giovedì 20 febbraio 2020

PREGARE I SALMI


Salmi


I salmi, prima di essere una parola dell'uomo a Dio, sono una parola di Dio all'uomo,  ispirati dallo Spirito. «La lingua del profeta era come lo strumento di un altro che se ne serviva, vale a dire dello Spirito Santo» (Eus PG 23,396 A). Prima di essere recitati o (meglio ancora cantati), devono essere meditati, per accogliere con attenzione il messaggio spirituale che contengono.
Bisogna ricordare che sebbene sia stati composti da una determinate persone (Davide,  Idutun, Asaf, Figli di Core), in situazioni storiche particolari, personali o collettive, il messaggio che offrono travalica le occasioni singolari in cui sono nati. Parlano di Dio, di come Egli opera, e parlano dell'uomo, del credente, di come questi debba rapportarsi con Dio. Parlano, quindi, anche di noi. Ad esempio, introducendo il Salmo 43, Eusebio ritiene che l'autore lo abbia composto all'epoca della persecuzione del re Antioco Epifane e della rivolta dei Maccabei. Dopo aver sollevato tale ipotesi, avverte, tuttavia, che «non solo per loro sono state fissate queste parole perché esse si adattano a tutti quelli che ricevono un’ostilità analoga. Anche nelle persecuzioni contro di noi cristiani, molti hanno affrontato sofferenze simili ed essi potevano servirsi di queste espressioni» (Eus PG 23,5-11).
Occorre, in primo luogo, meditarli. Prima di parlare, dobbiamo ascoltare. Si ascoltano, osservando ciò che essi trasmettono. «Impara il salterio parola per parola (discatur psalterium ad verbum)» suggerisce Gerolamo al monaco Rustico (Lettere, CXXV,11 PL 22,1078). Solo allora l'ispirazione passa dall'autore al lettore e la preghiera di un salmista può diventare anche nostra. Il Signore ama sentire sulle nostre labbra le parole che Egli stesso ha suggerito.
Per favorire la meditazione del salterio, ne esamino alcune tematiche essenziali.

La scelta del Signore

Ogni salmo, come del resto, la preghiera in genere, stabilisce e alimenta il rapporto tra l'uomo e Dio, rinsalda l’atto di fede.
Il salmo 15 mette bene a fuoco il nucleo del sentimento di fede: Ho detto al Signore: «Il mio signore sei Tu, solo in te è il mio bene» (v.2). Mentre venivano adorati molteplici dèi e molti israeliti sceglievano l'una o l'altra fra le varie divinità, il salmista predilige JHWH, il Dio di Abramo e di Mosé.
Rende nota a tutti la sua decisione e precisa il motivo di tale scelta: solo in te è il mio bene (v. 2). Con Dio, non manco di nulla (Sal 22,1), dichiara un altro salmista, usando parole simili. Se ha elaborato questa convinzione, significa che, nel passato, aveva già conosciuto Dio e aveva già sperimentato i vantaggi della relazione con Lui. La sua dichiarazione è una conferma di una decisione già presa.
In un primo passo, Dio si fa conoscere e sperimentare come redentore; soltanto dopo questa rivelazione, a chi l'ha conosciuto come tale, chiede d'affidarsi a Lui: Mosè convocò tutto Israele e disse loro: Voi avete visto quanto il Signore ha fatto sotto i vostri occhi, nella terra d’Egitto. Io vi ho condotti per quarant’anni nel deserto; i vostri mantelli non si sono logorati addosso a voi e i vostri sandali non si sono logorati ai vostri piedi. Osservate dunque le parole di questa alleanza e mettetele in pratica, perché abbiate successo in tutto ciò che farete (Dt 29,1-5).
Accade lo stesso al salmista. Avendo sperimentato d'essere stato beneficato, decide di mettersi alla dipendenza di questo benefattore e pensa ai beni a cui potrà godere. Ciò viene chiarito meglio dai versetti successivi, dove compare l'idea che Dio sarà la sua eredità, cioè la sua porzione di terra promessa (v.6).
Troviamo attestazioni simili presso altri salmisti: Hai messo più gioia nel mio cuore di quanta ne diano a loro [agli iniqui o agli idolatri] grano e vino in abbondanza (Sal 4,8); Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce... Il mio calice trabocca (Sal 22,2.5); Mi sazierò della tua immagine» (16,15).
Sentiamo parlare di sazietà e di un godimento presente che, come si spera, non verrà meno neppure in futuro. Anche Gesù dirà che partecipare al regno, che viene ad inaugurare, è come accedere ad un lauto banchetto (Cf. Lc 14,15 ss). Si gusta un vino prelibato, versato in estrema abbondanza (Cf. Gv 2,1-11) e per un figlio indegno viene allestito un pranzo festoso (Cf. Lc 15,23).
 Lo Spirito rinvia, quindi, ad un'esperienza umana basilare e si esprime in termini di estrema concretezza. La prima esperienza umana della vita è un'immersione nel mondo dei sensi; dal punto di vista spirituale, questa dimensione và superata ma non eliminata. La comunione con Dio è godimento: «Che cosa c'è infatti meglio del Signore? Non vedi che quando torni a te stesso, scendi a un oggetto più misero? Credete forse, fratelli, che coloro che temono Dio, adorano Dio, amano Dio, non provino alcuna emozione? Davvero crederai, avrai il coraggio di credere che suscitino affetti il tavolo da gioco, il teatro, la caccia, la pesca; e non ne suscitino le opere di Dio?» (Agt 76,13-14 PL 36,978).
Il salmista che ha scelto di radicarsi in Dio e si protende con fiducia ai beni divini futuri, compie questa scelta dopo essersi ravveduto, in quanto, in precedenza, aveva scelto anch’egli le divinità: agli dei potenti andava tutto il mio favore (15,3). Ha conosciuto, però, il travaglio di chi le serve: Moltiplicano le loro pene quelli che corrono dietro a un dio straniero (Cf. 15,4). Abbandonato Dio, non aveva trovato alcuna libertà né alcun sollievo, ma era incorso sotto la dominazione di padroni tirannici. Non era più servo di uno solo, ma di molti signori e tutti costoro si erano rivelati degli sfruttatori. Perdendo Dio, aveva perso anche se stesso.
Altri salmisti alludono a questa conversione al Signore, provenendo da altrove e dichiarano di essersi rivolti a Dio soltanto dopo aver gustato l'amarezza della lontananza da lui e proprio per evitare il peggio.
Il peggio, poi, non necessariamente corrisponde all'esperienza del male o alla conseguenze nefaste del peccato ma si incontra, ad esempio, sperimentando semplicemente la limitatezza della vita umana e della povertà dell'uomo. Ecco, di pochi palmi hai fatto i miei giorni, è un nulla per te la durata della mia vita. Sì, è solo un soffio ogni uomo che vive. Sì, è come un’ombra l’uomo che passa. Sì, come un soffio si affanna, accumula e non sa chi raccolga.  Ora, che potrei attendere, Signore? È in te la mia speranza (Sal 38,6-8).
Oppure si conosce nel tentativo presuntuoso di fare affidamento a stessi, vivendo come se Dio non esistesse: Ho detto, nella mia sicurezza: «Mai potrò vacillare!». Nella tua bontà, o Signore, mi avevi posto sul mio monte sicuro; il tuo volto hai nascosto e lo spavento mi ha preso (Sal 29,7-8). Conosciuto il turbamento dell'assenza di Dio, l'orante ha deciso di cambiare rotta e di cercare di nuovo la comunione con il suo Signore.
Può accadere che il fedele, anziché sentirsi in una posizione invidiabile, ritenga di condurre un'esistenza immiserita e provi invidia per chi gode del mondo senza darsi alcun pensiero del Signore. In seguito, ragionando meglio, riconosce di aver ragionato con stoltezza. Ecco qual'era stata la sua tentazione: Per poco non inciampavo, quasi vacillavano i miei passi, perché ho invidiato i prepotenti, vedendo il successo dei malvagi. Invano dunque ho conservato puro il mio cuore, e ho lavato nell’innocenza le mie mani! Quando era amareggiato il mio cuore e i miei reni trafitti dal dolore, io ero insensato e non capivo, stavo davanti a te come una bestia. Non aveva ancora capito che non c'è nulla che valga quanto la comunione con Dio.
I salmisti precedenti avevano riferito dei beni di cui è possibile usufruire vivendo in amicizia con il Signore ma questo fedele, che si era confuso e traviato, ora riconosce, meglio di tutti gli altri, che l'amare Dio per se stesso è già un grande bene, una piena ricompensa: Chi avrò per me nel cielo? Con te non desidero nulla sulla terra. Per me, il mio bene è stare vicino a Dio (Sal 72,2-3; 13-28). Il suo bene consiste, quindi, nel vivere con il Signore ed è certo che nessuna fortuna è maggiore di questa.
Nel salterio troviamo un’espressione di adesione a Dio ancora più audace: a Te si stringe l’anima mia (dbq) (Sal 63,9). Il verbo significa: seguire da vicino, incollarsi, innamorarsi (Schökel 166-167). Quale a questi significati avrà pensato l’autore? I traduttori greci della LXX hanno usato il verbo kollaô (ekollêthê) pensando ad un tipo d’unione molto stretta. S. Paolo, a sua volta, usa lo stesso verbo per parlare della comunione del fedele con Dio: Chi si unisce (kollômenos) al Signore forma con lui un solo spirito (1 Cor 6,17). I mistici cristiani di lingua greca, appoggiandosi sul Salmo e su Paolo, si serviranno dello stesso termine per parlare dell’esperienza di comunione con Dio. «L’amore perfetto appartiene a quelli che sono già purificati, nel quale non c’è ombra di timore, ma l’ardore incessante e l’adesione (kollêsis) dell’anima a Dio grazie all’operazione dello Spirito Santo, come sta scritto: Ha aderito l’anima mia a te» (Diadoco di Foticea, Cento Capitoli,16 PG 65,1172 D. Cf. Gregorio di Nissa, De Instituto christiano PG 46,305 A).
Il salmista ha scoperto che il vivere in una comunione con Dio, così stretta, ha un enorme valore anche se il fedele non godesse di altri beni di cui si vantano i malvagi. L’amore maturo richiede gratuità. Questo modo di pensare apparirà anche nella spiritualità cristiana, come viene attestato da Giuliano Pomerio: «Dio, di cui non c'è nulla di più grande né di migliore da amare, è amato perfettamente [quando viene amato] per se stesso. Ma se è amato solo per le cose che dona, non è certo amato gratuitamente, che ciò per cui è amato viene anteposto a Lui: cosa delittuosa (anche solo) a dirsi. Egli stesso è, infatti, la beatitudine per coloro che lo amano, e la salvezza eterna, e il regno, e la gioia senza fine. Questi beni otterranno coloro i quali amano Dio, poiché da solo sarà per essi tutto, quando Egli stesso sarà diventato tutto in tutti» (De vita contemplativa, III,25 PL 59, 508 A).
Il ritorno a Dio può essere però insincero, ambiguo. Talora appare evidente che il popolo si stabilisce in Dio e nella sua alleanza, dopo diversi ripensamenti e ripetute conversioni: Quando li uccideva, lo cercavano e tornavano a rivolgersi a lui, ricordavano che Dio è la loro roccia e Dio, l’Altissimo, il loro redentore; lo lusingavano con la loro bocca, ma gli mentivano con la lingua: il loro cuore non era costante verso di lui e non erano fedeli alla sua alleanza (Sal 77,34-37).
Il risultato positivo finale è dipeso dalla fedeltà di Dio. È il Signore a rendere possibile il nostro orientamento verso di Lui, a sostenerci nel ritorno, ad accoglierci sempre di nuovo dimenticando i nostri traviamenti.
Da questa convinzione nasce la richiesta pressante di essere guidati da lui stesso per poter ritrovare il sentiero che porta fino a lui: Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri; vedi se percorro una via di dolore e guidami per una via di eternità (Sal 138,23-24). Ancora: Tu conosci la mia via: nel sentiero dove cammino mi hanno teso un laccio (Sal 141,4; Cf. Sal 24,4-5).
Torniamo al salmo 15 per cogliere un altro aspetto fondamentale della composizione. Il salmista accetta che Dio sia il suo Signore (‘adon). Ora perché Dio possa interamente essere suo, egli dovrà essere interamente di Dio. Quanto più il Signore sarà nostro padrone, tanto più potrà essere il nostro bene (Cf. Giuliano Pomerio, De Vita Contemplativa, II, 2 PL 59,460 A-B).
Che cosa comporta tutto questo? Ho già detto che egli è certo che Dio sarà la sua porzione di terra promessa (naĥalâth) (vv. 5-6), ma che significa questo in pratica? Lo precisa affermando: Nelle tue mani è la mia vita (v.5). Si farà, quindi, condurre dal Signore ove questi vorrà portarlo. È il sentimento estremamente prezioso (e il più arduo da ottenere) che caratterizza l'uomo spirituale.
Certamente dove Dio vuole condurre il suo fedele, in primo luogo, è la via dell'obbedienza ai suoi comandamenti: gli farà avere mani innocenti e cuore puro (Sal 23,4; cf. Sal 14,2-5). Questa è la condizione per poter salire il monte santo ed entrare nel santuario. Tutto questo è noto ma il salmista pensa a qualcosa di più profondo e di più sottile. Non basta conoscere in generale i comandamenti né proporsi di seguirli in modo generico. È necessario sapere, come per istinto, ciò che dobbiamo fare e come applicarsi nelle molteplici situazioni della vita. Il salmista riconosce allora che il Signore lo consiglia e istruisce il suo animo soprattutto nel corso della notte (v.7). Seguendo queste delicate istruzioni, dettate nell'intimo, tutte le azioni della sua vita mostreranno una vera validità e consistenza (v.8).
In conclusione, chi accoglie Dio, come suo Signore, dovrà disporsi a fare ciò che lui gli chiede. Questo è il nucleo dell'Alleanza per il popolo e per il singolo membro del popolo di Dio. Nel momento della stipula dell’Alleanza, mediata da Mosè, Tutto il popolo rispose insieme e disse: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (Es 19,8). Questa attestazione assume un'esplicitazione più radicale nel Vangelo: Qualsiasi cosa vi dica, fatela ! (Gv 2,5).
L'ultimo aspetto evidenziato dal salmista riguardo alla comunione di Dio è la sua durata nel tempo ed oltre la morte. Il suddito è, infine, riconosciuto come fedele e amico (ĥasîd). Il salmista è certo che Dio (che lo ha ripetutamente cercato e ricondotto a sé) non lo abbandonerà alla morte e che gli farà gustare sazietà di gioie presso il suo volto (v.11). Di nuovo si parla di sazietà. La caratteristica di questo signore è una estrema generosità. É più Lui un fedele del suo servo, di quanto il servo sia un fedele di Lui. Nella rilettura cristiana, in questa promessa, viene preannunciata la risurrezione di Gesù: «Dopo averlo fatto risorgere da morte, il Padre gli ha concesso di godere delle delizie del cielo, alla sua destra» (Herb PL 142,85 B). I godimenti annunciati dal salmista sono, in ultima analisi, la nostra partecipazione alla vita gloriosa del Risorto. Anche l’autore del salmo 72 (colui che aveva invidiato i malvagi e poi s’era ricreduto) aspetta che il Signore gli doni una vita gloriosa dopo la morte. Tuttavia la gioia della comunione con lui viene sperimentata già nel presente: io sono sempre con te: tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai secondo i tuoi disegni e poi mi accoglierai nella gloria (v.24).


LODE

La lode, pur costituendo una parte parziale del salterio, ne esprime la dimensione più ricca e più profonda, al punto che, presso gli ebrei, i salmi vengono denominati non preghiere ma lodi (tehillim).
La lode appartiene all’essenza della fede. Essa predispone all’amore di Dio, il quale ci ha amati per primo, perché noi lo amassimo. Non aveva bisogno del nostro amore, ma noi non potevamo essere ciò per cui ci aveva creati, se non amandolo. Il nostro amore per Dio, poi, non poteva esserci imposto, ma bisognava semplicemente stimolarlo. Nella lode, il fedele impara ad amare il Signore, col risultato che quanto più amerà Dio, tanto più godrà nel lodarlo.
Sia benedetto il nome del Signore, da ora e per sempre. Dal sorgere del sole al suo tramonto sia lodato il nome del Signore (Sal 112,2-3). «Solo a Dio si addice essere glorificato sempre e dovunque; si proclami quindi in ogni tempo: Sia benedetto il nome del Signore; e in ogni luogo si ripeta: dall'oriente all'occidente lodate il nome del Signore» (Agt 112,1 PL 37,1471). «Parole simili sgorgano da un affetto immenso, da un grande amore e da un intenso desiderio! Quanto più si ama Dio, tanto più si gode nel lodarlo» (Sign PL 164,1134 C). Nell’amare Dio non vi può essere alcun limite: «Davide promette che amerà Dio, non tanto perché si sia reso conto di non aver ancora raggiunto il massimo dell’amore, ma perché non accetta che vi possa essere un limite a questo sentimento, un limite di saturazione» (Tdt PG 80,973 A). Se non c’è alcun limite all’amore, non c’è alcun limite alla lode ma e perciò essa rimane per sempre (Sal 110,10).
La celebrazione, come invade spazio e tempo, coinvolge anche tutta la persona dell'orante. Si loda con tutto il cuore (Sal 110,1); con tutto quanto è in noi; finché si è vivi (Sal 146,2) e in ogni circostanza, lieta e triste (Sal 33,2). Questo atto di culto vale quanto un sacrificio, anzi di più: loderò il mio Dio con un canto, che per il Signore è meglio di un toro, di un torello con corna e zoccoli (Sal 68,31-32).
Si loda Dio per le sue opere nella creazione (Sal 103) e per quelle profuse nel corso della storia (Sal 135), sapendo che è impossibile ringraziarlo in modo adeguato (Sal 39,6): se voglio proclamare i tuoi prodigi, sono troppi per essere contati (Sal 39,6).
Le opere e le azioni stesse di Dio lo celebrano perché mostrano, rendono visibili le sue qualità che, altrimenti, rimarrebbero invisibili (Sal 148 e 18). L’opera più grande, l’uomo, non soltanto gode della possibilità di celebrare il Signore ma può diventare lui stesso uno strumento musicale di lode; il suo respiro (da cui trae le parole di encomio) lo rende simile ad un flauto vivente, insieme a tutti gli altri esseri dotati di soffio vitale: ogni vivente, ciò che respira, dia lode al Signore (Sal 150,6).
Dio viene celebrato per il suo regnare, l’atto con cui esercita una particolare tenerezza nei confronti delle sue creature, soprattutto verso quelle più umili, fragili ed esposte alla opressione (Sal 144).
Dalla glorificazione di Dio a motivo delle su opere, si passa a cebrare il Signore per se stesso e per i suoi molteplici attributi. Il più significativo è quello della fedeltà, dovuta alla sua misericordia. Alcune qualificazioni sembrano voler riassumerle tutte in un unico concetto: grande, santo, terribile: Grande è il Signore in Sion, eccelso sopra tutti i popoli.  Lodino il tuo nome grande e terribile. Egli è Santo (Sal 98,2-3).
Nel lodare Dio, riaffiorano alcune esperienze che ho già rilevato parlando dell’atto di fede. La lode è bella perché è gradevole e infonde gioia (Sal 93,1). Anzi, è proprio nella lode che il fedele scopre di nutrirsi di Dio e di saziarsi: Come saziato dai cibi migliori, con labbra gioiose ti loderà la mia bocca (Sal 62,4-6).
Essa è un atto gratuito; nel lodare il fedele dimentica se stesso e si trasfonde in Dio, ma proprio l'atto più gratuito, diventa anche il più vantaggioso. Nel lodare il cuore si riscalda e si dilata, come avviene ad un pezzo di ferro a contatto con il fuoco. Nel dilatarsi accoglie Dio e questi lo allarga in ogni dimensione perché possa ricevere immensamente di più. «L’uomo interiore non soltanto può sfamarsi, ma anche godere di delizie. Nessuno, però, può godere di delizie sia nella carne sia nello spirito. Il Signore è verità, è sapienza, è giustizia, è santificazione; se avrai in abbondanza queste qualità, allora troverai la gioia nel Signore, in modo totale e completo» (Or PG 12,1326 C).
Nel salterio lodare è sinonimo di salmeggiare, benedire, cantare, glorificare. Alla voce si accompagna il suono di strumenti musicali (cetre, arpe, trombe, cembali) che prorompe, talora, in un grido d’acclamazione (rw‛). Questo grido è stato tradotto in latino col termine jubilum ed esso ha ispirato una profonda riflessione di Agostino: «Chi giubila non pronunzia parole ma emette dei suoni indicanti letizia, senza parole. Il giubilo è la voce di un cuore inondato dalla gioia, d'un cuore che, per quanto gli riesce, vuol manifestare i suoi sentimenti, pur senza comprenderne il significato. L'uomo che in preda alla gioia si mette ad esultare, da parole che non si riesce né a dire né a comprendere passa a delle grida di esultanza ove non ci sono più parole. Dai suoni che emette si vede benissimo che egli è contento ma anche che, sopraffatto dalla gioia, non riesce a dire a parole ciò che lo fa godere. Quand'è dunque che noi giubiliamo? Quando lodiamo ciò che è ineffabile» (Agt 99,4.5 PL 37,1272).


Ricerca

Dio, pur essendo fedeltà assoluta, talora sembra allontanarsi dal fedele, dimenticarlo, perfino abbandonarlo, lasciando sorgere in lui sconcerto e turbamento. Questo accade al singolo credente ma anche alla comunità. Spesso troviamo allora invocazioni come questa da parte di un singolo: Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi (ŝkĥ)? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? (Sal 12,2); oppure da parte del popolo: Non abbandonare ai rapaci la vita della tua tortora, non dimenticare (ŝkĥ) per sempre la vita dei tuoi poveri (Sal 74,19). Vediamo alcuni casi.
1. L’autore del salmo 26 è minacciato da falsi testimoni che soffiano violenza (v.12). In quel tempo, la dichiarazione di testimoni in una controversia giudiziaria era decisiva, dal momento che non c’erano molti altri modi per appurare la verità.
Prima di tutto, egli cerca, allora, di calmare la sua angoscia consolidando la sua fede in Dio: Se contro di me si accampa un esercito il mio cuore non teme; se contro di me si scatena una guerra, anche allora ho fiducia (v.3). Immagina poi di trovare rifugio nel tempio e di riuscire a rasserenarsi in Dio che lo nasconda nel segreto della sua tenda (v.5). Nel suo cuore, infatti, ha avvertito l’invito a cercare il Signore. È stato Dio stesso a infondergli questo stimolo. Può allora prorompere nella supplica: non abbandonarmi (zbh), Dio della mia salvezza (v.9). Temeva infatti di essere stato respinto e rigettato ma ora si è di nuovo persuaso che Dio lo ami più ancora dei genitori (v.10). Forte di questa ceretezza incita se stesso a sperare (vv. 13-14). Il salmo non percorre l’arco dall’angoscia iniziale fino al dono ricevuto, ma descrive il movimento interiore dal turbamento iniziale  fino all’ottenimento di un certa pacificazione. La preghiera ha consolidato la sua fede, ha operato un cambiamento in lui, infondendogli nuove ceretezze o rianimando quelle che già aveva. In questa composizione l’abbandono da parte di Dio è soltanto temuto e l’orante può ancora scongiurare un evento simile.
2. Un orante (salmo 42) si paragona ad una cerva che, assetata per la calura, si reca là dove è solita trovare acqua ma scopre che il torrente, ora, non è altro che un arido greto (v.2). Nella terra d’Israele la sparizione di un corso d’acqua per la siccità, non era un fenomeno raro. L’immagine è usata in altri contesti. Il profeta Germia rimprovera il Signore di essere diventato per lui un torrente che si è disperso: Perché il mio dolore è senza fine e la mia piaga incurabile non vuole guarire? Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti (Ger 15,18).
L’orante si paragona alla cerva assetata perché non ha più la possibilità di recarsi a celebrare il culto nel tempio, dove veniva dissetato dal Signore. Proprio lui che, animato da particolare fervore, era solito precedere il gruppo di pellegrini (v.5), ora si è chiuso in se stesso e nel ricordo nostalgico. Alcuni suoi conoscenti che non condividono per nulla il suo interesse religioso, lo deridono in continuazione insinuando che, affidandosi a Dio, si era appoggiato sul nulla (proprio la critica che i fedeli in JHWH rivolgevano ai cultori delle divinità; v. 4). Si paragona, allora, ad un masso posto sotto una cascata, percosso dall’insistente seguirsi delle ondate (v.8). La sua anima è colma di tristezza e si domanda perché il Signore lo abbia dimenticatov. 10). Gradualmente, però, si riprende. Pregando, acquista coraggio e speranza; anziché chiudersi nel passato ormai perduto, si apre alla speranza del futuro (Sal 43,4). Dio manderà due scorte ad accompagnarlo: la sua Luce e la sua Fedeltà. La soluzione non appare ancora prossima ma viene avvertita come certa in quanto garantita dalla fedeltà di Dio. Potrà infine riprendere a celebrare il culto nel tempio. Anche in questo caso la preghiera opera un passaggio dalla tristezza alla speranza.
3. Come abbiamo visto, il salmista si era sentito trascurato da Dio. Nella composizione successiva (Salmo 43), la vicenda personale assume un carattere collettivo ed è il popolo intero, che ha subito una clamorosa sconfitta, a sentirsi dimenticato da Dio. Gli accenti di sgomento ora si fanno più acuti. Israele si sentiva certo di poter sconfiggere i nemici, come era accaduto altre volte, poiché Dio avrebbe riconosciuto e premiato la sua devozione. È avvenuto, invece, il contrario: Ci hai fatto fuggire di fronte agli avversari e quelli che ci odiano ci hanno depredato. Ci hai consegnati come pecore da macello, ci hai dispersi in mezzo alle genti (Sal 43,11-12). Di solito sono gli uomini ad abbandonare Dio e a dimenticarlo, invece, in questo frangente, sembra che sia il Signore ad abbandonare la sua gente, agendo in modo inspiegabile: perché nascondi il tuo volto, dimentichi (ŝkĥ) la nostra miseria e oppressione? (v. 25).
Il salmista non azzarda nessuna spiegazione circa il silenzio o inerzia di Dio e non afferma neppure che la soluzione sia prossima a venire. La sua ultima parola è un’esortazione a Dio a scuotersi, a ridestarsi. La preghiera lo rende capace di sperare e di continuare a mantenere viva la relazione con un Dio che gli appare incomprensibile. L’orante è autorizzato a interrogare il Signore; perfino, a lamentarsi con Lui, ma poi apprende a restare nell’attesa, lasciando a Lui i tempi e i modi d’intervenire. La preghiera è pedagogia della fede: insegna come essere credenti.
4. Nel salmo 21, il fedele è animato da un sentimento analogo a quello dei salmisti precedenti. Pur vivendo una relazione con Dio molto profonda, di lunga durata (dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio v.11), ora si sente abbandonato da lui (zbh), non soltanto dimenticato. Il Signore non risponde più alle sue invocazioni. Ciò nonostante, sebbene sia circondato da persone che lo detestano e deridono la sua religiosità, non perde la fiducia in Dio ma continua ad invocarlo (v. 20). A sorpresa, l’orante, che era in preda all’angoscia, d’improvviso innalza un’espressione viva di lode. La situazione è davvero cambiata o vuole anticipare, ringraziando anzi tempo, la soluzione che considera certa? È animato dalla profonda sicurezza che il Signore non soltanto non disprezza la supplica del povero ma che si prende cura di lui.
Dio non spiega il senso del suo agire ma invita il fedele a dialogare e ad attenderlo con fiducia. Se non ricorre a lui, l’uomo viene soffocato dalle sue angoscie e dai travagli dell’esistenza. Da qui l’invito: Affida al Signore il tuo peso ed egli ti sosterrà (Sal 54,23); Confida in lui, o popolo, in ogni tempo; davanti a lui aprite il vostro cuore: nostro rifugio è Dio (Sal 61,9). Nel mio intimo, fra molte preoccupazioni, il tuo conforto mi ha allietato (Sal 93,19). A creare turbamento più che il dolore in se stesso, è il dolore avvertito come realtà priva di senso. Il salmista non sa né può dare senso alla sua sofferenza, ma sa che essa ne ha certamente per Dio. Pregare Dio nell’angoscia è ristorarsi al significato che Dio attribuisce ad ogni fatto della vita e della storia.
Nella rilettura cristiana, la situazione angosciosa dei salmisti, prefigura quella che vivrà Gesù nel corso della passione. «Cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte”» (Mt 26,37-38). Già il salmista aveva parlato di tristezza: in me si rattrista l’anima mia (v.7); perché ti rattristi anima mia e ti agiti in me? (v.12). In croce si rivolse a Dio chiedemdogli: perché mi hai abbandonato? (Mt 27,46). Anche Gesù trovò sostegno nella preghiera ma la soluzione non venne nell’immediato. Dio lo ascoltò, fu vicino a lui nella forma della tenebra e non rimase lontano (indifferente, come si credeva) ma lo esaudì a suo tempo e nella modalità prevista. Intanto Gesù non pretese di essere salvaguardato e imparò l’obbedienza. L’abate Gero di Reichsberg immagina che Gesù abbia detto a Dio: «Padre, mi hai messo alla prova nel fuoco della passione, nel corso della quale il coccio della mia carne è stato incrinato ma non si è frantumato, come capita a quelli che vengono meno nella fede, quando sono colpiti dalle sventure. Nel fuoco della passione, rimasi così fermo, al punto da risplendere. Il coccio della mia carne si trasformò in oro» (Gero PL 197, 915 C-D). San Paolo, riprendendo il salmo 43, individua se stesso tra le pecore destinate al macello. È convinto che Dio non debba necessariamente liberarlo dai travagli ma, passando attraverso di essi, sa che diventarà puro amore, come lo fu Gesù.
Il salmo 87, invece, sembra svilupparsi per intero senza alcun accento di speranza. Il salmista dà molto spazio alla lamentazione: sono sazio di sventure, la mia vita è sull’orlo degli inferi (v.4). Si ritiene punito in modo ingiusto (v.8). La situazione di dolore dura da molto tempo, anzi tutta la sua vita è stata segnata dalla sofferenza (v.16). Gli amici lo hanno abbandonato e disprezzato (vv. 9 e 19). La sua compagnia è costituita ormai soltanto dalla tenebra nella quale è immerso.
La sua condizione di morto vivente sembra testimoniare a sfavore della bontà di Dio. Il Signore è una roccia per il fedele ma la presenza del male è una roccia per l’ateo, è un argomento forte per contrastare la convinzione che esista una provvidenza divina. Se nella composizione non compare alcun accenno diretto alla speranza, l’invocazione incessante dell’orante presuppone che egli continui a confidare in Dio. Forse il messaggio del salmo sta tutto nel fornire un esempio di fedeltà e di speranza contro ogni speranza. Il salmo è la preghiera di chi non può ottenere nessun risarcimento in questa vita. Ci ricorda che la storia in sé non ha un significato compiuto senza un risarcimento che può venire soltanto da Dio.
Il vivere in una tenebra senza alcuna prospettiva, è sperimentata anche a livello comunitario. Il salmo successivo (88) è stato composto in uno dei momenti più drammatici della storia del popolo di Dio: il tempio è stato distrutto, parte della popolazione è stata trascinata in esilio e la dinastia regale di David sembra sul punto di sparire, nonostante l’assicurazione profetica che garantiva la sua perennità. La composizione termina con un secco rimprovero: dov’è, Signore, il tuo amore di un tempo, che per la tua fedeltà hai giurato a Davide? (v. 50). Che la fedeltà di Dio e la veridicità della sua promessa possano essere smentite è il trauma più sconcertante che possa colpire il credente israelita.
Per i Padri questi salmi della tenebra, preannunciano la vicenda di Gesù, messia discendente di Davide. Che abbia sofferto e che sia stato perfino eliminato, tutto ciò non ha infranto il disegno di Dio, anzi l’amore dimostrato nella sua passione è stata la causa della sua glorificazione e della salvezza di tutti. Il tempo di Dio è più vasto di quello degli uomini. Il cristiano, poi, partecipa al pianto di Cristo sugli uomini e si libera dall’indifferenza verso la presenza del male: «Cristo piangeva sempre le miserie degli uomini; piangeva sulla rovina di quelli che non l’accoglievano. Ha pianto su Gerusalemme (cf. Lc 19,41) e sulla triste sorte di coloro che si perdono, perché era amico degli uomini e Figlio del Padre, pieno di bontà» (Eus PG 23,1061 A).
Questi salmi dell’(apparente) abbandono sono quelli più adatti ad esercitare il credente alla speranza, non perché forniscano nuove informazioni o motivazioni più plausibili all’agire di Dio, ma perché permettono a chi dialoga con lui di essere potentemente corroborati da lui. Invitano a vivere l’esperienza della vicinanza di Dio proprio là dove potrebbe apparire il contrario. In questo caso è l’esperienza dell’essere corroborati da un’infusione di luce a valere, non le speculazioni teoriche, neppure quelle più devote, che tentano di giustificare l’agire di Dio. Dio giustifica se stesso in noi nel dialogo con Lui. A quest’esito allude Paolo, scrivendo ai Filippesi: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù» (Fil 4,6-7).
(segue)