venerdì 13 ottobre 2023

Lettera ai Filippesi 2

 Capitolo 2

Umiltà e grandezza di Cristo


1Se dunque c'è qualche consolazione in Cristo, se c'è qualche conforto, frutto della carità, se c'è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. 3Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. 4Ciascuno non cerchi l'interesse proprio, ma anche quello degli altri. 5Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù (2,1-5)

Nella fede (culminante nel battesimo), Cristo viene a dimorare nel credente e da quel momento cerca di espandere in lui il suo modo di vivere. Il versetto cinque riassume l’essenziale della vita cristiana: avere in se stessi “ciò che fu” in Gesù, ossia pensare e vivere come lui. Leggiamo alla lettera: questo pensate [o meglio riportate] in voi, ciò che [fu] anche in Cristo Gesù. Ho tradotto pensare (phroneite) con riportare, perché, in questo caso, pensare corrisponde ad acquisire un modo di essere. In greco, infatti, phroneô non significa soltanto pensare ma anche vivere saggiamente. Phronêma è avere sentimenti elevati, un nobile sentire, un progetto. 

Paolo ricorda l’umanità di Gesù, soprattutto nella sua Pasqua; Egli fu la saggezza fatta carne, fu un nobile sentire, un progetto incomparabile. Il cristiano autentico riporta in sé l’esistenza di Gesù. 

1Se dunque c'è qualche consolazione in Cristo, se c'è qualche conforto, frutto della carità, se c'è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi.

Che cosa significa, in pratica, imitare il Signore Gesù? In senso più generale, chiede con insistenza che i membri della comunità si sostengano e s’incoraggino tra loro. Vuole che vivano nella comunione dello spirito. Questa predisposizione sarebbe assecondare l’opera dello Spirito, che vuole dare esistenza ad una nuova creazione. Se lo stile di fraternità si è realizzasse, ne godrebbe immensamente e vedrebbe realizzarsi il suo compito. L’apostolo è incaricato di diffondere nel mondo la carità vissuta da Gesù. 

Dapprima, parla di consolazione. La consolazione (paraklêsis) avviene quando una persona che ha chiesto aiuto, viene soccorsa. Il paraclito è un aiutante (in un caso specifico un avvocato difensore in tribunale). La comunità è composta di persone che hanno tutte bisogno di aiuto e che, a loro volta, lo prestano agli altri. Nessuno è abbandonato a se stesso e nessuno si gira dall’altra parte se scorge una necessità. Ricordiamo la prestazione amorevole de buon samaritano (e l’indifferenza di altri). 

Dopo la consolazione, parla di conforto (paramythion). In senso letterale, è un parlare a qualcuno standogli accanto. È, in pratica, una parola di incoraggiamento, un discorso di persuasione che infonde calma, lenimento del dolore, sollievo nella preoccupazione, allegerimento del cuore. 

L’elenco delle altre qualità che egli spera di vedere nella comunità, è un rimando a quelle che Gesù mostrò in se stesso. Risaltano con forza sentimenti d’amore (splagchna) e di compassione (oiktirmoi). I due termini richiamano esattamente l’agire, il modo di essere di Gesù. Il primo traduce un concetto veterotestamentario: le viscere di misericordia di Dio.  Annunciate dai profeti sono state mostrate in Gesù.  

Ha messo a fuoco alcune qualità che gli stavano più a cuore ed ora prosegue raccomandando l’essenziale. Costituisce il quadrato della carità: 1. pensate allo stesso modo (to auto phronete) 2. Abbiate la medesima carità 3. Restate unanimi 4. Pensate la medesima cosa (to en phronountes). L’esortazione si apre e si chiude con due riferimenti al pensare saggio ma la saggezza consiste nel vivere nella carità che si manifesta nell’unanimità. Paolo introduce un termine inusitato nella classicità greca: essere unanimi, avere una sola anima (sympsychoi). Luca aveva descritto la comunità primitiva ideale come caratterizzata da un’anima sola (At 4,32). La concordia di per sé è un ideale tipico della vita cristiana, per quanto disatteso.

L’unanimità, infatti, manca alla comunità di Filippi e quindi, Paolo, chiude l’esortazione denunciando i due vizi che la corrodono: la rivalità e la vanagloria. Suggerisce anche il farmaco necessario per riacquistare la salute, ossia l’umiltà. Come agisce la persona umile? Essa attribuisce più importanza al fratello che a se stessa, oppure è più attenta agli interessi degli altri che ai propri. 

Gesù ha agito proprio con questo stile; è stato Colui che ha rinunciato del tutto ai propri interessi, diritti e privilegi pur di venire in soccorso agli uomini. La Chiesa annunciava dall’inizio questa caratteristica di Gesù, la più rilevante in assoluto. Paolo non esige che il credente riproduca alla perfezione il “pensiero” di Gesù ma che, osservando questo modello, riduca la pressione dell’egoismo. Non comanda, infatti, di rinunciare del tutto ai propri interessi, come di per sé ha fatto Gesù, ma di contemperarli con quelli degli altri. 

L’apostolo sposta la sua attenzione su Gesù non per scrivere (o rilanciare) una pagina mirabile di cristologia ma per consolidare un’esistenza davvero cristiana.

6egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, 7ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. 

I primi due versetti ci trasferiscono al mondo celeste. Parlano di ciò che decise Gesù mentre viveva con Dio Padre nell’eternità. «L’esistenza donata dell’uomo Gesù è il prolungamento, o lo specchio, di un ragionare divino» (B. Maggioni, Annunciava loro la Parola, Vita e Pensiero, Milano 2018, p. 141). 

Servire non è stato in primo luogo una scelta di Gesù nella sua vita terrena, ma è la caratteristica tipica della divinità, del modo di essere e di pensare di Dio. Se ci sfugge questo aspetto, non cogliamo la novità assoluta dell’immagine di Dio manifestataci da Gesù. Paolo, riflettendo sullo svuotamento di Gesù, non pensa qui ai suoi gesti umili, come lo stare a mensa con i peccatori o il lavare i piedi ai discepoli. Pone in evidenza la motivazione di fondo che sta alla base di questi gesti: come Dio è capace di rinunciare ai vantaggi della divinità. È un nuovo modo di pensare all’onnipotenza divina. Quando gli uomini vogliono di deificarsi e fare una vita divina, si propongono di accumulare privilegi, di darsi ai piaceri, di sottomettere gli altri ai loro bisogni e desideri. È proprio, invece dell’essere Dio, la volontà di donare tutto stesso, affrontando perfino l’annientamento di sé. «Donarsi all'infinito: ecco la legge della vita intima di Dio» (T. Merton, Nessun uomo è un'isola, Garzanti, Milano 1998, p. 21). 

Ci furono due svolte estreme per Cristo. La prima quando, vivendo in cielo, «da ricco che era si fece povero per noi»; la seconda, quando, vivendo in terra, «indurì il volto» per incamminarsi a Gerusalemme per affrontare quando gli sarebbe accaduto. Il dramma di Cristo comincia nel cielo. Gesù «non ha fatto se non opere mirabili ma l’azione più sorprendente è stata la sua volontaria umiliazione quando ha assunto la nostra carne e ha condiviso le nostre sofferenze» (Bruno di Segni PL 164,836 C). Non bisogna trascurare lo svuotamento dell’incanazione per valorizzare soltanto la croce. La croce ha la sua ultima motivazione nel desiderio di Dio di svuotarsi pur di salvare la sua creazione. 

Paolo attesta che egli è «nato da donna, sotto la Legge». «Qui si sottolinea la condivisione da parte del Figlio della precarietà ed impotenza della nostra condizione» (S. Romanello, Lettera ai Galati, San Paolo, Milano 2014, 66). La Lettera agli Ebrei dichiara: «Non certo degli angeli si prende cura, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Per questo doveva essere reso simile in tutto ai fratelli [...] Per il fatto che egli stesso, messo alla prova, ha sofferto…» (Eb 2, 16.18).

Gesù, da Signore che era, diventa servo, o meglio schiavo. Egli volle assumere la condizione di servo ma per far questo dovette “svuotarsi” di ogni vantaggio e privilegio di cui godeva presso il Padre. Svuotarsi, diventare servo, divenire uomo come noi sono tre modi di dire la stess cosa. 

Paolo interpreta la vita umana come schiavitù. Questo non significa che la ritenga soltanto una valle di lacrime. La schiavitù consiste nel non avere la padronanza di sé e della propria vita. Agli uomini capitano tante cose che non scelgono e che spesso li sgomentano. 

Gesù, per definizione di se stesso, è stato Colui che «non ha voluto fare nulla da se stesso» ma piuttosto a fare sempre ciò che vedeva fare dal Padre (Cf Gv 5,19). In questo è consistito l’esercizione della sua divinità o figliolanza divina. Messo di fronte ad una scelta come lo fu Adamo, l’uomo tipico, Gesù non cercò il proprio vantaggio, diffidando di Dio, ma si abbandonò a Lui. Gesù, perciò, ha voluto accettare anche ciò che di solito è ripugnante per gli uomini. Ha ricevuto il consenso ma ha affrontato per lo più anche il rifiuto. 

Il Padre non lo salvaguardò e Gesù dovette percorrere il curriculum tipico dei profeti e abbracciare il peggio dell’esperienza umana. Il peggio della vita umana è finire nella morte ma Gesù dovette affrontare, in aggiunta, una morte particolamente dura ed infamante. Si abbandò al volere del Padre che sembrava richiedere il suo annientamento e visse una fiducia estrema. Fu un vero uomo religioso. In Gesù l’umanità compie ciò che non era stata in grado di fare e così Egli diventa causa di salvezza eterna. Fu tale da rendere graditi a Dio tutti gli uomini.

9Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, 

Per questo (diò)… Dio Padre esalta il dono totale di sé vissuto da Gesù, capace di accogliere l’estrema umiliazione. Salire fino alla realtà celeste è un movimento molto ambito dagli uomini. Enoch ed Elia sono stati onorati in questo modo (Gen 5,24; 2 R2 2,11). Gli imperatori romani presumevano di elevarsi fino al rango divino e, per questo, imponevano la loro deificazione. Nell’arco di Tito, è raffigurato l’imperatore che viene ghermito da un’aquila e portato in cielo presso le divinità. Salire è facile; difficile è, dalle sublimità celesti, scendere in basso con una decisione volontaria, condividendo la sorte degli umili. Gesù è l’unico, tra i grandi personaggi religiosi, del quale si può annunciare un fatto simile. Perciò è l’unico al quale viene dato il Nome più sublime. L’inno non proclama l’ascesa di Gesù, il quale non sale da se stesso ma viene assunto (anelêmphthê) da Dio (At 1,2) e riceve in dono da Lui il nome più elevato. 

Morte in croce e risurrezione formano una unità perché viene glorificata la totale dedizione di sé. «Per questo il gesto di Dio che risuscita Gesù non è solo un gesto che ha approvato il Crocifìsso, ma un gesto che ne ha rivelato l'identità» (B. Maggioni, Annunciava…, 135). 

La risurrezione non è soltanto un ritorno alla vita ma un’esaltazione; non una glorificazione nomale ma una “supe-esaltazione” (yperypsòsen), l’insediamento nella posizione più elevata, pari a quella di Dio. Gesù è tornato nella condizione di Dio, senza nessun equivoco. Gesù Signore non equivale a Gesù risorto, perché - al di là dell'approvazione di Dio che ha accolto il Crocifisso nella vita eterna, come poteva avvenire nel caso di un qualsiasi martire - Signore indica da un lato una collocazione sul piano del divino, una partecipazione alla gloria di Dio, e dall'altro indica la presenza attiva e autorevole (la signoria, appunto) del Risorto nella comunità. Da Risorto Gesù ci comunica i beni divini e i tesori spirituali, infiniti, che ha accumulato per noi soffrendo.

10perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, 11e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!, a gloria di Dio Padre.

Dio aveva previsto, per mezzo del profeta, che l’adorazione nei suoi confronti sarebbe stata universale: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua» (Is 45,23). Il riconoscimento dell’autorità divina avviene grazie alla potestà di Gesù, che è universale e cosmica (in cielo, in terra, sotto terra) (v.10). Come dire: il Signore Gesù fa in modo che Dio sia tutto in tutti: «Quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15,28). 

L’adorazione di Dio avviene proprio quando si proclama la signoria di Gesù, la quale non distrae dall’adorazione del Padre, ma anzi la conferma (v.11). 

La proclamazione della signoria di Gesù (Gesù è Signore) è la confessione tipica che dà inizio alla fede cristiana. Si attende il suo pieno compimento ma è già attuale. Non dipende dagli uomini ma dal beneplacito del Padre. «(Dio) avendo sottomesso a lui (Cristo) tutte le cose, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso. Al momento presente però non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa. Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti» (Eb 2,8-9).

Tenendo salda la Parola di vita

12Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero presente ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore. 13È Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo il suo disegno d'amore. 

Ha presentato, or ora, l’esempio di Cristo perché, imitando il suo spirito di abnegazione e di obbedienza, i Filippesi vivano in comunione tra loro. La stessa esortazione viene ripresa nella storia della spiritualità cristiana: «Cristo appartiene agli umili, non a coloro che si elevano al di sopra del suo gregge… Il Signore Gesù Cristo, non è venuto con lo strepito di arroganza né di ostentazione, sebbene lo potesse, ma con umiltà. […] Vedete, o diletti, qual è il modello che ci è stato dato: se il Signore è stato così umile (etapeinophronêsen), che cosa dovremo fare noi?» (Clemente, Lettera ai Corinzi, 16,1-2.17). 

Riprende ora un’esortazione simile a quella sviluppata all’inizio del capitolo, prima di parlare di Gesù. I suoi fedeli gli avevano obbedito in tutto, quado era presente in comunità e nei periodi in cui era assente. L’obbedienza fu la caratteristica di Gesù nei rapporti con il Padre e deve essere un contrassegno del credente nei confronti degli evangelizzatori e dei responsabili della comunità. «Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi e devono renderne conto, affinché lo facciano con gioia e non lamentandosi. Ciò non sarebbe di vantaggio per voi» (Eb 13,17). 

L’ap. parla con una certa apprensione e con dolcezza. In altre circostanze si era mostrato più energico e deciso. Ai Corinti che si erano opposti a lui in maniera tale da compromettere il Vangelo, aveva scritto che egli voleva agire come un combattente, per annientare «i ragionamenti e ogni arroganza che si leva contro la conoscenza di Dio, e sottomettendo ogni intelligenza all'obbedienza di Cristo. Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà perfetta» (2 Cor 10,5-6). Nonostante l’asprezza del linguaggio, Paolo non voleva sottomettere i fedeli alla sua persona (v.8), ma spingerli ad obbedire al Vangelo. 

I Filippesi, infatti, obbediscono a lui se attendono alla loro salvezza con premura. Devono assecondare l’azione di Dio nella loro vita, il quale ha già mostrato loro la sua benevolenza gratuita (eudokia) e continua a manifestarla  suscitando in loro propositi retti ed azioni sante. Il Vangelo è in primo luogo l’apparizione della benevolenza di Dio che si china particolarmente verso i malvagi. 

14Fate tutto senza mormorare e senza esitare, 15per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, 16tenendo salda la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano aver faticato. 

Dalla storia del popolo d’Israele, Paolo ha appreso che il popolo di Dio può cadere nella diffidenza nei suoi confronti, nella mormorazione (goggysmos), e nell’indugio a compiere quanto è richiesto, nell’esitazione (dialogismos). I due atteggiamenti si confondono tra loro; si tratta in ultima analisi di un affievolirsi della fiducia in Dio. Essa può indurirsi ancora di più divenendo sfiducia e oppozione aperta. Nessun è indenne dal precipitare nel peggio, e infine, nella rovina di sé. 

Non basta evitare il peggio ma è possibile mostrare il meglio. I credenti dovranno manifestare la luminosità, ricevuta per grazia, agli uomini ancora immersi nella tenebra. La santità dei credenti illumina l’oscurità come gli astri illuminano la notte. Essi sanno bene che cosa sia tenebra; era la loro situazione precedente all’ilumonazione, alla quale erano stati sottratti da poco: «Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore» (Ef 5,8-10). Nel salmo, viene detto che gli astri annunciano la gloria di Dio in maniera appariscente ma «senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce» (Sal 19,4). I cristiani sono luminosi perché sono figli di Dio, generati da Lui (v.15). La luminosità si impone da sé. I retti annunciano grazie alle loro opere. 

Ha appena chiesto che essi siano irreprensibili e puri. Il primo termine indica la semplicità, ossia la non mescolanza di elementi contrapposti (amemptoi). «Non professate Gesù Cristo, mentre desiderate il mondo» (Ignazio, Romani 7,1). Il cristiano, più è unificato in sé, più acquista luminosità. Il secondo (akeraioi) indica un’esistenza che non può essere squalificata dagli avversari, come ricorda la lettera di Pietro: «Tenete una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita» (1 Pt 2,12). La persona retta «piace a tutti ed è amata da tutti. Perfino quelli che si trovano sul fronte avversario, vedendo una cosa del genere, temono e hanno riguardo. Anche se la malvagità ostinata non si risolve a imitare il bene presente in colui che è buono, nonostante questo la natura non può non riconoscerlo» (Guglielmo di Sant-Thierry, Natura e valore dell’amore, 51). «L’incoerenza, al contrario, ostacola in modo grave l’accesso alla fede: «I pagani sono pieni di ammirazione quando ascoltano le parole di Dio buone e ammirevoli; ma, poi, accorgendosi che le nostre opere non sono coerenti con le parole che diciamo, allora si volgono alla bestemmia, dicendo che sono favole e inganno» (2 Lettera di Clemente, 13,3). 

Tuttavia il contesto della lettera segnala un prevalere dell’ostilità. Paolo è imprigionato e i cristiani dono malvisti e perseguitati «da una generazione distorta e perversa» (2,15), curva su di sé e lontana dalla verità. Mancando ogni possibilità di dialogo, ed essendo inutile ogni discussione, il cristiano non dimostra ma mostra a tutti una luce meravigliosa che lo ha visitato senza alcun suo merito. Solo in questo modo solleva in alto, rende visibile, la parola che qualifica la vita.

17Ma, anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull'offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. 18Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.

Paolo, benché speri e sia convinto di essere prosciolto d’ogni accusa e di tornare a Filippi, deve prospettare anche l’eventualità d’essere condannato a morte. Nel caso che venisse ucciso, anche questa sventura, a suo parere, diventa un’opportunità. Nell’intento di spiegare perché un atto di violenza possa risultare un beneficio per la fede, si serve d’una immagine attinta dal culto. Il vero sacrificio, l’atto di culto più gradito a Dio, è una vita retta, condotta in obbedienza a Dio. Tutti i fedeli offrono a Dio la loro vita santa. Essa viene definita sacrificio (thysia) e offerta della fede (leitourgia tês pisteos). 

Nel culto d’Israele, il sangue rappresentava la vita stessa della vittima sacrificata, era il dono più prezioso (Cf Dt 12,23). Continuando il ragionamento su questo modo di pensare il culto, il sangue  sparso nel martirio (la decapitazione presuppone un abbondante spargimento di sangue) viene paragonato dall’apostolo alla libagione che il sacerdote antico versava alla base o sulla parete dell’altare (Lev 1,5.11.15; 4,7). Nonostante una certa complessità delle immagini, il messaggio è semplice. Il culto gradito a Dio è la vita spesa nell’obbedienza a lui (Cf Rm 12,1; 1 Pt 2,5); l’obbedienza che accetta anche il martirio, rende questo culto esistenziale ancora più prezioso (Ap 6,9). Paolo, quindi, accettando il martirio, arricchisce l’offerta già presentata dai Filippesi con la loro vita di fede. La possibilità di offrire al Signore un dono così prezioso rallegra l’apostolo e tutta la sua comunità. 

La lettera a Timoteo conferma questa predisposizione di Paolo: «Io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita» (2 Tm 4,6). Nei due testi (Fil 2,17 e 2 Tm 4,6) compare il verbo “compiere una libagione” (spendô). 

Nel libro dell’Apocalisse troviamo un’estensione del significato di questa immagine. Il veggente vide sotto l’altare le anime delle persone che erano state immolate a motivo della parola di Dio (Ap 6,9). Le anime richiamano, quindi, il sangue che veniva versato alla base dell’altare (Lev 4,7), simbolo stesso di Dio. «Viene presentata un’altra forza determinante della storia, costituita dalle anime vicine a Dio, cioè persone uccise violentemente per motivi religiosi. La loro azione consiste in un grido potente» capace d’affrettare l’intervento giudiziario di Dio (C. Doglio, Apocalisse, San Paolo, Milano 2012, 81). 

Il martire Ignazio scrive ai cristiani di Tralle: «[Con il martirio] il mio spirito si purifica [si offre in sacrificio] per voi non soltanto ora anche quando sarò arrivato a Dio» (Ai Trallesi 13,3). «Io sono prezzo del riscatto per voi (Efesini 21,1) «Prezzo di riscatto per voi sono il mio spirito e le mie catene» (Smirnei 10,2). È convinto che, offrendosi in martirio a Roma, egli potrà beneficare i fedeli, soprattutto quando sarà con Dio. 

Missione di Timòteo ed Epafrodìto

Il racconto della missione di Timoteo e di Epafrodito, nel contesto della lettera, non rappresenta un un inserimento biografico casuale e fuori contesto. Questi due collaboratori «sono esempi della vita conforme a Cristo alla quale Paolo sta esortando i filippesi. Il sacrificio di sé non avviene soltanto in inni ma in vite concrete» (Boring 363). 

19Spero nel Signore Gesù di mandarvi presto Timoteo, per essere anch'io confortato nel ricevere vostre notizie. 20Infatti, non ho nessuno che condivida come lui i miei sentimenti e prenda sinceramente a cuore ciò che vi riguarda: 21tutti in realtà cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. 

Paolo desidererebbe di conoscere l’esito della sua prigionia, che ora, vede soltanto da lontano. È tutto teso verso a questa conclusione che lo riguarda in modo stretto ma, per ora, può soltanto sperare nel Signore che voglia affrettare il suo arrivo a Filippi. Invierà Timoteo non appena potrà portare la gioia notizia della sua scarcerazione (vv.19.23) ma per il momento, starà presso di lui. Non può contare su altri collaboratori affidabili che facciano da spola tra lui e i Filippesi. Forse molti si sono defilati per paura e non lo frequentano più. Questi cristiani paurosi non imitano la generosità di Gesù ma curano i propri interessi, le cose di loro (ta eauton). Dovrebbero essere più disponibili a portare ai Filippesi notizie riguardanti l’apostolo e a riferire a lui informazioni riguardanti quella comunità. Evidentemente non è facile, in via normale, ripetere lo “svuotamento” di sé vissuta da Cristo. 

22Voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il Vangelo insieme con me, come un figlio con il padre. 23Spero quindi di mandarvelo presto, appena avrò visto chiaro nella mia situazione. 24Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch'io di persona.

Timoteo è una persone lodevole. I Filippesi lo hanno già conosciuto e possono testimoniare la sua dedizione. Egli condivide i sentimenti dell’apostolo che lo elogia con un aggettivo raro: egli è d’animo uguale a lui (isopsychos). Il termine non significa soltanto persona d’animo eccellente. Timoteo si è preso cura realmente dei fratelli e ha agito come avrebbero dovuto fare tutti i membri della comunità. Non dovevano essere tutti unanimi (sympsychoi) e nutrire lo stesso sentimento (to en phronountes) (2,2)? 

25Ho creduto necessario mandarvi Epafrodìto, fratello mio, mio compagno di lavoro e di lotta e vostro inviato per aiutarmi nelle mie necessità. 26Aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della sua malattia. 27È stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio ha avuto misericordia di lui, e non di lui solo ma anche di me, perché non avessi dolore su dolore. 28Lo mando quindi con tanta premura, perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più preoccupato. 29Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui, 30perché ha sfiorato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per supplire a ciò che mancava al vostro servizio verso di me.

Intanto invia presso di loro Epafrodito (o Epafras) un altro suo collaboratore verso il quale nutre grande stima; a lui riserva tra aggettivi che lo devono qualificare agli occhi della comunità: fratello, collaboratore (synergos), compagno di lotta (systratiôtes). Per collaborare all’opera di Cristo, ha rischiato la vita. Egli appartiene alla comunità di Filippi e venne inviato da quei fedeli perché assistesse l’apostolo nella sua carcerazione (con ogni probabilità è stato lui a portare i doni dei Filippesi di cui si parla al cap. 4). Proprio mentre stava là con lui (ad Efeso?), si ammalò in modo grave con il rischio di morire.  Ora Epafrodito vorrebbe ritornare a rivedere i suoi fratelli e a rassicurarli circa la sua salute, recuperata per la misericordia di Dio. Paolo invita i Filippesi ad accoglierlo con gioia; teme, forse, che lo rimproverino per averlo abbandonato. Con ogni propabilità è stato lui la persona designata a consegnare alla comunità la lettera che ora stiamo commentando.  [Questo Epafrodito è una persona diversa dall’Epafras che appare in Col 4,12 e Fil 23]. 


Lettera ai Filippesi 3

 Capitolo 3

1Per il resto, fratelli miei, siate lieti nel Signore. Scrivere a voi le stesse cose, a me non pesa e a voi dà sicurezza. 

Nella lettera troviamo diversi richiami alla gioia (1,4.25; 2,2.29; 4,1.10) La gioia non possiamo farla nascere in noi in modo forzato, costringendoci quasi ad essere sorridenti e gioiosi, ma essa scaturirà in noi in modo spontaneo se ci stabiliremo in Cristo. In quasiasi situazione, la relazione vera e profonda con lui e, mediante lui, con Dio stesso, ci fa sperimentare la gioia. Anzi quando più siamo di Dio e ci doniamo a Lui, tanto più sperimenteremo questo stato di esistenza. Essa è più di un sentimento ma un modo di essere. L’unica vera e continua fonte di gioia sta nella nostra conversione e santificazione permanente. 

L’apostolo vuole ripetere lo stesso insegnamento che ha dato finora (la meditazione sullo svuotamento del Cristo) perché lo considera fondamentale per la vita di fede. Lo fa volentieri e per i suoi ascoltatori sarà estremamente utile. La ripetizione continua degli stessi concetti ed esortazioni è necessaria per memorizzarli e per riuscire infine a praticarli. 

2Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno mutilare! 3I veri circoncisi siamo noi, che celebriamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci vantiamo in Cristo Gesù senza porre fiducia nella carne, 4sebbene anche in essa io possa confidare. 

A chi sono rivolte queste irrisioni che arrivano inaspettatamente in uno scritto colmo di affabilità? Cani era l’epiteto assegnato dagli ebrei ai pagani. Il cane era uno degli animali impuri. Chiamandoli cani, gli ebrei, nell’intento di salvaguardare l’integrità della fede, volevano impedire che i loro correligionari fraternizzassero con quelli. Perché richiamare ai Filippesi questo linguaggio sprezzante? 

Paolo, ora, dirige l’attenzione sulla questione che lo ha aggravato, in maniera drammatica, nella sua missione; pensa, cioè, alla problematica sollevata con forza da alcuni ebrei che erano diventati cristiani. Secondo loro, soltanto gli ebrei potevano godere della salvezza portata dal Messia Gesù. Chi non era tale per nascita, doveva diventarlo per scelta, cominciando col farsi circoncidere. Secondo Paolo, invece, - e questa fu la convinzione ammessa dagli apostoli -  non era affatto necessario che i pagani diventassero ebrei prima di ricevere il battesimo cristiano (At 15, 1.11). Non obbligava, quindi  i pagani a circoncidersi né a sottostare ad altre norme obbligatorie per gli ebrei. 

Non abbiamo motivi per pensare che a Filippi fosse stata sollevata questa questione ma l’apostolo, conoscendo quanto fosse diffusa e perturbante, cerca di premunire i suoi fedeli. Temendo la venuta di ebreo-cristiani legati alla tradizione, predispone la comunità a tale eventualità, usando un linguaggio  duro, che dovrebbe essere chiarificatore del suo pensiero. Sono loro, i tadizionalisti rigorosi, a meritare il titolo di cani perché, sconvolgendo la fede dei pagani convertiti, rischiavano di allontanarli da Cristo. Non vuole diffondere l’uso di questo nomignolo né diffondere odio verso i suoi oppositori, ma mettere a fuoco, con un linguaggio scioccante, il pericolo che essi sono per tutti, in quanto svalutano la salvezza portata da Cristo e allontano i pagani dal Vangelo. 

Li chiama inoltre cattivi operai. Denomina la pratica della circoncisione una mutilazione, o la riduce ad una semplice incisione. Scherza sulle parole: la circoncisione, chiamata peritomê, viene denominata da lui katatomê (mutilazione, incisione). Spiega in breve perché la circoncisione non sia più necessaria (un insegnamento sconvolgente per un ebreo!): i cristiani sono i veri circoncisi, perché venerano il Signore con la loro vita lasciandosi guidare dal suo Spirito. La loro esistenza è attuazione del nuovo patto con Dio previsto dai profeti, al punto da essere definita circoncisione. Non bisogno di sottoporsi a questa pratica chi ha già raggiunto lo scopo a cui essa mirava: fae entrare il circonciso nell’alleanza con Dio. 

Talora Paolo, come in questo caso, preferisce usare un sostantivo, anziché un aggettivo. Ad esempio scrive: «…perché noi fossimo giustizia di Dio» (2 Cor 5,21). Bastava dire perché fossimo giusti. Il sostantivo, però, presuppone il raggiungimento di una pienezza. I cristiani vivono in pienezza il patto con Dio e non hanno bisogno di segni esteriori: sono di per sé circoncisione anziché semplici circoncisi. Il significato dell’espressione vantarsi in Cristo, in opposizione a confidare nella carne, viene chiarita nel versetto successivo. 

Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: 5circonciso all'età di otto giorni, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; 6quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della Legge, irreprensibile. 7Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo.

Confidare nella carne significa, in questo caso, dare importanza primaria ai riconoscimenti e ai privilegi sociali. L’ebraismo era una religione conosciuta da tempo, rispettata da molti, garantita da accordi con le autorità romane. 

Elenca sette privilegi di cui godeva come ebreo, per rendere certi che avrebbe potuto continuare a godere d’una situazione privilegiata: 1. Fu circonciso in piena conformità alle norme. 2. Apparteneva al popolo d’Israele (gli ebrei si denominavano Israele, un titolo dal valore religioso in quanto era il nome che Dio stesso aveva assegnato al capostipite Giacobbe, Cf Gen 32,29) 3. Proveniva dalla tribù regale di Beniamino 4. Era ebreo di nascita, da genitori entrambi ebrei 5. Aveva aderito al movimento farisaico, tra i più insigni e rispettati 6. S’era opposto ai cristiani fino a perseguitarli 7. Aveva osservato sempre le prescrizioni legali. Aveva tutti i titoli per vantare, all’interno della sua religione, una posizione invidiabile. Il numero sette indica perfezione. 

Quando aderì a Cristo, sapeva che avrebbe perso tutti i vantaggi elencati ed avrebbe annullata la sua posizione privilegiata ma lo fece lo stesso. Alla sua maniera, Paolo imita Cristo che, per raggiungere un fine superiore, si è spogliato di ogni suo vantaggio. 

8Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo 9ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. 

Aderire a Gesù Cristo lo considerò il massimo bene. Anche a lui capitò il caso dell’agricoltore che, lavorando il terreno, vi trovò, in modo inaspettato, un tesoro, sepolto proprio lì da un defunto sconosciuto (Cf Mt 13,44). Questi pensò bene di vendere tutto per poter comprare quel campo. In realtà fu Dio a rivelare a Paolo Gesù Risorto, quando egli non solo non lo cercava ma lo disprezzava come falso profeta. Gli aprì gli occhi perché vedesse nel Crocifisso un tesoro celeste. 

Per capire tutto questo, dobbiamo comprendere bene il significato delle due forme di giustizia a cui accenna nel v. 9. Ha già esposto (o esporrà) questo messaggio di estrema importanza nella lettera ai Romani. Incontriamo un punto nevralgico della teologia paolina. 

Intato per giustizia si intende saper vivere santamente ed essere graditi a Dio. Nella Bibbia le persone rette vengono denominate giusti. Ora il giusto per eccellenza è stato Gesù. Anzi egli fu l’unico giusto, non solo perché visse senza peccato ma perché amo Dio con tutte le forze e preferì il prossimo a se stesso (ricordiamo l’inizio della riflessione al cap. 2). Il Padre lo gradì in tutto e per tutto. 

Così facendo Gesù recuperò tutta l’umanità. Come si esprime un canone eucaristico: Dio ha amato in noi, ciò che amava nel Figlio (Prefazio VII domenicale). Gesù incarnò un’umanità finalmente obbediente a Dio e da allora Dio attribuì a tutti agli uomini la grandezza di Gesù. Questa è la giustizia che viene da Dio. Gesù è stato giustizia grazie alla sua obbedienza e questa giustizia appartiene dal quel momento a tutta l’umanità. Quel tesoro che Gesù ha accumulato, con grande sorpresa, diventa nostro. «Per l’obbedienza di uno solo, tutti sono stati costituiti giusti» (5,19). «Gesù si fece povero perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9). 

Paolo chiama questa giustizia che proviene da Dio, «giustizia mediante la fede», in quanto il tesoro diventa nostro, se accogliamo con fede il dono di Dio. Egli ci chiede soltanto di fidarci della sua straordinaria generosità e di approffitarne. 

L’altra giustizia è quella della Legge. È la santità che gli ebrei cercavano di ottenere agendo in conformità alla Legge di Mosè. Paolo stesso cercò a lungo di ottenere questa giustizia. Non solo lui, tutti gli uomini cercano di vivere con onestà. Ora non attribuisce nessuna importanza alla sua rettitudine. La sua santità era poca cosa rispetto a quella che gli ha offerto Gesù in modo gratuito. Aveva accumulato qualche moneta ma ora può ricevere un tesoro infinito. Anzi Paolo ritiene che tutti gli uomini falliscano nella ricerca della santità. La via della giustizia per la Legge è, in realtà fallimentare. Infatti gli uomini accumulano più atti di disobbedienza che di obbedienza, né riescono a diventare generosi come vorrebbero e dovrebbero. Nessuno riesce ad essere libero da stesso in modo pieno. Qualcosa ci blocca (l’apostolo lo chiamerà Peccato con la maiuscola). Dio non potrebbe anmmetterci all’amicizia con Lui (così com’era invece amico di Gesù, l’unico vero figlio) né donarci una vita eterna. Ora, però, abbiamo ricevuto in dono la giustizia di Gesù. 

Prospero d’Aquitania immagina questo dialogo tra Gesù e il Padre: «Gesù dice poi [a Dio Padre]: Non allontanare il tuo volto da me per l'umiltà delle mie membra. Quando il Padre potrebbe allontanarsi dal Figlio?» (Commento ai Salmi, 101,2 PL 51, 279)

Tutti i privilegi di cui godeva ad un certo punti li considerò una perdita. Non intende dire che si vergogna di essere stato ebreo (si considerò sempre tale, un ebreo che credeva in Gesù) o fariseo. Tutti i titoli acquisiti  potevano danneggiarlo, se per salvaguardarli, avesse rifiuto di credere in Gesù e di consegnarsi a lui. Anzi tutto ciò che gli impedisce di arricchirsi di Gesù diventa per lui un grave danno. Il tesoro che ora possiede si chiama conoscenza di Cristo e questa è superiore ad ogni altro bene. Conoscenza non significa soltanto un sapere della mente ma un’esperienza di vita, una partecipazione a ciò che è Gesù Risorto. 

Lo ha accolto nella fede come il suo Signore (v.8). Cristo diventa nostro bene, quando accettiamo di essere suoi: «Ti possegga il Signore, affinché tu Lo possegga» (Agostino, Enarrationes in psalmos, 34,12 PL 36, 331). «Nessuno possiede Dio, a meno che non sia posseduto egli stesso da Dio. Di conseguenza, diventi lui stesso possesso di Dio e Dio diventerà suo Signore e suo bene» (Pomerio Giuliano, De vita contemplativa, XVI, 2 PL 59, 460).

Comprendiamo ora meglio il contenuto della speranza dell’apostolo. A partire dalla rivelazione ricevuta a Damasco, cercò di guadagnare Cristo e di essere trovato in Lui (vv. 8-9). Ha voluto sperimentare il rovesciamento dei criteri di valore tanto raccomandato da Gesù: «Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25). Chi, perde se stesso per guadagnare Cristo, trova se stesso: «Quando mi sarò stretto a Te con tutto me stesso, per me non ci saranno più dolore e fatica da nessuna parte, e la mia vita sarà viva, tutta piena di te» (Agostino, Confessioni, X,39). Anzi noi possiamo guadagnare noi stessi solo se troviamo Gesù e ci arricchiamo di ciò che Egli è: «Tu sollevi chi riempi di Te, e poiché io non sono ancora pieno di Te, sono per me un peso» (ibidem). «Non sia io la mia vita; basandomi su di me sono vissuto male, e sono stato per me causa di morte, mentre in Te rivivo» (ibidem, XII, 10). 

10perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, 11nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.

Conoscere Gesù è sperimentare la sua Pasqua; è verificare come tutto ciò che Egli è, si trasferisce anche in noi. Siamo persone pasquali. Prima parla della risurrezione, poi delle sofferenze e della morte e in seguito ancora di risurrezione. Forse noi, istintivamente ci saremmo espressi in modo diverso: prima avremmo parlato della sofferenza e della morte, poi della vita nuova e infine della vita da risorti. 

In realtà, il cristiano dapprima sperimenta in sé la potenza della risurrezione. In altre parole, quando comincia a credere in Gesù, lo invade una potenza di vita fino ad allora sconosciuta. È il momento in cui Gesù, il Vivente, lo raggiunge personalmente. La caratteristica di quest’ora è la gioia. Anche se questi deve piangere sui propri peccati, questo pianto diventa un vero sollievo. Ciò che ha scoperto ora, aprendogli un futuro di speranza, vale molto di più del suo passato. «[L’anima rinnovata] si sente già realmente attratta dalle virtù. Come per Dio essere equivale a essere buono, così per l’anima, ormai giusta e santa, esistere non significa altro che vivere santamente, giustamente e piamente: santamente in se stessa, giustamente verso tutti, piamente rispetto a Dio» (Guglielmo di Saint-Thierry, Natura e valore dell’amore, 16)

Non è tutto qui. Il cristiano risorto, non soltanto impara ad evitare il male, ma acquista gradualmente la generosità di Gesù. Paolo quando divenne cristiano, divenne, nel contempo, anche missionario e sperimentò la comunione con le sofferenze di Gesù, presentata qui come una conformazione alla sua morte. Questo non deve creare turbamento. Ogni impegno serio d’amore, in ogni campo, sa affrontare contrarietà e sofferenze. Il nucleo del messaggio cristiano consiste in questo: nel donare se stessi, si conosce la vera gioia, anzi si partecipa alla beatitudine del Signore. L’apostolo non ha mai messo in discussione la sua scelta ma quanto più poteva identificarsi con il Cristo sofferente, tanto più riteneva riuscita la sua esistenza. 

Infine parla della possibilità di ottenere (katantaô) la risurrezione dai morti. 

In sintesi, il battezzato rivive il percorso di Cristo: giunto in possesso della vita nuova, non considera questa un privilegio di cui godere ma l’inizio di una rinuncia a se stesso. A conclusione di questo percorso di donazione, conosce l’apprezzamento di Dio Padre che glorifica la carità e fa entrare nella comunione con sé chi si è reso simile a Lui. In ultima analisi il cristianesimo è l’apertura all’uomo, da parte di Dio, della sua stessa beatitudine, la quale consiste nell’essere infinita donazione di sé. Dio è Amore, non può essere altro di diverso da ciò, non può essere di più, né di meno.  

La santità  crstiana attesta che questa apertura alla realtà di Dio è reale e che la persona umana non può trovare niente di meglio e di più grande. 

12Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù. 13Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, 14corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.

Paolo ha scoperto il dinamismo della fede, operante nella carità; ha conosciuto la partecipazione alla Pasqua del Signore che si dilata in tutte le sue dimensioni. Tuttavia sa bene che, nonostante il suo enorme progresso nella carità, è ben lontano dall’esaurire le potenzialità infinite del percorso intrapreso. Il suo vantaggio consiste nella continua disponibilità a crescere. Accetta, in verità, che il Cristo che lo ha «preso con la forza» (katelêmphthên), continui a farlo suo. Egli, come il corridore nello stadio, è sempre proteso in avanti, si sforza di vincere la corsa e di conseguire il premio destinato al vincitore. Dimentica i risultati ottenuti, rivolto verso il nuovo “record”. Non è un forzato, obbligato ad agire controvoglia ma, come avviene in genere ad un atleta, è lui stesso a desiderare un risultato migliore. Tuttavia questo slancio non è neppure del tutto una sua iniziativa ma una risposta ad una chiamata di Dio. Il Signore vuole che egli raggiunga il meglio di sé, vuole che si dilati per poter arricchirlo con doni sempre maggiori. In questo caso il premio non è qualcosa che egli ottiene soltanto a fine gara, poiché conoscere la carità è già una ricompensa. L’amore possiede in sé la sua ricompensa. 

15Tutti noi, che siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. 16Intanto, dal punto a cui siamo arrivati, insieme procediamo. 17Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l'esempio che avete in noi. 18Perché molti - ve l'ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto - si comportano da nemici della croce di Cristo. 19La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. 

Tutti i cristiani maturi nella fede partecipano al modo di sentire di Cristo, come è accaduto all’apostolo. Se ancora esitano, Dio li illuminerà. Intanto tutti possono continuare ad avanzare nella carità nella speranza di conseguire quello slancio continuo che lo ha coinvolto. 

Ci sono fedeli non ancora maturati ma anche fedeli che contrastano l’insegnamento del Vangelo. Quest’ultimi sono gli avversari, dei quali ha parlato all’inizio del capitolo, cioè gli ebreo-cristiani attaccati alla tradizione ebraica. Si sono fatti nemici della croce di Cristo. In che senso? Non danno alcun importanza all’umiliazione subita da Gesù, che ha accettato di farsi uomo ed obbedire al Padre fino alla morte, perché non pensano di poter contare sulla sua santità. Cercano, al contrario, di rendersi santi da sé, continuando ad osservare le norme alimentari che distinguono il puro dall’impuro e a vantarsi delle ciconcisione che riguarda le parti più intime del corpo. Il loro modo di pensare è tipico dell’uomo religioso (terrestre) che non è stato ancora illuminato dal Vangelo. 

20La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, 21il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.

La comunità dei cristiani autentici seguono, invece, gli insegnamenti celesti, infusi da Dio stesso. Non pretendono di salvarsi grazie alle loro opere ma attendono il dono ultimo e gratuito di Dio. La salvezza definitiva consisterà nel partecipare alla gloria del Cristo Risorto, il quale ha ricevuto il potere di costituire una nuova creazione. 


«Protesi in avanti»

Nella storia della spiritualità cristiana, Gregorio di Nissa ha ripreso e valorizzato l’immagine dell’atleta che corre slanciandosi sempre in avanti. 

«Gli esseri spirituali si distinguono in due modi d'esistenza, tra l'increato e il creato. L'uno è sempre ciò che è, permane invariabilmente allo stesso modo, non può subire alcun incremento o alcuna diminuzione nel bene. L'altro, invece, giunto all'esistenza in seguito all'atto creativo, deve volgersi sempre alla Causa prima; conserva la sua bontà partecipando all'Essere trascendente e in un certo senso viene ricreato senza sosta poiché si trasforma; avanza verso il bene e dilata la sua bontà. Di conseguenza, neppure in questo caso si può verifìcare un limite; la sua crescita verso la pienezza non può essere circoscritta ma imita incessantemente quel Bene che sussiste dall'eternità e sebbene gli sembri d'aver raggiunto il livello massimo di grandezza e di perfezione si trova di continuo all'inizio di un'altra ascesa ancora più elevata. Nuovamente viene confermata la veridicità del detto dell'apostolo: dimentichi del passato, ci slanciamo verso la meta che ci sta davanti. Colui che viene considerato sempre più grande e che viene riscoperto come bene sovrabbondante, quando attrae a sé gli uomini che partecipano di lui, non permette loro di rivolgersi al passato; offrendo il godimento di doni più preziosi, fa svanire il ricordo di altri beni inferiori […] Abbiamo appreso che la natura divina, nella sua immensità, non è racchiusa da alcun limite. Chi cerca Dio non trova alcuna restrizione nella sua indagine tale da costringerlo a porre dei limiti precisi alla sua conoscenza oppure da obbligarlo a rallentare la sua ascesa mentre è slanciato verso il cielo. Al contrario, l'ardore che spinge verso l'alto nella conoscenza delle realtà più nobili, rimane sempre vivo in questa ricerca sconfinata e tutte le conoscenze più profonde che possono essere raggiunte dalla natura umana diventano il primo passo nella ricerca di beni più eccelsi» (Omelie sul Cantico dei Cantici, VI, PG 44, 835.892).