sabato 23 settembre 2023

Scelte di vita

 Il dissidio tra vita celeste e impegno nel mondo nella storia 


Nella storia della spiritualità cristiana, diventerà normale scegliere il servizio duro per i fratelli rispetto al godimento della vita celeste. È il sentire comune dei veri discepoli. Anzi soltanto chi si è uniformato a tal punto con Cristo Gesù al punto da desiderare la comunione perfetta e definitiva con Lui, si mostra capace di affrontare la lotta più dura, rinunciando ad ogni suo vantaggio. L’apostolo sceglie di rimanere “nella carne” a vantaggio dei fratelli, proprio perché per lui vivere è Cristo. Anzi per sommo paradosso, il discepolo perfetto di Cristo, rinuncia a Cristo stesso, se ciò sarebbe necessario per redimere il fratello (Cf Rm 9,3). Per il vero discepolo, nulla è più importante del donarsi per amore. 

Iniziamo l'indagine da Guglielmo di saint Thierry. Egli insegna che la comunione con Dio è l'unica vera sorgente di felicità per l'uomo e in questo modo valorizza il desiderio proprio di eros. Tuttavia la ricerca di felicità nella comunione con Dio non distrae affatto il cristiano dal suo impegno a favore della terra. A creare gioia è il fatto di amare; più precisamente ancora, di essere, per quanto possibile all'uomo, ciò che Dio è: amore disinteressato, fedeltà a tutta prova, accondiscendenza misericordiosa. 

La contemplazione (o visione di Dio), avvertita come una forma anticipata della condizione futura, consiste nel vivere questa somiglianza di carità nella maniera più perfetta possibile. Il contemplativo, condotto da un sentimento d'amore totale, riesce ad intuire, a leggere sul volto di Dio i pensieri e i desideri che lo riguardano. Questo non significa che egli deve sviluppare delle considerazioni astratte ma discernere la propria missione. Contemplativo è, allora, colui che comprende con chiarezza il volere di Dio su di sé e che poi vi si conforma in totale fedeltà. «La <carità> trova dolce rivolgere sempre <lo sguardo> verso quel volto e, come su un libro di vita, leggervi le leggi della vita <adatte> per sé, e comprenderle, illuminando la fede, consolidandola speranza e risvegliando la carità» . 

Ciò che è possibile scrutare di Dio è la visione della sua volontà per noi, a favore del mondo e chi è divenuto perfetto nell'amore, osserva tutta la realtà creata con lo sguardo di accondiscendenza proprio di Dio. Aderendo a Dio senza riserve sotto ogni riguardo, la contemplazione «considera tutta la creazione che si trova al di sotto di Dio non diversamente da come <la considera> Dio <stesso>, disponendo e ordinando ogni cosa nella luce e nella virtù della sapienza». 

Il fatto di gustare Dio fa sgorgare nell'amante il desiderio di partecipare all'amore che lo riempie di gioia stupita. L'anima sapiente, gustando solamente Dio, «spoglia l'uomo dell'uomo», ossia, mentre ammira l'amore di Dio, lo assimila e, di conseguenza, elimina da sé ogni traccia di meschinità che si oppone ad esso. 

Se questo è il sentire di Guglielmo, non stupisce che egli, a sua volta, condivida e faccia sua la scelta già compiuta dall'apostolo Paolo. Questi, pur aspirando alla gioia della comunione con Dio, sceglieva di rimanere nella carne e di condividere le angustie delle sue comunità. «Anche se la vita di Paolo si svolgeva tutta nei cieli, egli non si negava ogni volta che era necessario stare accanto agli uomini sulla terra», osserva Guglielmo. 

Il mistico cristiano, quando si estranea dal mondo e contempla Dio, avverte dentro di sé la necessità della carità che lo costringe a ritornare dai fratelli: «La carità nei confronti di Dio lo portava verso l'alto, mentre la carità per il prossimo lo spingeva verso il basso, come se fosse appeso per il collo». La crudezza dell'immagine contribuisce a far comprendere l'intensità con cui l'amico di Dio, mentre gode della comunione con lui, avverte anche il bisogno di donarsi agli altri. Nella dottrina di Guglielmo, quindi, il sentimento di eros non contraddice affatto l'agape. Entrambi i sentimenti vengono infusi da Dio e il primo favorisce l'insorgere del secondo. 

Esponendo ciò che avviene nel cristiano quando è pervaso da un amore perfetto, Riccardo di san Vittore parla di quattro gradi della carità violenta. Vediamo che cosa egli attesta per quanto riguarda il quarto grado, quello proprio della maturità. 

Il dinamismo della crescita nell'amore viene illustrato attraverso la metafora della sete. Agli inizi del cammino il principiante ha sete di Dio e desidera andare verso di lui. In pratica si tratta di quello che ho individuato come il fenomeno tipico di eros. Nella maturità spirituale invece, ha sete secondo Dio. Che significa ciò? Questo atteggiamento interiore implica la rinuncia totale al proprio vantaggio e la disponibilità a porsi al servizio di Dio per collaborare al suo disegno. «Ha sete secondo Dio l'anima quando di sua volontà, non solo nei desideri carnali, ma anche in quelli spirituali, non lascia nulla alla sua libertà ma affida tutto a Dio, non pensando più a “quali sono i suoi vantaggi ma a quelli di Gesù Cristo». 

Il grado massimo della comunione con Dio non si ha nel godimento di Lui, ma nel ricevere una forza creativa tale da poterlo imitare, divenire utili al prossimo ed effondere la vita ricevuta da lui. A questo livello, infatti, l'uomo ha sete secondo Dio. 

Nel paragrafo successivo, Riccardo presenta lo stesso fatto con altri argomenti. L'uomo dapprima ritorna a se stesso (primo grado) per salire, poi, fino a Dio (secondo grado) ed immergersi nella gioia (terzo grado). In seguito, però, non vuole rimanere sempre nel godimento della comunione ma preferisce uscire da sé di nuovo. Questa volta (quarto grado), «esce a causa del prossimo», spinta dalla solidarietà (ex compassione). 

Nel seguito dell'opera, Riccardo cerca di penetrare all'interno dell'evento già annunciato. Egli non solo mostra come l'agape rappresenti il momento culminante della maturazione cristiana ma spiega anche per quale motivo si passi dall'eros alla agape. 

La spiegazione viene proposta attraverso un'immagine molto efficace. L'uomo viene paragonato ad un pezzo di ferro che deve perdere la durezza ed essere reso malleabile nelle mani di Dio. Il ferro ha bisogno di percorrere diverse fasi di trasformazione e di lavorazione: riscaldarsi, arroventarsi, liquefarsi. Ora, tutte le esperienze spirituali gratificanti, quali la scoperta dello splendore di Dio, la seduzione, la comunione con lui vissuta come un fidanzamento oppure la comunione estatica simboleggiata dall'unione nuziale, sono tutte modalità con Dio cerca di riscaldare e arroventare il cuore dell'uomo che, al principio appare rigido come un pezzo di ferro. Alla fine, però, esso si liquefa per assumere la forma, ossia la missione, assegnatagli da Dio. Questo avviene quando si raggiunge il terzo passaggio o grado dell'amore: «Come i fonditori, dopo aver liquefatto i metalli e preparato gli stampi, modellano come vogliono qualsiasi figura [...], così l'anima in questo stato si adatta facilmente a qualsiasi cenno della volontà divina, anzi, per un desiderio spontaneo, si dispone ad ogni sua decisione e piega ogni sua volontà all'approvazione di Dio». 

Solo dopo aver vissuto questa liquefazione interiore, l'uomo diventa capace di assomigliare a Dio. Ogni grado mistico non è fine a se stesso ma prepara il trasferimento della stessa carità di Dio nel cuore dell'uomo. Il più alto livello di perfezione consiste sempre nel saper amare come Lui. Il santo è colui che si presenta come un altro Cristo; capace di condividere i suoi sentimenti, è disposto a vivere ciò che viene richiesto dall'amore. 

Hanno raggiunto il culmine dell'amore e già si trovano al quarto grado della carità coloro che sono in grado di offrire la loro vita per gli amici e di portare a compimento quelle parole dell'Apostolo: «Siate gli imitatori di Dio come figli amatissimi e vivete nell'amore come anche Cristo vi ha amato e ha sacrificato se stesso per voi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave profumo». 

A questo punto Riccardo fa riferimento anch'egli al dissidio vissuto da s. Paolo - stare con Cristo o rimanere nella carne per amore degli uomini? -; condivide interamente la scelta già compiuta dall'apostolo e ripensa con ammirazione a Mosé che rifiuta di essere accolto da Dio da solo mentre il popolo viene destinato alla rovina (Es. 32, 32)50. 

In conclusione, i vantaggi cercati e goduti dall'eros spirituale sono necessari per accedere alla pienezza dell'agape. Ripensiamo all'immagine della liquefazione: ciò che conduce la persona umana allo scioglimento in Dio nella gioia piena dell'unione è anche la condizione che permette all'amante divino di scorrere facilmente verso il basso (facile ad inferiora currendo), nella piena disponibilità alla solidarietà più impegnativa. 

La compresenza del godimento supremo in Dio e della piena disponibilità al servizio per i fratelli compare anche in Teresa d'Avila. Questa mistica ha descritto il cammino spirituale come un percorso all'interno di un castello; passando attraverso sei stanze (o mansioni), si giunge fino a quella più interiore, la settima, dove si vive il matrimonio spirituale. 

Che cosa avviene quando l'anima raggiunge tale condizione di sposa? In primo luogo, Teresa ritiene che Dio voglia manifestarle in anticipo qualcosa della beatitudine celeste e, di conseguenze, le consente di vivere un legame d'unione così intenso da diventare una cosa sola con lui. 

Leggendo questo resoconto, è facile avere l'impressione di trovarsi di fronte ad una chiara manifestazione di eros. Teresa vive una pienezza così gratificante ed assorbente da indurla a disinteressarsi del fratello e renderla indisponibile ad accettare la fatica quotidiana del vivere. Eppure non è così. Infatti, sebbene si serva di molteplici immagini nell'intento di far conoscere la qualità di questo evento di comunione, lo considera in primo luogo come l'atto culminante della partecipazione alla morte e risurrezione del Signore: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (1, 21). «Altrettanto, mi pare, può ora dire l'anima, perché è qui dove la farfallina muore, e con estrema gioia, essendo ormai Cristo la sua vita». 

Infatti, quando, dopo aver illustrato, si pone a mostrare gli effetti che derivano dallo stato di gioia profonda del matrimonio spirituale, emerge una solidarietà vivissima col prossimo e una disponibilità piena ad affrontare le contrarietà relative alla sua missione. 

Il primo «effetto» è un oblio di sé, tale da farle sembrare che realmente «l'anima non esista più, perché è così trasformata che non si riconosce, né pensa al cielo che l'attende, né alla vita, né all'onore, essendo tutta intesa a procurare la gloria di Dio». 

Come già abbiamo scorto in altri mistici, il primo effetto della piena comunione con Dio è la totale dimenticanza di sé e la piena disponibilità a consegnarsi a Dio per realizzare quanto Egli vuole fare. La persona non esiste più per se stessa. Infatti, precisa Teresa, pur costatando la propria impotenza, l'anima sposa non tralascerebbe mai di fare per nessuna cosa al mondo tutto ciò che può fare, se risulta essere un servizio a Dio. 

In connessione stretta a questi due atteggiamenti, annullamento di sé e disponibilità a tutto, troviamo due effetti che richiamano ancora più da vicino la figura di Gesù crocefisso: la disponibilità, anzi il desiderio di soffrire, se questo risultasse necessario, e il perdono dei nemici. È evidente, allora, che dal matrimonio spirituale scaturisce un sentimento squisito di agape. La massima gratificazione d'amore non solo accompagna ma rafforza al massimo uno spirito di disinteresse. 

Infine Teresa, senza citare l'esperienza di s. Paolo e senza neppure pensare ad essa, mostra di riviverla pienamente: il desiderio impellente di vedere Dio viene vinto dal desiderio di essere utile agli uomini rinunciando totalmente al suo vantaggio personale: «Ciò che più di tutto mi sorprende è questo. Voi avete visto i travagli e le afflizioni causati a queste anime dal desiderio di morire per andare a godere di nostro Signore. Adesso, invece, è così grande l'ansia che hanno di servirlo, di lodarlo e, se possono, di giovare a qualche anima, che non solo non si augurano di morire, ma desiderano di vivere lunghi anni, anche in mezzo a enormi travagli, nel tentativo di far sì che il Signore venga glorificato a causa del loro sacrificio, sia pure solo di poco [....]. La loro beatitudine consiste nel tentare di aiutare in qualche modo il nostro Dio crocifisso». 

L'unione mistica con Cristo non si definisce unicamente con le delizie che l'accompagnano, ma anche con la comunione alle sofferenze del Redentore. 

Tutte queste testimonianze, fra le altre che si potrebbero riportare (ad es. Martino di Tours, Bernardo, Giovanni di Rysbroek, Francesco di Sales), attestano che il godimento della comunione con il Signore, non solo non costringe alla “fuga mundi”, ma appare come il fondamento più profondo dal quale proviene l’impegno d'amore per i fratelli.

lunedì 18 settembre 2023

Libro di Giosue' 21-24

 

Gli ultimi avvenimenti


Riconoscimento della fedeltà di Dio

L’ingresso nella terra è un dato di fatto. Ora Israele possiede davvero la terra promessa e Dio si è mostrato fedele. 

«Il Signore diede dunque a Israele tutto il paese che aveva giurato ai padri di dar loro e gli Israeliti ne presero possesso e vi si stabilirono. Il Signore diede loro tranquillità intorno, come aveva giurato ai loro padri; nessuno di tutti i loro nemici potè resistere loro; il Signore mise in loro potere tutti quei nemici. Di tutte le belle promesse che il Signore aveva fatte alla casa d'Israele, non una andò a vuoto: tutto giunse a compimento» (21,43-45). 

La dimostrazione della fedeltà di Dio, verso un popolo infedele, è uno degli scopi del libro di Giosué, garanzia per il futuro della nazione. 

La fedeltà è una delle qualità divine più celebrata nella Sacra Scrittura. Il fedele può appoggiarsi a Lui come a qualcosa di solido, come ad una roccia: «Egli è la Roccia: perfette le sue opere, giustizia tutte le sue vie; è un Dio fedele e senza malizia, egli è giusto e retto» (Dt 32,4). Specialmente nei Salmi, la fedeltà di Dio è oggetto di lode: «Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti» (Sal 25,10). «Non ho nascosto la tua giustizia dentro il mio cuore, la tua verità e la tua salvezza ho proclamato. Non ho celato il tuo amore e la tua fedeltà alla grande assemblea» (Sal 40,11). «O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi, nella fedeltà della tua salvezza» (Sal 69,14). 

Egli vuole creare davanti a Sé un popolo altrettanto fedele ma questo non si mostra all’altezza di un ideale così grande. «Solo temete il Signore e servitelo fedelmente con tutto il cuore: considerate le grandi cose che ha operato tra voi!» (1 Sam 12,24). «Siete stati ribelli al Signore da quando vi ho conosciuto» (Dt 9,24). 

Il Signore promette che riuscirà a crearsi una nazione a lui veramente fedele: «Ti farò mia sposa nella fedeltà» (Os 2,22).  «In quel giorno avverrà che il resto d’Israele e i superstiti [dall’esilio] si appoggeranno con lealtà sul Santo d’Israele» (Is 10,20). L’infedeltà degli uomini non spegne quella di Dio nei loro confronti: «Se alcuni furono infedeli, la loro infedeltà annullerà forse la fedeltà di Dio? Impossibile! Sia chiaro invece che Dio è veritiero, mentre ogni uomo è mentitore» (Rm 3,3-4). 

La missione di Gesù rappresenta il culmine della fedeltà di Dio e il compimento di tutte le sue promesse: «Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì». Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «sì». Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria» (2 Cor 2,18-20). I suoi discepoli, i cristiani, sono denominati fedeli perché hanno la possibilità di dare compimento a questa attesa divina. 

Il congedo conflittuale delle tribù

Le tribù, destinate a stanziarsi di là del Giordano (Ruben, Gad e Manasse) si erano mostrate leali e solidali nei confronti di tutte le altre ed avevano partecipato ai combattimenti. Presenti anch’esse a Silo per presenziare all’assegnazione delle terre, infine decisero di tornare nei loro territori, com’era già stato stabilito da Mosè. Ormai la loro missione era terminata. 

Giunte a Ghelilot, sul confine della terra di Canaan, vi costruirono un altare, presso il Giordano: un altare grande, ben visibile (22,10). Il loro fu un gesto di devozione, encomiabile, come in seguito spiegheranno. Invece gli altri Israeliti considerarono il fatto come segno clamoroso della loro segreta intenzione di separarsi dal resto del popolo, costituendo un luogo di culto differente da quello a cui convergevano tutte le altre tribù. Trovandosi al di là del Giordano, in una terra diversa da quella in cui vivevano tutte le altre tribù, non erano forse tentate di fare da sole, di separrsi dal popolo del Signore e di venerare altre divinità? Se si fossero proposte di fare questo, avrebbero commesso un grave peccato, come quello compiuto da Acan nella conquista di Gerico. Il peccato di alcune tribù sarebbe ricaduto su tutte le altre. Israele si considerava un unico organismo e, se una parte del corpo s’ammalava, tutto il resto dell’organismo ne avrebbe risentito. 

Le tribù transgiordane, duramente contestate e sospettate da tutte le altre, ebbero modo di rivelare loro l’intenzione che le animava, di per sé encomiabile. Perché erigere un altare diverso da quello su cui officiavano le altre tribù? Che significato veniva attribuito a questa costruzione? Così risposero: «L'abbiamo fatto perché siamo preoccupati che in avvenire i vostri figli potrebbero dire ai nostri: “Che avete in comune voi con il Signore, Dio d'Israele? Il Signore ha posto il Giordano come confine tra noi e voi, figli di Ruben e di Gad; voi non avete parte alcuna con il Signore!”. Così i vostri figli farebbero desistere i nostri figli dal temere il Signore» (22,24-25). 

L’altare non era, quindi, destinato al culto ma valeva come testimone per il tempo futuro. Anziché separari dalle altre, le tribù dell’est volevano rimanere unite a loro. Temevano l’eventualità d’una separazione e non stavano favorendola. Le tribù che, sulle prime s’erano opposte, compresero, anzi apprezzarono quel gesto. 

Le tribù dell’est non fanno altro che imitare un uso già introdotto da Giosué stesso quando fece innalzare un monumento costituito da dodici pietre, prese dal fiume, simbolo delle dodici tribù, subito dopo il passaggio del Giordano. Quel monumento, come l’attuale, era destinato alla memoria per le future generazioni. 

Le tribù dell’est non vogliono staccarsi (o venire staccate) dalle altre ma soprattutto non vogliono la separazione con il Signore. 

Ritorna la rilevanza della tramissione dei dati della fede alle generazioni successive, a partire dalla Pasqua: «Quando i vostri figli vi chiederanno: “Che significato ha per voi questo rito?”, voi direte loro: “È il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l'Egitto e salvò le nostre case”» (Es 12,26-27). L’istruzione da trasmettere può essere innescata anche da eventi negativi come la distruzione di Gerusalemme (Cf Ger 22,8-9). Gli eventi storici, compresi nel loro significato, hanno un valore teologico perché sono esperienza di Dio, del suo agire. La fede non si basa su astrazioni mentali ma sulla conoscenza degli eventi. 

Il salmista spera che, grazie al succedersi delle generazioni, il popolo sviluppi una fede più matura: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi. Non siano come i loro padri, generazione ribelle e ostinata, generazione dal cuore incostante e dallo spirito infedele a Dio» (Sal 78, 3-8). 

In ambito cristiano, ricompare la necessità di custodire le tradizioni religiose ricevute: «Noi dobbiamo sempre rendere grazie a Dio per voi, fratelli amati dal Signore, perché Dio vi ha scelti come primizia per la salvezza, per mezzo dello Spirito santificatore e della fede nella verità. A questo egli vi ha chiamati mediante il nostro Vangelo, per entrare in possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo.
Perciò, fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso sia dalla nostra parola sia dalla nostra lettera». 

Gli apostoli, testimoni oculari della vicenda terrena di Gesù, non intendono trasmettere soltanto dei messaggi o delle esortazioni morali, ma la sua persona stessa, come l’hanno colta nella loro esperienza: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi» (1 Gv 1,3). «Il Vangelo di Dio, riguarda il Figlio suo» (Rm 1,3). La tradizione  o le tradizioni della Chiesa intendono trasmettere la figura di Gesù nella sua interezza. Questa trasmissione non si propone tanto di fissare nuove norme ma di aprire al cristiano un nuovo habitat. Gesù è il nostro nuovo essere: «non solo il battezzato è trasposto in Cristo, ma pure Cristo stesso si trasferisce in lui» (Romano Penna, Battesimo e identità cristiana: una doppia immersione, San Paolo, Milano 2022, p. 110). Il risultato culminante sta nel ricevere «il possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo» (2 Ts 2,14). 

Il congedo di Giosuè

La missione di Giosuè sta per concludersi, come pure la sua vita. Per opera di Dio, egli ha introdotto il popolo nella terra, affrontando molte battaglie e portando il peso della cura della comunità. Prima di lasciare questo mondo, compie due gesti significativi: si congeda dalla sua gente lasciando un testamento spirituale e poi gestisce un rito di alleanza, nel corso del quale il popolo conferma la sua volontà di fedeltà a Dio. 

«Molto tempo dopo che il Signore aveva dato tregua a Israele da tutti i nemici che lo circondavano, Giosuè, ormai vecchio e molto avanti negli anni, convocò tutto Israele, gli anziani, i capi, i giudici e gli scribi» (23,1-2). 

Il discorso che sta per pronunciare riguarda tutti (“convocò tutto Israele”). Egli intende mettere a fuoco l’elemento decisivo per l’esistenza futura del popolo, che consiste in questo: Dio vi ha donato gratuitamente la terra, cacciando le popolazioni che l’avevano deturpata, resa invivibile; tuttavia, se abbandonerete il Signore e imiterete la condotta delle nazioni inique, egli caccerà anche voi dalla sua terra e la perderete. Il termine usato da Giosuè è improprio se preso alla lettera: il Signore cambierà, vi farà del male e vi annienterà (24,20) (il verbo kalah implica una distruzione totale). Altri testi aggiungono un motivo di speranza: se in terra di esilio vi convertirete al Signore con sincerità, allora vi ricondurrà nella sua e vostra terra, in base alla sua fedeltà (Cf Dt 30,1-10): «Quand’anche tu fossi disperso fino all’estremità del cielo, di là il Signore tuo Dio, ti raccoglierà… ti ricondurrà nella terra che i tuoi padri avevano posseduto» (Dt 30,4-5).

Giosuè mette subito in evidenza l’opera amorevole di Dio della quale sono stati beneficiari e testimoni. Il Signore ha combattuto per Israele e tale intervento è stato decisivo affinché il percorso nel deserto ottenesse lo sbocco auspicato. 

«Voi avete visto quanto il Signore, vostro Dio, ha fatto a tutte queste nazioni, scacciandole dinanzi a voi. Il Signore stesso, vostro Dio, ha combattuto per voi» (23,3). 

Inventare un nuovo attributo di Dio: è «il combattente per voi» (hannilham) (23,3). La nuova formulazione aggiorna la definizione già nota: Io sono Colui che sono, che sono sempre con voi, che sarà sempre per voi (Cf Es 3,14). 

Nel futuro, il Signore completerà la conquista del territorio, rimasta ancora incompleta: «Il Signore, vostro Dio, disperderà [tutte queste nazioni] egli stesso dinanzi a voi e le scaccerà dinanzi a voi, e voi prenderete possesso dei loro territori, come il Signore, vostro Dio, vi ha promesso» (23,3-5). L’apporto dei guerrieri è del tutto trascurato perché decisivo è soltanto l’impegno di Dio. Giosuè, perciò, è così certo di questo futuro, che già da ora, divide le terre che ancora non erano state conquistate (23,4).

Dopo aver richiamato l’impegno profuso da Dio, il condottiero tocca il punto capitale del suo discorso e formula la richiesta decisiva: 

Siate forti nell'osservare e mettere in pratica quanto è scritto nel libro della legge di Mosè, senza deviare da esso né a destra né a sinistra, senza mescolarvi con queste nazioni che rimangono fra voi. Non invocate i loro dèi. Non giurate su di loro. Non serviteli e non prostratevi davanti a loro. Restate invece fedeli al Signore, vostro Dio, come avete fatto fino ad oggi (23,6-9).

Il popolo viene esortato ad essere forte nel custodire la Legge; del resto Giosué aveva ricevuto il medesimo ammonimento (Cf 1,7). Il Signore chiede una fedeltà leale che si traduce in un’osservanza scrupolosa della sua Legge. 

Il popolo non deve “entrare tra le nazioni” sopravissute (quindi non c’è stato lo sterminio conclamato), ossia non deve condividere le loro consuetudini ma dovrà aborrire ogni forma di culto ad altre divinità. Neppure i nomi delle divinità dovranno essere ricordati, tanto meno si potrà giurare su di loro, servirli e prostrarsi davanti a loro. Un salmista, convertito, dirà in modo convinto: «Moltiplicano le loro pene quelli che corrono dietro a un dio straniero… Non pronuncerò con le mie labbra i loro nomi» (Sal 16,4). Al contrario Israele dovrà aderire al Signore. Questa adesione, espressa nel verbo dabaq (che significa perfino incollarsi), viene ripresa da un salmista: «A te si stringe l’anima mia» (dabeqà nafshì acharècha) (Sal 63,9). 

All’invito alla fedeltà, segue una severa minaccia: 

«Abbiate gran cura, per la vostra vita, di amare il Signore, vostro Dio. Perché, se vi volgete indietro e vi unite al resto di queste nazioni che sono rimaste fra voi e vi imparentate con loro e vi mescolate con esse ed esse con voi, sappiate bene che il Signore, vostro Dio non scaccerà più queste nazioni dinanzi a voi. Esse diventeranno per voi una rete e una trappola, finché non sarete spazzati via da questo terreno buono, che il Signore, vostro Dio, vi ha dato» (23,11-13).

Dio mantiene ogni sua parola, la promessa e la minaccia. Israele ha verificato l’adempimento della promessa e deve essere certo che soffrirà il male anticipato nella minaccia: 

 «Come è giunta a compimento per voi ogni promessa che il Signore, vostro Dio, vi aveva fatto, così il Signore porterà a compimento contro di voi tutte le minacce, finché vi abbia eliminato da questo terreno buono che il Signore, vostro Dio, vi ha dato» (23,15). 

Il discorso si conclude, quindi, calcando il risvolto negativo dell’alleanza. Questo viene fatto non per accentuare la severità del Signore, ma, al contrario, per impedire che essa debba dispiegarsi. 

Mediante questo discorso, il popolo esiliato, che aveva sperimentato la gravità dell’invasione babilonese, poteva comprendere la motivazione della sua condizione e trovare il modo per uscirne. 

 


Rinnovamento dell’alleanza

Il libro di Giosuè si conclude con una nuova stipula dell’alleanza con Dio. Egli convoca un raduno solenne, dove sono presenti, tutte le tribù con tutti i capi. Ora può ribadire l’insegnamento già impartito nel suo testamento spirituale: 

«Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio» (24,1). 

“Si presentarono davanti a Dio”:  Il Signore è presente in questa riunione che, così, diventa sacra; è un atto cultuale. Questa volta viene precisato quale sia il luogo del raduno, ossia il santuario di Sichem. Perché proprio in questo posto, visto che il santuario più importante era quello di Silo, dove era stata eretta la tenda del convegno e dove il popolo s’era radunato per dare inizio alla distribuzione delle terre (18,1)? 

Sichem era, anch’esso, un santuario importante e, per la sua centralità, era raggiungibile da tutte le tribù (Cf 1 Re 12). Era un luogo denso di ricordi: Abramo aveva edificato il primo altare al Signore nella sua peregrinazione nella terra di Canaan (Gen 12,6-7). La vera ragione del raduno a Sichem credo sia questa: lì era accaduto un evento che presenta delle somiglianze con ciò che Giosuè si propone di fare ora. Quando Giacobbe ritornò in patria, disse alla sua famiglia e a quanti erano con lui: «“Eliminate gli dèi degli stranieri che avete con voi, purificatevi e cambiate gli abiti. Poi alziamoci e saliamo a Betel, dove io costruirò un altare al Dio che mi ha esaudito al tempo della mia angoscia ed è stato con me nel cammino che ho percorso”. Essi consegnarono a Giacobbe tutti gli dèi degli stranieri che possedevano e i pendenti che avevano agli orecchi, e Giacobbe li sotterrò sotto la quercia presso Sichem» (Gen 35, 2-4). Sichem era il luogo in cui il patriarca aveva riconfermata l’adesione al Signore che l’aveva accompagnato nel corso della sua travagliata esistenza. Il suo clan, che aveva usufruito di tanti benefici, viene invitato ad aderire al Signore, con sincerità. Questa scelta comporta il rifiuto del culto di altre divinità e quidi l’eliminazione di tutto ciò che fomenta l’idolatria. 

Giosuè, convocando Israele in quello stesso luogo, imita quanto aveva fatto Giacobbe. Anche ora il popolo deve riconoscere la cura provvidente del Signore, capire che Egli ha voluto essere sempre con loro e per loro. Di conseguenza potevano fidarsi di Lui e abbandonarsi a Lui. Questo sentimento esige il rifiuto di tutto ciò che può compromettere ed invalidare la verità della relazione con Dio, nell’adesione di fede e nel comportamento etico. Prima di chiedere in modo esplicito di scegliere il Signore, Giosuè enumera i benefici concessi da Lui. 

Nei tempi antichi i vostri padri, tra cui Terach, padre di Abramo e padre di Nacor, abitavano oltre il Fiume. Essi servivano altri dèi. Io presi Abramo, vostro padre, da oltre il Fiume e gli feci percorrere tutta la terra di Canaan (24,2-3).

Il primo atto di grazia fu quello di sottrarre Abramo dal culto delle divinità, perché lui e i suoi padri erano idolatri come tutti gli altri uomini. È evidente che ora il Signore intende rinnovare a favore di tutto il popolo l’atto di liberazione compiuto in antico nei confronti dei padri. «Io presi Abramo, vostro padre». Sembra una presa di possesso, quasi violenta. Non fu Abramo a staccarsi dagli idoli ma il Signore lo prese per sé. Da quando egli fu di Dio, divenne anche di se stesso. Chi diventa proprietà del Signore, guadagna se stesso. Il traduttore greco del verbo ebraico (lqh) ha scelto “lambano”, prendere. 

Paolo, parlando di un’esperienza simile a quella vissuta dal patriarca usa lo stesso verbo, rafforzandolo: sono stato preso da Cristo Gesù (katelêmphthen) (Fil 3,12). Come Dio ha preso Abramo tra i popoli, Gesù ha afferrato Paolo, strappandolo dal suo mondo religioso. Chi sceglie Cristo, viene afferrato da lui, strappato «da questo mondo malvagio» (Gal 1,4) affinché possa guadagnare se stesso (essere trovato in Lui) (Fil 3,9).  

Feci uscire dall'Egitto i vostri padri e voi arrivaste al mare. Gli Egiziani inseguirono i vostri padri con carri e cavalieri fino al Mar Rosso, ma essi gridarono al Signore, che pose fitte tenebre fra voi e gli Egiziani; sospinsi sopra di loro il mare, che li sommerse: i vostri occhi hanno visto quanto feci in Egitto (24,5-7).

Giosuè pone, poi, l’attenzione sull’evento dell’uscita dall’Egitto (24,5-7). I suoi ascoltatori non erano testimoni diretti di quegli eventi, ma Giosuè parla a loro come lo fossero, con un passaggio da «loro» a «voi»: «Feci uscire i vostri padri e voi arrivaste al mare» (24,6); «Gridarono al Signore e mise fitte tenebre fra voi e gli Egiziani» (24,7). Chi riceve la testimonianza dei prodigi di Dio, se aderisce con la fede a ciò che viene raccontato, partecipa ad essi. Gli ascoltatori non sono soltato persone informate ma compartecipi. 

Lo stesso avviene con la missione di Gesù. I fedeli che accolgono la testimonianza degli apostoli testimoni, partecipano alla loro esperienza fondante: vedono, sentono, toccano e vedono il Verbo della vita (Cf 1 Gv 1,1-3). 

Attraversaste il Giordano e arrivaste a Gerico. Vi attaccarono i signori di Gerico, gli Amorrei, i Perizziti, i Cananei, gli Ittiti, i Gergesei, gli Evei e i Gebusei, ma io li consegnai in mano vostra. 1Mandai i calabroni davanti a voi, per sgominare i due re amorrei non con la tua spada né con il tuo arco. Vi diedi una terra che non avevate lavorato, abitate in città che non avete costruito e mangiate i frutti di vigne e oliveti che non avete piantato» (24,11-13).

Nel ricordare i fatti del cammino nel deserto e dell’ingresso nella terra, Giosuè si sofferma sulla caduta di Gerico. La città diventa il simbolo di tutti gli altri scontri avvenuti con i Cananei; sembra che la guerra sia stata tra Israele e Gerico. Tutti i cananei e gli altri nemici appartendono, idealmente, a questa città (24,11). In quella circostanza, il protagonista principale fu il Signore che invia i calabroni e dona il godimento gratuito della terra. 

L’esortazione raggiunge il suo vertice quando egli chiede al popolo di eliminare gli dèi ai quali avevano servito i padri. Abramo quando cominciò a pellegrinare nella terra promessa, aveva abbandonato le divinità. Il popolo deve far proprio e confermare per sé l’evento di grazia accaduto ai primordi d’Israele. Una scelta s’impone loro: 

«Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio voi abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore» (24,15). 

Profondamente scosso dal discorso di Giosuè e dalla sua scelta, il popolo esprime quale sia la sua decisione: 

«Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati» (Gs 24,16-17). 

Ritengono che ad uscire dall’Egitto siano stati loro stessi; i padri vengono ricordati in seconda battuta. 

A noi sembra ovvio che Giosuè avrebbe dovuto rallegrarsi della risposta ed affrettarsi a concludere il patto di alleanza con Dio. Invece vuole che la sua gente abbia piena consapevolezza della decisione che sta per prendere e la esprima con piena convinzione. Per ottenere questo mostra le clausole pericolose insite nel contratto: il Signore non avrebbe mai accettato una rottura dell’alleanza con Lui, fino al punto da cacciarli dalla terra (24,20). Nonostante la minaccia, il popolo conferma la sua decisione. A questo punto, Giosuè ripete la richiesta di eliminare i simulacri degli dèi ma sopratutto di volgere il loro cuore al Signore: «Noi serviremo il Signore, nostro Dio, e ascolteremo la sua voce» (24,24). 

Giosué, conoscendo la fragilità del popolo a cui appartiene, nutre seri dubbi circa la loro fermezza. Aveva ben presente ciò che era accaduto al Sinai. Per questo fa erigere una grande pietra perché tutti ricordino la decisione che era stata presa, perché non rinnegassero il loro Dio (24,27). 

L’autore di questo Libro sa che i discendenti di quanti avevano contratto il patto di alleanza, di fatto non l’avevano confermato e s’erano dati all’idolatria. Essi divennero testimoni dell’esecuzione della punizione che era stata prevista nelle clausole.    

Quale significato può avere per un cristiano il testamento di Giosuè e il rito dell’alleanza?

Il cristiano sceglie il Signore Gesù, nel quale Dio ha mostrato pienamente il suo volto. I benefici che Dio aveva concesso ad Israele erano una semplice caparra e una prefigurazione dei doni che avrebbe elargiti tramite Gesù. Pronunciando il simbolo della fede, il cristiano enumera i nuovi prodigi operati da Dio, di gran lunga migliori degli antichi. 

Gesù sollecita i suoi dodici discepoli a decidersi nei suoi confronti. Nel momento in cui molti l’abbandonano, Egli chiede loro: «Volete andarvene anche voi?». Ovviamente, non intende spingerli ad abbandonarlo ma chiede un’adesione forte e sincera. Pietro a nome di tutti gli altri, confessa: «Da chi potremo andare? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). «Dichiara che lo stare con Gesù li ha messi nella condizione di conoscere che egli è il Santo di Dio… Gesù si trova sullo stesso piano della santità di Dio». Gesù lo avverte sulla scarsa consistenza del gruppo, dichiarando che uno di loro è un diavolo. L’elezione da parte di Dio non è in grado di impedire la defezione, causa della libertà dell’uomo (Cf. Renzo Infante, Giovanni, San Paolo, Milano 2015, 183-185). 

Neppure nella realtà del Vangelo, è assente la minaccia. Il cristiano non perde la terra, ma rischia di perderà la nuova eredità che Dio gli ha donato. 

Il libro si conclude con la narrazione della morte di Giosuè e il suo seppelimento a Timnat-Serach. La menzione della riposizione delle ossa di Giuseppe a Sichem e della sepoltura del figlio di Aronne a Gabaa fa comprendere che è cessata un’intera epoca, caraterizzata dall’ingresso d’Israele in Egitto e dalla successiva uscita da esso. 

Muoiono questi personaggi ma la storia d’Israele prosegue. Finchè si ricordarono di Giosuè, rimasero fedeli all’alleanza conclusa con il Signore ma, in seguito la trasgredirono. La minaccia prevista si avverrò e Israele fu cacciato dalla terra promessa. 

Come unico elemento di speranza, rimase la fedeltà del Signore: «Qual dio è come te, che togli l’iniquità e perdoni il peccato al resto della tua eredità; che non serbi per sempre l’ira, ma ti compiaci d’usar misericordia? Egli tornerà ad aver pietà di noi, calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati. Conserverai a Giacobbe la tua fedeltà, ad Abramo la tua benevolenza, come hai giurato ai nostri padri fino dai tempi antichi» (Mi 7,18-20).

Egli, in ogni modo, rimase fedele al suo popolo perché, come chiarirà Paolo, «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29). 

Grazie a questa fedeltà, Israele, in seguito, potè ritornare nella terra e gli israeliti consolidarono le basi della loro fede, come venivano esposte nel libro di Giosuè. 



Il significato di risurrezione

 

In un’ottica storica non è possibile passare direttamente dalla vita e insegnamenti di Gesù alla chiesa delle origini. Gesù  non aveva proclamato se stesso né aveva chiamato a una professione di fede in lui; la sua predicazione era imperniata sull'imminenza del regno di Dio. I primi cristiani proclamarono (l'opera di Dio in) Gesù e invitarono alla fede in lui. Accadde qualcosa che provocò questo passaggio dal Gesù che proclama il regno di Dio al Gesù che viene proclamato. Nel Nuovo Testamento e nella storia cristiana questo «qualcosa» si chiama risurrezione.

Comprensibilmente potrebbero essere stati alcuni seguaci di Gesù che non seppero della notizia della risurrezione o che non vi credettero. Si può immaginare che vi sia stato chi, come i discepoli di Giovanni (o quelli di Martin Luther King Jr.), ispirato semplicemente dalla persona di Gesù, dalla sua causa e/o dalla sua vita, decidesse di continuarle. Se esistettero, seguaci di Gesù di questo tipo non entrarono a far parte della prima chiesa e i loro scritti, se ve ne furono, non ebbero accesso al Nuovo Testamento.

La risurrezione di Gesù è fondamentale per la fede cristiana e il Nuovo Testamento. Che Dio ha risuscitato Gesù dai morti è il presupposto implicito - e spesso esplicito - di tutti gli scritti del Nuovo Testamento. La risurrezione si colloca quindi in una categoria totalmente diversa da quella, per esempio, del suo concepimento miracoloso, del quale non si parla più dopo i racconti della nascita di Matteo e Luca, e del resto l'identità di Gesù o il suo significato salvifico non vengono mai collegati e fondati su questi racconti. La risurrezione non è semplicemente un altro esempio delle storie di miracoli compiuti da Gesù, e nemmeno il suo ultimo e il più grande. La risurrezione è anzitutto un'affermazione riguardo a Dio: «Colui che ha risuscitato Gesù dai morti» diventa la nuova e definitiva natura di Dio (per es. 1 Tess. 1,9-10; Gal. 1,1,2 Cor. 4,14; Rom. 4,2.4; 6,4; 8,11; 10,9; Ef. 1, 2,0; Col. 2,12; I Pt. 1,2,l).


Non è questo il luogo in cui avventurarsi in qualcosa come una disamina esaustiva della risurrezione. Ci si limiterà a elencare alcuni punti importanti, necessari per comprendere quanto il Nuovo Testamento afferma della risurrezione di Gesù, senza documentare tutte le sottigliezze e le alternative alla concezione che viene qui illustrata:

la risurrezione fu un evento. La fede cristiana non inizia con una nuova grande  idea, intuizione, ideale o insegnamento, ma con un fatto che è accaduto. La  formazione e la continuazione della comunità cristiana non fu l'ostinata determinazione da parte dei discepoli di restare fedeli agli ideali di Gesù, bensì la loro risposta nella fede all'azione di Dio di risuscitare Gesù dai morti. Fin dall'inizio la fede cristiana non fu un buon consiglio ma una buona novella;

l'evento fu inteso come atto di Dio, non come ultima impresa di Gesù. La risurrezione è l'atto di Dio per il Gesù che ha sofferto la condizione di vittima in una vera morte umana e che è entrato impotente nel regno della morte come qualsiasi altro essere umano. Alle origini cristiane la fede nella risurrezione riguardava Dio, non qualcosa di straordinario inerente a Gesù;

la risurrezione è stata un evento unico, trascendente. Fu un atto unico di Dio che incise su questo mondo, ma non localizzabile in questo mondo alla modo in cui possono esservi collocati eventi spazio-temporali. Non è quindi in se stessa un evento del tipo di quelli che possono essere studiati dagli storici. La risurrezione è un fatto di azione di Dio percepito mediante la fede. Con eventi del genere gli storici non possono avere a che fare; possono soltanto occuparsi di coloro che in simili eventi hanno creduto e degli effetti della loro fede;

fin dall'inizio l'evento fu un evento interpretato. In quanto atto di Dio potè essere percepito e recepito solo nei termini della struttura mentale di coloro che vi credettero, già formata. Anche se ai fini della trattazione si può separare l'evento dall'interpretazione, nella realtà storica i due aspetti sono strettamente intrecciati. Non è possibile che qualche seguace di Gesù prima sia arrivato a credere che l'evento era accaduto, e poi in un secondo momento l'abbia interpretato in un certo modo. L'interpretazione era intrinseca alla percezione;

quando Gesù fece la sua comparsa, la nozione di risurrezione era già presente nella fede giudaica ed era un luogo comune nella teologia dei farisei (per es Dan. 12,2; Mc. 12,18-27; Gv. 11,17-24). La fede giudaica nella risurrezione non era una teoria dell'immortalità dell'anima umana ma un modo di affermare la fedeltà di Dio quando sembra che non vi sia in questo mondo un modo coi cui Dio possa rendere giustizia al suo popolo fedele. L'affermazione che Dio ha risuscitato Gesù non era quindi semplicemente dichiarare che i discepoli aveva no ritrovato il loro idealismo o che a Gesù era accaduto qualcosa di spettacolare, ma la testimonianza dell'atto di Dio;

la risurrezione fu percepita e interpretata in vari modi (non molti), tutti inquadrabili nella cornice generale del pensiero apocalittico. Alcune correnti del l'Antico Testamento più recente e della prima fede giudaica rappresentavano la risurrezione dei morti come momento della vittoria di Dio al termine della storia, come vittoria finale di Dio sui nemici della vita e come ristabilimento nella giustizia del popolo fedele di Dio (v. sopra, 7.6). È molto importante capire che per i primi cristiani la risurrezione non era semplicemente qualcosa d spettacolare che Dio aveva compiuto per Gesù, ma rappresentava il fronte avanzato dell'evento escatologico, l'inizio della nuova era. Dio ha risuscitato Gesi dai morti come «primizia» del raccolto definitivo che sarebbe presto avvenute (1 Cor. 15,20-23). Fede nella risurrezione non è semplicemente credere che ui corpo che era morto è tornato alla vita o che la mattina di pasqua il sepolcro era vuoto;

poiché la risurrezione afferma l'azione trascendente di Dio, ogni qualvolta s dica qualcosa della risurrezione si è davanti allo stesso problema di qualsias discorso su Dio: parlare dell'ultraterreno in termini terreni, nel senso che ciò comporta l'uso di un linguaggio mitologico. Per premunirsi da malintesi è utili richiamare alcuni punti riguardo a ciò che la fede nella risurrezione non è:

la fede nella risurrezione non è la credenza nell'immortalità, la credenza che l'anima «immortale» di Gesù sia in qualche modo «sopravvissuta alla morte»;

la fede nella risurrezione non è semplicemente l'esperienza soggettiva del ricordo potente di Gesù che continua a vivere nel cuore dei suoi discepoli, oppure la convinzione che Gesù continua a chiamare le persone a impegnarsi per la sua causa. La risurrezione non è solo un'esperienza capitata ai discepoli; è accaduta a Gesù, prima e indipendentemente dall'esperienza dei discepoli, della quale fu la causa generatrice;

la fede nella risurrezione non ha nulla a che vedere con fantasmi, comunicazioni speciali, sedute spiritiche e vari fenomeni parapsicologici;

la fede nella risurrezione non ha a che fare con una rinascita o un ripristino della vita di questo mondo, sul tipo di recuperi sbalorditivi come quelli che accadono sul tavolo operatorio;

la fede nella risurrezione non è nata adattando idee miriche associate al nascere-e-morire delle antiche divinità della fertilità, anche se le immagini associate a questi miti poterono essere usate per esprimere la fede cristiana;

risuscitato da Dio fu Gesù. Il problema non fu «se ci sia una vita dopo la morte», ma la fedeltà di Dio alla vita che Gesù aveva vissuto. A essere risuscitata fu la persona di Gesù,1 non semplicemente i suoi insegnamenti o la sua causa. Gesù aveva incarnato la volontà di Dio, aveva rappresentato che cosa s'intende che sia una vita veramente umana al servizio di Dio. Le istituzioni di questo mondo, secolare e sacro, avevano respinto questa vita nel modo più vergognoso e crudele immaginabile. La risurrezione significava che Dio aveva reintegrato e confermato questa vita, questa persona, e che con questo iniziava a farsi realtà ad opera di Dio la ri-creazione dell'umanità e del mondo.

Si può affermare la risurrezione, come nei credo e nei canti, senza raccontarla o raffigurarla, cioè senza pretendere di concettualizzarla o di dire che cosa si intende per l'atto di Dio che risuscita Gesù. Quando tuttavia la si racconta, come nei racconti del mattino di pasqua che si leggono nei vangeli, le storie che isprimono la fede pasquale narrano la risurrezione con cronologie, luoghi e eruppi di personaggi differenti. 

E. Boring, 234-237