venerdì 8 dicembre 2023

Omelia ai catecumeni

 2. Oggi c'è gioia in cielo ed in terra. Se per un solo peccatore che si converte c'è tale esultanza, per una folla cosi grande che tutta unita disprezza le insidie del diavolo e si affretta ad arruolarsi nel gregge di Cristo quanta maggiore gioia c'è fra gli angeli, gli arcangeli; fra tutte le potenze celesti e quelle terrestri!

3. Come ad una sposa che sta per essere introdotta nella sacra stanza nuziale parliamo anche a voi, mostrandovi la ricchezza sovrabbondante dello sposo e l'ineffabile bontà che rivela per lei, e ad essa indichiamo da quali mali è stata liberata e quali beni sta per gustare. E, se credete, sveliamo le sue caratteristiche e vediamo in quali condizioni e in quale disposizione si trovi quando lo sposo le si accosta.

In questo modo soprattutto apparirà l'infinita bontà del comune Signore di tutte le cose. Egli l'accolse non innamorato né della sua grazia né della sua bellezza né della freschezza del suo corpo, ma anzi, la introdusse nella camera nuziale deforme, brutta, turpe, completamente sporca e per cosi dire rotolandosi nello stesso sudiciume dei peccati. 

6. Il buon Signore, avendola vista in tale condizione e, per così dire, trascinata nell'abisso del male, nuda e deforme, non avendo considerato né la sua bruttezza né l'eccesso della sua miseria né la grandezza dei mali l’accolse, mostrando la sua sovrabbondante bontà. Ed egli rivela tale disposizione dicendo mediante il Profeta: Ascolta, o figlia, guarda e piega il tuo orecchio, dimenticati del tuo popolo e della casa di tuo padre ed il re bramerà la tua bellezza.

7. Vedi come fin dall'inizio dimostra la propria bontà degnandosi di chiamare figlia colei che si è cosi si è sfrenata e sì è concessa ai demoni impuri; non solo, ma ne le chiede conto degli errori ne esige la riparazione, ma la esorta soltanto e la invita a porgere ascolto e ad accogliere il consiglio e l'ammonizione e l'induce a dimenticare ciò che ha commesso.

8. Vedi l'ineffabile bontà? Vedi l'eccesso della sollecitudine? 

Osserva dunque attentamente come, dal momento che qui tutto è spirituale, le cose si svolgano all'opposto delle realtà sensibili. Infatti per le nozze sensibili nessuno mai accetterebbe di essere condotto ad una donna senza prima essersi accertato della sua bellezza e della freschezza del suo corpo, e non solo di ciò, ma prima ancora, dell'abbondanza delle sue ricchezze.

15. Qui invece nulla di simile. Per quale motivo? Perché ciò che si compie è spirituale ed il nostro sposo, spinto dalla bontà, accorre a salvezza delle nostre anime. Ed anche se qualcuno è deforme e brutto a vedersi, anche se versa nell'estrema povertà, anche se è di oscura condizione, anche se è schiavo, anche se è emarginato, anche se ha una tara nel corpo, anche se regge pesi di peccati, egli non sottilizza né indaga né chiede conto. Si tratta di dono, di generosità, di grazia sovrana ed una sola cosa egli ci richiede, la dimenticanza del passato e la buona disposizione per il futuro.

16. Vedi l'eccesso della grazia? Vedi a quale Sposo si uniscono quelli che rispondono alla chiamata? (Giovanni Crisostomo, Catechesi Battesimali, V)

mercoledì 6 dicembre 2023

Ambrogio e Teodosio

 Le parole con le quali Sant'Ambrogio respinse dalla Chiesa l'imperatore Teodosio che aveva perpretato la strage di Tessalonica

Forse la potenza dell'impero non ti permette di aver coscienza del tuo peccato e il potere acceca il ragionamento. Tuttavia bisogna conoscere la natura, la fragilità e la labilità, la polvere del progenitore da cui siamo nati e nella quale ci dissolviamo, e chi è sedotto dalla bellezza delle vesti di porpora non deve ignorare la debolezza del corpo che ne è avvolto. Tu, o Imperatore, regni su uomini della tua stessa natura e perciò anche su compagni di servitù. Uno solo, infatti, è Signore il re di tutti: il Creatore dell'universo. Con quali occhi, dunque guarderai il tempio del comune Signore? Con quali piedi calcherai quel Santo suolo? Come tenderai le mani che ora stillano il sangue dell'ingiusta strage? Come accoglierai il Santissimo Corpo del Signore in sifatte mani? Come accosterai il suo prezioso sangue alla tua bocca tu che, a causa dell'ira, stoltamente hai versato tanto sangue? Vattene, dunque, e non tentare di accrescere la prima follia con una seconda!

Dalla Storia ecclesiastica di Teoreto di Cirro V,18


martedì 5 dicembre 2023

Silenzio (beato Andrea)

 1. Il silenzio (non conversare – restare con se stessi) non è un fine ma un mezzo in vista del traguardo, che è la comunione. 

2. Dio parla, si comunica per donare stesso e si rivela nel volto umano di Gesù.

 La sua rivelazione è esperienza che oltrepassa il linguaggio, perché suscita stupore, gioia ma anche sorpresa, necessità di comprendere meglio

3. Il Signore parla mediante le parole dei suoi profeti contenute nella Sacra Scrittura. 

L’attenzione alle sue parole richiede silenzio, lunga frequentazione; provoca gioia, stupore ma anche sorpresa. 

4. Silenzio non è soltanto privazione di parole ma pacificazione del cuore (si può stare zitti ed essere in subbuglio). Le passioni vivono in noi anche quando taciamo. 

5. Il silenzio è esame di se stessi, in vista di una migliore relazione. 

6. Silenzio è accogliere il disegno misterioso del Signore


lunedì 4 dicembre 2023

Lettera ai Filippesi 1

 La lettera inviata dall’apostolo Paolo ai Filippesi, è uno scritto molto appropriato per individuare il nucleo più profondo della vita cristiana: ricorda la comunione stretta tra il battezzato con Cristo Risorto; suggerisce l’imitazione dei suoi sentimenti; sollecita la formazione d’una comunità unanime e solidale che riproduce in se stessa l’amore manifestato dal Signore Gesù, nella sua vita terrena ma soprattutto nella sua Pasqua. 

Paolo l’ha dettata mentre si trovava in carcere; con ogni probabilità, ad Efeso. Il testo presuppone che la prigionia non fosse molto rigorosa e che egli potesse mantenere dei contatti con amici e discepoli. Prevale, quindi, l’opinione, tra gli studiosi, che in quel momento si trovasse ad Efeso, sebbene una prigionia in questa città non sia attestata in modo diretto. Le altre città dove la carcerazione dell’apostolo è documentata in modo esplicito, cioè Gerusalemme o Roma, sono troppo distanti per poter assicurare un contatto frequente di Paolo con i cristiani di Filippi. 

Risulta in modo palese, dall’esame della lettera, che l’apostolo, dopo alcune convocazioni processuali, viva in attesa di una sentenza definitiva, che potrebbe concludersi in una condanna a morte. Tuttavia egli ritiene molto probabile un’assoluzione, fino ad esserne quasi certo, e quindi spera di rivedere i discepoli di Filippi. 

Lo scopo principale della sua missiva è quello di richiamare lo stile di vita più consono al cristiano. È necessario che si costituisca una comunità unanime e solidale; essa diviene tale se tutti i suoi componenti si propongono di imitare l’umiltà e la spogliazione di sé già vissuta da Gesù. Alcuni si sono mostrati capaci di accogliere il suo insegnamento e di collaborare con lui (Timoteo, Epafrodito, Clemente) ma altri si sono lasciati catturare da sentimenti meno nobili e lasciano trasparire una certa rivalità nei suoi confronti. Non sembra che la comunità sia stata scompaginata dalla predicazione di giudeo-cristiani radicali, nemici dell’apostolo ma egli la previene circa questo rischio. Due collaboratrici molto attive, Evodìa e Sintìche, hanno bisogno di rinsaldare la loro comunione. Paolo mostra un forte sentimento di riconoscenza ed amicizia nei confronti dei Filippesi con i quali ha stabilito un legame molto solido. 

Al centro viene ricollocata la figura di Gesù che, per aver spogliato se stesso e per dato tutto se stesso agli altri, è stato glorificato da Dio Padre e costituito da Lui Signore universale. 

La differenza tra un commentario scientifico ed una lectio divina consiste soprattutto nel fatto che quest’ultima mira a risvegliare sentimenti di fede e d’amore per il Signore. Non è, tuttavia, una lettura semplicemtente devozionale o sentimentale. Presuppone i dati della ricerca scientifica; li tiene presenti ma non li espone; li richiama nella misura in cui servono al suo scopo, ma non sono l’oggetto primario del suo svolgimento. 

La lectio richiama piuttosto il senso di stupore verso la rivelazione divina e la pratica di vita. Cura parola per parola; trattiene ogni parola sulla lingua per assaporarne il gusto, come avviene nell’assaggio. Cerca di gustare sempre meglio cercando un raccordo con altri passi paralleli. Si perde nell’ammirazione per l’inesauribile ricchezza della Parola. Passa alla preghiera di ringraziamento per l’ispirazione ricevuta e per consolidare i propositi di conversione, la quale procede dal peggio al meglio, ma anche dal bene ad un bene ancora più vasto. 


Capitolo 1

Saluto ed augurio

1Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti i santi in Cristo Gesù che sono a Filippi, con i vescovi e i diaconi: 2grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.


 Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù. Paolo si presenta assieme al suo collaboratore Timoteo, del quale ha molta stima perché ritiene che sia d’animo uguale a lui (isopsychos) (3,20), dal momento che si dedica con grande forza all’annuncio del Vangelo. 

Si definiscono servi di Gesù, il Cristo (Messia). Servo equivale a schiavo e la caratteristica di questo stato sociale consisteva soprattutto nella totale mancanza di autonomia. Né Dio Padre, né Gesù li hanno, però, schiavizzati. Essi hanno rinunciato, in modo volontario, alla loro libera scelta per mettersi a totale disposizione di Gesù, il quale, a sua volta, scelse questa forma di vita, quella dello schiavo, per amore di Dio e dei fratelli (2,6). La consegna delle loro persone e della loro vita a Gesù, è stata determinata dal fatto che lo hanno riconosciuto come il Messia, l’inviato definitivo di Dio e dal loro grande amore per lui. 

Ogni battezzato dovrebbe porre Cristo al primo posto. Nessuno può pensare di credere in Cristo, se non l’accoglie come suo Signore e non si dispone a compiere il suo volere. Accettando Cristo come Signore, non perdiamo noi stessi e la nostra libertà ma, al contrario, la conquistiamo: «Chi è vinto da Cristo, ha vinto il male; lo ha distrutto col sottomettersi a lui» (Eusebio, Commento ai Salmi, 2, PG 23,101). «Il vero servo di Cristo non è servo di nessun altro, perché altrimenti non sarebbe servo di Cristo, ma servo solo a metà» (G. Crisostomo, CFI, 2,1). 

A tutti i santi in Cristo Gesù che sono a Filippi. 

La comunità è un insieme di santi e viene qualificata come santa. Santità, in questo caso, non significa essere dotati di virtù eroica. La santità allude a ciò che Dio ha fatto per loro; si è preso cura di loro con un’attenzione particolare. Sono la sua piantagione preferita (Cf Is 5,7), il possesso a lui caro. Così invoca Ester: «Non trascurare il tuo possesso che hai redento per te dal paese d’Egitto» (Est 4,17g). «Essi diverrano la mia proprietà particolare. Avrò cura di loro come il padre ha cura del figlio che lo serve» (Ml 3,17).  

Questo si spiega con la dichiarazione successiva: sono possesso di Dio perché essi sono “in Cristo Gesù”; sembra che siano stati “trasferiti in lui”. Che significa questo?

I cristiani non sono soltanto dei discepoli. Non sono soltanto persone persuase della ricchezza del suo insegnamento e ben disposte, quindi, a praticarlo. Sono molto di più: sono divenuti partecipi di Cristo (Cf Eb 3,14), hanno già cominciato ad essere lui stesso e, quindi, possono ripresentare la sua figura. «Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3,27). Vivono una situazione paradossale: sono già Cristo (come il seme contiene la spiga), ma devono diventarlo in modo pieno. Sono un tralcio che, se rimane unito alla vite, può dare frutto. Tralcio e vite sono la stessa pianta. Il dono diventa un compito: il cristiano manifesta il Cristo presente in lui. 

Con i vescovi e i diaconi. 

Prima si è rivolto a tutta la comunità ed ora a quelli che la presiedono o l’amministrano. Di solito si rivolge soltanto a tutta la comunità. È un segno di deferenza e rispetto verso i responsabili: «Vi preghiamo, fratelli, di avere riguardo per quelli che faticano tra voi, che vi fanno da guida nel Signore e vi ammoniscono; trattateli con molto rispetto e amore, a motivo del loro lavoro. Vivete in pace tra voi» (1 Ts 5,12-13). I termini vescovi e diaconi designano ora una funzione comunitaria ancora generica ma in futuro diventeranno ufficiali. 

Il Signore raggiunge tutti con i suoi doni, mettendoli prima nelle mani di collaboratori da lui scelti. È quanto accadde nell’episodio della moltiplicazione dei pani: «li dava ai discepoli e, i discepoli alla folla» (Mt 15,36). La lettera sulla quale stiamo meditando, scritta dall’apostolo mentre si trovava in carcere, è come un pane che egli ha ricevuto dal Signore perché potesse nutrire la piccola folla della comunità di Filippi e la grande folla di tutti i suoi lettori successivi.  

Tuttavia non soltanto i responsabili della comunità hanno qualcosa da offrire a tutti, ma ognuno riceve un dono da mettere a disposizione di tutti: «Ciascuno, secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo» ( 1 Pt 4,10-11). 

Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo (1,2). 

Il saluto si conclude con un augurio. I Filippesi già si salutavano tra loro, da sempre, augurando gli uni agli altri il benessere: Stammi bene! (Chaire!). L’apostolo aggiunge molto di più. Il benessere degli uomini deriva dalla volontà di Dio di beneficare tutti con il suo amore. Questa è la grazia (Charis). «Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). «Non ha cessato di dar prova di sé beneficando, dandovi cibo in abbondanza per la letizia dei vostri cuori» (At 14,17). Paolo invoca una continua effusione dell’amore gratuito e fedele di Dio. Una grazia speciale è stata donata ai Filippesi quando hanno conosciuto e sono stati resi partecipi di Cristo Gesù. Gesù è la Grazia più grande del Padre: «È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini» (Tt 2,11). 

Grazie alla bontà benefica di Dio, riceviamo la pace che è il dono massimo. Tutti i benefici di cui godiamo nel presente anticipano, in modo parziale, la nostra situazione futura, la quale rappresenta il dono di Dio, completo e definitivo. 

Ringraziamento e preghiera

3Rendo grazie al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. 4Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia 5a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. 

Il primo atto dell’apostolo è un ringraziamento (eucharistô). A questo, aggiunge poi una supplica (deêsis). Egli si rivolge al “suo Dio”. Spesso nei Salmi compare questa dizione. Il Dio che si è rivelato a tutto il popolo, che si è manifestato in Gesù, è per tutti e per ciascuno. Non si fa riferimento ad una rivelazione privata che valga al di sopra di quella destinata a tutti ma, donandosi a tutti, si comunica ad ognuno personalmente. Anzi poiché ognuno di noi è amico di Dio, siamo in comunione tra noi. 

La riconoscenza pervade ogni forma di preghiera, fino a costituirne l’essenza: «In ogni cosa, rendete grazie» (1 Ts 5,18). Egli ringrazia sempre, anche quando scrive a comunità che lo fanno soffrire. Prima di tutto, rende grazie e, così facendo, mette in rilievo la positività, rispetto ai motivi di preoccupazione. L’atteggiamento positivo scaturisce dalla considerazione di ciò che Dio ha già donato: «Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza» (1 Cor 1,4-5). Dio vuole che si moltiplichi il rendimento di grazie (2 Cor 9,15). La persona riconoscente mostra di saper confidare in Lui. Nella persona che «confida nella sua grazia», e soltanto in essa, Egli può riversare tutto se stesso. Nel rendimento di grazie, il dono si moltiplica e sovrabbonda (2 Cor 9,7-8). 

Al ringraziamento aggiunge la supplica, che è una richiesta a partire dal bisogno. L’implorazione di Paolo, però, pur nascendo dalla ristrettezza, non è pervasa da tristezza. Al contrario, egli si mostra lieto per il comportamento dei Filippesi e non può pensare a loro senza essere pervaso di gioia. Giustamente è lieto, perché essi sono solidali con lui nel diffondere il Vangelo. Paolo non ringrazia e non supplica per sé ma per il Vangelo.  

L’apostolo prega per tutti loro. Trovandosi assente dalla comunità evangelizzata, prega per essa, e così egli prosegue la sua attività evangelizzatrice. Nella preghiera, la lotta per il Vangelo continua con la stessa intensità profusa nell’azione. L’efficacia dell’evangelizzazione dipende, in primo luogo, dal volere di Dio e dalla preghiera elevata a questo scopo: «Pregate anche per noi, perché Dio ci apra la porta della Parola per annunciare il mistero di Cristo» (Col 4,3; Cf Rm 15,30-31). La supplica è un’arma per mezzo della quale agisce lo Spirito di Dio, contro le potenze che ostacolano la missione (Ef 6,13-17). 

Un suo collaboratore ha appreso bene questo modo di pensare: «Epafra non smette di lottare per voi nelle sue preghiere, perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio» (Col 4,12-13). La supplica (o intercessione) caraterizza l’uomo religioso: «Cornelio era religioso e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava (deomenos) sempre Dio» (At 10,2). Non attende soltanto che Dio intervenga da solo, perché sempre elargisce anche i suoi beni e non confida soltanto in se stesso, perché chiede con insistenza l’intervento di Dio.   

«Ti si insegna che si deve pregare in maniera tutta speciale per il popolo: sta in questo il segno della carità vicendevole. Se, infatti, preghi per te, pregherai soltanto per il tuo interesse. […] Se invece i singoli pregano per tutti, tutti pregano per i singoli e il vantaggio è maggiore» (Ambrogio, Trattato “Caino e Abele”, 1,39, PL 14, 354). 

A motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al presente. È possibile avere parte del dono ricevuto e della sua ricompensa di chi, nella Chiesa, è più grande di noi, se collaboriamo con lui: «Quando lui predica e tu aiuti il predicatore, condividi con lui la corona» (G. Crisostomo, CFI 2,2). 

6Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù.

Dio ha creato l’opera buona, ossia l’adesione di fede e se ne prende cura fino alla sua maturazione, di giorno in giorno, fino alla venuta gloriosa di Cristo. 

L’azione di Dio è molto più stimata rispetto al contributo degli uomini che, pure, è supposto. «Non disconosce il loro merito, ma neppure afferma che fosse soltanto loro, bensì innanzi tutto di Dio» (CFI 2,3). In seguito scriverà: «Dio opera (energôn) in voi il volere e l’operare (energein)» (2,13). È il Signore a operare il nostro operare. «Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto?» (1 Cor 4,7). In un linguaggio più paradossale: «Né chi pianta, né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio che fa crescere» (1 Cor 3,7). 

Dio Padre continuerà ad agire nei credenti fino al compimento futuro: «Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!» (1 Ts 5,23-24). 

L’apostolo è proteso al Giorno di Cristo. I profeti annunciavano ed attendevano il Giorno di Dio. Quest’ora decisiva è diventata il giorno di Cristo. Il Padre rivela, cioè attua, la piena realizzazione del suo progetto salvifico nell’opera che mostrerà in Cristo, «il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3,21). Dio Padre ci ha chiamati «alla sua gloria eterna in Cristo Gesù» (1 Pt 5,10). Cristo Risorto è la sintesi del Giorno di Dio. 

7È giusto, del resto, che io provi questi sentimenti per tutti voi, perché vi porto nel cuore, sia quando sono in prigionia, sia quando difendo e confermo il Vangelo, voi che con me siete tutti partecipi della grazia. 8Infatti Dio mi è testimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell'amore di Cristo Gesù.

Dal momento che sia l’apostolo, sia i cristiani di Filippi, amano il Signore Gesù, sono diventati anche amici tra di loro; il comune interesse, li ha avvicinati. Sentendoli amici, desidererebbe rivederli e stare con loro. Anzi nutre un vivo desiderio di fare questo (epipothô) e sente la loro mancanza. 

Il sentimento d’affetto che intercorre tra amici viene rafforzato dalla partecipazione allo stesso sentimento d’amicizia per gli uomini che Gesù ha manifestato nella sua vita. Le “viscere materne di misericordia” (splancha) mostrate un tempo da Gesù, le avverte ora anche in lui. Dice: “nell’amore di Cristo” (en splanchnois Xristou). «L'amore spirituale è così potente che non viene meno in nessun momento, ma permane sempre nell'anima di chi ama e non permette che alcuna afflizione o dolore possa sopraffare l'anima. Infatti, come nella fornace di Babilonia, dove pur si levava una così grande fiamma, c'era una rugiada per quei beati fanciulli, così anche l'affetto che conquista un'anima amorevole e gradita a Dio, smorza ogni fiamma e produce una meravigliosa rugiada» (CFI 2,3).

Non è la prima volta che l’apostolo nutre questo sentimento nei confronti delle persone con le quali è entrato in contatto nell’evangelizzazione; infatti così aveva scritto ai Tessalonicesi: «Fratelli, per poco tempo privati della vostra presenza di persona ma non con il cuore, speravamo ardentemente, con vivo desiderio, di rivedere il vostro volto. Perciò io, Paolo, più di una volta ho desiderato venire da voi, ma Satana ce lo ha impedito» (1 Ts 2,17-18). Mentre il Risorto suscita la comunione tra gli uomini, Satana vuole impedire che ciò avvenga. 

Paolo è pervaso da forti sentimenti d’affetto che non vuole né nascondere, né trattenere. Egli è stato sempre capace di suscitare forti legami d’amicizia. Scrivendo ai Galati ricorda il loro attaccamento nei suoi confronti: «Vi sareste cavati gli occhi per darli a me» (Gal 4,15). Luca ci fa conoscere la tristezza dei capi della comunità di Efeso per essere venuti a sapere che non l’avrebbero più rivisto: «Tutti scoppiarono in pianto e, gettandosi al collo di Paolo, lo baciavano» (At 20,37). 

9E perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, 10perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, 11ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.

Essere colmi d’amore è una grazia incomparabile e la massima realizzazione. Spera, allora, che i fratelli godano di questo bene. Da sempre prega perché i suoi fedeli diventino persone di carità: «Il Signore vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, come è il nostro amore verso di voi, per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (1 Ts 3,12-13). 

L’amore non è un bene limitato, come un oggetto, ma un dinamismo di crescita e può «abbondare di più e sempre di più». «Misura dell’amore è non fermarsi mai» (CFI 3,1). È un impulso che suggerisce alla mente ciò che la razionalità da sola non è in grado di cogliere. Capisce ciò che è giusto compiere ed avverte il meglio per istinto. Paolo parla di ciò che sarà definita una conoscenza per connaturalità. 

Chi ama, diventa, col tempo, integro ed irreprensibile. I due aggettivi alludono ad un comportamento che, spegnendo nel prossimo ogni sentore negativo, ogni sospetto, ogni diffidenza, fanno avvertire la persona come limpida ed affidabile. 

Ricolmi di frutti… Un albero da frutto produce, in modo spontaneo, tutto il prodotto di cui è capace; se è ben nutrito ed irrigato, diventa fruttifero. Il cristiano è nutrito ed irrigato da Gesù stesso e quindi, può diventare ricolmo di frutti, come è naturale che avvenga per chi ha goduto di tale insigne coltivazione. 


La situazione durante la prigionia

12Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si siano volte piuttosto per il progresso del Vangelo, 13al punto che, in tutto il palazzo del pretorio e dovunque, si sa che io sono prigioniero per Cristo. 14In tal modo la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare senza timore la Parola. 

Paolo prigioniero non fa sapere nulla delle contrarietà che deve affrontare. Non pensa a se stesso, ma al Vangelo. Mentre si trova in carcere, la predicazione non ha subito alcun danno, anzi si è incrementata. Questa constatazione rende lieto l’apostolo a prescindere dalle sue sofferenze personali. 

In che modo il Vangelo si è avvantaggiato? La sua detenzione ha sollevato un certo clamore e tante persone, molte più di prima, hanno sentito parlare di Gesù. Inoltre, alcuni cristiani, incoraggiati dalla forza della sua testimonianza, hanno abbandonato ogni precauzione e parlano a tutti con grande franchezza. 

Il trovarsi in una situazione di debolezza, ha aperto nuove prospettive, al punto che la sventura si tramuta nel suo contrario ed è divenuta un vantaggio. Ancora una volta, egli verifica questo fatto paradossale e tale constatazione diventa un pricipio guida della sua missione: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,10). Sa, quindi, «gloriarsi nelle tribolazioni» (Rm 5,3). Del resto, se il Signore permette una afflizione, con essa, apporta anche il conforto (2 Cor 7,6). 

Paolo è impregnato della logica pasquale; sperimenta nella sua persona la concomitanza di morte e vita. Quando acconsente che la morte (a se stesso) s’impadronisca di lui, allora vede rifiorire la vita negli altri fratelli: «Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita» (2 Cor 4,11-12). Nella tribolazione angosciosa, impara a non confidare in se stesso ma nella sollecitudine della misericordia divina capace di risuscitare perfino i morti (2 Cor 1,9). Il Dio fedele in cui crede, ha la possibilità di chiamare all’esistenza le cose che non esistono e di far risorgere coloro che non sono più in vita (Rm 4,17). La risurrezione è, in primo luogo, un’affermazione riguardante Dio, segnala la nuova e definitiva natura di Dio. 

15Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. 16Questi lo fanno per amore, sapendo che io sono stato incaricato della difesa del Vangelo; 17quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non rette, pensando di accrescere dolore alle mie catene. 

Gli annunciatori del Vangelo sono aumentati di numero, ma non tutti agiscono bene. Alcuni parlano di Cristo animati da buoni sentimenti, per volontà di bene (eudokia), altri, invece, spinti da spirito di contesa: «cercano di fargli concorrenza per accrescere il loro prestigio personale all’interno della comunità» (Bianchini 37). Paolo non li aggredisce, né cerca di difendersi. «Osserva la sapienza di quest’uomo! Non li ha accusati, ma ha solo riferito il fatto» (CFI 3,2). Non si stupisce che nella comunità emergano persone pervase da malignità perché ha appreso, da Gesù e dalla sua stessa esperienza, che il Regno di Dio raccoglie pesci d’ogni genere (Mt 13,47). Non la rinnega allora, né pensa che, fondandone un’altra, questa sarebbe immune da cattive sorprese. 

Il Vangelo di fatto progredisce e questo è ciò che conta. Il suo massimo interesse è lo sviluppo del Regno di Dio, non la conquista d’una posizione di prestigio, alla quale non dà alcuna importanza. Anzi, da sempre si colloca, spontaneamente, all’ultimo posto, che è quello tipico degli apostoli (Cf 1 Cor 4,9). 

Descrive i cattivi sentimenti dei suoi concorrenti: invidia, contesa, interesse personale (egoismo). Il confronto non avviene su questioni teologiche, come è capitato altre volte, ma su diatribe personali. Gli avversari dell’apostolo annunciano la verità senza aver purificato il loro cuore. Il loro sforzo è buono ma incompleto ed insufficiente. 

Nell’annunciare il Regno di Dio, questo deve apparire “qui ed ora”, prima di tutto nell’annunciatore. Agli Efesini scrive: «…agendo secondo la verità nell’amore (alêtheuontes de en agapê)» (4,15). Il regno non è declamazione di una ideologia da realizzare ma una verità che Dio sta attuando: «Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione: ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene» (1 Ts 1,5). Ha cercato sempre di presentare in se stesso un modello da seguire per tutti (2 Ts 3,7-9). 

Gesù, nell’inviare i messaggeri del Regno, dava loro la forza della parola e la capacità di compiere segni che mostravano la verità dell’annuncio (Cf Mt 10,1). 

Si può fare una cosa buona, animati da cattiva intenzione, come può essere la vanagloria. Gesù avverte di fare attenzione a non pregare in pubblico, a fare elemosine o digiunare per farsi ammirare (Mt 6,2.5.16). Compiere opere buone ed essere buoni, sono due aspetti ben distinti. È più facile compiere azioni encomiabili che plasmare se stessi. Gesù mette in guardia dal pericolo di operare per il Vangelo senza abbandonare la malvagità: «“In quel giorno molti mi diranno: «Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l'iniquità!”» (Mt 7,22-23). 

Gesù e Paolo presuppongono che l’opera dei cattivi evangelizzatori possa dare frutto a prescindere dall’intenzione dell’operatore, come se Dio volesse recuperare il positivo d’ogni azione e d’ogni persona. Tuttavia per essere vere persone d’amore, bisogna agire per amore: «Se non avessi la carità, non sarei nulla» (1 Cor 13,2). Solo allora la predicazione ottiene la massima efficacia. 

Alla fine, un fuoco vaglierà la qualità di tutte le nostre opere: «L’opera di ciascuno sarà ben visibile e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno» (1 Cor 3,13). «Il Signore metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori» (1 Cor 4,5). «Non c’è nulla di più esecrabile del diavolo: opprime i suoi seguaci con vane fatiche e li annienta e non solo non permette che essi ne ricevano il premio, ma li rende passibili di castigo» (CFI 3,3). 

G. Crisostomo, tuttavia, salva, in parte, il valore di un’opera buona esercitata per fini ad essa estranei: «Poiché non bastava a tenerci in buon ordine, Dio ha predisposto anche molte altre strade per dissuaderci dal peccare: ad esempio le critiche degli altri, il timore delle leggi costituite, l'amore per il proprio buon nome, la ricerca di amicizie. Tutte queste sono strade per non peccare. Spesso ciò che non è avvenuto per timore di Dio è avvenuto per vergogna. Che ci viene richiesto è anzitutto non peccare: non peccare a motivo di Dio, lo raggiungeremo in seguito» (CFI 5,3). 

18Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene

«Nessuno dei fattori dolorosi di questa vita può angustiare un'anima grande e sapiente (né le inimicizie né le accuse, né le calunnie, né pericoli né le insidie), perché essa, come se si rifugiasse su di un'alta cima, non può essere toccata da nulla di ciò che proviene dal basso, dalla terra. Tale era l'anima di Paolo, che aveva raggiunto il luogo più alto di qualsiasi cima, quello della Sapienza spirituale» (CFI 4,1).


19So infatti che questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all'aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, 20secondo la mia ardente attesa e la speranza che in nulla rimarrò deluso, anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.

Non si preoccupa dell’ostilità di altri evangelizzatori, e non è neppure turbato dall’eventualità di una condanna a morte. La sua costanza nella sopportazione per amore (se rimarrà in vita) o la sua morte (se verrà condannato), l’una e l’altra eventualità, saranno sempre occasione di salvezza. L’ispirazione dello Spirito Santo, ottenuta grazie alla preghiera di tutta la comunità, lo aiuterà a vivere ogni eventualità in spirito di fede. Lo Spirito che si riceve nella preghiera rende capaci di tramutare il negativo in positivo. Questa è stata l’arte di Gesù in primo luogo quando ha trasformato il tradimento (l’essere consegnato) in un atto di consegna volontaria al Padre (Cf 1 Cor 11,23-24).  

In ogni cosa che accadrà, Egli continuerà a glorificare Cristo. Per questo è certo che non dovrà vergognarsi, cioè trovarsi deluso. Continuerà a testimoniarlo da vivo, vivendo nell’amore, oppure lo glorificherà nel martirio. La sua morte contribuirà a difendere e diffondere il Vangelo, secondo il principio: il chicco di grano che muore, produce molto frutto (Gv 12,24). È accaduto a Gesù e accadrà a Lui. Sono una sola realtà. Nella vita e nella morte dell’apostolo torna a risplendere la forza e l’efficacia della Pasqua di Cristo. Egli è un uomo pasquale; la sua figura ed azione sarebbero incomprensibili ignorando la Pasqua di Gesù e quest’ultima mostra la sua potenza nel realizzarsi di nuovo nel credente. 


Vivere è Cristo

21Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. 22Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. 23Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; 24ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. 25Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi per il progresso e la gioia della vostra fede, 26affinché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno fra voi.

Il dissidio che attanaglia l’animo di Paolo è costitutivo per ogni autentica spiritualità cristiana. È presto da due aspirazioni di uguale forza che gli causano una forte tensione (synechomai) perché se segue l’una, perde l’altra. Se sceglie di andarsene da questa vita terrena e trovarsi con Cristo, non potrebbe più essere utile ai fratelli come lo è ora (adopera un’immagine piuttosto elaborata: “sciogliere la fune che tiene la nave legata al molo” [analysai]). Se accetta di “rimanere nella carne”, sopportando tutti i travagli che sta incontrando, compie una scelta “molto più necessaria (anagkaioteron)” e gradita ai sui fratelli, ma perde l’occasione di incontrare Cristo, con il quale si sente una cosa sola. 

Morire ed essere con Cristo per lui, personalmente, sarebbe meglio (kreisson) che continuare a vivere in questo mondo. 

Ma «egli desidera essere risparmiato per continuare la sua missione; crede che ciò avverrà e attende con ansia di rivedere a Filippi i diletti fratelli e sorelle. Punto di riferimento di Paolo è la missione cristiana; egli valuta ogni cosa nella prospettiva del Vangelo e della funzione che è stato chiamato a svolgere» (Boring 359-360). Il suo ritorno nella comunità favorirà una crescita nella fede e una dilatazione della gioia dei suoi fedeli (1,25). Essi si vanteranno in Cristo Gesù: avendo chiesto il ritorno dell’apostolo presso di loro, sperimenteranno che confidare in Cristo non delude mai. 

Considera una scelta volontaria la decisione che verrà presa da altri; si uniforma a ciò che accadrà perché negli avvenimenti scorge il volere dello Spirito di Cristo (Cf At 16,6-7). Non sente di trovarsi in balia di altri, finché si consegna nelle mani del Signore, per compiere il suo mandato. 

Verificando il sentimento così disinteressato dell’apostolo, Giovanni Crisostomo si sofferma a tracciare un suo elogio. 

«Dimmi: quale mercante con la nave piena di infiniti tesori e avendo la possibilità di dirigersi in porto riposarsi, preferirebbe solcare il mare? Come mai, tu che vivi una vita così amara, vuoi rimanere ancora quaggiù? Che animo ha avuto Paolo! Non c'è stato e non ci sarà nulla di uguale. Temi il futuro, sei circondato da infiniti pericoli e non vuoi essere accanto a Cristo? No – risponde – e ciò a motivo di Cristo, perché io possa rendere ancora meglio disposti coloro che ho costituito suoi servi, per far fruttificare il campo che ho seminato. Non hai udito che io non cerco il mio interesse, ma vantaggio del prossimo? Non hai udito che io pregavo di essere anatema separato da Cristo pur di condurre molti a lui? Se ho scelto questa opzione, a maggior ragione non sceglierò forse quell'altra, accettando tanto volentieri di danneggiare me stesso con un ritardo e un rinvio, pur che ci sia per loro la salvezza?» (CFI 5,1). 

L’apostolo è persuaso che, dopo la morte, incontrerà Gesù Cristo (1,23). Il credente che è già unito a Cristo, il quale vive in Lui, neppure nella morte sarà separato da Lui. «Sono sempre con te: tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai secondo i tuoi disegni e poi mi accoglierai nella gloria» (Sal 73,23-24). 

Al momento della venuta gloriosa di Cristo (parusia), il corpo dei battezzati sarà trasfigurato a somiglianza con quello di Gesù. Tuttavia, le anime dei giusti sono, da subito dopo la morte, nelle mani di Dio e nella pace (Sap 3,1.3; la tradizione biblica contiene in germe il concetto d’immortalità dell’anima). L’immortalità personale e il destino immediato del cristiano dopo la morte, non stanno al centro della riflessione di Paolo ma egli pensa, comunque che il cristiano, nell’esulare dal corpo, vada a dimorare presso il Signore (2 Cor 5,8). 

27Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo perché, sia che io venga e vi veda, sia che io rimanga lontano, abbia notizie di voi: che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del Vangelo, 28senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari.

 Qualsiasi cosa gli accadrà, i Filippesi agiranno in conformità al Vangelo. Nel caso in cui la sua prigionia si prolungasse, sarà per lui somma consolazione venir a sapere che essi vivono in perfetta comunione e lottano per la fede. 

La lotta a difesa del Vangelo deve essere condotta nell’unanimità e la comunione di tutti si mostra al suo esterno nell’impegno d’evangelizzazione. L’apostolo non raccomanda l’unità soltanto per una questione tattica, per condurre una lotta più efficace, ma perché se non esistesse una comunità unanime, l’annuncio diventerebbe una semplice ideologia, una delle tante elaborazioni teoriche. 

Combattete unanimi: nella cultura greca esiste una certa contaminazione tra il linguaggio agonistico e quello bellico. Nel messaggio paolino, la comunità non è invitata a sostenere un conflitto violento, ma un confronto audace, composto di coraggio, pazienza, fatica costante, dolcezza.  

Questo per loro è segno di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio. 29Perché, riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, 30sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora.

Il rifiuto violento dal Vangelo manifesta la malvagità dei persecutori, effimera e perdente; al contrario, la fedeltà dei credenti in mezzo al travaglio, rende evidente che la grazia apportatrice di salvezza sta operando in loro. L’essere capaci di soffrire per Cristo non può essere il risultato di un impegno umano, ma di un’opera del Signore. «Il soffrire per Cristo è una grazia, un privilegio e un dono. È un dono più mirabile del risuscitare i morti e del compiere miracoli. In questo caso, infatti, sono io il debitore di Cristo, mentre nel soffrire per lui ho Cristo come debitore» (CFI 5,3). Paolo ha sperimentato che soffrire per Cristo è un dono, non soltanto perché l’amore lo fa sovrabbondare di gioia in mezzo alle tribolazioni, ma perché questo patire con Cristo comunica la vera vita a fratelli. Affermando questa verità d’esperienza, non glorifica la sofferenza, ma la forza segreta della Pasqua del Signore e della sua carità.


venerdì 13 ottobre 2023

Lettera ai Filippesi 2

 Capitolo 2

Umiltà e grandezza di Cristo


1Se dunque c'è qualche consolazione in Cristo, se c'è qualche conforto, frutto della carità, se c'è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. 3Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. 4Ciascuno non cerchi l'interesse proprio, ma anche quello degli altri. 5Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù (2,1-5)

Nella fede (culminante nel battesimo), Cristo viene a dimorare nel credente e da quel momento cerca di espandere in lui il suo modo di vivere. Il versetto cinque riassume l’essenziale della vita cristiana: avere in se stessi “ciò che fu” in Gesù, ossia pensare e vivere come lui. Leggiamo alla lettera: questo pensate [o meglio riportate] in voi, ciò che [fu] anche in Cristo Gesù. Ho tradotto pensare (phroneite) con riportare, perché, in questo caso, pensare corrisponde ad acquisire un modo di essere. In greco, infatti, phroneô non significa soltanto pensare ma anche vivere saggiamente. Phronêma è avere sentimenti elevati, un nobile sentire, un progetto. 

Paolo ricorda l’umanità di Gesù, soprattutto nella sua Pasqua; Egli fu la saggezza fatta carne, fu un nobile sentire, un progetto incomparabile. Il cristiano autentico riporta in sé l’esistenza di Gesù. 

1Se dunque c'è qualche consolazione in Cristo, se c'è qualche conforto, frutto della carità, se c'è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi.

Che cosa significa, in pratica, imitare il Signore Gesù? In senso più generale, chiede con insistenza che i membri della comunità si sostengano e s’incoraggino tra loro. Vuole che vivano nella comunione dello spirito. Questa predisposizione sarebbe assecondare l’opera dello Spirito, che vuole dare esistenza ad una nuova creazione. Se lo stile di fraternità si è realizzasse, ne godrebbe immensamente e vedrebbe realizzarsi il suo compito. L’apostolo è incaricato di diffondere nel mondo la carità vissuta da Gesù. 

Dapprima, parla di consolazione. La consolazione (paraklêsis) avviene quando una persona che ha chiesto aiuto, viene soccorsa. Il paraclito è un aiutante (in un caso specifico un avvocato difensore in tribunale). La comunità è composta di persone che hanno tutte bisogno di aiuto e che, a loro volta, lo prestano agli altri. Nessuno è abbandonato a se stesso e nessuno si gira dall’altra parte se scorge una necessità. Ricordiamo la prestazione amorevole de buon samaritano (e l’indifferenza di altri). 

Dopo la consolazione, parla di conforto (paramythion). In senso letterale, è un parlare a qualcuno standogli accanto. È, in pratica, una parola di incoraggiamento, un discorso di persuasione che infonde calma, lenimento del dolore, sollievo nella preoccupazione, allegerimento del cuore. 

L’elenco delle altre qualità che egli spera di vedere nella comunità, è un rimando a quelle che Gesù mostrò in se stesso. Risaltano con forza sentimenti d’amore (splagchna) e di compassione (oiktirmoi). I due termini richiamano esattamente l’agire, il modo di essere di Gesù. Il primo traduce un concetto veterotestamentario: le viscere di misericordia di Dio.  Annunciate dai profeti sono state mostrate in Gesù.  

Ha messo a fuoco alcune qualità che gli stavano più a cuore ed ora prosegue raccomandando l’essenziale. Costituisce il quadrato della carità: 1. pensate allo stesso modo (to auto phronete) 2. Abbiate la medesima carità 3. Restate unanimi 4. Pensate la medesima cosa (to en phronountes). L’esortazione si apre e si chiude con due riferimenti al pensare saggio ma la saggezza consiste nel vivere nella carità che si manifesta nell’unanimità. Paolo introduce un termine inusitato nella classicità greca: essere unanimi, avere una sola anima (sympsychoi). Luca aveva descritto la comunità primitiva ideale come caratterizzata da un’anima sola (At 4,32). La concordia di per sé è un ideale tipico della vita cristiana, per quanto disatteso.

L’unanimità, infatti, manca alla comunità di Filippi e quindi, Paolo, chiude l’esortazione denunciando i due vizi che la corrodono: la rivalità e la vanagloria. Suggerisce anche il farmaco necessario per riacquistare la salute, ossia l’umiltà. Come agisce la persona umile? Essa attribuisce più importanza al fratello che a se stessa, oppure è più attenta agli interessi degli altri che ai propri. 

Gesù ha agito proprio con questo stile; è stato Colui che ha rinunciato del tutto ai propri interessi, diritti e privilegi pur di venire in soccorso agli uomini. La Chiesa annunciava dall’inizio questa caratteristica di Gesù, la più rilevante in assoluto. Paolo non esige che il credente riproduca alla perfezione il “pensiero” di Gesù ma che, osservando questo modello, riduca la pressione dell’egoismo. Non comanda, infatti, di rinunciare del tutto ai propri interessi, come di per sé ha fatto Gesù, ma di contemperarli con quelli degli altri. 

L’apostolo sposta la sua attenzione su Gesù non per scrivere (o rilanciare) una pagina mirabile di cristologia ma per consolidare un’esistenza davvero cristiana.

6egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, 7ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. 

I primi due versetti ci trasferiscono al mondo celeste. Parlano di ciò che decise Gesù mentre viveva con Dio Padre nell’eternità. «L’esistenza donata dell’uomo Gesù è il prolungamento, o lo specchio, di un ragionare divino» (B. Maggioni, Annunciava loro la Parola, Vita e Pensiero, Milano 2018, p. 141). 

Servire non è stato in primo luogo una scelta di Gesù nella sua vita terrena, ma è la caratteristica tipica della divinità, del modo di essere e di pensare di Dio. Se ci sfugge questo aspetto, non cogliamo la novità assoluta dell’immagine di Dio manifestataci da Gesù. Paolo, riflettendo sullo svuotamento di Gesù, non pensa qui ai suoi gesti umili, come lo stare a mensa con i peccatori o il lavare i piedi ai discepoli. Pone in evidenza la motivazione di fondo che sta alla base di questi gesti: come Dio è capace di rinunciare ai vantaggi della divinità. È un nuovo modo di pensare all’onnipotenza divina. Quando gli uomini vogliono di deificarsi e fare una vita divina, si propongono di accumulare privilegi, di darsi ai piaceri, di sottomettere gli altri ai loro bisogni e desideri. È proprio, invece dell’essere Dio, la volontà di donare tutto stesso, affrontando perfino l’annientamento di sé. «Donarsi all'infinito: ecco la legge della vita intima di Dio» (T. Merton, Nessun uomo è un'isola, Garzanti, Milano 1998, p. 21). 

Ci furono due svolte estreme per Cristo. La prima quando, vivendo in cielo, «da ricco che era si fece povero per noi»; la seconda, quando, vivendo in terra, «indurì il volto» per incamminarsi a Gerusalemme per affrontare quando gli sarebbe accaduto. Il dramma di Cristo comincia nel cielo. Gesù «non ha fatto se non opere mirabili ma l’azione più sorprendente è stata la sua volontaria umiliazione quando ha assunto la nostra carne e ha condiviso le nostre sofferenze» (Bruno di Segni PL 164,836 C). Non bisogna trascurare lo svuotamento dell’incanazione per valorizzare soltanto la croce. La croce ha la sua ultima motivazione nel desiderio di Dio di svuotarsi pur di salvare la sua creazione. 

Paolo attesta che egli è «nato da donna, sotto la Legge». «Qui si sottolinea la condivisione da parte del Figlio della precarietà ed impotenza della nostra condizione» (S. Romanello, Lettera ai Galati, San Paolo, Milano 2014, 66). La Lettera agli Ebrei dichiara: «Non certo degli angeli si prende cura, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Per questo doveva essere reso simile in tutto ai fratelli [...] Per il fatto che egli stesso, messo alla prova, ha sofferto…» (Eb 2, 16.18).

Gesù, da Signore che era, diventa servo, o meglio schiavo. Egli volle assumere la condizione di servo ma per far questo dovette “svuotarsi” di ogni vantaggio e privilegio di cui godeva presso il Padre. Svuotarsi, diventare servo, divenire uomo come noi sono tre modi di dire la stess cosa. 

Paolo interpreta la vita umana come schiavitù. Questo non significa che la ritenga soltanto una valle di lacrime. La schiavitù consiste nel non avere la padronanza di sé e della propria vita. Agli uomini capitano tante cose che non scelgono e che spesso li sgomentano. 

Gesù, per definizione di se stesso, è stato Colui che «non ha voluto fare nulla da se stesso» ma piuttosto a fare sempre ciò che vedeva fare dal Padre (Cf Gv 5,19). In questo è consistito l’esercizione della sua divinità o figliolanza divina. Messo di fronte ad una scelta come lo fu Adamo, l’uomo tipico, Gesù non cercò il proprio vantaggio, diffidando di Dio, ma si abbandonò a Lui. Gesù, perciò, ha voluto accettare anche ciò che di solito è ripugnante per gli uomini. Ha ricevuto il consenso ma ha affrontato per lo più anche il rifiuto. 

Il Padre non lo salvaguardò e Gesù dovette percorrere il curriculum tipico dei profeti e abbracciare il peggio dell’esperienza umana. Il peggio della vita umana è finire nella morte ma Gesù dovette affrontare, in aggiunta, una morte particolamente dura ed infamante. Si abbandò al volere del Padre che sembrava richiedere il suo annientamento e visse una fiducia estrema. Fu un vero uomo religioso. In Gesù l’umanità compie ciò che non era stata in grado di fare e così Egli diventa causa di salvezza eterna. Fu tale da rendere graditi a Dio tutti gli uomini.

9Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, 

Per questo (diò)… Dio Padre esalta il dono totale di sé vissuto da Gesù, capace di accogliere l’estrema umiliazione. Salire fino alla realtà celeste è un movimento molto ambito dagli uomini. Enoch ed Elia sono stati onorati in questo modo (Gen 5,24; 2 R2 2,11). Gli imperatori romani presumevano di elevarsi fino al rango divino e, per questo, imponevano la loro deificazione. Nell’arco di Tito, è raffigurato l’imperatore che viene ghermito da un’aquila e portato in cielo presso le divinità. Salire è facile; difficile è, dalle sublimità celesti, scendere in basso con una decisione volontaria, condividendo la sorte degli umili. Gesù è l’unico, tra i grandi personaggi religiosi, del quale si può annunciare un fatto simile. Perciò è l’unico al quale viene dato il Nome più sublime. L’inno non proclama l’ascesa di Gesù, il quale non sale da se stesso ma viene assunto (anelêmphthê) da Dio (At 1,2) e riceve in dono da Lui il nome più elevato. 

Morte in croce e risurrezione formano una unità perché viene glorificata la totale dedizione di sé. «Per questo il gesto di Dio che risuscita Gesù non è solo un gesto che ha approvato il Crocifìsso, ma un gesto che ne ha rivelato l'identità» (B. Maggioni, Annunciava…, 135). 

La risurrezione non è soltanto un ritorno alla vita ma un’esaltazione; non una glorificazione nomale ma una “supe-esaltazione” (yperypsòsen), l’insediamento nella posizione più elevata, pari a quella di Dio. Gesù è tornato nella condizione di Dio, senza nessun equivoco. Gesù Signore non equivale a Gesù risorto, perché - al di là dell'approvazione di Dio che ha accolto il Crocifisso nella vita eterna, come poteva avvenire nel caso di un qualsiasi martire - Signore indica da un lato una collocazione sul piano del divino, una partecipazione alla gloria di Dio, e dall'altro indica la presenza attiva e autorevole (la signoria, appunto) del Risorto nella comunità. Da Risorto Gesù ci comunica i beni divini e i tesori spirituali, infiniti, che ha accumulato per noi soffrendo.

10perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, 11e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!, a gloria di Dio Padre.

Dio aveva previsto, per mezzo del profeta, che l’adorazione nei suoi confronti sarebbe stata universale: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua» (Is 45,23). Il riconoscimento dell’autorità divina avviene grazie alla potestà di Gesù, che è universale e cosmica (in cielo, in terra, sotto terra) (v.10). Come dire: il Signore Gesù fa in modo che Dio sia tutto in tutti: «Quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15,28). 

L’adorazione di Dio avviene proprio quando si proclama la signoria di Gesù, la quale non distrae dall’adorazione del Padre, ma anzi la conferma (v.11). 

La proclamazione della signoria di Gesù (Gesù è Signore) è la confessione tipica che dà inizio alla fede cristiana. Si attende il suo pieno compimento ma è già attuale. Non dipende dagli uomini ma dal beneplacito del Padre. «(Dio) avendo sottomesso a lui (Cristo) tutte le cose, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso. Al momento presente però non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa. Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti» (Eb 2,8-9).

Tenendo salda la Parola di vita

12Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero presente ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore. 13È Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo il suo disegno d'amore. 

Ha presentato, or ora, l’esempio di Cristo perché, imitando il suo spirito di abnegazione e di obbedienza, i Filippesi vivano in comunione tra loro. La stessa esortazione viene ripresa nella storia della spiritualità cristiana: «Cristo appartiene agli umili, non a coloro che si elevano al di sopra del suo gregge… Il Signore Gesù Cristo, non è venuto con lo strepito di arroganza né di ostentazione, sebbene lo potesse, ma con umiltà. […] Vedete, o diletti, qual è il modello che ci è stato dato: se il Signore è stato così umile (etapeinophronêsen), che cosa dovremo fare noi?» (Clemente, Lettera ai Corinzi, 16,1-2.17). 

Riprende ora un’esortazione simile a quella sviluppata all’inizio del capitolo, prima di parlare di Gesù. I suoi fedeli gli avevano obbedito in tutto, quado era presente in comunità e nei periodi in cui era assente. L’obbedienza fu la caratteristica di Gesù nei rapporti con il Padre e deve essere un contrassegno del credente nei confronti degli evangelizzatori e dei responsabili della comunità. «Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché essi vegliano su di voi e devono renderne conto, affinché lo facciano con gioia e non lamentandosi. Ciò non sarebbe di vantaggio per voi» (Eb 13,17). 

L’ap. parla con una certa apprensione e con dolcezza. In altre circostanze si era mostrato più energico e deciso. Ai Corinti che si erano opposti a lui in maniera tale da compromettere il Vangelo, aveva scritto che egli voleva agire come un combattente, per annientare «i ragionamenti e ogni arroganza che si leva contro la conoscenza di Dio, e sottomettendo ogni intelligenza all'obbedienza di Cristo. Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà perfetta» (2 Cor 10,5-6). Nonostante l’asprezza del linguaggio, Paolo non voleva sottomettere i fedeli alla sua persona (v.8), ma spingerli ad obbedire al Vangelo. 

I Filippesi, infatti, obbediscono a lui se attendono alla loro salvezza con premura. Devono assecondare l’azione di Dio nella loro vita, il quale ha già mostrato loro la sua benevolenza gratuita (eudokia) e continua a manifestarla  suscitando in loro propositi retti ed azioni sante. Il Vangelo è in primo luogo l’apparizione della benevolenza di Dio che si china particolarmente verso i malvagi. 

14Fate tutto senza mormorare e senza esitare, 15per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, 16tenendo salda la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano, né invano aver faticato. 

Dalla storia del popolo d’Israele, Paolo ha appreso che il popolo di Dio può cadere nella diffidenza nei suoi confronti, nella mormorazione (goggysmos), e nell’indugio a compiere quanto è richiesto, nell’esitazione (dialogismos). I due atteggiamenti si confondono tra loro; si tratta in ultima analisi di un affievolirsi della fiducia in Dio. Essa può indurirsi ancora di più divenendo sfiducia e oppozione aperta. Nessun è indenne dal precipitare nel peggio, e infine, nella rovina di sé. 

Non basta evitare il peggio ma è possibile mostrare il meglio. I credenti dovranno manifestare la luminosità, ricevuta per grazia, agli uomini ancora immersi nella tenebra. La santità dei credenti illumina l’oscurità come gli astri illuminano la notte. Essi sanno bene che cosa sia tenebra; era la loro situazione precedente all’ilumonazione, alla quale erano stati sottratti da poco: «Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore» (Ef 5,8-10). Nel salmo, viene detto che gli astri annunciano la gloria di Dio in maniera appariscente ma «senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce» (Sal 19,4). I cristiani sono luminosi perché sono figli di Dio, generati da Lui (v.15). La luminosità si impone da sé. I retti annunciano grazie alle loro opere. 

Ha appena chiesto che essi siano irreprensibili e puri. Il primo termine indica la semplicità, ossia la non mescolanza di elementi contrapposti (amemptoi). «Non professate Gesù Cristo, mentre desiderate il mondo» (Ignazio, Romani 7,1). Il cristiano, più è unificato in sé, più acquista luminosità. Il secondo (akeraioi) indica un’esistenza che non può essere squalificata dagli avversari, come ricorda la lettera di Pietro: «Tenete una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita» (1 Pt 2,12). La persona retta «piace a tutti ed è amata da tutti. Perfino quelli che si trovano sul fronte avversario, vedendo una cosa del genere, temono e hanno riguardo. Anche se la malvagità ostinata non si risolve a imitare il bene presente in colui che è buono, nonostante questo la natura non può non riconoscerlo» (Guglielmo di Sant-Thierry, Natura e valore dell’amore, 51). «L’incoerenza, al contrario, ostacola in modo grave l’accesso alla fede: «I pagani sono pieni di ammirazione quando ascoltano le parole di Dio buone e ammirevoli; ma, poi, accorgendosi che le nostre opere non sono coerenti con le parole che diciamo, allora si volgono alla bestemmia, dicendo che sono favole e inganno» (2 Lettera di Clemente, 13,3). 

Tuttavia il contesto della lettera segnala un prevalere dell’ostilità. Paolo è imprigionato e i cristiani dono malvisti e perseguitati «da una generazione distorta e perversa» (2,15), curva su di sé e lontana dalla verità. Mancando ogni possibilità di dialogo, ed essendo inutile ogni discussione, il cristiano non dimostra ma mostra a tutti una luce meravigliosa che lo ha visitato senza alcun suo merito. Solo in questo modo solleva in alto, rende visibile, la parola che qualifica la vita.

17Ma, anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull'offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. 18Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.

Paolo, benché speri e sia convinto di essere prosciolto d’ogni accusa e di tornare a Filippi, deve prospettare anche l’eventualità d’essere condannato a morte. Nel caso che venisse ucciso, anche questa sventura, a suo parere, diventa un’opportunità. Nell’intento di spiegare perché un atto di violenza possa risultare un beneficio per la fede, si serve d’una immagine attinta dal culto. Il vero sacrificio, l’atto di culto più gradito a Dio, è una vita retta, condotta in obbedienza a Dio. Tutti i fedeli offrono a Dio la loro vita santa. Essa viene definita sacrificio (thysia) e offerta della fede (leitourgia tês pisteos). 

Nel culto d’Israele, il sangue rappresentava la vita stessa della vittima sacrificata, era il dono più prezioso (Cf Dt 12,23). Continuando il ragionamento su questo modo di pensare il culto, il sangue  sparso nel martirio (la decapitazione presuppone un abbondante spargimento di sangue) viene paragonato dall’apostolo alla libagione che il sacerdote antico versava alla base o sulla parete dell’altare (Lev 1,5.11.15; 4,7). Nonostante una certa complessità delle immagini, il messaggio è semplice. Il culto gradito a Dio è la vita spesa nell’obbedienza a lui (Cf Rm 12,1; 1 Pt 2,5); l’obbedienza che accetta anche il martirio, rende questo culto esistenziale ancora più prezioso (Ap 6,9). Paolo, quindi, accettando il martirio, arricchisce l’offerta già presentata dai Filippesi con la loro vita di fede. La possibilità di offrire al Signore un dono così prezioso rallegra l’apostolo e tutta la sua comunità. 

La lettera a Timoteo conferma questa predisposizione di Paolo: «Io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita» (2 Tm 4,6). Nei due testi (Fil 2,17 e 2 Tm 4,6) compare il verbo “compiere una libagione” (spendô). 

Nel libro dell’Apocalisse troviamo un’estensione del significato di questa immagine. Il veggente vide sotto l’altare le anime delle persone che erano state immolate a motivo della parola di Dio (Ap 6,9). Le anime richiamano, quindi, il sangue che veniva versato alla base dell’altare (Lev 4,7), simbolo stesso di Dio. «Viene presentata un’altra forza determinante della storia, costituita dalle anime vicine a Dio, cioè persone uccise violentemente per motivi religiosi. La loro azione consiste in un grido potente» capace d’affrettare l’intervento giudiziario di Dio (C. Doglio, Apocalisse, San Paolo, Milano 2012, 81). 

Il martire Ignazio scrive ai cristiani di Tralle: «[Con il martirio] il mio spirito si purifica [si offre in sacrificio] per voi non soltanto ora anche quando sarò arrivato a Dio» (Ai Trallesi 13,3). «Io sono prezzo del riscatto per voi (Efesini 21,1) «Prezzo di riscatto per voi sono il mio spirito e le mie catene» (Smirnei 10,2). È convinto che, offrendosi in martirio a Roma, egli potrà beneficare i fedeli, soprattutto quando sarà con Dio. 

Missione di Timòteo ed Epafrodìto

Il racconto della missione di Timoteo e di Epafrodito, nel contesto della lettera, non rappresenta un un inserimento biografico casuale e fuori contesto. Questi due collaboratori «sono esempi della vita conforme a Cristo alla quale Paolo sta esortando i filippesi. Il sacrificio di sé non avviene soltanto in inni ma in vite concrete» (Boring 363). 

19Spero nel Signore Gesù di mandarvi presto Timoteo, per essere anch'io confortato nel ricevere vostre notizie. 20Infatti, non ho nessuno che condivida come lui i miei sentimenti e prenda sinceramente a cuore ciò che vi riguarda: 21tutti in realtà cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. 

Paolo desidererebbe di conoscere l’esito della sua prigionia, che ora, vede soltanto da lontano. È tutto teso verso a questa conclusione che lo riguarda in modo stretto ma, per ora, può soltanto sperare nel Signore che voglia affrettare il suo arrivo a Filippi. Invierà Timoteo non appena potrà portare la gioia notizia della sua scarcerazione (vv.19.23) ma per il momento, starà presso di lui. Non può contare su altri collaboratori affidabili che facciano da spola tra lui e i Filippesi. Forse molti si sono defilati per paura e non lo frequentano più. Questi cristiani paurosi non imitano la generosità di Gesù ma curano i propri interessi, le cose di loro (ta eauton). Dovrebbero essere più disponibili a portare ai Filippesi notizie riguardanti l’apostolo e a riferire a lui informazioni riguardanti quella comunità. Evidentemente non è facile, in via normale, ripetere lo “svuotamento” di sé vissuta da Cristo. 

22Voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il Vangelo insieme con me, come un figlio con il padre. 23Spero quindi di mandarvelo presto, appena avrò visto chiaro nella mia situazione. 24Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch'io di persona.

Timoteo è una persone lodevole. I Filippesi lo hanno già conosciuto e possono testimoniare la sua dedizione. Egli condivide i sentimenti dell’apostolo che lo elogia con un aggettivo raro: egli è d’animo uguale a lui (isopsychos). Il termine non significa soltanto persona d’animo eccellente. Timoteo si è preso cura realmente dei fratelli e ha agito come avrebbero dovuto fare tutti i membri della comunità. Non dovevano essere tutti unanimi (sympsychoi) e nutrire lo stesso sentimento (to en phronountes) (2,2)? 

25Ho creduto necessario mandarvi Epafrodìto, fratello mio, mio compagno di lavoro e di lotta e vostro inviato per aiutarmi nelle mie necessità. 26Aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della sua malattia. 27È stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio ha avuto misericordia di lui, e non di lui solo ma anche di me, perché non avessi dolore su dolore. 28Lo mando quindi con tanta premura, perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più preoccupato. 29Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui, 30perché ha sfiorato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per supplire a ciò che mancava al vostro servizio verso di me.

Intanto invia presso di loro Epafrodito (o Epafras) un altro suo collaboratore verso il quale nutre grande stima; a lui riserva tra aggettivi che lo devono qualificare agli occhi della comunità: fratello, collaboratore (synergos), compagno di lotta (systratiôtes). Per collaborare all’opera di Cristo, ha rischiato la vita. Egli appartiene alla comunità di Filippi e venne inviato da quei fedeli perché assistesse l’apostolo nella sua carcerazione (con ogni probabilità è stato lui a portare i doni dei Filippesi di cui si parla al cap. 4). Proprio mentre stava là con lui (ad Efeso?), si ammalò in modo grave con il rischio di morire.  Ora Epafrodito vorrebbe ritornare a rivedere i suoi fratelli e a rassicurarli circa la sua salute, recuperata per la misericordia di Dio. Paolo invita i Filippesi ad accoglierlo con gioia; teme, forse, che lo rimproverino per averlo abbandonato. Con ogni propabilità è stato lui la persona designata a consegnare alla comunità la lettera che ora stiamo commentando.  [Questo Epafrodito è una persona diversa dall’Epafras che appare in Col 4,12 e Fil 23].