sabato 21 marzo 2020

L'elogio della debolezza in san Paolo


Il mistero di Cristo, morto e risorto, costituisce il nucleo kerigmatico della predicazione apostolica (At 2,23-24; 3,13-15; 4,10; ecc.). Anche Paolo, nelle sue lettere concentra tutto il suo «vangelo» in questo annuncio (1 Cor 15,1-4; 2 Tm 2,8); e sul binomio "Crocefisso-Risorto" costruisce la sua teologia della salvezza universale. I due elementi che definiscono l'evento cristologico sono inseparabili, per cui l'Apostolo può affermare che il suo unico sapere è quello del «Cristo crocefisso» (1 Cor 2,2), senza con ciò prescindere dalla glorificazione del Servo sofferente. Questa è in sintesi l'aspirazione di Paolo: «possa io conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,10-11).
Proprio alla luce del mistero di Cristo, crocifisso e risorto dai morti, Paolo assume paradossalmente come motivo di vanto (1 Cor 1,31; 2 Cor 11,30; 12,5) la caducità umana, che per i sapienti costituisce un problema insoluto, e per gli uomini di questo mondo è oggetto di ripugnanza (1 Cor 1,18-25). La «debolezza» (astheneia), nelle sue valenze di fragilità, umiliazione, sacrificio, sofferenza e sconfitta, invece di essere esecrata come contraria a Dio e all'uomo, è nella fede vista come il luogo m cui si manifesta luminosamente la potenza vivificante del Signore (1 Cor 4,9-13). 
L'Apostolo, ministro di Cristo e suo imitatore (1 Cor 11,1), non solo accetta, ma di più sceglie liberamente la via della debolezza (1 Cor 3,31; 2 Cor 10,10) come fece il suo Maestro (2 Cor 13,4), confidando nella parola del Signore che gli dice: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente (teleitai) nella debolezza» (2 Cor 12,9). 
Per questa ragione Paolo afferma: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,9-10). Non viene qui prospettato l'ideale di un eroismo stoico, né un radicale disprezzo per i valori della vita; ciò che è additato come esperienza credente, esemplarmente vissuta dall'Apostolo nel suo ministero per Cristo, e piuttosto il trionfo della potenza divina che si realizza proprio nella miseria della carne mortale, paragonata a un «vaso di creta» (2 Cor 4,7). Per questa ragione la vita umana si presenta sotto una veste paradossale: «siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2 Cor 4,8-10).

Alcuni testi di Paolo fanno trasparire una certa relativizzazione della realtà terrestre, motivata in certi casi dalla convinzione di un imminente ritorno (parousia) del Signore (1 Cor 7,29-31); in altri casi si può anche rilevare una critica alla «carne» (sarx) quale espressione della concupiscenza peccaminosa (Rm 8,6-8; 1 Cor 3,3; Gai 5,16-17.19-21; 6,8). Ciò non comporta un venire meno dell'impegno quotidiano del cristiano: proprio perché «passa la figura di questo mondo» (1 Cor 7,31), è più urgente operare con un'azione salvatrice dispiegata nella carità (1 Cor 13,8-13; 1 Ts 5,8). 
L'insegnamento apostolico ribadisce in sintesi che a nessuna realtà contingente si debba accordare valore assoluto; la consolazione non viene da ciò che è passeggero, ma dall'annuncio coraggioso della risurrezione: il Cristo «fu crocefisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E anche noi siamo deboli in lui, ma vivremo colui per la potenza di Dio (2 Cr 13,4). Da qui l'affermazione paolina: «Ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi» (Rm 8,18; cfr. 2 Cr 4,17).

Da Pontificia Comissione biblica, Che cos'è l'uomo. Un itinerario di antropologia biblica, LEV, 2019, pp. 39-40

L'uomo a immagine di Dio



Facciamo notare, in primo luogo, che in Gen 1,26 non viene detto
che Dio crea l'essere umano «a sua immagine e somiglianza», come abitualmente ci si esprime, ma letteralmente: «a immagine secondo la somiglianza», il che potrebbe essere reso, con una traduzione dinamica, "a immagine somigliante". Per parlare del medesimo evento, in Gen 1,27 si usa solo il termine «immagine», mentre in Gen 5,1 solo «somiglianza».
Il termine «immagine» (selem) fa riferimento al dipinto o alla statua (1 Sam 6,5.11; Ez 23,14), prodotti che hanno la funzione di rendere visibile ciò che è assente o addirittura invisibile (cfr. Sap 14,15-17). Tale sostantivo ha generalmente una connotazione negativa. Infatti, in diversi passi designa l'idolo (Nm 33,52; 2 Re 11,18; Ez 7,20; 16,17; Am 5,26), realtà che non sente, non parla, non sa agire (Sal 115,5-7), essendo qualcosa di "morto" (Sap 13,18; 15,5); e ciò fa risaltare, per contrasto, la qualità dell'essere umano, che — secondo l'affermazione di Gen 1,26 — è deputato a "rappresentare" Dio proprio perché è vivente e capace di relazione con altri soggetti spirituali. Se è vero che nel Salterio il termine selem è applicato all'uomo nella sua condizione di creatura effimera (Sai 39,7; 78,20), questa sfumatura non contraddice quanto è adombrato dal libro della Genesi; la creatura umana infatti è "figura" di Dio proprio nella fragilità della carne e nella contingenza della storia.                                              
Il sostantivo astratto «somiglianza» (demùt) esplicita il rapporto di similitudine tra due realtà, come avviene appunto tra un determinato soggetto e le sue riproduzioni pittoriche o fittili (Ez 23,15). Quando ricevettero da Dio il privilegio della percezione sensoriale di esseri o eventi sovrumani, gli autori biblici erano costretti a dire che ciò che vedevano era "somigliante" a una realtà terrena (Ez 1,5.26; 10,21-22; Dn 10,16). Ora, Dio è certamente "incomparabile", niente può essere a Lui paragonato (2 Sam 7,22; Is 40,18; Ger 10,6s7; Sai 86,8); eppure — dice la Scrittura — l'uomo porta in sé i tratti del divino. Non pochi commentatori hanno suggerito che il termine «somiglianza» intendesse attenuare il valore dato al sostantivo «immagine», specificando che la copia (l'uomo) non può essere certo considerata identica all'originale (Dio). Pare tuttavia più probabile che con tale termine l'autore di Gen 1 volesse invece sottolineare la privilegiata similitudine tra l'essere umano e il Creatore, che costituisce il fondamento originario del dialogo storico tra i due soggetti. Che Dio abbia voluto fare 'adam a sua immagine, indicherebbe, in altre parole, che Egli ha inteso entrare in una personale relazione di alleanza con lui (Sir 17,12; 49,16; cfr. anche Sai 100,3).
Per quanto riguarda la Bibbia Ebraica, l'espressione «a immagine di Dio» è attestata solo in alcuni passi del libro della Genesi, dove vengono pure suggeriti degli aspetti significativi per il senso della locuzione.
In Gen 1,26 l'annuncio del progetto divino di «fare l'uomo a immagine» della divinità è immediatamente collegato con una frase, tradotta spesso con un imperativo (o iussivo), ma che forse è meglio rendere con una proposizione dal valore consecutivo (o finale): «così che domini sui pesci del mare e sugli uccelli del ciclo e sul bestiame e su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». In questo testo 'àdàm è visto nella sua qualità di sovrano, perché dotato del potere di governo su tutti gli altri esseri viventi. Questa importante dimensione viene ribadita subito dopo, e quasi con le stesse parole, quale attuazione della benedizione divina (Gen 1,28).
Il dominio degli uomini sugli animali, universale ed esclusivo, non potrà essere identificato con un dispotismo accentratore e violento, sia perché, in questa narrazione paradigmatica, a tutti i viventi è data in cibo l'erba dei campi (Gen 1,29-30), sia soprattutto perché la prepotenza non sarebbe conforme all'immagine di Dio: il Creatore infatti esercita la sua autorità per proteggere e promuovere la vita delle sue creature (Sal 36,7; cfr. anche Gen 7,1-3; Gn 4,11; Sal 145,9; Sir 18,13; Sap 11,24), dando loro esistenza, nutrimento, fecondità e un istinto utile alla loro sopravvivenza. L'uomo, quale figura di Dio sulla terra, riceve dunque il compito di assecondare l'attività divina favorevole agli altri viventi.

Da Pontificia Commissione Biblica, Che cos'è l'uomo? LEV 2019,  p. 43-44


Cristo immagine di Dio



È apparso sulla terra, al tempo dell'imperatore Cesare Augusto, un uomo destinato a essere l'erede del trono di suo padre Davide, per un regno che non avrà fine (Lc 1,32-33; 2,11). Per questo riceverà il titolo di «Figlio dell'Altissimo» (Lc 1,32). Tutto ciò che il Creatore aveva voluto donare alla creatura umana con «l'alito» soffiato nelle narici di adàm, tutto ciò che i sapienti avevano desiderato e i profeti avevano promesso, ciò che il Salmista aveva ammirato come prodigio riversato sul «figlio dell'uomo» si è realizzato nella persona di Gesù, figlio di Maria. Un uomo fra gli uomini, il vero uomo.
La sua vita è narrata dai Vangeli, che mediante una dettagliata genealogia, iscrivono la sua vicenda nella storia del suo popolo e dell'intero genere umano. Il vangelo di Matteo sottolinea in particolare il fatto che Gesù è «figlio di Davide» e «figlio di Abramo» (Mt 1,1): beneficiario di alleanze nelle quali Dio gratuitamente elegge e dona, questo «figlio» dal cuore umile e obbediente (Mt 11,29; Gv 4,34; 5,30; 6,38) diventa mediatore e artefice di una nuova e più perfetta comunione con Dio; la sua regalità si estende a tutte le genti, la sua benedizione è fonte di vita eterna per ogni uomo (Mt 25,31-34; Ef 1,3.10). Per l'evangelista Luca invece, Gesù è collocato in una completa sequenza di padri che risale fino ad «Adamo, figlio di Dio» (Lc 3,38); tutta la storia umana, non solo quella del popolo ebraico, ha il suo compimento nel figlio dell'uomo che riporta l'umanità allo splendore della sua prima origine.
I diversi episodi evangelici tratteggiano la figura di una persona che si rivela essere il Cristo (Mc 8,27; Lc 9,20; Gv 1,41), il Santo (Lc 1,35; Gv 6,69), il Figlio di Dio (Mt 14,33; 16,16; 27,54; Mc 1,1). Da questa narrazione ci viene insegnato come riconoscere in lui l'immagine di Dio, così da conoscere, attraverso di lui, il Padre (Gv 6,46; 14,7-9), e ottenere la vita eterna (Gv 17,3). Tutto ciò che Gesù ha detto, tutti i gesti da lui operati rivelano Dio al mondo; perché, come il Creatore (Gen 1,31), anch'egli «ha fatto bene ogni cosa» (Me 7,37). In lui sono presenti tutte le qualità che una creatura può desiderare e tutti i doni che Dio può elargire (Ef 3,8; Col 2,3), così che dalla sua incomparabile ricchezza spirituale ognuno possa essere arricchito (Ef 2,7; cfr. 2 Cor 8,9).
Gesù è il vero re, capace di sottomettere tutte le forze nemiche (Gv 10,28-29; 12,31; 16,33; Eb 2,8): nel deserto sta con le bestie selvatiche (Mc 1,13), impone obbedienza agli spiriti immondi (Mc 1,27), e placa la furia del mare in tempesta (Me 4,39-41), anticipazioni queste figurate del suo trionfo finale, «quando consegnerà il regno a Dio suo Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi» (1 Cor 15,24-27; cfr. Ef 1,22; Ap 20,14). Essendo la perfetta realizzazione del dominio promesso ad adam (Gen 1,26), il regno del Cristo non avviene secondo il modello terreno (Gv 18,36); i governanti, del mondo infatti dominano sulla loro gente opprimendola e sfruttandola (Mt 20,25), prendono i beni dei loro sudditi fino a renderli schiavi (1 Sam 8,10-17), mentre il «pastore buono» si mette al servizio dei suoi fratelli (Mt 20,28) e dona la sua stessa vita per loro (Gv 10,11.15.18). Il titolo di re è posto per Gesù sulla sua croce (Gv 19,19-22). È questa la veritiera immagine regale che il Cristo rivela, nel "compimento" della sua vita (Gv 19,30); in risposta al governatore Pilato, egli infatti dichiara: «Tu lo dici: Io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo, per dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Nella lettera agli Ebrei si dice che il Cristo è stato «coronato di gloria e onore» (cfr. Sai 8,6) «a causa della morte che ha sofferto» (Eb 2,9); Egli è stato «reso perfetto per mezzo delle sofferenze» (Eb 2,10), perché in esse ha mostrato l'amore supremo nei confronti di coloro «che non si vergogna di chiamare fratelli» (Eb 2,11). La medesima dinamica è attestata anche nell'inno di Fil 2,8-11.
Un tale stile di governo, sorprendente o addirittura paradossale, è proprio dello «Spirito»; è infatti quello che caratterizza il governo dell'Altissimo. Principio creatore di ogni bene, il quale esercita la sua sovranità sempre nel rispetto delle sue creature e nella piena mitezza (Sap 11,23-26; 72,18). Gesù di Nazaret è stato «generato» dallo Spirito di Dio (Mt 1,20; Le 1,35), e tutta la sua missione è guidata dallo Spirito che si posa (Mt 3,16) e dimora su di lui (Gv 1,32). «Quello che è nato dallo Spirito è Spirito» (Gv 3,6), e dunque tutto nel Cristo ha natura spirituale, ha cioè potenza divina, infinitamente efficace e al tempo stesso supremamente rispettosa. Dice infatti l'Apostolo: «il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà» (2 Cor 3,17). Se i sovrani della terra impongono il loro dominio con la forza coercitiva, il Cristo al contrario esercita il suo potere, attirando dolcemente con la grazia delle sue parole (Le 4,22; Gv 12,32), con l'umile offerta della verità desiderosa di suscitare il libero consenso. Uno dei titoli frequentemente riconosciuto a Gesù è quello di «Maestro» (Mt 8,19; 19,16; 22,16; Me 9,17; Le 7,40; 11,45; Gv 3,10; 11,28; 13,13; ecc.) o «Rabbi» (Mt 26,25.49; Me 9,5; 10,51; Gv 1,38.49; 4,31; ecc.). Ciò induce a vedere in Gesù una qualità sapienziale, che si dispiega in maniera sistematica nell'ambito dell'insegnamento, cioè nell'offerta della verità che salva. Tuttavia egli non assomiglia ai dottori umani (Mt 7,28-29; Me 1,22), perché il suo sapere è "ispirato" da Dio (Gv 6,63; 12,49-50) e possiede perciò un'autorevolezza unica e universale. La sua è la sapienza del vero sovrano, del re dotato dello spirito di Dio (Is 11,2; 61,1; Sap 9,1-4), è la sola sapienza che vivifica (Gv 6,63.68; Sap 9,18). È insegnando infatti che il Cristo viene in soccorso delle pecore senza pastore (Mt 9,35-36; Mc 6,34), è con la sua voce che le conduce all'ovile e al pascolo (Gv 10,3-4.16).
Poiché Gesù è l'uomo ripieno dello Spirito del Signore, la sua vita sarà quella di un profeta (Mt 21,11; Mc 6,4; Le 4,24; 7,16; 13,33. Tutto nel Cristo è rivelazione del Padre (Mt 11,27), le sue parole esprimono la definitiva e perfetta comunicazione di Dio all'umanità; Egli è, nella carne, lo stesso Verbo che fa conoscere Colui che nessuno può vedere (Gv 1,18). «Consacrato da Dio in Spirito santo e potenza» (At 10,38), rappresenta il vertice spirituale della storia umana, costituisce la realizzazione di ogni attesa (Mt 11,2-6).
Reso "vivente" dallo Spirito, Gesù di Nazaret farà vedere al mondo il principio intimo che lo fa vivere; rivelerà cioè a tutti l'amore del Padre che, in lui, diventa sorgente e motore della sua opera salvifica, definita dall'apostolo Paolo «il glorioso ministero dello Spirito» (2 Cor 3,8). Come Dio il Cristo perdona ai peccatori (Me 2,7.10), come Dio inaugura una nuova alleanza (Me 14,22-24), come Dio «soffia» sui discepoli per comunicare lo Spirito (Gv 20,22), come Dio dona la vita eterna (Gv 10,28). Per questa ragione gli apostoli ed evangelisti attestano che Gesù è «il Figlio di Dio» (Me 1,1; 15,39; Rm 1,4; Eb 1,5; 3,6), «l'Unigenito del Padre» (Gv 1,18), «il primogenito» dei figli di Dio (Rm 8,29; Col 1,15.18); lui e il Padre sono una cosa sola (Gv 10,30). Per questa medesima ragione la tradizione teologica, sviluppata in particolare da Paolo e dalla sua scuola, riproporrà la metafora dell'«immagine di Dio», dando ad essa il suo pieno significato nell'attribuirla a Gesù Cristo (Rm 8,29; 2 Cor 4,4; Col 1,15; Eb 1,3).

Da Pontificia Commissione Biblica, Che cos'è l'uomo? LEV 2019,  p. 55-58. 


Il cristiano, immagine di Dio


Gesù propone ai suoi discepoli la via della perfezione (Mt 19,21), cioè la piena realizzazione dell'essere umano, assumendo come modello Dio stesso nella Sua capacità di amare: «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48), «siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). 
La somiglianza con Dio, iscritta nell'atto della creazione, è qui presentata non come un dato di fatto, ma come un dovere, un appello di libertà, un'attuazione dunque affidata all'impegno umano. D'altra parte, il Maestro offre se stesso come la figura da imitare, e sempre nella via dell'amore: «imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), «vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate I come io ho fatto a voi» (Gv 13,15), «come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34; 15,12). Il «nuovo comandamento (Gv 13,34) è già stato praticato da un uomo (Gesù); non è solo possibile (Dt 30,11-14), ma è diventato realtà, ed è perciò principio ispiratore della condotta umana, è luminosa traccia da imitare (1 Ts 1,6).
Perché essere come Dio, o essere come il Cristo, non è solo un precetto, né una semplice orientazione del desiderio per una vita sempre più degna dell'uomo. L'amore è stato donato. Infatti lo Spirito è stato riversato sulla comunità nel giorno della Pentecoste (At 2,1-4), e ogni credente ha ricevuto nel cuore lo Spirito del Figlio (1 Cor 6,19; Gal 4,6; 1 Gv 4,13), così da diventare conforme al Cristo (Rm 8,29), «partecipe della natura divina» (2 Pt 1,4), figlio di Dio in verità (Gv 1,12; Rm 8,14-17; 1 Gv 3,1). 
Il titolo di «figlio di Dio che veniva applicato metaforicamente al re d'Israele (2 Sam 7,14; Sai 2,7; 1 Cr 22,10), al giusto (Sap 2,16) e al popolo dell'alleanza (Es 4,22; Dt 14,1; Ger 31,9.20; Sap 18,13; Sir 4,10; Rm 9,4) diventa realtà effettiva mediante l'adozione filiale» (hyiothesia) (Rm 8,15; Gai 4,5; Ef 1,5) conferita a coloro che, nella fede e nel battesimo, sono associati al Cristo, l'Unigenito Figlio del Padre (1 Gv 4,9). Simili all'uomo terreno, i cristiani sono simili anche al Signore (1 Cor 15,49): «noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18).

Da Pontificia Commissione Biblica, Che cos'è l'uomo? LEV 2019,  p. 59. 


domenica 8 marzo 2020

SALMI IMPRECATORI


Nel pregare i Salmi imprecatori, molti si sentono contrariati quando s’imbattono in espressioni d’odio contro i nemici. 
In entrambi i Testamenti, talora Dio provvede alla distruzione dei malvagi, nell’intento di soccorrere i miseri. Nell’Antico Testamento, il caso più clamoroso è quello dell’annientamento di Faraone e di tutto il suo esercito al mar Rosso (Es 14), un fatto che avviene dopo che Dio aveva fatto tutto il possibile per convertire gli Egiziani. Nel Nuovo, troviamo la condanna a morte nei confronti di Anania e Saffìra (At 5,1-11)  o di re Erode (At 12,23). Il giudizio previsto al compimento della storia, talora può essere anticipato nel suo corso. In ogni caso l’unico che può decidere ed attuare questi interventi estremi è soltanto Dio. 
La domanda che ci formuliamo, però, è questa: se Dio può intervenire con il suo giudizio, quando gli sembra opportuno farlo, l’uomo può invocare questo suo tipo d’intervento a danno degli avversari? 
Gesù chiede di pregare per i nemici riferendosi ad altri uomini (Mt 5, 44) mentre i nemici contro i quali è doveroso pregare sono soltanto il peccato e la morte (1 Cor 15, 25, Eb 10, 12-13). Soltanto questi devono essere annientati e il peccato, sicuramente, già al presente.
Nell’usare il salmo secondo, messianico, la comunità apostolica riconosce di sperimentare come nemici propri gli stessi che si sono opposti al Cristo. Tuttavia, in questo caso, non invoca la distruzione di tali oppositori ma di poter vincere la loro opposizione. Chiede il coraggio dell’annuncio, non la morte degli avversari del Vangelo (At 4, 23-31).

Come si sono comportati i Padri nei confronti dei salmi o dei versetti imprecatori?
Atanasio, nella lettera a Marcellino, non affronta direttamente la questione sulla opportunità di questo tipo di preghiera, tuttavia, in modo indiretto, possiamo attingere qualche suggerimento. Egli afferma che il salterio rivela a noi stessi i nostri sentimenti, quali la delusione nei confronti dell’inerzia apparente  di Dio verso i malvagi o il nostro sdegno di fronte al successo degli empi. Lo stesso vale per quanto riguarda lo sdegno verso i nostri nemici. Il salterio, dopo averceli fatto conoscere, c’insegna a plasmare i nostri sentimenti perché siano più conformi al sentire di Dio[1]. Questo potrebbe significare che l’orante, dopo aver conosciuto e dato libero corso alla sua ira, dovrebbe nel frattempo ricredersi e affidarsi al giudizio di Dio. Il salmo costituirebbe, quindi, uno strumento pedagogico. L’esempio si trova nel Cristo il quale, mentre pronuncia (nei salmi) parole d’imprecazione contro i nemici, in realtà si vendicò, non di loro, ma della morte e dell’autore della morte, cioè il diavolo, proprio per mezzo del perdono dei nemici[2]. Atanasio attribuisce a Gesù una netta trasformazione del Salmo 93 che inizia con l’invocazione: «Dio vendicatore (‘El neqamòt), Signore, Dio vendicatore risplendi!» (v.1) e termina con un deciso «li annienterà il Signore nostro Dio» (yaztmithem Yhwh ‘elohenu). Gesù si vendica della morte e del diavolo, vivendo il sentimento opposto a quello che satana eccita negli uomini provati dall’ingiustizia, ossia il sentimento del perdono e della resistenza passiva. I Padri rifiutano si pensare che i nemici dei quali s’invoca l’annientamento siano degli uomini in carne ed ossa.

Il versetto che ha imbarazzato i Padri in modo particolare è quello che troviamo al termine del salmo 138: «Quelli che ti odiano, Signore, non li ho forse odiati? E contro i tuoi nemici, non mi struggevo? Di odio perfetto li odiavo, nemici sono diventati per me» (vv. 21-22). Ho citato il testo che troviamo nei LXX, quello conosciuto dai Padri. Dove il testo greco pone l’aggettivo perfetto (teleion), l’ebraico riporta tachlìt, tradotto di solito con l’aggettivo implacabile, estremo.
Ora la diversità delle due versioni, è stata utilissima ai Padri per fornire un’interpretazione conforme ai loro sentimenti cristiani. In genere il suggerimento è questo: l’uomo, per un sentimento naturale, conosce l’avversione. Di per sé questa passione, come tutte le altre, non è qualcosa di negativo di per sé. Tutto dipende da come la si gestisce. Ci si può indignare e trasformare questo impulso in un fatto positivo, come lo sarebbe una resistenza opportuna al male. L’odio perfetto è l’avversione trasformata da questa forma di correzione. È il rifiuto totale del male accompagnato però dalla volontà di recuperare il malfattore.

Il versetto restava comunque scivoloso. Si poteva operare questa distinzione: non possiamo odiare i nemici personali, ma è giusto avversare i nemici di Dio. Sì, ma in che modo? Come traduciamo nella pratica questa avversione?
Nel commentare questo versetto, Agostino si preoccupa di chiudere ogni possibile falla che possa giustificare la violenza:

Stando però così le cose, come la mettiamo con quell'Amate i vostri nemici? Forse che, avendo detto: I vostri, avrà escluso quelli di Dio? Dice ancora: Fate del bene a quelli che vi odiano. Non dice: Coloro che odiano Dio. Per questo motivo avrà il salmista potuto dire: Non ho forse io odiato coloro che odiavano te, Signore? Non dice infatti: Coloro che odiano me. E mi struggevo [di sdegno] nei confronti dei tuoi nemici. Dice: Tuoi, non miei. Tuttavia quanti ci odiano e ci son nemici per il fatto che serviamo Dio, cos'altro fanno se non odiare Dio stesso e diventare suoi nemici? E allora? Saremo forse dispensati dall'amare questi nostri nemici? O non sarà vero che soffrono persecuzioni per la causa di Dio coloro a cui si dice: Pregate per coloro che vi perseguitano?
Dopo aver chiarito questo aspetto, prosegue il commento dei versetti spiegando che cosa significhi odio perfetto.

Nota bene, dunque, che cosa aggiunge. Li odiavo con un odio perfetto. Che significa: Con un odio perfetto? In loro io odiavo le colpe da loro commesse, ma amavo la creatura tua. Ecco come si odia con odio perfetto: non odiando la persona a causa dei suoi vizi e non amando i vizi in vista della persona. Ed ora osserva come continua: Mi son diventati nemici. Nemici non soltanto di Dio ma suoi nemici personali. Lo dichiara espressamente. Come, allora, metterà in pratica nei loro riguardi le parole che sopra diceva e cioè: Non ho forse odiato coloro che odiavano te? e insieme quelle del Signore che comanda: Amate i vostri nemici? Come adempirà il suo dovere, se non ricorrendo a quell'odio perfetto, per il quale nei cattivi si odia il fatto che sono cattivi e si ama la loro condizione di uomini?
Per chiarire meglio la sua posizione, Agostino richiama il caso di Mosé:
C'è un esempio che risale ai tempi del Vecchio Testamento quando a quel popolo carnale venivano applicate sanzioni e pene esterne: si tratta di un uomo, che per l'intelligenza [del mistero] apparteneva al Nuovo Testamento, dico di Mosè, servo di Dio. Come poteva egli odiare quanti erano caduti in peccato, se nello stesso tempo pregava per loro? e come non li odiava se li condannava a morte? Li odiava con odio perfetto. E per la perfezione del suo odio, pur odiando le colpe che puniva, amava l'uomo per il quale pregava.
In pratica si deve odiare il peccato ma amare il peccatore[3].

Vediamo ora un altro aspetto di questa questione. Nella lettera a Marcellino,  Atanasio formula un altro suggerimento per la lettura personale del salterio: «Un nemico tiranno è insorto contro il tuo popolo e contro di te come Golia contro Davide? Non temere, ma abbi fede anche tu come Davide e dì le parole del salmo cento quaranta tre»[4]. Quali sono queste parole? «Benedetto, il Signore, mia roccia che addestra le mie mani alla battaglia, le mie dita alla guerra». 
Nel film «Salvate il soldato Ryan», un soldato americano, mentre spara dal campanile contro i tedeschi che avanzano, recita proprio questi versetti ed ottiene anche la grazia sperata.
Di quali nemici parla Atanasio e che cosa comporta questa guerra? Non lo chiarisce. Per analogia con altri testi più espliciti, possiamo pensare ancora che il nemico sia il male o il maligno. Tuttavia Atanasio ormai ammetteva che i cristiani potessero far parte dell’esercito romano.

Nel Medievo, i grandi Commentatori seguono la linea interpretativa comune dei Padri. Il salmo 143, nella versione dei LXX, riporta come sottotitolo (mancante nell’ebraico): preghiera di David contro Golia[5]. Bruno di Segni (1045-1123) afferma che Golia rappresenta il diavolo. Questi perseguita la Chiesa tramite i tiranni, gli eretici, i vizi e gli spiriti maligni[6]. Per Bruno, gli eretici sono, presumibilmente, i partigiani di Berengario di Tours, nella disputa eucaristica nella quale fu coinvolto, mentre i tiranni sono i grandi feudatari che, nella lotta per le investiture, si oppongono alle decisioni di papa Gregorio VII. Bruno chiede che la Chiesa, grazie all’aiuto di Dio, considerato indispensabile, sia in grado di superare le difficoltà che incontra nel corso della storia ma non chiede la morte dei nemici. Di fatto combatté questi tiranni con arme evangeliche, ossia con la resistenza pacifica (fu incarcerato, infatti, da Adolfo, il conte di Segni).

Nel secolo successivo, con San Bernardo, le prospettive sono già mutate in modo rilevante. Nel trattato spirituale che indirizza ai cavalieri templari, chiude la sua esortazione citando proprio il salmo 143. Ora i nemici, sono ben identificati (sono gli islamici che occupano la Terrasanta) e i soldati che combattono questi nemici della fede, lo fanno con armi reali, non metaforiche, contando sull’addestramento fatto da Dio[7]. La tradizione non è abbandonata del tutto: i templari debbono lottare contro i vizi interiori, come è stato consigliato fino a quel momento, ma a questo combattimento interiore viene aggiunto ora il dovere d’ annientare fisicamente i nemici esteriori; si tratta d’una interpretazione insolita ma rispecchia una nuova visione che affonda le radici anche nell’antichità cristiana.

venerdì 6 marzo 2020

Per il buon uso della malattia (Pascal)


Signore, Signore,
il cui Spirito è così Buono e così Dolce in tutte le cose,
fammi la grazia di non comportarmi da pagano nella condizione in cui la Tua Giustizia mi ha ridotto.

Come un vero cristiano, fa che Ti riconosca come Padre mio e Dio mio, in qualunque stato mi trovi, poiché il cambiamento della mia condizione non apporta nulla alla Tua, perché Tu sei sempre lo stesso Dio, sia quando affliggi che quando consoli.

Tu mi hai dato la salute per servirTi, e io(sovente) ne ho fatto un uso tutto profano.

Mi mandi ora la malattia per correggermi: non permettere che io ne usi per irritarTi con la mia impazienza!

Allontana da me, Signore, la tristezza che l' amore di me stesso potrebbe arrecarmi per le mie proprie sofferenze e per le cose del mondo che non riuscissero di gradimento alle inclinazioni del mio cuore; ma metti in me una tristezza conforme alla Tua.
Fa che io mi auguri salute e vita soltanto per impiegarla e concluderla per Te, con Te, in Te!

Non Ti domando né salute, né malattia, né vita, né morte per la Tua Gloria, per la mia salvezza e per l' utilità della Chiesa e dei Tuoi Santi.
Fa dunque, o Signore, che io mi conformi alla Tua Volontà e nella mia malattia Ti glorifichi con le mie sofferenze.
Grazie! Amen

Blaise Pascal

giovedì 5 marzo 2020

La preghiera di Gesù nel contesto islamico (Dall'Oglio)


La preghiera del cuore nel deserto siriano di Mar Musa
Una testimonianza di Carol Cooke Eid
L'esperienza di Mar Musa

Sono libanese e appartengo alla comunità monastica di Deir Mar Musa, fondata nel 1991 dal padre gesuita romano Paolo Dall'Oglio nel deserto siriano, nell'antico monastero di San Mosè l'Abissino. Nella nostra Regola, leggiamo che la vita monastica al monastero di San Mosè l’Abissino si caratterizza per tre priorità e un orizzonte.
La prima priorità è la vita contemplativa secondo la tradizione siriaca, con un impegno spirituale nell’ambito del nostro contesto cristiano vicino-orientale e arabo islamico. È una vita contemplativa personale e comunitaria caratterizzata dalla semplicità che troviamo presso gli antichi Padri del deserto e, più vicino a noi, presso il padre Charles de Foucauld. La Vergine Maria è la nostra prima e grande maestra nella vita spirituale contemplativa.
La seconda priorità è il lavoro manuale a partire dall'esempio della famiglia di Nazaret che addita una dimensione di vita capace di unificare la persona umana nel suo essere corpo e spirito, responsabile del mondo materiale e della società negli orizzonti del Regno.
La terza priorità è l'ospitalità abramitica, che praticano i monaci di ogni epoca: ospitalità fatta di servizio, misericordia e perdono, di saggezza e direzione spirituale; ospitalità della mensa comune e del silenzio; ospitalità dell’accoglienza dell’altro nella sua ricchezza e nel suo bisogno, nel suo carisma e nella sua sete spirituale.
L’orizzonte è costituito dalla nostra consacrazione particolare all’amore di Gesù Redentore per i musulmani e per il mondo musulmano in quanto Umma, comunità. Questa consacrazione ci conduce a offrire la nostra vita affinché il lievito evangelico sia presente efficacemente nella società musulmana secondo uno spirito di discernimento, di speranza e di carità, capace di trasformare le sofferenze di ieri e di oggi e di aprire i cuori alla mutua comprensione e al mutuo amare che sempre esigono considerazione e rispetto reciproci.
La nostra vocazione ci conduce a cercare la strada del dialogo per la costruzione dell’armonia islamo-cristiana, ma dipende in modo imprescindibile dall’accoglienza dei fratelli e delle sorelle musulmani prima di tutto nella preghiera, e nella preghiera del cuore.
La testimonianza che darò oggi sulla preghiera del cuore nel contesto islamo-cristiano di Mar Musa è in realtà triplice: racconterò brevemente la mia esperienza, intrecciandola con quella del nostro fondatore padre Paolo, rapito in Siria nel 2013 e di cui non si sa più nulla; poi lascerò la parola al nostro co-fondatore padre Jacques [un altro monaco della comunità], che nel 2015 è stato anche lui rapito in Siria, ma è potuto scappare dalla prigionia dello Stato Islamico grazie all’aiuto di un amico musulmano.
Prima di arrivare a Mar Musa, non conoscevo la preghiera del cuore. L'ho scoperta nel libro che ogni postulante legge al monastero - Racconti di un pellegrino russo - e anche nel film Ostrov (L'isola), che padre Jens amava mostrare ai gruppi di giovani per parlare con loro della preghiera del cuore.
Ho sempre presente l’insistenza di padre Paolo sull’importanza del respiro: con ogni inspirazione riempirci di Spirito Santo, con ogni espirazione lasciare lo Spirito pregare in noi. Per dare Spazio al respiro, la nostra preghiera comunitaria è segnata da soste. È insolito per i nuovi venuti pregare con tante pause, per esempio il Padre nostro o l’Ave Maria, ma questo aiuta a fare della preghiera un'autentica sosta al cospetto del Signore.
Nel pomeriggio, padre Paolo ci incoraggiava a camminare nel deserto prestando attenzione al battito del cuore che è vita data dal Signore, per scoprire la nostra preghiera del cuore. Mi ricordo che camminavo senza cercare parole; dando semplicemente ascolto al grande silenzio del deserto, in cui si potevano udire le preghiere ardenti di angeli e di uomini. Solo in apparenza il deserto è vuoto, in realtà è pervaso di preghiere e di luce. Mi meravigliavo di sentire risuonare nel segreto della mia contemplazione silenziosa l’appello della preghiera musulmana: Allahu akbar! Dio è più grande!
L’esperienza di p. Dall’Oglio
Un giorno padre Paolo ha ricevuto l’invito a condividere la sua preghiera favorita per inserirla in una raccolta di preghiere scritte da note personalità. Ha scelto di rendere nota la sua preghiera intima, intitolandola «Preghiera di un cuore islamo-cristiano». In quell’occasione me ne parlò a lungo, chiedendomi di aiutarlo a tradurla in inglese. Lui la pregava in arabo: al-Masīh 'Isā ibn Maryam, ighfìr lī ana l-khāti' wa-rhamnā, cioè «Cristo 'Isā figlio di Maria, perdona me peccatore e abbi misericordia di noi». Cercherò di trasmettere la forza della preghiera del cuore di padre Paolo, esaminando le singole parole che la compongono: al-Masīh, in ebraico Maših, l’Unto, è la parola araba che usano i cristiani d'Oriente e i musulmani per Cristo, il Messia. Con l’uso di questo nome, padre Paolo mirava ad approfondire la comunione di cuore con i musulmani e gli ebrei, perché il Messia è fonte di riconciliazione e di speranza per i figli di Abramo. Mentre i cristiani arabofoni chiamano Gesù Yasu', i musulmani lo chiamano 'Isā, dato che nel Corano Gesù viene chiamato 'Isā, e più spesso ancora 'Isā ibn Maryam, Gesù figlio di Maria. Nella sua preghiera del cuore, padre Paolo ha scelto di chiamarlo con questo nome, perché 'Isā ibn Maryam non è soltanto un'espressione coranica, ma anche un modo di pregare con il cuore di Maria. Per le Chiese ortodosse e cattoliche. Maria di Nazaret è il punto di partenza e il modello di una nuova umanità; e per l'islam, è l’«eletta» (Sura III, 42). Padre Paolo era convinto che Maria sia l’ancora che ci aiuta a portare stabilmente nel cuore l’infinita intercessione di Isa-Gesù. La richiesta di perdono, ighfir li, «perdona me», risveglia la coscienza della propria responsabilità: ognuno in diversi modi fa ricorso alla violenza ed è perciò personalmente responsabile della morte di Gesù e della violenza subita da sorelle e fratelli lungo i secoli, perché ne è complico. Padre Paolo mi spiegava quanto aveva bisogno di Gesù per farsi avanti nell’offrirLo, Lui che è la pienezza dell’amore di Dio per il peccatore, al-khāti'. Mentre pregava riconoscendosi peccatore, al-khāti', padre Paolo non sapeva più chi parlava: forse era lui, Paolo, a invocare la divina misericordia, poiché era consapevole dell’umanità decaduta che si portava dentro - le mancanze, il tradimento, la malattia dell'ego che vuole appropriarsi di tutto ciò che è di Dio - oppure era l’uomo-Dio Gesù che per amore scendeva con la Sua umanità nell’inferno inferiore del sordomuto Paolo per cercarlo e gridare dal profondo, alla Sua divinità, di avere misericordia. Inaspettatamente, la preghiera del cuore di padre Paolo non finiva con wa-rham-nī, «abbi misericordia di me», ma con wa-rham-nā, «abbi misericordia di noi». Mentre il riconoscersi peccatore è un atto personale – e per questo padre Paolo si accusava singolarmente -, la domanda di misericordia può comprendere tutti: per questo padre Paolo passava al plurale e si appellava alla misericordia per tutti. Così la sua preghiera del cuore diventava intercessione per le sorelle e i fratelli nell'umanità, totale fiducia nella viscerale misericordia dell’Unico Dio misericordioso e compassionevole, al-Rahman, al-Rahìm.
Suor Deema, una mia consorella, ha saputo fare propria la preghiera del cuore di padre Paolo, unendo nel nome di Gesù i modi cristiano e musulmano di chiamarlo: Yasu'-'Isā ibn Maryam, cui ha aggiunto ibn Allah al-Hayy, figlio del Dio Vivente. In tal modo la sua preghiera risuona così: «Cristo Gesù-'Isā figlio di Maria, figlio del Dio Vivente, perdona me peccatrice e abbi misericordia di noi». Deema mi ha regalato un piccolo disegno della sua preghiera del cuore che ha fatto durante l’ultimo ritiro a Mar Musa. Io invece non sono mai riuscita a far adottare questa preghiera al mio cuore. A volte andavo nel deserto ripetendo: al-Masīh 'Isā ibn Maryam, ighfìr lì anā l-khati'a wa-rhamnā. M sono troppe parole per chi ama il grande silenzio. Nel 2013, nei giorni dopo il rapimento di padre Paolo, praticamente tutti noi membri della comunità in Siria e in Iraq abbiamo sentito le parole della sua preghiera del cuore emergere come una fonte sotterranea dai nostri cuori. Io ero in Kurdistan. Ci sembrava che padre Paolo pregasse senza sosta la sua preghiera del cuore, e noi la pregavamo in comunione con lui.
L’esperienza di p. Jacques
Due anni dopo il rapimento di padre Paolo, nel maggio 2015, padre Jacques, il nostro co-fondatore, è stato a sua volta rapito dallo Stato Islamico nel monastero di Mar Elian in Siria. Grazie a Dio è di nuovo tra di noi. Ho ascoltato di recente la sua testimonianza in arabo sulla preghiera del cuore prima, durante e dopo la prigionia. L'ho tradotta in italiano per poterla condividere integralmente con tutti coloro che leggeranno questa mia testimonianza:
«Quando da seminarista sono andato a Mar Musa, il silenzio mi sembrava essere il battito del cuore di una preghiera interiore intensa in armonia con la vastità, la profondità e l'orizzonte del deserto. Ero ancora giovane, senza grande esperienza spirituale. Uno dei primi libri che ho letto, dopo le vite dei santi, è stato i Racconti di un pellegrino russo, che mi ha spinto a praticare la preghiera del cuore. Secondo Fautore, la preghiera del cuore doveva entrare in armonia con il ritmo dei battiti del cuore nella vita ordinaria, naturalmente e gradualmente. Questo non l'avevo mai sperimentato e nemmeno lo capivo fino in fondo, ma sentivo che la preghiera del cuore mi aiutava a rimanere fedele a Gesù mentre svolgevo le faccende quotidiane, e che si sposava bene con il silenzio del deserto. Come una sorgente dissetava il mio piccolo cuore desideroso di incontrare Dio e di consacrarsi interamente a Lui. Insieme alla liturgia e alle altre preghiere legava le dimensioni della contemplazione, del lavoro e dell'accoglienza con un unico filo che mi aiutava a essere vigile d'animo. Nella mia vita di allora c'erano tante cose che ostacolavano quella preghiera, sottraendomi alla vigilanza e alla fedeltà: crisi, tiepidezza, depressione, collera, ma la preghiera del cuore mi rendeva la pace, mentre preparavo il cibo o trasportavo le pietre per la costruzione o facevo pascolare le capre... Questa preghiera che sorge dalla realtà della nostra debole natura umana ci può accompagnare in qualsiasi situazione: è come un filo sottile ma potente che ci lega a Gesù e al Suo santo nome.
La preghiera del cuore aveva l'attrazione del latte per me che ero principiante nella vita spirituale (vedi 1 Cor 3,2). Dopo un po' di tempo però ho praticamente trascurato questa preghiera con il pretesto delle molte occupazioni e responsabilità. L'unico momento in cui la praticavo ancora erano i viaggi in macchina tra Mar Musa e Mar Elian, i due monasteri della comunità in Siria. La solitudine e il deserto mi aiutavano a non disperdermi troppo. Sentivo comunque nostalgia della preghiera del cuore e il bisogno di tornare a essa: la mia lontananza da questa preghiera mi faceva perdere il filo della relazione continua con Gesù. In qualche modo mi arrendevo ai miei diversi stati d'animo: la tiepidezza, il lassismo, il nervosismo, il rifiuto. La bellezza della preghiera del cuore è che fa da recinto e da tutela, ancorando l'uomo al pentimento continuo perché non cada in tentazione. Non è quindi una preghiera solo per monaci o eremiti, ma è una preghiera per l'uomo, poiché ognuno di noi ha bisogno di un tale recinto e di custodire l'equilibrio umano e spirituale.
Quando sono stato rapito, la prigionia ha segnato la mia preghiera del cuore: c'è stato chiaramente un prima e un dopo nel mio modo di pregarla. Mentre prima della prigionia, la praticavo come una tradizione ricevuta, in prigione la riscoprivo come innata e sgorgava naturalmente come un grido del cuore, dando la cadenza ai miei giorni. Era il mio rifugio e la mia protezione, un modo per ristabilire l'equilibrio ferito e per farmi gustare ogni tanto un po' di pace. C'è un'altra differenza tra il prima e il dopo la prigionia. In prigione non sempre riuscivo a pregare con le parole che utilizzavo prima: «Signore Gesù Cristo abbi misericordia di me, peccatore». A volte mi venivano altre parole, in accordo con il mio stato d'animo di allora, parole che chiamavano la grazia di Gesù su di me in quegli istanti difficili. Oggi non saprei darne nessun esempio; le ho dimenticate tutte, ovvero le ho volute dimenticare, poiché sono strettamente legate a un'esperienza molto dura. In prigione inoltre ho capito l’importanza dell’ascesi per praticare la preghiera del cuore; ho toccato con mano quanto le ristrettezze e lo sforzo ascetico aiutino a vivere quella preghiera. Prima della prigionia non praticavo più l’ascesi e mangiavo troppo. In prigione il digiuno con le altre ristrettezze e la pazienza hanno aperto il mio cuore: è necessario che il cuore diventi Passe portante della vita quotidiana dell’uomo, e così la preghiera del cuore diventa l'oasi di riposo dalle fatiche, dagli sforzi, dalla fame, e questa non ha più il potere di schiacciare l’uomo. La prigionia è stata il terremoto che mi ha richiamato all’essenziale, alla roccia su cui costruire l’edificio della mia vita. In quel terremoto, la preghiera del cuore mi ha fatto da guida spirituale, da lampada e da metronomo, indicandomi la via retta e la meta. Mi sono accorto che alla fin fine rimane solo il nome di Gesù, sigillo indelebile. I primi giorni del rapimento, percepivo una gioia interiore e mi sentivo dire: «Sono in partenza per la libertà». Infatti nella mia vita di prima ero prigioniero di tante cose. Nella solitudine della cella. Gesù era l'unico compagno rimasto, ed è lì che l'uomo capisce quanto cara è la fedeltà. In prigione ho anche scoperto il rosario come preghiera del cuore. Prima della prigionia, il rosario era per me un rituale legato alla vita parrocchiale. In prigione è affiorato come l’unica preghiera rimasta impressa nella memoria del cuore. Tramite il rosario sentivo la vicinanza della Madonna, mentre meditavo su Dio, infinitamente grande e intimamente vicino all’uomo. Dopo la liberazione, la mia preghiera del cuore è di nuovo cambiata come è cambiata la mia vita spirituale, sempre sottoposta a molti «alti e bassi», nei quali però faccio sempre ritorno al nome di Gesù. In me il nome di Gesù non tramonta mai, nemmeno nei «bassi». Nell’aridità esistenziale e spirituale che sperimento, la preghiera del cuore è la potente fonte sotterranea che cerca di aprirsi una strada attraverso la roccia del deserto per farne un grande fiume (vedi Es 17,6). Sento che sono chiamato a fare la preghiera del cuore con grande pazienza, lottando interiormente e accogliendo il dolore che mi brucia dentro. È essenziale ancorarmi in questo modo per non disperdermi e allontanarmi dalla strada giusta.
Prima del rapimento la mia vita era in qualche modo stabile e prevedibile, con un orizzonte abbastanza chiaro; anche in prigione avevo un ritmo regolare e mantenevo una certa quiete nel vuoto dei giorni. Oggi invece la mia vita scorre nel mondo in mezzo a mille sfide umane, etiche e spirituali, in un periodo drammatico della storia. Le parole della mia preghiera del cuore sono tornate a essere «Signore Gesù Cristo, abbi misericordia di me, peccatore», ma la loro dimensione è cambiata. Il pentimento e la richiesta di misericordia non sono più soltanto personali, nel senso che non prego più semplicemente per me, ne sono più soltanto io a pregare, in me il cuore prega per tutti, la preghiera del cuore è diventata intercessione per il mondo intero.
Vorrei infine confidarvi una piccola esperienza che ho fatto con la preghiera dei cuore nel 1995 durante un ritiro nell'eremo di La Viale in Francia. L'eremo è situato in un luogo incontaminato, la natura attorno è ricca e molto bella, in contrasto totale con i luoghi del deserto cui sono abituato. Nel tetto dell'eremo le api avevano costruito il loro nido. Il loro ronzio, insieme alla musica del ruscello nell'incanto della natura, ha trasmesso alla mia preghiera del cuore una melodia armonica che l'ha segnata per sempre. Da quel momento in poi, il mio cuore ha sempre cantilenato la preghiera del cuore. Anche quando la recitavo in silenzio, era come se portasse la bellezza e la ricchezza del creato in mezzo al deserto. So che questa è un'esperienza personale e che, tradizionalmente, la preghiera del cuore non viene cantata. Ma ogni preghiera del cuore è unica, perché esprime l'appassionato palpito del cuore umano desideroso di unirsi al cuore del Signore».
L’esperienza di suor Carol
Sono quasi giunta alla fine della triplice testimonianza. Vorrei concludere dicendo che finalmente, due anni fa anch'io, Carol, ho trovato la mia preghiera del cuore. Ne la tradizione spirituale dell’Islam, c'è il cosiddetto dhikr, ricordo di Dio attraverso i Suoi nomi. Per me il dhikr è stato una rivelazione: la preghiera del cuore è diventata in me il nome di Dio. Amo ripetere all'infinito uno dei Suoi bei nomi, in particolare al-Rahman, il Misericordioso, al-Lațif, Buono, al-Salām, la Pace, al-Quddūs, il Santissimo.
Possa Colui che i cristiani d'Oriente e i musulmani chic mano Allah, Dio, trasformare in bene tutto il male, tutto peccato e tutte le mancanze che ci sono nel cuore umano. Possa il Suo santo nome essere scritto sulle nostre fronti (vedi Ap 22,4). Amen.

Tratto da La preghiera del cuore. Tradizioni ed esperienza, Lindau, Torino 2019, 191-200

Preghiera del cuore presso gli ortodossi


La preghiera del cuore, nell'insegnamento degli ultimi tre monaci proclamati santi dal Patriarcato Ecumenico: san Porfirios, san Paisios e sant'Iakovos Tsalikis

di Evangelos Yfantidis, Vicario del Patriarcato Ecumenico per l'Italia
«Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,14). Fin dall'inizio dell'era
cristiana, il neofita, dopo aver ricevuto il Sacramento della Santa Illuminazione (Battesimo, Cresima e Santa Eucaristia), veniva considerato colmo della luce divina. Tuttavia, come ben si sa, con il passar del tempo questa luce increata diminuisce e solo attraverso la comunione ai Santi Misteri, dopo la confessione dei propri peccati, tale luce illumina di nuovo il fedele. Il canto dopo la comunione lo conferma in modo chiaro: «Abbiamo visto la luce vera, ricevuto lo Spirito sovraceleste, trovato la fede vera, adorando la Trinità indivisibile: Essa infatti ci ha salvato».
Sicuramente ogni cristiano, dal momento del suo Battesimo, vive nella luce divina. Però il grado d'appropriazione di tale luce, o meglio dello splendore di tale luce, varia non solo da un fedele all'altro, ma addirittura nella stessa persona da un momento all'altro. Sua Santità il patriarca ecumenico Bartolomeo insegna che questo succede perché «la perfezione dei perfetti è in realtà imperfettissima e dunque il nostro cammino verso la luce divina o meglio lo splendore della luce divina in noi è in un progresso infinito». Proprio perciò il fedele è chiamato a una lotta spirituale continua per conservare viva questa luce divina, che illumina particolarmente il suo intelletto.
In questa lotta l'uomo trova nella preghiera la sua arma principale, in quanto, attraverso di essa, lo Spirito Santo viene nel suo cuore. La preghiera autentica, che unisce il fedele all'Altissimo, non è nient'altro che una forza che scende su di lui dal cielo. La vera preghiera a Dio è una comunione con lo Spirito di Dio, che prega in noi. Nella propria vita, infinite volte il cristiano si solleva verso Dio oppure si allontana dalla luce divina. Spesso l'uomo sente la propria incapacità di elevarsi a Dio e per questo motivo c'è bisogno di rimanere in preghiera per più tempo possibile, affinché la potenza invitta di Dio penetri nel fedele.
Il Signore, durante le ultime ore della Sua vita terreste, disse: «Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (Gv 16,24). E ancora: «Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, Egli ve la darà» (Gv 16,23). Queste parole di Cristo sono il fondamento dogmatico e ascetico della preghiera attraverso il Suo nome. Si comprende perché san Paolo possa esclamare: «Nessuno può dire Gesù Signore se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (I Cor 12,3).
L'invocazione del nome di Gesù è il fondamento della preghiera del cuore (o preghiera dell'intelletto). Questa preghiera ci unisce a Dio e procura l'illuminazione dell'intelletto. Attraverso il cammino della catarsi, dell'illuminazione e della divinizzazione, L’uomo diventa così partecipe delle energie divine increate che salvano la natura umana.
La preghiera del cuore, la più classica di tutte le preghiere ortodosse, è una preghiera cristocentrica. L'invocazione del nome del Signore Gesù e la richiesta della misericordia divina, espresse con le parole «Signore Gesù Cristo abbi misericordia di me», riflettono l'atto di metanoia, sempre rinnovato, dell'uomo peccatore decaduto. Per recitare la preghiera del cuore non serve la presenza fisica del fedele in un luogo di culto; essa può essere recitata in un qualsiasi luogo e in qualsiasi momento: viaggiando, lavorando, camminando o stando in coda, la notte quando il sonno non arriva, e anche ogni volta che l'intelletto umano non può essere concentrato in un altro tipo di preghiera: essendo recitata nell'interno del tempio del corpo, cioè in segreto, nel nostro intelletto», come sottolinea il patriarca Bartolomeo, la preghiera del cuore ha una mirabile flessibilità. Essa è una preghiera per chi inizia a pregare, ma è anche una preghiera che può condurre il fedele ai misteri più profondi. Molti ortodossi, per essere aiutati a mantenere l'attenzione nella pratica della preghiera del cuore, usano le «corde della preghiera» di diversa lunghezza, che assomigliano al rosario cattolico, ma sono fatte di nodi di lana, oppure di cuoio. All'inizio l'invocazione del nome di Gesù si fa con la bocca o con la ragione, ma dopo un certo periodo di pratica, tale invocazione entra nel cuore umano, e allora viene ripetuta senza alcun pensiero particolare o alcuna fatica e si fa presente anche all'improvviso, per esempio quando il fedele parla, scrive, sogna o si sveglia la mattina.
La preghiera di cui parliamo fu praticata lungo i secoli particolarmente dai monaci. Il patriarca Bartolomeo sottolinea che questa preghiera è per il monaco, che vive isolato dagli altri uomini, «il suo respiro e la sua consolazione», in quanto attraverso di essa egli «vive spiritualmente dentro la Chiesa con il Signore Gesù e con i fratelli in Cristo» . Tuttavia la preghiera di Gesù si è estesa al di fuori del monachesimo ed è praticata comunemente dai fedeli laici che desiderino vivere un'intensa vita di preghiera e ottengano la benedizione del padre spirituale al riguardo: essa percorre i secoli - dai grandi Padri della Chiesa e dagli irreprensibili asceti del monachesimo ai santi di ogni tempo - e attraversa ogni spazio della terra - da Alessandria, da Nitria e da Sinai d'Egitto a Gerusalemme, a Costantinopoli, fino al Monte Athos e ai popoli slavi e romeni, e oggi in tutta l'Europa e l'Africa, fino all'America, all'Asia e all'Oceania - ovunque nel mondo l'Ortodossia abbia messo le radici della sua spiritualità.
Tra i santi che hanno praticato in modo particolare la preghiera dell'intelletto vi sono gli ultimi tre monaci proclamati santi dal Patriarcato Ecumenico: san Porfirios, archimandrita, monaco di Kafsokalyvia sul Monte Athos, che per molti anni visse ad Atene ricoprendo l'incarico di cappellano ospedaliere (proclamato santo il 27 novembre 2013);san Paisios, monaco in una casetta non lontano dal monastero di Koutioumousiou sul Monte Athos (proclamato santo il 13 gennaio 2015); e sant'Iakovos Tsalikis, archimandrita, igumeno del monastero di Osios David a Eubea (proclamato Santo il 27 novembre 2017). Partendo dall'insegnamento di questi tre santi - semplice nel linguaggio ma profondo nel contenuto - cercheremo di capire come si può recitare la preghiera di Gesù e anche di comprendere il suo valore spirituale per il fedele.
Prima di intraprendere la preghiera del cuore, san Paisios consiglia all'uomo di confessare i propri peccati. Ovviamente questo è facile per i monaci che si confessano ogni giorno col proprio geronda, ma per chi vive nel mondo questo è solitamente impossibile: perciò è importante che il cristiano, prima di iniziare a esercitare la preghiera del cuore, riceva la benedizione da parte del proprio padre spirituale, al quale dovrà poi sempre rispondere del progresso nella pratica della preghiera. San Porfirios sottolinea la necessità che chi pratica la preghiera del cuore sia guidato da un padre spirituale: La preghiera del cuore non può essere fatta senza una guida spirituale. C'è pericolo che l'anima sia ingannata. Ci vuole attenzione. È il padre spirituale che vi insegnerà la giusta sequenza nella preghiera. Perché se non seguite la sequenza giusta, correte il rischio di vedere la luce contraria, di vivere nell'inganno e di essere ottenebrati; e in tal caso uno diventa aggressivo, cambia atteggiamento e così via. Ancora Porfirios suggerisce che occorre prepararsi alla preghiera pregando: Preghiera per la preghiera. [...] Nella preghiera entriamo senza che ce ne rendiamo conto. Bisogna trovarsi però nel clima adatto. Lo stare in compagnia di Cristo, la conversazione, lo studio, il canto, il lumino, l’incenso, creano il clima adatto affinché tutto diventi semplice, nella semplicità del cuore. Leggendo con amore le salmodie e le ufficiature diventiamo santi senza che ce ne accorgiamo. Ci allietiamo con le parole divine. Questa letizia, questa gioia, è il nostro sforzo, per entrare facilmente nell'atmosfera della preghiera, il «riscaldamento» come si dice. Il Signore stesso ci insegnerà a pregare. Non lo impareremo da soli ma sarà un altro a insegnarcelo. San Paisios suggerisce di recitare la preghiera facendo piccole e grandi prostrazioni: «Uno può pregare tutta la notte solo con la preghiera di Gesù e con piccole e grandi prostrazioni; ci inginocchiamo per un po' e continuiamo con prostrazioni e con la preghiera dell'intelletto». Egli insiste perché la preghiera di Gesù sia fatta con il cuore, in modo da poter essere ascoltata dal Signore; afferma al riguardo che la cosa più importante è che «inizi a funzionare quell'apparecchio [il cuore], [...] Quando prego con il cuore, sento un calduccio nella parte del cuore che in seguito passa a tutto il corpo». Paisios sconsiglia di recitare la preghiera di Gesù ad alta voce e in fretta, senza attenzione al cuore. Dice al riguardo: «È meglio recitare meno volte la preghiera; basta che sia fatta con il cuore. Non dobbiamo recitare la preghiera meccanicamente, come un orologio, perché ciò non aiuta, ma dobbiamo sentire il nostro stato di peccatori e l'immenso amore di Dio, e così l'anima si muove verso la preghiera».
San Porfirios consiglia di recitare la preghiera di Gesù in silenzio, perché «il modo di preghiera più perfetto è quello silenzioso»; tuttavia - precisa - a volte è bene pronunciarla ad alta voce «per farla sentire anche ai sensi, anche all'orecchio! Siamo insieme anima e corpo e c'è influsso reciproco tra l'una e l'altro». In particolare, Porfirios invita i fedeli a pregare con cuore pulito e sgombro: «Affinché Cristo venga a noi, quando lo invochiamo con il "Signore Gesù Cristo", il cuore deve essere puro, non deve avere alcun impedimento, deve essere libero dall'odio, dall'egoismo, dalla cattiveria». E prosegue: «Dovete recitare la preghiera di Gesù continuamente, con calma, tenerezza, senza fretta, con gioia e con desiderio; dolcemente e con tenerezza dovete invocare il nome del nostro Signore. [...] Caricate supplichevolmente l'espressione "misericordia di me"». Facendo riferimento a questa stessa espressione, san Paisios esorta i suoi figli a chiedere solo la metanoia, durante la preghiera di Gesù e nient'altro: In questo modo possiamo sentire la preghiera del cuore come bisogno e non sentire stanchezza; il nostro cuore sente un dolce dolore quando recita la preghiera e Cristo riempie il nostro cuore con la Sua dolce consolazione. [...] La preghiera di Gesù non stanca, ma ci fa riposare. Quando capiremo il nostro stato di peccatori, allora sentiremo il bisogno della misericordia di Dio e, senza forzarci a pregare, la fame di questa misericordia ci condurrà ad aprire la nostra bocca per pregare come il bambino la apre per ricevere il latte. San Porfirios mette in relazione la preghiera del cuore con l'amore divino, ravvisandovi un ingrediente fondamentale della preghiera: L'amore per Cristo è tutto. Se la vostra anima ripete con dedizione e passione le parole «Signore Gesù Cristo abbi misericordia di me» non si sazia; sono parole non sazianti? [...] L'amore divino ci eleva a Dio, ci dona calma, gioia, pienezza; ogni altro tipo di amore può portare alla disperazione. [...] Quando recitate la preghiera del cuore, ditela lentamente, umilmente, lievemente, con amore divino. Con dolcezza pronunciate il nome del Signore; dite una per una le parole «Signore... Gesù... Cristo... abbi misericordia... di me» lievemente, con tenerezza e amore.
Ancora san Porfìrios insegna che nella preghiera del cuore sono inclusi tutti, vivi e morti: In questo sta la grandezza della nostra fede: nell'unire tutti spiritualmente. [...] Nella preghiera comune tutti sono uniti. Sentiamo il nostro prossimo come noi stessi. E questo è la nostra vita, la nostra gioia, il nostro tesoro. [...] Siamo tutti figli dello stesso Padre, siamo tutti una cosa sola; per questo, quando preghiamo per gli altri, dobbiamo dire «Signore Gesù Cristo abbi misericordia di me», e non «abbi misericordia di loro». In questo modo facciamo diventare gli altri una cosa sola con noi stessi. [...] Pregate per quelli che vi accusano. Dite: «Signore Gesù Cristo abbi misericordia di me», non: «abbi misericordia di lui», e verrà incluso nella preghiera anche chi vi accusa, [...] facendo dell'accusatore una cosa sola con voi stessi. E Dio, conoscendo cosa c'è che tormenta il vostro accusatore nel profondo e vedendo il vostro amore, si affretterà a venire in aiuto. San Paisios sottolinea che la preghiera di Gesù «è un'arma terribile contro il diavolo, perché il nome di Cristo è onnipotente». Insegna anche che obiettivo del fedele che la pratichi non è quello di imparare a pregare continuamente, ma «di essere spogliato dell'uomo vecchio, conoscere sé stesso e purificarsi dalle sue passioni; guardando le nostre passioni chiediamo la misericordia di Dio. Così, dopo rimane la preghiera continua. La catarsi dell'anima si realizza con i pensieri puri, lo studio, la preghiera di Gesù e l'obbedienza». Sant'Iakovos Tsalikis, in particolare, sottolinea la rilevanza della preghiera del cuore per la salvezza dell'uomo: Nessuna preghiera è vana; tutte le preghiere sono sante, ma la preghiera dell'intelletto è la più importante di tutte. Con questa breve ma onnipotente preghiera hanno iniziato il loro cammino tutti i santi Padri. Devi recitare, figlio mio, questa preghiera continuamente, giorno e notte. La preghiera porterà tutto; la preghiera include tutto: richiesta, supplica, fede, professione, teologia ecc. La preghiera deve essere recitata continuamente. La preghiera porterà la pace, la soavità, la gioia e le lacrime. La pace e la soavità porteranno più preghiera, e la preghiera porterà in seguito più soavità e pace. Attraverso la preghiera innanzitutto troverai soavità, pace e gioia e dopo, se Dio vuole, potrai vivere anche altri stati di grazia. Devi sapere, figlio mio, che dove si trova il nome del Signore, là si trova la grazia.
La preghiera del cuore. Tradizioni ed esperienza. A cura di Ferro Garel. Lindau, Torino 2019, 103-112.