio che veniva applicato metaforicamente al re d'Israele (2 Sam 7,14; Sai 2,7; 1 Cr 22,10), al giusto (Sap 2,16) e al popolo dell'alleanza (Es 4,22; Dt 14,1; Ger 31,9.20; Sap 18,13; Sir 4,10; Rm 9,4) diventa realtà effettiva mediante l'adozione filiale» (hyiothesia) (Rm 8,15; Gai 4,5; Ef 1,5) conferita a coloro che, nella fede e nel battesimo, sono associati al Cristo, l'Unigenito Figlio del Padre (1 Gv 4,9). Simili all'uomo terreno, i cristiani sono simili anche al Signore (1 Cor 15,49): «noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18).

Da Pontificia Commissione Biblica, Che cos'è l'uomo? LEV 2019,  p. 59.