mercoledì 27 marzo 2019

MAIMONIDE. TESHUVA


RITORNO A DIO. 
Norme della Teshuvà


Teshuvà deriva dalla parola biblica shuvà (radice shùv), ossia ritorno. Un testo tipico: «Poiché così dice il Signore Dio, il Santo d’Israele: Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza» (Is 30,15). 
Accoglie tutta la gamma dei significati connessi a shuv: ritornare, rispondere, cambiare vita, pentirsi etc. 


Maimònide (ebr. Mōsheh ben Maimōn; l'abbreviazione con cui è noto, Rambam, è una sigla di Rabbī Mōsheh ben Maimōn; arabo Abū 'Imrān Mūsā b. Maimūn b. 'Abd Allāh). - Filosofo, medico e giurista ebreo (Cordova 1135 - Il Cairo 1204). Il pensiero di M. rappresenta il più alto livello raggiunto dalla speculazione ebraica medievale. Nella sua opera Dalāla al-ḥā'irīm("Guida dei perplessi") M. tende a dimostrare (fondandosi su Aristotele) che non esiste un contrasto tra la filosofia razionale e gli insegnamenti della religione, che possono coesistere in un armonico equilibrio (Enciclopedia Treccani)


Capitolo I


Breve sintesi del capitolo I
Il cuore della penitenza consiste nella confessione dei peccati: per ottenere il perdono, è necessario confessarli a Dio. Più la confessione è completa, più ottiene misericordia. 
Atti di culto molto stimati come l'offerta di un sacrificio al tempio avevano valore soltanto se accompagnata dalla confessione. Neppure la sottomissione a pene severe (come la fustigazione) o il risarcimento del danno provocato, otteneva il perdono senza di essa. La stessa espiazione ottenuta mediante il rito del capro espiatorio, non era sufficiente senza la confessione. La confessione del peccati, espressa anche al termine di una vita malvagia, ottiene il perdono, anche se, talora, questo non viene concesso subito ma soltanto in seguito ad una preghiera prolungata. Il giorno del Kippùr (espiazione), quando il popolo intero riconosce i peccati commessi, ottiene il perdono di Dio.
Compare una distinzione tra colpa leggera e peccato grave che prevede il Karet, [il taglio], cioè l'estromissione dalla salvezza. 
Chi ha commesso colpe gravi, confessandole, ottiene la sospensione della pena di morte ma riceve il perdono completo soltanto dopo aver accettato di subire le pene meritate. Per colpe gravissime, il perdono viene concesso soltanto in seguito alla morte del peccatore. 


A. Se si è trasgredito a un qualsiasi precetto della Torà, positivo o negativo che sia, sia intenzionalmente sia per errore, quando si fa ritorno a Dio e si desiste dal peccato, si è tenuti a fare piena confessione delle colpe commesse dinanzi a Dio Benedetto, in ossequio al detto: «Se un uomo o una donna commette un qualsiasi peccato di cui possa macchiarsi un essere umano, faccia confessione del peccato commesso» (Numeri 5, 6-7). E questa confessione dev'essere pronunciata con le proprie labbra. Il confessarsi in questo modo è appunto un precetto positivo della Torà. Come ci si confessa? Pronunciando le parole: «O Signore, ho peccato, ho trasgredito e ho commesso una colpa dinanzi a Te, facendo questo e questo... ed ecco che me ne pento e ho vergogna delle azioni commesse e (prometto che) mai più ricadrò nello stesso peccato». E queste parole rappresentano la parte essenziale della confessione dei peccati. E quanto più uno si dilunga nella confessione rendendola completa ed esauriente, tanto meglio. Perciò [ai tempi del Bet ha-Miqdàsh Casa del Santo = Tempio di Gerusalemme] chi era incorso in peccato o colpa e portava i suoi sacrifici per la colpa commessa per errore o intenzionalmente non veniva assolto ipso facto in forza dei suoi sacrifici, ma solo dopo avere fatto Teshuvà e dopo avere confessato le sue colpe, poiché è detto: «E faccia confessione delle colpe commesse» (Levitico 5, 5). E ancora, chi si era macchiato di colpe per le quali il tribunale aveva emesso sentenza di morte o lo aveva condannato alla fustigazione non veniva assolto in forza dell'esecuzione o della fustigazione se prima non aveva fatto Teshuvà e confessato le sue colpe.
Analogamente chi ferisce o danneggia economicamente, o comunque arreca danno al prossimo, non viene assolto dalle colpe commesse, se pur ha risarcito il danneggiato in proporzione del danno infertogli, finché non confessa la sua colpa e fa Teshuvà col fermo proponimento di non ricadere mai più nel peccato commesso, poiché è detto: «Di qualsiasi peccato di cui possa macchiarsi un essere umano» (Numeri 5, 6).
B.  Per quanto concerne il capro espiatorio poiché questo rappresentava l'espiazione collettiva di tutto Israele, il Kohèn Gadòl [Sommo Sacerdote] pronunciava su di esso la confessione in nome di tutto Israele in ossequio alla prescrizione: «E confesserà su di esso tutti i peccati dei figli d'Israele» (Levitico 16,21).
Questo capro espiatorio [che veniva mandato nel deserto] espiava tutte le colpe elencate nella Torà, sia le lievi che le gravi, sia quelle commesse intenzionalmente, sia quelle commesse per errore, sia quelle nominate dal Kohèn Gadòl, sia quelle non pronunciate esplicitamente. Tutte le colpe venivano espiate dal capro espiatorio, purché il peccatore avesse fatto Teshuvà. Ma se il colpevole non aveva fatto Teshuvà, il capro espiatorio non espiava che le sole colpe lievi. E quali sono le colpe lievi e quali le gravi? Le colpe gravi sono quelle per le quali è prevista la condanna a morte da parte del tribunale o la pena del karèt, nonché il giuramento vano e la menzogna. Anche se per queste due ultime colpe non è prevista la pena del karèt, esse sono considerate colpe gravi. Sono invece considerate colpe lievi le trasgressioni di tutti gli altri precetti, negativi o positivi, purché non comportino la pena del karèt.
C. Ai nostri tempi, in assenza del Bet ha-Miqdàsh [Casa del Santo, Tempio di Gerusalemme] e dell'altare dell'espiazione, non ci rimane che l'istituto della Teshuvà. La Teshuvà espia tutte le colpe. Anche se uno fosse stato malvagio per tutti i suoi giorni e avesse fatto Teshuvà solo all'ultimo momento, non gli si ricorderebbe nulla delle sue trasgressioni passate in ossequio al detto: «E l'empietà del malvagio non lo farà vacillare il giorno in cui rientrerà dal sentiero del peccato» (Ezechiele 33,12) e anche la potenza del giorno di Kippùr è in grado di espiare le colpe di quanti ritornano e fanno Teshuvà com'è detto: «Poiché in questo giorno vi saranno espiate le colpe» (Levitico 16, 30).
D. Pur se la Teshuvà espia tutte le colpe e pur se la potenza del giorno di Kippùr espia, ci sono delle colpe che vengono espiate subito e altre che non vengono espiate se non dopo un certo tempo. In qual modo? Se uno ha trasgredito un precetto positivo, la cui trasgressione non comporta la pena del karèt e ha fatto Teshuvà, non si muove dal posto di preghiera, finché non viene assolto. E di questi trasgressori è detto: «Fate ritorno a Dio, figli indisciplinati, perdonerò le vostre trasgressioni» (Geremia 3, 22). Se uno ha trasgredito un precetto negativo, la cui trasgressione non comporta la pena del karèt, né quella della condanna a morte da parte del tribunale e ha fatto Teshuvà, la Teshuvà ha la forza di sospendere la punizione e il giorno di Kippùr espia la colpa. Di questi trasgressori è detto: «Poiché in questo giorno vi saranno espiate le colpe» (Levitico 16, 30).
Se uno ha commesso una colpa per la quale è prevista la pena del karèt o la condanna a morte da parte del tribunale e ha fatto Teshuvà, la Teshuvà assieme al giorno di Kippùr ha la forza di sospendere la punizione, e le sofferenze nelle quali incorrerà completeranno l'espiazione. Ma non potrà ottenere un'espiazione completa prima di incorrere nelle sofferenze (yissurìm). E di questi trasgressori è detto: «E li colpirò con la frusta per le loro malefatte e con le piaghe per le loro colpe» (Salmi 89, 33).
Ma anche questa punizione non è sempre sufficiente. Lo è quando il peccatore, commettendo la trasgressione, non ha anche profanato il Nome. Se lo avesse fatto, anche se poi ha fatto Teshuvà, se è sopravvenuto il giorno di Kippùr ed egli è sempre un ba'àl teshuvà e se sono sopravvenute anche le sofferenze, con tutto ciò non ottiene un'espiazione completa fino al sopraggiungere della morte. La Teshuvà, il Kippùr e le sofferenze hanno assieme la forza di sospendere la punizione e la morte espia la colpa. E infatti è detto: «E mi è stato sussurrato all'orecchio dal Signore delle Schiere Celesti che mai vi saranno espiate queste colpe prima che moriate» (Isaia 22,14). 




Nella vita cristiana: 

Gesù, con la sua vita d'amore, totalmente obbediente a Dio fino alla morte, è stato l'espiazione dei peccati del mondo intero: «Il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato» (1 Gv 1,7). Il cristiano accetta di accogliere la riconciliazione già creata da Dio: «In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20). 


L'accettazione della riconciliazione presuppone la confessione dei peccati: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità» (1 Gv 8,9). «Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto potente è la preghiera fervorosa del giusto» (Gc 5,16). «Fratelli, il Signore non cerca nulla da nessuno tranne che si faccia a lui la confessione» (Clemente Romano). «Se, presso i giudici terreni, il [reo] appare nella situazione di uomo inerme e privo di ogni possibilità di difesa, presso Dio si trova ad usufruire di una invincibile risorsa. Il colpevole, infatti, che non può essere salvaguardato da alcuna iniziativa, viene soccorso soltanto da una sincera confessione. Questo [è il dono che] viene concesso ai penitenti: mentre desiderano essere assolti, essi stessi hanno il coraggio di condannare le proprie azioni» (Cassiodoro)


La conversione è ritorno a se stessi e a Dio: «Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te...» (Lc 15,17-18). 
Il ladrone che si pente sulla croce, a conclusione di una vita trascorsa nel peccato, è il simbolo del pentimento e della confessione espiatrice: «E disse:«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,42-43).

Esiste, tuttavia, un peccato che conduce alla morte.  Anania e Saffira espiano la loro colpa con la vita (Cf At 5,1-11). 


lunedì 25 marzo 2019

MARIA E ISRAELE


Il concilio sottolinea in Lumen Gentium 56 il radicamento veterotestamentario di Maria e la definisce «Figlia di Sion». Il titolo è antichissimo, e si basa, come abbiamo visto, sulle affermazioni mariane del Nuovo Testamento, che vengono poi riprese dalle riflessioni dell'epoca patristica. 
Ruperto di Deutz, che in tutta la sua teologia da grande valore alla continuità tra l’antica e la nuova alleanza (e dunque conseguentemente interpreta, per primo, il Cantico dei Cantici mariologicamente e insieme ecclesiologicamente ed è convinto della presenza di Cristo nell'epoca veterotestamentaria), può ancora esprimersi persino con queste parole, già citate sopra: 
«La Beata Vergine, che era la parte migliore della chiesa antica [prioris ecclesiae = della chiesa prima di Cristo], fu degnata di essere la sposa di Dio Padre, per diventare così anche prototipo della nuova chiesa e sposa del Figlio di Dio». 
Wolfgang Beinert interpreta giustamente questo passo ritenendo che qui Maria «[sia] il punto di congiunzione delle due chiese, in cui la sinagoga raggiunge il suo ultimo vertice e viene unita alla chiesa di Cristo, di modo che entrambe diventano una chiesa, la ecclesia umversalis».

La Sinagoga bendata
Questo radicamento e significato veterotestamentario di Maria, che fino all'alto Medioevo era visto ancora chiaramente, andò perduto al più tardi dal XIV secolo in poi, poiché in Europa la presenza ebraica fu avvertita in modo sempre più problematico e i sentimenti antiebraici sfociarono in numerosi pogrom. «In modo corrispondente - così Achim Dittrich - fu ignorata l'origine ebraica di Cristo; non si voleva sapere più nulla di una Maria Figlia di Sion. Invece, le rappresentazioni figurative, utilizzate di norma dalle cattedrali gotiche, mettevano in primo piano il contrasto tra la sinagoga incredula e la chiesa credente». Solo con il Vaticano II si mette un nuovo accento su questo aspetto, che nel periodo postconciliare, sotto la Spinta della riscoperta teologica delle radici ebraiche del cristianesimo, sarà ulteriormente rafforzato e approfondito.


Greshake, 185-186



martedì 19 marzo 2019

LEWIS LETTERE DI BERLICCHE


Nel romanzo Le lettere di Berlicche, C. S. Lewis (l’autore di Le cronache di Narnia) immagina che un demonio di nome Berlicche dia istruzioni ad un nipote (chiamato Malacoda)  per ottenere l’eterna dannazione d’un giovane convertito da poco alla fede cristiana, nella confessione anglicana. 
È un’opera letteraria ma con spunti teologici di una certa profondità; rappresenta un esempio notevole di un’azione di discernimento degli spiriti. Le istruzioni, fornite in modo epistolare, sono disposte in 31 lettere. Seguiamo così le vicende di un giovane di questo mondo dalla conversione alla fede fino alla sua morte improvvisa, avvenuta nel corso di un bombardamento tedesco. L’opera è stata pubblicata nel 1942 dopo che gli inglesi avevano sostenuto la tragica battaglia d’Inghilterra (avvenuta nel 1940, con circa 40.000 morti).
Ho riassunto in modo sintetico il contenuto di ogni lettera. Il lavoro è ancora provvisorio.


Opera di riferimento: Clives Staples Lewis, Le lettere di Berlicche, Oscar Mondadori, Clasici moderni, a cura di Alberto Castelli, I edizione, Milano 1988. [Nelle citazioni, il primo numero corrisponde alla numerazione di ogni lettera e il secondo alla pagina].


1. Come impedire l’adesione alla fede? Chi è alla ricerca della verità, se si impegna in uno studio profondo e ragiona in modo spassionato, libero da pregiudizi, diventare facilmente un credente perché un retto uso della razionalità persuade della bontà della fede. Per impedire questo passo, secondo B. non è opportuno suscitare dibattiti e discussioni, perché la disputa stimola il ragionamento. È più opportuno, piuttosto, confondere, ubriacare, sottomettere alla mentalità dominante: «Il tuo giovanotto è stato abituato, fin da ragazzo, ad avere nella testa una dozzina di filosofie irriconciliabili fra di loro, che danzano insieme allegramente. Non considera le dottrine come, in primo luogo, "vere" o "false", ma come "accademiche" o "pratiche", "superate" o "contemporanee", "convenzionali" o "audaci". Il gergo corrente, non la discussione, è il tuo alleato migliore per tenerlo lontano dalla chiesa» (1,7). Deve essere indotto piuttosto a lasciarsi influenzare dal sentire comune e ad immergersi nella corrente delle esperienze sensibili immediate. «Il tuo lavoro dev’essere quello di fissare la sua attenzione su questa corrente. Insegnagli a chiamarla "la realtà della vita", senza permettere che si chieda che cosa intende dire quando dice "realtà"» (1,8).

2. La seconda lettera presuppone che il giovane si sia fatto cristiano. Chi si è avvicinato alla fede da poco e non ha ancora salde radici, può essere allontanato, per mezzo delle prime difficoltà; se si sente amareggiato, soprattutto, da una certa disillusione. Probabilmente, s’aspettava che si sarebbe trovato in un ambiente più attraente, più solido, più vivace, ma la comunità cristiana è composta di persone normali, segnate anche da limiti irritanti.
La delusione è un fenomeno che si verifica in modo normale in svariati campi della vita: «Esso sorge quando un ragazzo, che da fanciullo s'era acceso d'entusiasmo per i racconti dell'Odissea, si mette seriamente a studiare il greco. Sorge quando i fidanzati si sono sposati e cominciano il compito serio di imparare a vivere insieme» (2,12). Il senso di amarezza viene sfruttata dal diavolo come un’ottima occasione: «Lavora indefessamente, dunque, sulla disillusione e il disappunto che sorprenderà senza dubbio il tuo paziente nelle primissime settimane che si recherà in chiesa» (2,12).
Il disappunto presuppone che la persona amareggiata covi dentro di sé un senso di superiorità sulle altre persone. Acquisire un vero sentimento di umiltà che consentirebbe un’accettazione serena delle debolezze dei membri della comunità, richiede tempo. Finché il cristiano non ha acquisito questa virtù, non si esprimerà in parole vere, quali sono quelle che scaturiscono da una profonda conversione del cuore: «Non è ancora stato a sufficienza con il Nemico [cioè con Dio] per possedere già una vera umiltà. Le parole che ripete, anche in ginocchio, sui suoi numerosi peccati, le ripete pappagallescamente» (2,14). Il neo convertito pensa facilmente di essere molto meglio degli altri. «In fondo crede ancora che lasciandosi convertire, ha fatto salire di molto un saldo attivo in suo favore nel libro mastro del Nemico, e crede di dimostrare grande umiltà e degnazione solo andando in chiesa con codesti compiaciuti vicini, gente comune. Mantienigli la mente in questo stato il più a lungo possibile» (2,14).


3. La mancanza di sopportazione, dovuta anche a scarsa umiltà, compare anche nelle relazioni familiari. Il consiglio di B. è quello di «imbastire in casa un'atmosfera costante di disturbo reciproco, di giornaliere trafitture di spillo» (4,15). Il giovane, convertito alla fede da poco, deve essere sollecitato ad evitare il contatto con la concretezza della vita: «Tiengli la mente lontano dai doveri più elementari, sospingendolo verso quelli più progrediti e più spirituali. Aggrava quella caratteristica umana che è utilissima: l'orrore e la negligenza delle cose ovvie» (4,15).
Nelle relazioni quotidiane, una persona può diventare insopportabile per l’altra. È sufficiente che ognuno si soffermi a considerare soltanto gli aspetti più negativi dell’altra; insinuare sospetti; far credere che noi siamo indenni da ogni difetto mentre dobbiamo sopportare quelli altrui. Anche in questo caso, viene alimentata una spiritualità che non vuole incarnarsi. Alludendo alla madre del giovane, suggerisce: «Assicurati che… egli si preoccupi sempre dello stato dell'anima di lei e mai dei suoi dolori reumatici» (2,16).

4. Quanto alla preghiera, la cosa migliore sarebbe quella tener lontano del tutto il giovane dall’intenzione di questa pratica, poiché la preghiera è la migliore arma di difesa contro le insidie demoniache. Dove c’è preghiera c’è il pericolo dell’azione immediata di Dio (4,21). Se non è possibile distoglierlo del tutto,  il giovane, almeno, dev’essere persuaso a disistimare le modalità normali di culto e apprezzare soltanto le forme più elevate di elevazione a Dio, a lui del tutto inaccessibili. Sarà opportuno, quindi, insinuare che le preghiere vocali sono troppo infantili, ripetizione di formule fatte al modo di papagalli, e spingerlo ad imitare, anzitempo, i gradi d’orazione dei grandi santi (4,19). Convincerlo che la posizione del corpo non ha alcuna importanza. Dovrà aspirare a raggiungere una preghiera nobile e sofisticata, tutta tesa ad osservare l’insorgere dei suoi sentimenti interiori. Il trabocchetto consiste nell’indurlo a pensare a sé, alla sua interiorità, ai suoi stati psicologici piuttosto che a Dio. La sconfitta della trama demoniaca, al contrario, avviene quando l’orante pone la sua fiducia in «in quella Presenza perfettamente reale, esterna, invisibile, là nella stanza con lui, e che egli non conoscerà mai come invece viene conosciuta da essa» (4,22).

5. Lewis tratta ora l’argomento della guerra. Non dimentichiamo che l’opera è stata scritta nel 1942, in piena guerra, ma sviluppare questo argomento è un modo per affrontare il discorso sulla sofferenza e sugli impegni sociali. Pur essendo un fatto negativo, questa, come altre calamità, diventano spesso un’occasione per tante persone di tornare a Dio; per altri un’occasione per dare la vita a favore di ideali sociali [magari in buona fede nel caso in cui questi ideali fossero errati o ingannevoli ] (5,25). Inoltre, nel corso di un conflitto, la gente è costretta a pensare alla morte e, quindi, al senso della vita. Confessa B.: «Una delle nostre armi migliori, la mondanità soddisfatta, è resa inservibile. In tempo di guerra neppure uno degli uomini può pensare di vivere per sempre» (5,25). Quando sono costrette ad affrontare la sventura, per dare significato alla loro sofferenza, gli uomini si convincono più facilmente del valore redentivo del dolore.


6-7. Il giovane deve essere distolta dall’attenzione verso la sua vita reale; si deve impedire che si soffermi ad osservare i suoi atti e prestare attenzione alle passioni che stanno premendo in lui. È preferibile che si perda in un mondo interiore, fatto di fantasie e ragionamenti fatui. Alcuni esempi. Se un fedele si rende disponibile ad accogliere la sofferenza concreta che lo sta visitando e si mostra disponibile a fare la volontà di Dio, deve essere distolto da questo sentimento d’abbandono e oppresso da una paura angosciosa circa il suo futuro. Nessuno deve accorgersi delle tentazioni che sta incontrando, convinto di aver già acquisito una stabilità molto positiva: «Fa' sì che un insulto o che il corpo di una donna attragga talmente la sua attenzione al di fuori che egli non abbia modo di far la riflessione: “Sto entrando nello stato che si chiama Ira - o nello stato che si chiama Lussuria”. Al contrario, fa' in modo che la riflessione: “I miei sentimenti diventano ora più devoti, o più caritatevoli”, attragga la sua attenzione verso l'intimo, sì che egli non guardi più al di là di se» (6,28).
Un esempio viene tratto dal momento storico nel quale è stato scritto il racconto, quando divampava la guerra dell’Inghilterra contro la Germania. Il neo convertito si preoccupa del fatto che in lui affiorano sentimenti di ostilità nei confronti di un nemico lontano, al quale non infliggerà alcun male, mentre, al contrario, non s’accorge di provare risentimento verso alcune persone che incontra ogni giorno. Il diavolo cerca di farci detestare il prossimo reale che incontro e di desiderare d’essere solidali con persone lontane: «L'importante è di dirigere la malevolenza verso i suoi vicini immediati, verso coloro che incontra ogni giorno, e di cacciare la benevolenza lontano, nella circonferenza remota, verso gente che egli non conosce. La malevolenza diventerà così perfettamente reale, e la benevolenza in gran parte immaginaria. È completamente inutile eccitare il suo odio per i tedeschi se, nello stesso tempo, fra lui e sua madre, fra lui e il suo principale, e il signore che incontra in treno si sviluppa una perniciosa pratica abituale di carità» (6,29). I pensieri e le fantasie non determinano le scelte concrete della persona come lo fa la volontà. Afferma B. «Le virtù sono per noi veramente fatali solo in quanto possono raggiungere la volontà per poi lì concretarsi in abitudini» (6,29).

8. «Gli esseri umani sono anfibi - mezzo spirito e mezzo animale. Come spiriti essi appartengono al mondo dell'eternità, ma come animali sono abitatori del tempo. Ciò significa che, mentre il loro spirito può essere diretto verso un oggetto eterno, il loro corpo, le passioni e l'immaginazione sono in continuo divenire, poiché essere nel tempo significa mutare» (8,35). La duplicità conduce gli uomini a continue oscillazioni tra un sentire all’altro, tra stati di depressione ed esaltazione. Dio, però, fa maturare la persona utilizzando anche i suoi stati di depressione. All’inizio, per attrarre a sé gli uomini, infonde in loro delle consolazioni sensibili ma non le concede in continuità. Ben presto si ritira per lasciare che la creatura «stia in piedi sulle sue stesse gambe, a compiere puramente con la volontà doveri che hanno perso ogni gusto» (8,37). Le preghiere innalzate nell’aridità, gli sono ancora più gradite e così educa l’uomo ad essere grande come Egli vuole che sia. Quando il credente rimane fedele a Lui e compie il suo volere senza alcuna gratifica, sentendosi anzi abbandonato da Lui, raggiunge una maturità rilevante. «La nostra causa non è mai in maggior pericolo di quando un essere umano, senza più desiderio ma ancora con l'intenzione di fare la volontà del nostro Nemico, si guarda intorno e scorge un universo dal quale ogni traccia di Lui sembra essere svanita, e si chiede perché è stato abbandonato, e tuttavia continua a ubbidire» (8,37-38).


9. Il diavolo, a sua volta, cerca di utilizzare gli stati depressivi per raggiungere i suoi scopi. Dio ha creato i piaceri per il bene degli uomini, ma questi possono servirsene in modo errato. Negli stati di esaltazione, nella salute e nella serenità, gli uomini avvertono con più forza l’istinto sessuale ma, in quei momenti, sono dotati anche dell’energia necessaria per dominarsi. Nella depressione, invece, più facilmente si lasciano vincere dallo stimolo. In questi momenti, il diavolo mette in atto la sua tattica. «La formula è questa: una brama che aumenta continuamente per un piacere che continuamente diminuisce. È più sicuro; ed è stile migliore. Impossessarsi dell'anima dell'uomo e non dargli nulla in cambio - ecco ciò che riempie veramente di gioia il cuore di Nostro Padre. E i momenti di depressione sono i momenti nei quali cominciare il processo» (9,40). Per abbattere la debole resistenza dell’uomo tentato, il diavolo dovrà suggerirgli che, in ogni impegno, una certa moderazione è necessaria; dovrà insinuargli che la religione va bene, ma fino a un certo punto. Questa convinzione darà grandi risultati: «Per noi [diavoli] una religione moderata vale quanto una religione nulla» (9,41).
Inoltre il depresso facilmente si perde in un ragionamento errato: se sto perdendo interesse a questa cosa, significa che essa era falsa. Allora, considererà la sua adesione alla fede una semplice fase passeggera. Penserà che la vita è soltanto una successione di fasi e che non dobbiamo restare sempre nell’adolescenza. Non dovrà affatto mettersi alla ricerca della verità, ma piuttosto lasciarsi abbandonare ai suoi stati d’animo.

10. Talune amicizie, apparentemente soltanto piacevoli e desiderabili, possono affievolire la fede. Persone ritenute rispettabili e affermate socialmente, inducono con facilità a pensare come loro. Il diavolo chiede al suo collaboratore: «[Il giovane] si è compromesso molto? Non voglio dire a parole. V'è un gioco sottile di sguardi, di toni, di riso, con il quale un mortale può far sottintendere che egli appartiene allo stesso partito di coloro con i quali sta parlando. Questo è il genere di tradimento che dovresti incoraggiare, perché il tuo giovanotto non lo comprende proprio bene neppure lui» (10,43).
10-14 È possibile, quindi, appartenere a due mondi opposti: «Gli si può insegnare a godere di inginocchiarsi la domenica… e, al contrario, a godere quella conversazione pornografica e blasfema durante il caffé con i suoi amici con tanto maggior gusto in quanto consapevole di un mondo "più profondo", "spirituale", che c'è nel suo intimo, e che essi non comprendono» (10,45). È importante che l’ingenuo fedele non s’accorga che sta lasciando il calore del sole per inoltrarsi nella tenebra fredda (11,51). Dovrà essere allontanato da Dio a poco, a poco: «Aumenta la riluttanza del paziente a pensare al Nemico… In questo stato il tuo paziente non ometterà i suoi doveri religiosi, ma gli diverranno sempre più antipatici. Prima di compierli ci penserà il meno possibile, se lo potrà fare decentemente, e, terminati che li abbia, li dimenticherà al più presto» (12,52). Il maligno cerca di aumentare la distanza dell’uomo da Dio e di farlo cadere spesso nel peccato: «La piccolezza dei peccati non ha importanza, purché il loro effetto cumulativo scacci l’uomo lontano dalla luce…» (12,54).
Il giovane si troverà a vivere nell’inquietudine, lontano dalla vera felicità; sperimenterà che l’abitudine rende i piaceri… meno piacevoli e insieme più difficili a lasciarsi» (12,53). Il diavolo avrà vinto se il giovane, da lui traviato, alla fine della vita, dovrà confessare: «Ora mi rendo conto d’aver trascorso gran parte della mia vita senza fare né ciò che dovevo né ciò che mi piaceva» (12,53).
Egli, infatti, non avrebbe dovuto rinunciare ai piaceri sani né rinunciare alle sue inclinazioni. Anzi, il goderne sarebbe diventato un valido aiuto per conservare la sua integrità. Quando Dio ci chiede di perdere il nostro io, intende dire che dobbiamo abbandonare la nostra propria volontà ma non la nostra personalità. Al contrario, il diavolo desidera che ci stacchiamo da essa (13,56-57).
In questo campo, come in altri casi, le parole del Vangelo possono essere fraintese. Il rinnegamento di sé viene inteso, talora, come una rinuncia alla propria personalità. Anche l’umiltà può essere travisata. Molti pensano che debba essere considerata come un sentimento di disprezzo nei confronti delle proprie qualità o talenti, così che donne carine devono considerarsi brutte e persone intelligenti degli sciocchi (14,60). Al diavolo piace questo fraintendimento. Dio, invece, preferisce che l’uomo sappia godere delle sue qualità, sia indotto a ringraziarlo con gioia riconoscente, anche per le qualità del prossimo e per la bellezza delle creature.


15. Nella vita, decisivo è vivere il presente. «Gli esseri umani vivono nel tempo, ma il nostro Nemico li destina all'eternità. Perciò, credo, Egli desidera che essi si occupino principalmente di due cose: della eternità stessa, e di quel punto del tempo che essi chiamano il presente. Il presente è infatti il punto nel quale il tempo tocca l'eternità» (15, 63). Il diavolo invece vuole farci vivere nel futuro, che infiamma la speranza e il timore ma, dal momento che è sconosciuto, ci spinge ad interessarci di cose irreali.

16. La parrocchia è una unità di luogo, accoglie la diversità, persone di diverse classi e di diversa psicologia. I fedeli si uniscono spinti dall’ideale della carità, non da sentimenti di simpatia. Al contrario le congregazioni spontanee finiscono col ridursi a piccoli circoli, dominati da posizioni ideologiche; gradualmente si trasformano in un partito. «La ricerca di una chiesa che vada bene per lui  fa dell'uomo un critico là dove il Nemico lo vuole scolaro. Dal laico in chiesa Egli vuole un atteggiamento che può, sì, essere critico nel senso che rifiuta ciò che è falso o inutile, … ma si apre in una ricettività umile, priva di commento su qualsiasi nutrimento venga somministrato» (16,67). Il diavolo vorrebbe che il giovane cambiasse spesso parrocchia. Nelle chiesuole affettive è più facile sbandarsi. In qualcuna il ministro, sicuro di sé e privo di controllo che viene da una comunità stabile, tende ad annacquare la fede. «Egli ha minato il cristianesimo di più di un'anima. Anche il suo modo di comportarsi durante le funzioni è ammirevole. Al fine di risparmiare ai laici tutte le "difficoltà", ha abbandonato il lezionario e i salmi d'obbligo, ed ora, senz'accorgersene, gira e rigira incessantemente intorno alla piccola macina dei suoi quindici salmi favoriti e delle sue venti lezioni favorite» (16,68). Eliminando i messaggi a lui sgraditi e ripetendo soltanto su quelli da lui ammessi, impedisce la conoscenza dell’intera verità. Il diavolo perciò suggerisce: «Mi pare di averti già avvisato prima che il tuo paziente,- se non lo si può tenere lontano dalla chiesa, dovrebbe almeno esser violentemente attaccato a qualche partito nel suo seno» (16,69).

17. Il vizio della golosità sembra del tutto superato ai nostri giorni. Certamente si presta maggior attenzione alla qualità dell’alimentazione e anche ad evitare ogni eccesso in quantità. L’attenzione è ora rivolta alla raffinatezza dell’alimentazione ma proprio questa ricerca diventa spesso un’occasione per infrangere la carità. «Che cosa importa la quantità, se riusciamo a usare della pancia di un uomo e del suo palato per produrre litigi, impazienza, mancanza di carità e preoccupazione per il proprio io?» (17). Ad esempio, la ricerca di cibi raffinati rende poco rispettosi verso le persone che, avendo preparato il pasto, non sono riuscite a raggiungere l’attesa dei commensali dal palato esigente. Il loro impegno e la loro fatica sono svalutati. «…il disappunto giornaliero produce ogni giorno cattivo sangue: le cuoche se ne vanno e le amiche si raffreddano».


18-19 Nelle relazioni tra le persone, la competizione diventa distruttrice. Il principio demoniaco è questo: «Il mio bene è mio bene, e il tuo è tuo. Ciò che uno guadagna un altro perde» (18,72). «"Essere" significa "essere in competizione"» (18,74). Presso Dio vale il contrario: «Le cose debbono essere molte, e tuttavia, in qualche modo, anche uno. Il bene di uno deve essere il bene di un altro. Egli chiama codesta impossibilità amore e questa stessa panacea può scoprirsi in tutto ciò che Egli fa, e perfino in tutto ciò che Egli è - o pretende di essere» (18,74).
La pratica della sessualità si muove seguendo l’uno o l’altro principio. Nel pensiero diabolico, la sessualità avrebbe potuto costituire un'altra maniera con la quale l'io più forte poteva depredare quello più debole (come avviene con i ragni, dove la sposa conclude le nozze mangiandosi lo sposo).
La verità è che, ogni volta che un uomo va con una donna (siano essi consapevoli o no), sorge fra loro una relazione superiore, che trascende la mera fisicità e che produce, se si vive con spirito d'obbedienza, l'affetto e la famiglia. Questo fatto contraddice la falsa credenza che soltanto l’innamoramento rende felice o santo il matrimonio.
Tale falsa opinione ha provocato due gravi conseguenze: convince le persone incapaci di continenza, ad allontanarsi dal matrimonio, anche se questo tipo di vita li farebbe maturare fino a raggiungere un pregevole dominio di sé e questo «perché non si sentono "innamorati" e l'idea di sposarsi per qualsiasi altro motivo appare loro bassa e cinica».
L’altra cattiva conseguenza appare in questo convincimento: qualsiasi infatuazione sessuale, dovrà essere considerata come amore, e si deve far credere che l'amore scusa l'uomo da ogni colpa.
Come pensa il diavolo, lo «stato di innamorarsi non è, in se stesso, necessariamente favorevole né a noi né all'altra parte [Dio]. È soltanto un'occasione che tanto noi quanto il nostro Nemico [Dio] tentiamo di sfruttare. Come la maggior parte delle altre cose intorno a cui gli uomini si eccitano, quali la salute e la malattia, la vecchiaia e la giovinezza, oppure la guerra e la pace, dal punto di vista della vita spirituale è soltanto materia prima» (19,80). L’innamoramento diventa un fatto negativo soltanto se si riesce a convincere ogni innamorato che «l'Amore è irresistibile e insieme in qualche modo intrinsecamente meritorio. Codesta credenza non è di grande aiuto, te lo concedo, nel produrre una mancanza di castità occasionale, ma è una ricetta incomparabile per adulteri prolungati, "nobili", romantici, tragici, i quali terminano, se tutto va bene, in assassini e suicidi» (19,80).
Ogni principio pratico deriva una concezione etica più generale. L’uomo può divenire imitatore di Dio che agisce in base ad un amore assolutamente gratuito oppure negare che esiste una vera gratuità e rimanere chiuso nel mondo della competizione interessata. Il diavolo non crede che esista la gratuità e perciò vuole sempre alimentare sospetti sulle vere intenzioni di Dio: «Noi sappiamo che Egli non può veramente amare, nessuno lo può. Non ha senso. Se noi soltanto potessimo scoprire ciò che veramente è il suo scopo!» (19,79).


21. Gli uomini si lasciano dominare dal malumore fino a provare ostilità verso gli altri. «Non s'arrabbiano per la semplice sfortuna, ma per la sfortuna che viene concepita come un'ingiuria. E il senso dell'ingiuria dipende dalla sensazione che una richiesta legittima è stata negata. Quindi, più saranno le pretese sulla vita che riuscirai a far reclamare dal tuo paziente e più spesso si sentirà ingiuriato, e, di conseguenza, di cattivo umore» (21, 85). Un’occasione di malumore sorge quando ritengono che qualcuno rubi il loro tempo, e sono costretti a rinunciare ad un programma prefissato.
«Il senso del possesso deve in generale essere incoraggiato. Gli esseri umani t'inventano continuamente pretese di proprietà che suonano ugualmente ridicole in cielo e nell'inferno, e noi dobbiamo mantenerli su questa linea. Gran parte della resistenza moderna contro la castità deriva dalla credenza che gli uomini hanno di "possedere" i loro corpi» (21,87). Il senso del possesso impedisce di solito una relazione serena con gli altri e con le cose, perfino un rapporto di pace con Dio. Il pronome possessivo “mio” presuppone una varietà di significati perché un conto è dire le mie scarpe, un altro dire mio padre, la mia patria, il mio Dio. Il possessivo può indicare una relazione affettiva speciale che richiede una maggiore cura e un esercizio di responsabilità, ed è questo che vuole Dio. Tuttavia, già dall’età infantile, l’uomo viene orientato a considerare ciò che è proprio come un oggetto sul quale è possibile esercitare un potere assoluto: «Perfino nella stanza dei giochi si può insegnare al bambino di voler dire, quando dice "il mio  orsacchiotto", non quel caro oggetto sul quale egli immagina di riversare il suo affetto e con il quale sta in una relazione speciale (questo è infatti quanto il Nemico vuol insegnare loro a voler dire, se non stiamo attenti) ma "l'orso che posso fare a pezzi se ne ho voglia"» (21,87-88). Il diavolo insegna ad esercitare un dominio su Dio stesso: «Abbiamo insegnato agli uomini a dire "il mio Dio" in un senso non proprio molto diverso da "le mie scarpe", cioè: "il Dio sul quale ho dei diritti per i miei segnalati servizi e che io sfrutto dal pulpito - il Dio che mi sono accaparrato"».

22-23 Il giovane preso di mira dal tentatore, continua a dichiararsi cristiano e si fidanza con una ragazza di solida fede cristiana. A questo punto, per il diavolo diventa ancora più difficile distoglierlo dalla scelta religiosa. Consapevole di ciò, anziché aggredire in modo diretto la sua fede, si propone di alterarla. Tra le modalità impiegate, compare anche l’interesse per un’immagine falsata del Cristo, sviluppata in modo erroneo da talune ricerche sul Cristo storico, e che propongono una figura di Gesù ben diversa da quella tratteggiata dal Vangelo e tramandata dalla Chiesa. «Nell'ultima generazione abbiamo promosso la costruzione di un tale "Gesù storico" sopra una falsariga liberale e umanitaria; ed ora stiamo mettendo innanzi un nuovo "Gesù storico" su una falsariga marxistica, catastrofica, e rivoluzionaria. I vantaggi di costruzioni come queste, che abbiamo intenzione di cambiare ogni trent’anni circa, sono molteplici. In primo luogo, tendono a dirigere la devozione degli uomini verso qualcosa che non esiste, poiché ogni "Gesù storico" non è storico» (23,94). «I primi convertiti si convertirono per un solo fatto storico (la Resurrezione) e una sola dottrina teologica (la Redenzione)». Soprattutto tale elemento costitutivo della fede deve essere accantonato. Ancora di più, il cristianesimo non dovrà essere abbracciato come la verità che libera, ma soltanto come mezzo per qualche altro scopo.


24-25. Un altro modo ancora per corrompere la fede del giovane sta nel suscitare in lui un certo orgoglio spirituale: «Mentre il Nemico, per mezzo dell'amore sessuale e di alcune persone molto simpatiche che sono assai progredite nel suo servizio, sta attirando il giovane barbaro ad altezze che egli non sarebbe mai stato capace di raggiungere, devi fargli sentire che è lui che si sta trovando la sua propria altezza - che codeste persone sono della sua specie, e che, capitando fra di loro, è venuto a casa sua (24,99).
L’attesa spasmodica del futuro accompagnata dalla persuasione che esso stravolgerà le norme vigenti nel presente diventa un’altra ottima opportunità per adulterare il messaggio della fede. «Gli esseri umani vivono nel tempo, ed esperimentano la realtà per gradi successivi. Perciò, al fine di farne molta esperienza, devono sperimentare molte cose diverse; in altre parole devono sperimentare il cambiamento» (25,). Dal momento che hanno bisogno di mutamento, Dio ha equilibrato in essi l'amore a ciò che cambia con l'amore a ciò che permane: «Offre loro le stagioni ciascuna diversa, e tuttavia uguale ogni anno, così che la primavera è sempre sentita come una novità e tuttavia sempre come la ricorrenza di un tema immemorabile. Offre loro nella sua chiesa un anno spirituale; si muta dal digiuno alla festa, ma la festa è la stessa di prima». Mentre Dio ha prestabilito questo ritmo di saggezza, che prevede il cambiamento nella regolarità, il diavolo suggerisce l’orrore per ciò che fa apparire come vecchio, desueto. Così, mentre Dio desidera che gli uomini, riguardo alle questioni morali, si facciano domande molto semplici e chiedano a se stessi: è giusto? È prudente? È possibile? Il diavolo, invece, vuole che gli uomini si fissino in questi altri interrogativi: «Questa convinzione etica si accorda con la tendenza generale del nostro tempo? È progressista o reazionaria? È la strada per la quale è incamminata la Storia?».In realtà il futuro dipende delle scelte attuali; lo costruiamo noi a partire dal presente e non ha caratteri di una fatalità a cui è necessario adeguarsi. «Una volta essi sapevano che alcuni mutamenti erano per il meglio, altri per il peggio, altri indifferenti. Noi abbiamo in gran parte rimosso una tale conoscenza. All'aggettivo descrittivo "immutato" abbiamo sostituito l'aggettivo emotivo "stagnante". Li abbiamo educati a pensare al Futuro come a una terra promessa che eroi favoriti riescono a raggiungere — non come qualcosa che ciascuno raggiunge alla velocità di sessanta minuti all'ora, qualunque cosa faccia, chiunque egli sia» (25,104).
26. Ogni stato di vita subisce un proprio genere di tentazione e un’occasione propizia viene data dal perido di fidanzamento. Conviene che i fidanzati sopravvalutino la forza dell’innamoramento: «Sfrutta l'ambiguità della parola "amore": fa' in modo che credano di aver risolto, per mezzo dell'Amore, problemi che di fatto hanno soltanto abbandonato o rimandato sotto l'influsso del fascino» (26, 105).
L’innamoramento, infatti, produce uno stato d'animo fatto di compiacenza nel quale ciascuno si sente veramente contento di cedere ai desideri dell'altro. Il diavolo dovrà fare in modo che i due fidanzati «stabiliscano come legge della loro vita coniugale quel grado di reciproco spirito di sacrificio, che al presente spunta naturalmente dal fascino, ma che, una volta che il fascino se ne sia andato, non avranno la carità sufficiente che li renda capaci di metterlo in pratica. Non scorgeranno la trappola, perché sono sotto la duplice cecità che li fa sbagliare nel considerare carità l'eccitazione sessuale e nel pensare che quell'eccitazione continuerà» (26,105).
In realtà l'amore erotico non è sufficiente, la carità è necessaria e nessuna qualità sostitutiva, come l’idea del disinteresse, può prenderne il posto. Il proposito di vivere nel semplice disinteresse farà sorgere gravi equivoci poiché ognuna delle parti crederà di aver usato maggior disinteresse dell’altra e così si sentirà maltratta da essa, mentre continuerà a credersi esente da ogni biasimo (26,108). «Spesso è impossibile stabilire i veri desideri dell'una o dell'altra parte; con un po' di fortuna, finiscono col fare qualcosa che nessuno dei due vuole, mentre ciascuno sente una vampa di compiacimento di sé e custodisce un segreto pretesto a un trattamento di preferenza per il disinteresse dimostrato, e un segreto rancore contro l'altra parte per la facilità con la quale è stato accettato il sacrificio» (26,107).
La preghiera subisce un nuovo attacco: l’orante dovrà pregare in modo disincarnato, rimuovendo da essa ogni limite legato alla sua umanità. Se cade in frequente distrazioni, anziché chiedere l’aiuto di Dio, cercherà di lottare con le sue sole forze. Il Pater invita a chiedere a Dio il soccorso anche per i bisogni materiali della vita mentre ma il diavolo insinuerà che bisogna orientarsi a chiedere doni spiriruali e cercherà di incoraggiare una falsa spiritualità, insegnerà a coarta i desideri di felicità terrena che accompagnano necessariamente un fidanzamento.


27. Il diavolo lavorerà il cuore dell’orante suscitando dubbi sull’efficacia della preghiera fino a considerla una pratica assurda: «Se ciò per cui prega non avviene si avrà una nuova prova che le preghiere di petizione non raggiungono lo scopo; se avviene sarà naturalmente capace di vedere alcune delle cause fisiche che hanno condotto a quell'effetto che perciò sarebbe capitato in un modo o nell'altro» (27,110). Il tentatore suscita, poi, altri dubbi di carattere più teologico: come rapportare l’esaudimento delle nostre richieste con il piano eterno di Dio? Il giovane magari cercherà di trovare una risposta nelle riflessioni di uomini dotti del passato che hanno già affrontato queste questioni. Questo, tuttavia, non accadrà, a motivo di un modo di pensare che si sta imponendo: «Considerare l'antico scrittore come una possibile fonte di conoscenza - anticipare che ciò  che egli disse potrebbe possibilmente modificare i tuoi  pensieri o il tuo modo di comportarti - sarebbe rigettato  come segno di un'indicibile semplicità di mente. E dal momento che noi non possiamo imbrogliare l'intera razza umana per tutta la lunghezza del tempo, ci è  di suprema importanza tagliare ogni generazione fuori  da tutte le altre» (27,112).

28-29.  Il diavolo sta perdendo terreno perché il giovane è riuscito a superare varie tentazioni (quelle descritte nei capitoli precedenti) ed ora ha acquisito una certa robustezza spirituale. Se morisse al presente (in seguito agli effetti dei bombardamenti nazisti), andrebbe in cielo e questo sarebbe la dura sconfitta del tentatore. A questo punto è preferibile fare affidamento sul logoramento che avviene nel tempo, dal momento che agli uomini è difficile perseverare.
«Se, d'altra parte, gli anni dell'età matura si presenteranno prosperi, la nostra posizione sarà ancora più forte. La prosperità  intreccia l'uomo col mondo. Sente che vi trova un posto  per lui, mentre in realtà è il mondo che trova un  posto nell'uomo» (28,116).
«Questa è la ragione per la quale dobbiamo  spesso desiderare che i nostri pazienti vivano a lungo;  settant'anni non sono troppo per il difficile compito di  districare le loro anime dal cielo e di stabilire un tenace  attaccamento alla terra».
«Quanto il tempo sia prezioso per noi si può giudicare dal fatto che il Nemico ne mette pochissimo a nostra disposizione. La più gran parte della razza umana muore nell'infanzia; e di coloro che sopravvivono moltissimi muoiono giovani. È evidente che per Lui la nascita umana è importante principalmente come qualifica per la morte umana, e la morte unicamente come porta all'altro genere di vita. A noi è permesso di lavorare soltanto su una minoranza selezionata della razza, poiché ciò che gli esseri umani chiamano "vita normale" è un'eccezione. Forse Egli desidera che alcuni - ma solo pochissimi - animali umani, con i quali sta popolando il cielo, facciano l'esperienza di resistere contro di noi durante una vita eterna di sessanta o settant'anni. Ecco, questa è la nostra opportunità».
Ritorna l’argomento della guerra, in modo particolare quello dei bombardamenti tedeschi sopra le città inglesi. Che cosa è più opportuno pe il diavolo? Favorire la viltà, oppure il coraggio con l'orgoglio che ne segue, oppure l'odio per i tedeschi? (29,118)
L’opportunità maggiore per il diavolo è costituita dall’odio che nasce nel cuore degli uomini. «Fagli dire che sente odio non per amore di sé, ma per le donne e per i bambini, e che al cristiano si dice di perdonare ai suoi, ma non ai nemici degli altri» (29,119).
L'odio viene incrementato dalla paura.«La viltà unica fra tutti i vizi, è puramente dolorosa - orribile quando la si prevede, orribile se la si prova, orribile a ricordarsi; l'odio ha i suoi piaceri. Esso è quindi, di frequente, il compenso con il quale un uomo spaventato si rifà per le sofferenze della paura. Maggior paura avrà, e maggiormente odierà. E l'odio è altresì un grande anodino della vergogna. Al fine di ferire profondamente la sua carità, dovresti in primo luogo sconfiggere il suo coraggio» (29,119).
A questo punto, però, il dilemma del diavolo s’infittisce. Deve incrementare la viltà negli uomini, visto che essa consolida l’odio? Egli qui corre un altro rischio: Se si diffonde la viltà, la società s’accorgerà della propria miseria morale e questa scoperta potrebbe indurla ad agire in senso contrario; il problema inevitabile della viltà e del coraggio sveglierà migliaia di uomini dall'abulia morale. Dio «vede, con la stessa chiarezza con la quale lo vedi tu, che il coraggio, non è semplicemente una delle virtù, ma la forma di ogni virtù quando giunge alla prova, vale a dire, nel punto della più alta realtà» (19,120). Questo è il vantaggio di vivere in un mondo pericoloso.
La soluzione possibile, dal punto di vista demoniaco, consisterebbe allora  nel coniugare la viltà con la disperazione (soffocando così la possibilità che la vergogna della propria viltà risvegli la moralità).Gli uomini tuttavia, quando provano un senso di disperazione, s’accorgono facilmente d’essere tentati e quindi reagiscono con forza. Rimane solo una soluzione di ripiego: confondere la deliberazione suscitata dal coraggio annebbiando la mente nel momento delle decisioni: «ciò che era voluto come totale dedizione al dovere viene riempito come un'arnia da piccole riserve inconsce» (29,121).

30. Gli eventi che sono seguiti, dopo la formulazione di questo piano d’assalto, hanno frantumato le aspettative del diavolo. Messo alla prova, il giovane si è comportato in modo inaspettato: «S'è spaventato terribilmente e crede di essere un vile e quindi non prova superbia; ma ha fatto tutto quanto il suo dovere richiedeva e forse un pochino di più» (30,123). Ora, per tentare il giovane, il diavolo ha la possibilità di frantumare la sua pazienza ma dovrà fare attenzione alla tattica efficace da usare: «Non è la fatica in quanto tale che produce l'ira, ma richieste inaspettate che si esigono da un uomo già stanco» (30,124). Quel che si deve evitare è la dedizione totale. «Qualunque cosa egli dica, fa' in modo che la sua intima risoluzione non sia di sopportare qualunque cosa gli capiti, ma di sopportarla per un periodo di tempo ragionevole - e fa' in modo che il periodo ragionevole sia più breve di quanto è probabile che la prova possa durare» (30,124).
B. suggerisce di far leva sulle emozioni del giovane più che sui suoi ragionamenti. Quale stato d’animo suscitare? «… fargli sentire, quando vedrà per la prima volta brandelli d'uomo appiccicati al muro, che questo è « ciò che il mondo è in realtà » e che tutta la sua religione non è che fantasia». ».Gli uomini, che sono stati completamente annebbiati sul significato della parola "realtà", tendono a considerare realtà gli eventi negativi, mentre confinano quelli positivi nel regno dei sentimenti soggettivi. Il giovane volonteroso, di conseguenza, «non avrà difficoltà alcuna a considerare la sua emozione alla vista delle viscere umane come una rivelazione di "realtà", e la sua emozione alla vista di bambini felici o del bel tempo come puro sentimento» (30,126).


Nell’ultima lettera (31) il giovane muore in maniera improvvisa sotto le bombe. Lewis descrive, in modo emoziante, il passaggio improvviso da questo mondo a quello della vita eterna. La disperazione del diavolo è molto forte quando descrive la visione di Dio ottenuta dal giovane morto di recente: «vide anche Lui. Questo animale, questa cosa generata in un letto, potè posare il suo sguardo su di Lui. Ciò che per noi è fuoco accecante, soffocante, è per lui luce rinfrescante, è la stessa chiarità, e porta le forme d'un Uomo [Cristo Risorto]» (31,129-130)

venerdì 8 marzo 2019

Lettera ai Romani 6-8


6. L’esperienza della libertà


Paolo, dopo aver parlato dell’evento della giustificazione, affronta un nuovo argomento basilare: descrivere la nuova situazione in cui si trova il battezzato (capp. 6-8). È possibile porre al centro del suo messaggio l’esperienza della libertà.


1. Libertà dal peccato


La prima caratteristica della situazione nuova in cui si trova il credente giustificato, consiste nella volontà e nella reale capacità di eliminare il peccato dalla propria esistenza. «Che diremo dunque? Rimaniamo nel peccato perché abbondi la grazia? È assurdo!» (6,1-2).
Non tutti avevano compreso il messaggio del perdono gratuito concesso da Dio e attribuivano all'apostolo Paolo questa convinzione: se Dio viene incontro all'uomo peccatore e riversa la sua grazia proprio là dove domina il male, allora è più conveniente perseverare nel peccato e sprofondare ancora più in basso, perché in questo caso potremmo sperimentare ancora meglio la benevolenza di Dio. Il fraintendimento non avrebbe potuto essere più totale. In realtà il volere di Dio è quello di perdonare l'uomo perché questi rifiuti il male e cominci a comportarsi da persona retta. Dio è paziente con l'uomo ma rifiuta nettamente il suo peccato; vuole rimetterci in piedi e renderci giusti. Era questo il suo vero messaggio.
Ora il credente che ha creduto al Signore e si è fatto battezzare, non si trova nella medesima situazione precedente all'evento del perdono e della giustificazione. Gode di un grande vantaggio e di un grande aiuto. Quale? Cristo, la santità e la rettitudine in persona, si unisce al cristiano, diventa una cosa sola con lui e lo rende partecipe di ciò che Egli è. Lo rende partecipe della sua Pasqua.


O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione. Lo sappiamo: l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è liberato dal peccato (Rm 6,3-7).

Cristo Risorto comunica al battezzato la sua stessa vita e questa nuova energia fa morire in lui il peccato. Sulla croce, ottenendo il perdono di Dio Padre ed espiando le nostre colpe, ha fatto morire il nostro peccato e così il nostro uomo vecchio è morto in quel momento insieme con lui. Ha ottenuto così per noi anche la libertà. Infatti chi è morto, è liberato dal peccato. Comincia in noi una vita nuova che si espanderà fino alla partecipazione alla condizione gloriosa di Cristo Risorto.
«Quello che per Cristo fu la croce e il sepolcro, è stato per noi il battesimo, anche se non in ordine alle stesse cose: Cristo infatti morì e fu sepolto nella carne, noi invece al peccato. Per questo non disse: “Siamo stati completamente uniti a lui nella morte”, ma “con una morte simile alla sua” (6,5). Si tratta di morte in ambedue i casi, ma diverso è il soggetto: quella di Cristo è morte della carne, la nostra invece è morte del peccato. Com'è vera quella, è vera anche questa. Ma pur essendo vera, occorre che noi da parte nostra vi cooperiamo» (Crisost., CLR, 10,4).
Vivere il battesimo significa continuare a proporci un impegno di conversione. «Non pensare che il rinnovamento della vita, che si dice avvenuto una sola volta, sia sufficiente; ma continuamente ogni giorno bisogna fare nuova, se si può dire, la stessa novità. Come infatti l'uomo vecchio continua ad invecchiare e di giorno in giorno si fa più senescente, così anche questo nuovo continua a rinnovarsi e non c'è mai un tempo in cui il suo rinnovamento non si accresca. Camminiamo in novità di vita, mostrandoci ogni giorno nuovi a colui che ci risuscitò con Cristo, e per così dire più belli, cercando in Cristo come in uno specchio la bellezza del nostro volto e, contemplandovi la gloria del Signore, trasformiamoci nella sua stessa immagine, poiché Cristo risorgendo dai morti dalle bassezze terrene è asceso alla gloria della maestà del Padre» (Orig., CLR/1, p. 284).

Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù (6,8-11).

La resurrezione non è un ritorno a questa vita ma un passaggio definitivo dalla condizione terrena a quella gloriosa: Il Risorto non può più morire. A nostra volta, possiamo rimanere in maniera definitiva in questa situazione di grazia che ci è stata donata. «Se siamo stati sepolti con Cristo, anche noi risorgeremo insieme con lui; e poiché lui ascende al cielo, noi ascenderemo insieme con lui; e poiché egli siede alla destra del Padre, si dirà che anche noi sediamo nelle regioni celesti insieme con lui (cfr. Ef 2,6)» (Orig., CLR/1, p. 284). «Fino a che siamo nella vita presente, posti nella carne, non possiamo essere puri in maniera limpida, fino a che non viene il giorno ottavo, cioè non giunge il tempo del secolo futuro» (Orig., Omelie sul Levitico, 8,4, Città Nuova, Roma 1985, p. 182).
«Dopo averci posto innanzi la risurrezione futura, esige da noi un'altra risurrezione, una nuova impostazione della vita presente che sia conseguenza di una conversione dei costumi. Quando infatti chi è dissoluto diventa casto, chi è avaro generoso, chi è violento mite, avviene una risurrezione che è un’anticipazione di quella futura. E di quale risurrezione si tratta? Morto il peccato, risorge la giustizia che prima era distrutta» (Crisost., CLR 10,4).


Conseguenze del battesimo


Il peccato dunque non regni più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri. Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia. Il peccato infatti non dominerà su di voi, perché non siete sotto la Legge, ma sotto la grazia (Rm 6,12-14).

Chi ha compreso il messaggio del Vangelo e lo ha accolto in verità, deve sentirsi impegnato a rifiutare il peccato. Il credente diventa un sacerdote che offre se stesso a Dio, spinto dalla riconoscenza. Il suo massimo impegno è quello di rimanere nella libertà e il dono ricevuto deve tramutarsi in compito di grande responsabilità. «Questo dunque è ciò che l'apostolo insegna nel passo presente: ciascuno ha in suo potere e dipende dalla sua volontà l'essere servo o del peccato o della giustizia. Verso qualunque partito infatti egli ha rivolto l'obbedienza e a qualunque partito egli ha voluto essere sottoposto, questo lo reclama come suo servo. E in tale passo, come ho detto, senza alcuna esitazione Paolo dimostra che in noi c'è la libertà dell'arbitrio. Sta in noi, infatti, offrire la nostra obbedienza o alla giustizia o al peccato. “Nessuno” però “può servire nello stesso tempo a due padroni”, al peccato e alla giustizia. Giacché o avrà in odio uno, appunto il peccato, e amerà l'altro, cioè la giustizia, o tollererà uno, ossia naturalmente il peccato, e disprezzerà l'altro» (Orig., CLR/1, p. 308).
Che dunque? Ci metteremo a peccare perché non siamo sotto la Legge, ma sotto la grazia? È assurdo! Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia (6,15-18).

La vita cristiana non è più sotto la legge. Che significa? Non consiste più nel tentativo di osservare con le nostre forze una legge che ci appare estranea, troppo difficile da attuare, oppressiva, mentre continuiamo a verificare le nostre mancanze. Ora siamo alimentati e sostenuti dalla Grazia (cioè dallo Spirito Santo). Essa deve dominarci e noi dobbiamo accogliere il suo giogo soave.
«Avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati» (v.18). A questo riguardo, precisa Origene: «Si può ricercare che cosa ci liberi dal peccato. Senza dubbio, la conoscenza della verità. Così infatti diceva Gesù ai Giudei che gli avevano creduto: “Se avete creduto alla mia parola, conoscerete la verità, e la verità vi libererà” (Gv 8,31). A liberare dal peccato, dunque, sono la verità e la conoscenza della verità» (Orig., CLR/1, p. 311). Vediamo ora le conseguenze della nostra decisione.

Parlo un linguaggio umano a causa della vostra debolezza. Come infatti avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità, per l’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia, per la santificazione. Quando infatti eravate schiavi del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Il loro traguardo infatti è la morte. Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, raccogliete il frutto per la vostra santificazione e come traguardo avete la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore (6,19-23).

Un tempo dovevamo arrossire di noi stessi e delle nostre azioni. Chi, pentito del suo passato, si è lasciato battezzare, ha cominciato a superare se stesso. Non dice soltanto: quante cose sbagliate ho fatto! Ma piuttosto: come ero povero e meschino! Non bisogna tornare indietro per essere corrosi dal nostro male.
Noi veniamo molestati di frequente dai pensieri che provengono dai nostri cattivi desideri, come gli egiziani erano stati molestati da un’invasione di rane. Soltanto Mosé poté liberarli, come ora soltanto Gesù Crocifisso ci preserva dall’impeto del desiderio scomposto: «Mosè con il gesto delle mani distese, fece scomparire le rane anche dalle case degli Egiziani. Ci è possibile osservare anche oggigiorno questo fatto. Chi tiene fissi gli occhi sopra di lui [il Cristo], viene liberato dall’odiosa compagnia di pensieri luridi e impuri, così che la passione finisce per morire e imputridire. Il ricordo del passato causa un disgusto insopportabile in quelli che, con la mortificazione dei moti disordinati dell’anima, si sono liberati dal male. L’Apostolo, quando accenna a coloro che hanno abbandonato le vie del male per seguire la strada della virtù, dice appunto che essi sentono vergogna del loro passato: “Quale frutto avevate allora nelle cose di cui ora vi vergognate?”» (Rm 6,21) (Gregorio di Nissa, Vita di Mosé, II, 78, cf. tr. Simonetti p. 103)».
Mentre il salario del peccato è la morte, il dono ultimo di Dio è la vita eterna; la grazia attuale ci conduce ad essa: «Vi parla dei beni già concessi a voi da Dio e di quelli che sono oggetto di speranza; ricordando i primi, li rassicura sul fatto che riceveranno anche gli altri: mediante la santificazione, riceverete la vita. Perché non pensiate che dovete soltanto sperare, senza mai vedere, vi ricorda i beni che avete già ricevuto: la libertà dalle opere cattive al cui ricordo ancora arrossite, l’adesione alla giustizia, la santificazione, la gioia della santificazione e il possesso della vita, non di quella passeggera ma di quella eterna. Non parla di ricompensa per le nostre opere buone, ma di grazia. In questo si vede la qualità del dono, non soltanto Dio li ha liberati senza alcun loro merito, ma donerà loro dei beni considerevoli per opera del Figlio suo» (Crisost., CLR 12,2).



2. Libertà dalla legge


La prima liberazione riguarda il peccato, mentre la seconda è in relazione con la Legge: «Siamo stati liberati dalla Legge per servire secondo lo Spirito» (Rm 7,6). Libertà dalla Legge! È un’espressione forte, estrema, per parlare, in realtà, della nostra incapacità a vivere in conformità alla Legge, a comportarci secondo l’insegnamento datoci da Dio. Soltanto Lui, con la sua grazia, ci può rendere capaci di pensare e vivere in sintonia con Lui e la grazia sta ad indicare la forza dello Spirito Santo.

Quando infatti eravamo nella debolezza della carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla Legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte. Ora invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri, siamo stati liberati dalla Legge per servire secondo lo Spirito. Che diremo dunque? Che la Legge è peccato? No, certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non mediante la Legge. Infatti non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare. Ma, presa l’occasione, il peccato scatenò in me, mediante il comandamento, ogni sorta di desideri. Il comandamento, che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo di morte. Il peccato infatti, presa l’occasione, mediante il comandamento mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. Così la Legge è santa, e santo, giusto e buono è il comandamento. Ciò che è bene allora è diventato morte per me? No davvero! Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato risultasse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento (7,5-13).

Dio aveva concesso un dono grandissimo – la sua rivelazione e il suo insegnamento – a uomini che si sono mostrati incapaci di apprezzarlo e ad accoglierlo. I comandi di Dio, più che farci riflettere e stimolarci alla fiducia in Lui, hanno stimolato il fascino del proibito e l’istinto di ribellione. «Il comandamento, che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo di morte» (Rm 7,11). L’elenco dei comandamenti, anziché essere una serie di proponimenti incisivi o di conquiste morali, diventa un elenco delle trasgressioni e dei fallimenti che manifestano, con maggior evidenza, l’inconsistenza morale dell’uomo. Più ci proponiamo ideali elevati, più ci dimostriamo, in realtà, deboli e incoerenti. «Facendomi conoscere il peccato la legge mi rende responsabile. Tutto questo è verissimo ed è già stato detto, ma non tutto è negativo. Costringere il peccato a mostrarsi per quello che è, col suo volto peccaminoso, non è negativo. Come non è del tutto negativo che la legge mostri la sua impotenza, facendomi conoscere il bene senza darmi la forza di compierlo. Conoscere senza potere è una situazione certamente drammatica, forse più drammatica della semplice non conoscenza. Ma è proprio così che l'uomo prende consapevolezza di essere prigioniero del peccato e dell'insufficienza della legge. Una consapevolezza, questa, assolutamente necessaria per aprirsi alla grazia. Dunque, almeno sotto questi aspetti, la legge svolge un ruolo che può dirsi positivo» (Maggioni.., p. 94).
Nel seguito del discorso, l’apostolo cerca di essere ancora più preciso nella descrizione della pesantezza della nostra situazione, non per indurci al disprezzo di noi stessi o allo sconforto ma alla fiducia in Dio, finché ci lasciamo aiutare da Lui.

Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato. Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato (Rm 7,14-25).

L’uomo vive nel contrasto: «Non faccio ciò che voglio, ma ciò che non voglio» (7,15). La constatazione deve spronarci ad aprirci all’aiuto di Dio che si è messo e si mette completamente a nostra disposizione. Quando Paolo parla di corpo di morte non si riferisce alla nostra fisicità corporea ma alla nostra persona umana concreta, la quale, ricadendo negli stessi errori, provoca la morte a se stessa. All’interno di questa visione funerea, risplende, però, una luce di speranza: «Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (7,25).
«Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio». Origene pensa che questo rilievo non valga soltanto per l’uomo ancora dominato dal peccato ma, almeno in parte, anche per chi ha cominciato a convertirsi e vuole vivere come discepolo del Signore. «[Il principiante] si sforza un po' di resistere ai vizi, sotto lo stimolo, ovviamente, della legge naturale, ma viene vinto da essi e sopraffatto senza volerlo: come spesso capita, per esempio, quando uno si propone di sopportare con pazienza chi lo aizza, ma alla fine è vinto dall'ira e, pur non volendo, diviene vittima di tale situazione: si adira dunque, anche quando non vuole adirarsi. Chi non è ancora spirituale viene dunque sopraffatto, in queste singole circostanze, anche contro la propria volontà» (Orig., CLR/1, p. 339).
«L'apostolo, non voleva che qualcuno si vergognasse di ciò che sentiva accadere dentro di sé. Non voleva che qualcuno di noi perdesse ogni speranza nel rendersi conto che, pur convertitosi al Signore e trasformata ormai la volontà, tuttavia tali moti si agitano ancora nel suo interno. Nessuno si vergogni della natura del corpo né perda la speranza nei confronti della conversione né ignori la moltitudine dei propri mali dai quali è liberato per la grazia di Cristo» (Orig., CLR/1, p. 344).



3. Libertà nello Spirito


Ci troviamo ancora all’interno del discorso nel quale si cerca di stabilire in che modo si attui nel credente la giustificazione per grazia ottenuta dalla morte del Sigore. Abbiamo ascoltanto l’annuncio che ci vuole rendere consapevoli di due forme di libertà, quella dal peccato e quella dalla legge. In questa parte, l’Apostolo parla invece di libertà al positivo come la capacità di vivere nel bene, da figli di Dio. Il protagonista ora è lo Spirito Santo, che riproduce in noi la somiglianza con Cristo.

Comincia l’esposizione del messaggio, evidenziando come il cristiano ora, ossia dopo la vicenda di Gesù, non si trova più nel rischio di essere condannato.

Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù.
La legge può condannare un peccato, soltanto condannando insieme anche il peccatore; per condannare un atto criminoso, deve punire l'autore del crimine. È impossibile condannare un furto, senza colpire il ladro. Cristo è venuto nel mondo per condannare il peccato ma salvando l'uomo peccatore. In che modo ha potuto fare questo? Espiando sulla croce il peccato dell'umanità e mettendoci in grado di vivere da uomini giusti, obbedienti ai comandamenti di Dio.
L’obbedienza ora è possibile perché abbiamo ricevuto lo Spirito Santo: «La legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (2,2). La legge dello Spirito è lo Spirito Santo in noi che ci libera dal peccato e così ci impedisce di condurre un’esistenza tipica di un “morto vivente”.
Nel passato Dio aveva donato la sua Legge agli uomini per renderli santi ma questo dono non realizzò il suo scopo. Noi restammo deboli e incapaci. L’unico uomo giusto è stato Gesù che ha vissuto in una carne “simile a quella del peccato” senza, però, cadere nella colpa. Ha vissuto da uomo integro, vivendo un’esistenza umana completa perché colmata dall’amore.

Infatti ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito (8,1-4).

La santità di Gesù si è formata in situazioni umane molto concrete, anche drammatiche. L’esempio più chiaro lo troviamo nella sua disponibilità all’obbedienza nel corso della sua passione; lo testimonia l’episodio della preghiera al Getsemani, quando Gesù dice: Padre, se è possibile, passi da me questo calice (Mt 26,39). In quel momento «Egli usa la voce della nostra natura e si adegua alla fragilità e alla trepidazione umana affinché, nelle tribolazioni da sopportare, la pazienza si rafforzi e il timore si allontani. Poi passò a un altro stato d'animo. Disse: Se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà (Mt 26,42)» (Leone Magno, Discorsi, 45, 4-5). L’esitazione diventa totale disponibilità ed ora egli ci rende partecipi della sua vittoria: «Queste parole del capo sono la salvezza di tutto il corpo; queste parole sono state d'insegnamento per tutti i credenti, hanno infiammato tutti i confessori, hanno coronato tutti i martiri. Chi infatti potrebbe vincere l'odio del mondo, le tempeste delle tentazioni, la paura dei persecutori se Cristo in tutti e a favore di tutti non dicesse al Padre: Sia fatta la tua volontà» (ivi). Cristo che è presente in noi, vince in noi. In lui riacquistiamo la nostra dignità. «Chi non sa che solo Cristo ha riportato la vittoria contro il maligno, lui il cui corpo si erge quale unico trofeo contro il peccato? Con il suo corpo ha patito e vinto [e con il suo corpo eucaristico] soccorre i fedeli che stanno ancora lottando. La carne non aveva nulla in comune con la vita spirituale ed anzi l’odiava e combatteva assai ma proprio per questo fu pensata una carne [santa] contro la carne [corrotta]. Nessuno, in assoluto, poteva vivere la vita spirituale, finché non era formata la carne santa del Cristo» (Nicola Cabasilas, La vita in Cristo… p. 217).


La guida dello Spirito Santo


Ci vengono presentate, allora, due situazioni possibili; sono due visioni teologiche e non descrizioni di situazioni concrete: vivere secondo la carne o vivere secondo lo Spirito. Vivere secondo la carne significa restare schiavi dell'egoismo e di conseguenza camminare verso la morte; mentre vivere secondo lo spirito è cominciare a camminare nell'amore, ottenendo abbondanza di vita e di pace, in comunione profonda con Dio.

«Quelli infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. Quelli che si fanno dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia» (8,7-9).

Il cristiano è ormai in grado di vivere secondo lo Spirito. Lo Spirito di Dio viene denominato anche Spirito di Cristo. Il cristiano «che è abitato dallo Spirito di Dio, ha lo Spirito di Cristo, si trova cioè nella situazione stessa del Figlio incarnato, il cui respiro era lo Spirito stesso di Dio» (Attinger… p. 159).
Ricevere lo Spirito è la stessa cosa che avere Cristo dentro di noi, come nostro maestro, guida, e come nostra vita. Con queste affermazioni Paolo non vuole descrivere i cristiani quali sono concretamente, nel loro quotidiano, ma porre le motivazioni per sollecitare il nostro impegno etico. Ci avverte di una possibilità reale che abbiamo ma che dobbiamo anche conquistare.
Lo Spirito Santo ci fa avanzare fino a renderci capaci di oltrepassare i nostri limiti nei quali ci siamo chiusi, a valicare le frontiere che sono costituite dalle ribellioni che la carne solleva naturalmente contro lo spirito. Il credente «deve andare oltre queste frontiere, superando le difficoltà e abbattendo con la forza e la determinazione dello spirito tutti gli appetiti sensuali e le affezioni naturali. Finché questi persisteranno in lui, lo spirito sarà talmente soggiogato da non poter andare avanti verso la vera vita e la gioia dello Spirito. Tutto questo ci fa ben comprendere Paolo quando afferma: Se con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere della carne, vivrete (Rm 8,13). Questo dunque è l’atteggiamento che l’uomo fedele ritiene opportuno adottare lungo il cammino di ricerca del suo Amato» (Giovanni della Croce, Cantico… p. 544). «Si può provare anche così che uno abbia in sé lo spirito di Cristo. Cristo è sapienza: se uno è sapiente secondo Cristo e ha il gusto delle cose di Cristo, costui ha in sé, per mezzo della sapienza, lo spirito di Cristo. Cristo è giustizia: se uno ha in sé la giustizia di Cristo, per mezzo della giustizia ha in sé lo spirito di Cristo. Cristo è pace: se uno ha in sé la pace di Cristo, per mezzo dello spirito di pace ha in sé lo spirito di Cristo. Così anche chi ha in sé ogni singola realtà che Cristo viene detto essere, di costui occorre credere che abbia in sé lo spirito di Cristo e speri che il suo corpo mortale sarà vivificato a motivo dello spirito di Cristo che abita in lui» (Orig., CLR/1, pp. 357-358).
L’apostolo ci chiede di diventare anche nello stile di vita, quindi in concreto, ciò che siamo diventati in anticipo, per puro dono di Dio; ci chiede di restare all'altezza della nostra dignità. In che modo, mediante lo Spirito, possiamo far morire le opere del corpo (cioè della nostra persona concreta, condizionata dall’egoismo)? Origene ci offre queste esemplificazioni: «Uno mortifica le azioni della carne nel seguente modo: la carità è frutto dello Spirito, l’odio è azione della carne: l’odio dunque viene mortificato e si estingue per mezzo della carità. Ugualmente la gioia è frutto dello spirito Santo, mentre la tristezza di questo mondo, la quale provoca la morte, è azione della carne: questa pertanto si estingue se vi è in noi la gioia dello Spirito Santo. La pace è frutto dello spirito, la divisione e la discordia sono azioni della carne: è però certo che la discordia può essere mortificata per mezzo della pace. Così anche la pazienza dello spirito estingue l'impazienza della carne, la bontà rende vana la malizia, la mansuetudine spegne la ferocia, e chi, grazie allo Spirito, con questo procedimento avrà mortificato le azioni della carne, vivrà» (Orig., CLR/1, p. 359).
E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi (8,11).
Lo Spirito al presente ci aiuta a vivere secondo Cristo e nel futuro ci renderà partecipi della sua risurrezione. La risurrezione, in Gesù e in noi, è sempre un’azione propria dello Spirito di Dio e della sua potenza. «La vita in Cristo prende inizio e si sviluppa nell'esistenza presente, ma sarà perfetta soltanto in quella futura, quando giungeremo a quel giorno: l’esistenza presente non può stabilire perfettamente la vita in Cristo nell’uomo; ma nemmeno lo può quella futura, se non incomincia qui» (Nicola Cabasilas, La vita in Cristo…, p. 63).


Figli di Dio ed eredi


Ora noi, gli uomini perdonati, giustificati, partecipi dello spirito Santo, siamo diventati figli adottivi di Dio. Non significa essere figli di secondo rango, ma figli reali, diventati tali per puro dono. Adozione significa che siamo figli per grazia, e non di diritto.
Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria (8,12-17).
Essere figli non corrisponde soltanto ad essere creature, ad essere stati creati e quindi amati da Dio, ma partecipare alla vita di Cristo Gesù, l'Unico Figlio amato da Dio, che si rivolge a lui chiamandolo “Abbà”. Per diventare figli sono allora necessarie la fede che ci rende possibile condividere lo stile di Gesù e la partecipazione allo Spirito Santo. Inoltre siamo eredi di Dio e coeredi di Cristo perché parteciperemo alla gloria stessa di Dio, in unione con il Cristo risorto. Parteciperemo alla gloria sua, come ora già partecipiamo alla sua sofferenza (“se davvero” non indica una condizione ma una semplice constatazione: “come anche ora già”).
In un primo tempo cominciano a rapportarci con Dio come servi che obbediscono per paura della punizione; poi ci poniamo in relazione con Lui come dei mercenari, desiderosi di ottenere compensi e protezione, e soltanto a maturazione acquisita, agiamo da figli, in spirito d’amore gratuito. «È vero che alcuni si salvano per paura: sono quelli che decidono di staccarsi dal male perché si sentono minacciati dal supplizio della Geenna. Altri ancora divengono virtuosi perché sperano di ottenere il premio riservato alle persone rette; questi, si impegnano non per amore del bene ma per l'attesa della ricompensa. Chi, invece, si propone di giungere presto alla perfezione, prima di tutto allontana la paura (lasciarsi prendere da essa è da schiavi: non ci consente di avvicinarci al Signore amichevolmente né ci libera dall'angoscia della punizione) ma poi si disinteressa anche della ricompensa poiché non sarebbe capace di stimare il dono più del Donatore» (Gregorio di Nissa, Commento al Cantico dei Cantici… p. 32).
L'uomo, divenuto vero figlio di Dio con una completa conversione, «è condotto in tutto dallo Spirito di Dio in questi termini: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rm 8,14). Così, dunque, come ho detto, l'intelletto di quest’uomo è intelletto di Dio; la sua volontà è volontà di Dio; la sua memoria è memoria eterna di Dio; le sue delizie, delizie di Dio. La sostanza di quest'anima non è sostanza di Dio, perché non può trasformarsi sostanzialmente in lui. Tuttavia, siccome è unita a Dio e assorbita in lui, è Dio per partecipazione. In questo modo l’uomo è morta a tutto ciò che era in sé, che per lui era morte, e vive quindi della vita di Dio in sé» (Giovanni della Croce, Fiamma d’amor viva B 2,34, in Opere… p. 804).
Siamo diventati per grazia eredi di Dio, coeredi di Cristo. «Uno diventa erede di Dio quando merita di ricevere le cose che sono di Dio, cioè la gloria della incorruttibilità e della immortalità, i tesori nascosti della sapienza e della scienza, e diventa coerede di Cristo quando egli trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, e anche quando avrà meritato di conseguire ciò che il Salvatore stesso dice: “Padre, io voglio che dove sono io, vi siano anche questi con me”» (Orig., CLR/1, p. 365).

L’attesa della creazione

Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza (8,18-25).
Riguardo alla creazione del mondo, il giudaismo aveva pensato molteplici forme di mediazione, attraverso le quali Dio avrebbe creato il mondo (Sapienza, Logos, Torah); tutte erano soltanto nelle personificazioni di attributi divini o di altro. Invece, nell’insegnamento di Paolo, l'unico mediatore è il Signore Gesù Cristo, una persona reale, e quindi nell'opera della creazione interviene un altro fattore che non è identico né con Dio né con le personificazioni giudaiche (cfr. 1 Cor 8,6b). Inoltre Cristo viene proclamato come colui che unifica e rende coeso l'universo intero (Col 1,16 a17b); può fare questo in base alla sua dignità divina, della quale è in possesso prima della sua missione sulla terra.
Ora, in questo passo, l'apostolo non parla soltanto del destino dei nostri corpi mortali, ma della creazione intera, all'interno della quale avviene anche la redenzione del nostro corpo personale. L'interesse dell’Apostolo si allarga così a tutto il cosmo nel quale siano inseriti ed afferma che la creazione è associata al destino dell'uomo. Egli annuncia una liberazione dalla corruzione. Lo fa in base alla fede nella risurrezione di Cristo, come appare dal contesto (vv.11 e 29). La redenzione del creato coinvolge tutte le creature, compreso l’uomo e, in modo particolare, il cristiano.
La novità di vita si fa avvertire già nell’esistenza presente del cristiano. La fede cristiana, assieme a quella ebraica, attende un compimento escatologico ma già da ora il cristiano sa che Cristo conferisce la vita nuova al battezzato. La vera svolta epocale consiste nell'essere trovati in lui (Fil 3,9) perché soltanto chi è in Cristo, può essere davvero nuova creatura (2 Cor 5,17) (cfr. R. Penna, Parola Fede… pp. 200. 254-259).

Preghiera e conformazione a Cristo

Nella vita troviamo anche molte difficoltà ma Dio viene in nostro aiuto e sperimentiamo la sua assistenza soprattutto nella preghiera. La nostra invocazione, soprattutto quando prorompe dal cuore mentre siamo in grande difficoltà, può non essere buona. Come fa un qualsiasi padre responsabile, Dio ci deve interpretare, operare un discernimento del nostro linguaggio e delle nostre intenzioni. Deve poi elevare la nostra preghiera in modo che essa diventi davvero un’espressione della nostra dignità di figli. Il grido del nostro cuore non viene respinto ma salvato e nobilitato dallo Spirito santo.
Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio. Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati (8,26-30).
«In Dio si trova un sentimento di compassione per le nostre lotte e lo Spirito stesso aiuta la nostra debolezza. Noi non sappiamo che cosa sia opportuno domandare a Dio. Talvolta, spinti dalla debolezza, desideriamo ciò che è contrario alla salvezza. Come uno che è malato non chiede al medico ciò che è confacente alla guarigione, ma piuttosto ciò che gli ha suggerito il desiderio provocato dalla sua malattia, così anche noi a volte chiediamo a Dio ciò che non ci giova. Io stesso, Paolo, che vi dico queste cose, quando mi fu dato dal Signore un angelo di Satana che mi percuotesse, per tre volte chiesi al Signore che lo allontanasse da me. Proprio perché non sapevo chiedere secondo ciò che conveniva, il Signore non mi prestò ascolto, ma mi disse: “Ti basta la mia grazia, infatti la potenza si compie nella debolezza” (2 Cor 12,7-9). Così dunque non sappiamo cosa chiedere secondo ciò che conviene, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili. Quando lo Spirito ci avrà visti affaticarci nella lotta, allora ci porge la mano e aiuta la nostra debolezza. Fa come un maestro che ha bisogno di abbassarsi ai primi rudimenti dell’allievo e di dire lui per primo i nomi delle lettere così che il discepolo li apprenda ripetendoli. Egli stesso, come maestro, pronuncia per primo quella preghiera che il nostro spirito prosegue» (Orig., CLR/1, p. 380-382).
Tutto ciò che ci accade concorre al bene. Questo significa che non sempre è di per sé un bene. In questa situazione, l’azione di Dio consiste proprio nel farci uscire dalle sofferenze, o nel trasformarle in una via di maturazione e di salvezza (cfr. Attinger… p. 175).
Ci ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli. Compare il concetto di predestinazione che può essere frainteso facilmente. Non significa che Dio decide di salvare alcuni e condannare altri, ma piuttosto che Egli sceglie e colma di grazia alcuni, perché essi arricchiscano tutti e si pongano al loro servizio. I cristiani ricevono un dono particolare a vantaggio di tutta l’umanità. Gesù è stato stabilito da Dio, fin dall’inizio, ad essere il primogenito di molti fratelli: «Prima di ogni creatura Egli è nato e sul modello di Lui, Dio si è degnato di adottarsi gli uomini come figli. Egli è anche il primogenito nella rigenerazione dello Spirito, è anche il primogenito che, vinta la morte, ascende al cielo. Primogenito fra tutti è detto fratello nostro, perché si è degnato di nascere come uomo; è però il Signore» (Ambr., CLR p. 202). «Se noi siamo diventati fratelli del Signore, la conseguenza da trarre è che dobbiamo mostrare nel carattere della nostra vita la nostra parentela con Lui» (Gregorio di Nissa, La perfezione cristiana…, p. 105)

L’amore vittorioso di Dio

Dio viene definito in base a una sua totale affezione e dedizione all’uomo: Se Dio è per noi…. Per noi non risparmia il Figlio e, quindi, in qualche modo ci ha preferiti a Lui. L’impegno a sacrificare se stesso, il Figlio non l’ha subito ma lo ha scelto volontariamente (cfr. Attinger… p. 180).
Che diremo dunque di queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore (8,26-39).
«Per avvincerci con uno stupore più grande, ha aggiunto un’espressione che testimonia un mistero straordinario affermando: Dio non ha risparmiato il suo proprio Figlio. Non solo per i grandi, ma anche per i più piccoli e per tutti quelli che sono nella Chiesa, il Padre consegnò il proprio Figlio. Perciò non deve essere assolutamente disprezzato nessuno, neppure il più piccolo che si trova nella Chiesa. Dio ci ha resi preziosi» (Orig., CLR/1, p. 394).
Nessuno ci può accusare. L’unico che potrebbe farlo a ragione, cioè Dio, ha rinunciato a farlo, volendo giustificarci gratuitamente. Egli ci vede in unità con il Figlio, il quale è un’intercessione vivente a nostro favore. «L'apostolo dice che Dio non ci accusa perché ci giustifica. Dice che Cristo non ci può condannare perché ci ama con un amore tale che morì per noi e difende sempre le nostre cause presso il Padre. E la sua petizione non può essere disprezzata perché è alla destra di Dio, cioè nella gloria poiché è Dio; cosi, sicuri di Dio Padre e di Cristo suo Figlio che dovrà giudicare, ci rallegriamo della fede in loro. Per questo il Signore dice all'apostolo Pietro: “Ecco che Satana ha richiesto di vagliarvi come il grano, ma io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede” (Lc 22,31-32). In questo modo il Salvatore intercede per noi, conoscendo la potenza e profonda malizia del nostro avversario» (Ambr., CLR p. 204).
L’apostolo presenta sette motivazioni che potrebbero impedire a Dio di raggiungerci con il suo amore (la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada), mentre in realtà possiamo affrontarle, risultandone vincitori. Esse non rappresentano semplici ipotesi ma situazioni reali incontrate da Paolo stesso. Grazie alla sua esperienza, sa che noi siamo sempre nelle mani di Colui che ci ama in modo fedele e radicale. Uniti a Lui, possiamo o uscirne o superarle.
Compare, poi, un secondo elenco di avversari, dieci in totale, che di nuovo potrebbero impedirci di trovare salvezza (morte, vita, angeli, principati…), ma, nella lotta contro costoro, riusciamo nettamente vincitori. L’amore di Dio per noi non è un sentimento generico ma acquista concretezza estrema nella persona di Gesù.