1 corinti 12-14: carismi ed elogio della carità
1.Confessare GesùPaolo parla dell’influsso e della guida dello Spirito negli uomini e poi dei carismi, ossia dei doni assolutamente gratuiti elargiti da lui ai credenti. [Charisma deriva dal verbo charizomai che significa fare un regalo o un favore; perì pneumaticon: persone spirituali o doni spirituali].
Il primo e il più grande dono è la fede in Gesù: «Per grazia siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio» (Ef 2,8). «Il dono di grazia non è come la caduta: se per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti» (Rm 5,15).
1Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio lasciarvi nell'ignoranza.
L’apostolo spiega quale sia l’influsso dello Spirito Santo riguardo ai credenti (vv.1-3).
v.2 A prescindere da questo caso riguardante i carismi, il cristiano viene liberato da quella ignoranza di Dio che si manifesta nell’agire iniquo, «nel soffocare la verità nell’ingiustizia» (Rm 1,18): «Vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell'ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza» (Ef 4,17-19). «Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell'invidia, odiosi e odiandoci a vicenda» (Tt 3,3).
2Voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti.
Chi si volge ad una divinità, non lo fa in seguito ad una libera decisione ma per un trascinamento costringente: «Se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dèi…» (Dt 30,17). Il Signore “attira”, non “trascina”. In ogni caso, chi è trascinato, non è libero: «L’uomo è schiavo di ciò che lo domina» (2 Pt 2,19).
Le divinità sono mute, non possono coinvolgersi in un dialogo - «hanno bocca e non parlano, … dalla gola non escono suoni» (Sal 115,5.7) - , a differenza del Signore che ha parlato «molte volte e in diversi modi» (Eb 1,1). «A che giova un idolo scolpito? L'artista confida nella propria opera, sebbene scolpisca idoli muti. Guai a chi dice al legno: “Svégliati”, e alla pietra muta: “Àlzati”. Può essa dare un oracolo? Ecco, è ricoperta d'oro e d'argento, ma dentro non c'è soffio vitale» (Ab 2,18-19).
Dio Padre parla a noi e suscita in noi la parola di risposta: «La sapienza aveva aperto la bocca dei muti» (Sap 10,21). «Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”. Quindi non sei più schiavo, ma figlio. Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, voi eravate sottomessi a divinità che in realtà non lo sono. Ora invece avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti» (Gal 4,7-8).
3Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l'azione dello Spirito di Dio può dire: «Gesù è anàtema!; e nessuno può dire: «Gesù è Signore!, se non sotto l'azione dello Spirito Santo.
Chi rinnega Gesù mostra di essere trascinato dallo spirito impuro, mentre chi lo confessa è guidato dallo Spirito Santo: «Ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio» (1 Gv 4,1-3).
La fede cristiana nasce dal riconoscimento della signoria di Gesù, un atto che salva: «Gesù seppe che avevano cacciato fuori [il cieco guarito]; quando lo trovò, gli disse: “Tu, credi nel Figlio dell'uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Lo hai visto: è colui che parla con te”. Ed egli disse: “Credo, Signore!”. E si prostrò dinanzi a lui» (Gv 9,35-38). «Se con la tua bocca proclamerai: “Gesù è Signore” e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9). «Ogni lingua proclami: Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,11). «Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvo. Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,21.36). «In nessun altro c’è salvezza; non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12). Riconoscere la signoria di Gesù consente di gustare la sua bontà: «Come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che buono è il Signore» (1 Pt 2,2-3). «Il miele è la sapienza. Questo miele proviene dalla Roccia che è Cristo. Quanti se ne saziano, dicono: Non c'è niente di meglio, niente di più dolce si può pensare o immaginare!» (Ag37,1046).
2. Carismi
4Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; 6vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. 7A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune:
Ora Paolo parla dei doni gratuiti di Dio. Essi, pur essendo molteplici, derivano da un solo Spirito, da un solo Signore, da un unico Dio. In altri termini: Dio opera mediante Gesù Signore e questi agisce mediante lo Spirito. Il primo dono fontale della fede, quindi, si diversifica e si mostra differenziato in molteplici rivoli in vista dell’edificazione della comunità.
Ogni dono viene da Dio che opera tutto in tutti: «Signore, tutte le nostre imprese tu compi per noi» (Is 26,12). «È Dio che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore» (Ef 2,13). «Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all'uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,11-13). «Come quelli che sono su una nave non bevono l'acqua del mare né da esso prendono vesti o vitto, ma li portano con sé sulla nave; così anche le anime dei cristiani ricevono il cibo celeste e le vesti spirituali non da questo mondo ma dall'alto, dal cielo. Pertanto, durante la loro vita, viaggiano sulla nave dello spirito buono e vivificatore e superano le potenze avverse del male» (Pseudo Macario, Omelie 45,6)
8a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; 9a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell'unico Spirito, il dono delle guarigioni; 10a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l'interpretazione delle lingue. 11Ma tutte queste cose le opera l'unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.
Il cristiano è in relazione diretta con lo Spirito che elargisce a lui un dono particolare. «Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo ciò che detta la fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi insegna si dedichi all'insegnamento; chi esorta si dedichi all'esortazione. Chi dona, lo faccia con semplicità; chi presiede, presieda con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia» (Rm 12,6-8). Sapienza o conoscenza: «Il faraone disse a Giuseppe: «Dal momento che Dio ti ha manifestato tutto questo, non c'è nessuno intelligente e saggio come te. Tu stesso sarai il mio governatore» (Gen 41,39). «Ho riempito Besalèl (l’artista) dello spirito di Dio, perché abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro» (Es 31,3). «Vi darò parola e sapienza, cosicché i vostri avversari non potranno resistere né controbattere» (Lc 21,15).
Per fede, intende una fiducia profonda: «I discepoli si avvicinarono a Gesù e gli chiesero: “Perché noi non siamo riusciti a scacciare il demonio? Ed egli rispose loro: “Per la vostra poca fede”» (Mt 17,19-20).
12Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo.
La varietà delle opere e degli operatori, resa possibile da un solo Spirito, induce Paolo a vedere nella comunità un organismo vivente. A sorpresa, invece di affermare come il corpo è uno solo, così è anche la Chiesa, dichiara così è anche il Cristo. Cristo, quindi, è una collettività, un corpo provvisto di molteplici membra. Questa è un’affermazione teologica molto significativa. «Non lui [Cristo] un individuo singolo e noi [cristiani] una moltitudine, ma noi, moltitudine, divenuti uno in lui che è uno» (Agostino, Sul salmo 127,3). Già nel momento della chiamata alla fede, Cristo Risorto aveva fatto capire a Paolo che Egli era presente in modo invisibile nei discepoli e che si identificava con loro (cf At 9,5).
La Chiesa è il Cristo vivente nel mondo, il suo corpo visibile. «Essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose» (Ef 4,23). «Io sono la vite voi i tralci» (Gv 15,5). «Chi si unisce al Signore, forma con lui un solo spirito» (1 Cor 6,17). «Cristo vive in me» (Gal 2,20). «Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,27). Di conseguenza Egli continua a vivere e agire attraverso i battezzati: «Chi accoglie voi, accoglie me» (Mt 10,40). «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Paolo applica a Cristo la concezione veterotestamentaria della personalità corporativa; come altri personaggi biblici, Egli è insieme individuo e moltitudine. Ciò appare evidente nella figura del Figlio dell’uomo che è una singola persona ma anche una collettività, è il popolo dei santi (Dn 7,13-14,27). Lo stesso vale per Giacobbe: i suoi discendenti sono lui: «La tua discendenza [o Giacobbe] sarà innumerevole come la polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra» (Gen 28,14). Cf. Is 52,13-53,12: il Servo del Signore rappresenta tutti.
13Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.
Grazie al Battesimo, nel quale riceviamo lo Spirito Santo, tutti diventiamo membra vive di Cristo, con pari dignità. «Anche sopra gli schiavi e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito» (Gl 3,2). «Non c'è Giudeo né Greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). «Cristo è tutto in tutti» (Col 3,11). «Tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21).
14E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. 15Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo, non per questo non farebbe parte del corpo. 16E se l'orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo, non per questo non farebbe parte del corpo. 17Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l'odorato? 18Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. 19Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? 20Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo.
vv. 14-16 Paolo incoraggia i membri della comunità che si sentivano poco rilevanti e venivano messi da parte dalle persone più ragguardevoli. L’umile non deve pensare di non far parte del corpo perché detiene un incarico che non lo mette in evidenza. «Ciascuno, secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 4,10-11).
v. 17 Non tutti possono esercitare un servizio appariscente ma tutti detengono un ruolo necessario per il funzionamento di tutto l’organismo. Tutti i membri della comunità appartengono a qualcosa di più grande di loro e nessun è autosufficiente. «Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,4-5). Tutti sono chiamati a collaborare e a vivere in comunione, non a competere o isolarsi. Non dovrebbero invidiare gli altri né sentirsi inutili perché ciascuno ha un ruolo insostituibile nel corpo di Cristo. «Fratelli, qualunque cosa facciano, debbono essere animati da amore e letizia vicendevoli. Chi lavora dica di colui che prega: Poiché mio fratello possiede un tesoro che è comune, anch’io ce l'ho. E chi prega dica di chi legge: Poiché egli riceve un compenso per la sua lettura, anch'io ne traggo un guadagno. E chi lavora, dica di nuovo: il ministero che svolgo è utile a tutti. Come infatti le membra del corpo, pur essendo molte, formano un solo corpo e si aiutano scambievolmente, anche se ciascuno svolge un suo compito, ma l’occhio vede per tutto il corpo, lavora per tutte le membra, il piede cammina sostenendole tutte e ogni altro membro partecipa delle stesse sensazioni, così siano anche i fratelli fra di loro. Pertanto chi prega non giudichi chi lavora, per il fatto che non prega; chi lavora non condanni chi prega, perché sembra riposare, giacché, in realtà, anch’egli lavora. Ma ciascuno, se svolge un compito, lo svolga per la gloria di Dio» (Pseudo-Macario, Omelia 3,2).
21Non può l'occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi. 22Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; 23e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, 24mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, 25perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre.
v.21 Il discorso è rivolto a chi apprezzava il carisma ricevuto ma guardava con sufficienza le persone che avevano ricevuto doni meno appariscenti. Chi sa di essere occhio, non deve disprezzare chi è mano; chi funge da testa, non può dimenticare l’importanza del piede. «Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile. Non stimatevi sapienti da voi stessi» (Rm 12,15-16).
v.22 Certe parti del corpo che non si vedono (cuore, fegato, polmoni) sono comunque necessarie. «Questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri» (Mc 12,42).
Altre membra, quelle più intime, ricevono maggior rispetto, perciò i cristiani meno maturi (dei quali la comunità potrebbe vergognarsi) appartengono anch’essi al corpo di Cristo: «Mi hanno abbandonato gli uomini perché le mie piaghe fanno loro schifo, quelle che io ho ritenuto di dover schiudere alla tua misericordia. Quelli dicono: Và fuori dai piedi, perché sei un peccatore. Allontanati che ci insozzi. Ma tu, o Signore, mi curi e non ti contamini, perché sei tu il Dio della mia salvezza, o Signore» (Ambrogio, Sui dodici salmi, Pl 14,1085.1087)
v. 24 Dio del resto ha sempre privilegiato i poveri, attribuendo maggior onore a chi non ne aveva. «Quando offri un banchetto invita poveri, storpi…» (Lc 14,13). «Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero» (Sal 113,7). «Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, e i più poveri gioiranno nel Santo d’Israele» (Is 29,19). «Il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri» (Is 49,13). «Beati in poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). «Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno?» (Gc 2,5).
26Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.
«Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15). «Vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu. Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo. Se infatti uno pensa di essere qualcosa, mentre non è nulla, inganna se stesso. Ciascuno esamini invece la propria condotta e allora troverà motivo di vanto solo in se stesso e non in rapporto agli altri. Ciascuno infatti porterà il proprio fardello» (Gal 6,1-5). «L’amore fraterno resti saldo. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli. Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono maltrattati, perché anche voi avete un corpo» (Eb 13,1-3). «Porta le infermità di tutti come un valido atleta. Dove è maggiore la fatica, più grande sarà anche il premio. Se ami solo i buoni discepoli, non ne avrai alcun merito. Cerca piuttosto di conquistare, con la dolcezza, i più riottosi. Non ogni ferita va curata con lo stesso medicamento. Calma i morsi più violenti con applicazioni di dolcezza» (Ignazio d’Antiochia, A Policarpo, 1,1-4)
27Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. 28Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. 29Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? 30Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? 31Desiderate invece intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
Alcuni ministeri sono, dal punto di vista organico, più importanti di altri (anche se il credente più importante è colui che possiede più amore): sono quelli che hanno relazione con la predicazione e l’istruzione (apostoli, profeti e maestri). «Dove manca una guida il popolo va in rovina; la salvezza dipende dal numero dei consiglieri» (Pr 11,14). Tuttavia i fedeli non devono aspirare a cariche o a ricevere un determinato incarico perché è il Signore stesso a stabilire servizi e ministeri ad ogni singolo. «Gesù convocò i Dodici e diede loro forza e potere su tutti i demoni e di guarire le malattie» (Lc 9,1). «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio» (At 20,28). «Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo ciò che detta la fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi insegna si dedichi all'insegnamento; chi esorta si dedichi all'esortazione. Chi dona, lo faccia con semplicità; chi presiede, presieda con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia» (Rm 12,6-8).
Capitolo 13
1Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. 2E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. 3E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La presenza della carità è il criterio per stabilire il valore di qualsiasi azione carismatica. Non è sufficiente agire ma è necessario rendersi conto della motivazione dell’agire e della modalità con cui si opera. Dapprima ridimensiona il parlare nelle lingue. Chi lo fa senza amore, ossia badando solo al suo bisogno d’esprimersi, il suo parlare si riduce ad essere un rumore fastidioso. Poi parla di altri doni ai quali attribuiva maggior importanza, soprattutto quello della profezia. Chi istruisce in modo profondo o compie opere straordinarie, se compie tutto questo per altri motivi che non sia la volontà di servire, resta una nullità. Infine parla di due gesti che sono davvero mirabili e suscitavano grande ammirazione: il martirio e la solidarietà radicale. Anche in questi casi l’azione da sola può ridursi ad orgoglio sterile.
Lo scopo del comando che Paolo impartì a Timoteo, di correggere opinioni false, era «però la carità, che nasce da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (1 Tm 1,5). «Soprattutto conservate tra voi una carità fervente, perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1 Pt 4,8). Riguardo alla fede: «In Cristo Gesù vale la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). La parola “amore”, che è una delle più utilizzate, molte volte appare sfigurata. Nel cosiddetto inno alla carità scritto da San Paolo, riscontriamo alcune caratteristiche del vero amore. È prezioso soffermarsi a precisare il senso delle espressioni di questo testo, per tentarne un’applicazione all’esistenza concreta.
Cf. Amoris laetitia cap. 4
4La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, 5non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità. 7Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità è magnanima
Dio è «lento all’ira » (Es 34,6; Nm 14,18). Si mostra quando la persona non si lascia guidare dagli impulsi e evita di aggredire. È una caratteristica del Dio dell’Alleanza che chiama ad imitarlo. La pazienza di Dio è esercizio di misericordia verso il peccatore e manifesta l’autentico potere. Essere pazienti non significa lasciare che ci maltrattino continuamente, o tollerare aggressioni fisiche, o permettere che ci trattino come oggetti. Il problema si pone quando pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette, o quando ci collochiamo al centro e aspettiamo unicamente che si faccia la nostra volontà. Allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire con aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle scuse per rispondere con ira, e alla fine diventeremo persone che non sanno convivere, antisociali incapaci di dominare gli impulsi, e la vita di relazione si trasformerà in un campo di battaglia. Per questo la Parola di Dio ci esorta: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità » (Ef 4,31). Questa pazienza si rafforza quando riconosco che anche l’altro possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com’è. Non importa se è un fastidio per me, se altera i miei piani, se mi molesta con il suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto come mi aspettavo. L’amore comporta sempre un senso di profonda compassione, che porta ad accettare l’altro come parte di questo mondo, anche quando agisce in un modo diverso da quello che io avrei desiderato.
benevola è la carità
La “pazienza” nominata al primo posto non è un atteggiamento totalmente passivo, bensì è accompagnata da un’attività, da una reazione dinamica e creativa nei confronti degli altri. Indica che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. Perciò si traduce come “benevola”. L’amore non è solo un sentimento; “amare” vale a dire: “fare il bene”. Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole». In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire.
non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio
Nell’amore non c’è posto per il provare dispiacere a causa del bene dell’altro (cfr At 7,9; 17,5). L’invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io. Il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro. L’amore ci porta a un sincero apprezzamento di ciascun essere umano, riconoscendo il suo diritto alla felicità. Amo quella persona, la guardo con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto « perché possiamo goderne » (1 Tm 6,17), e dunque accetto dentro di me che possa godere di un buon momento.
Non si vanta: parla della vanagloria, l’ansia di mostrarsi superiori per impressionare gli altri con un atteggiamento pedante e piuttosto aggressivo. Chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre, poiché è centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di stare al centro.
Non si gonfia: l’amore non è arrogante. Non si “ingrandisce” di fronte agli altri, e indica qualcosa di più sottile. Ci si considera più grandi di quello che si è perché ci si crede più “spirituali” o “saggi”. Paolo usa questo verbo altre volte, per esempio per dire che « la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica » (1 Cor 8,1). Vale a dire, alcuni si credono grandi perché sanno più degli altri, e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli, quando in realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende, cura, sostiene il debole. In un altro versetto lo utilizza per criticare quelli che si “gonfiano d’orgoglio” (cfr 1 Cor 4,18), ma in realtà hanno più verbosità che vero “potere” dello Spirito (cfr 1 Cor 4,19). È importante che i cristiani vivano questo atteggiamento nel loro modo di trattare i familiari poco formati nella fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni. A volte accade il contrario: quelli che, nell’ambito della loro famiglia, si suppone siano cresciuti maggiormente, diventano arroganti e insopportabili. L’atteggiamento dell’umiltà appare qui come qualcosa che è parte dell’amore, perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà. Gesù ricordava ai suoi discepoli che nel mondo del potere ciascuno cerca di dominare l’altro, e per questo dice loro: « tra voi non sarà così » (Mt 20,26). La logica dell’amore cristiano non è quella di chi si sente superiore agli altri e ha bisogno di far loro sentire il suo potere, ma quella per cui « chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore » (Mt 20,27). Nella vita di relazione non può regnare la logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno l’amore. « Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili » (1 Pt 5,5).
non manca di rispetto
Amare significa anche rendersi amabili. Vuole indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti, sono gradevoli e non aspri o rigidi. Detesta far soffrire gli altri. La cortesia « è una scuola di sensibilità e disinteresse » che esige dalla persona che « coltivi la sua mente e i suoi sensi, che impari ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a tacere ». Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò « ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano ». Ogni giorno, « entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore ». Per disporsi ad un vero incontro con l’altro, si richiede uno sguardo amabile posato su di lui. Questo non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro, e così possiamo tollerarlo e unirci in un progetto comune, anche se siamo differenti. L’amore amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti d’integrazione, costruisce una solida trama sociale. In tal modo protegge sé stesso, perché senza senso di appartenenza non si può sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare unicamente la propria convenienza e la convivenza diventa impossibile. Una persona antisociale crede che gli altri esistano per soddisfare le sue necessità, e che quando lo fanno compiono solo il loro dovere. Dunque non c’è spazio per l’amabilità dell’amore e del suo linguaggio. Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano. Vediamo, per esempio, alcune parole che Gesù diceva alle persone: « Coraggio figlio! » (Mt 9,2). « Grande è la tua fede! » (Mt 15,28). « Alzati! » (Mc 5,41). « Va’ in pace » (Lc 7,50). « Non abbiate paura » (Mt 14,27). Non sono parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano. Nella famiglia bisogna imparare questo linguaggio amabile di Gesù.
non cerca il proprio interesse
« Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri » (Fil 2,4). Davanti ad un’affermazione così chiara delle Scritture, bisogna evitare di attribuire priorità all’amore per sé stessi come se fosse più nobile del dono di sé stessi agli altri. Una certa priorità dell’amore per sé stessi può intendersi solamente come una condizione psicologica, in quanto chi è incapace di amare sé stesso incontra difficoltà ad amare gli altri: « Chi è cattivo con sé stesso con chi sarà buono? [...] Nessuno è peggiore di chi danneggia sé stesso » (Sir 14,5-6). 102. Però lo stesso Tommaso d’Aquino ha spiegato che « è più proprio della carità voler amare che voler essere amati » e che, in effetti, «le madri, che sono quelle che amano di più, cercano più di amare che di essere amate». Perciò l’amore può spingersi oltre la giustizia e straripare gratuitamente, « senza sperarne nulla » (Lc 6,35), fino ad arrivare all’amore più grande, che è « dare la vita » per gli altri (Gv 15,13). È ancora possibile questa generosità che permette di donare gratuitamente, e di donare sino alla fine? Sicuramente è possibile, perché è ciò che chiede il Vangelo: « Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date » (Mt 10,8).
non si adira, non tiene conto del male ricevuto
Se la prima espressione dell’inno ci invitava alla pazienza che evita di reagire bruscamente di fronte alle debolezze o agli errori degli altri, adesso appare un’altra parola – paroxynetai – che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci. L’indignazione è sana quando ci porta a reagire di fronte a una grave ingiustizia, ma è dannosa quando tende ad impregnare tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri. Il Vangelo invita piuttosto a guardare la trave nel proprio occhio (cfr Mt 7,5), e come cristiani non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: « Non lasciarti vincere dal male » (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9). Una cosa è sentire la forza dell’aggressività che erompe e altra cosa è acconsentire ad essa, lasciare che diventi un atteggiamento permanente: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira » (Ef 4,26). La reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca: « Rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione » (1 Pt 3,9). Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore.
Non tiene conto del male ricevuto
Non è rancoroso. Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: « Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno » (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare. Il problema è che a volte si attribuisce ad ogni cosa la medesima gravità, con il rischio di diventare crudeli per qualsiasi errore dell’altro. La giusta rivendicazione dei propri diritti si trasforma in una persistente e costante sete di vendetta più che in una sana difesa della propria dignità. Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. Oggi sappiamo che per poter perdonare abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante di comprendere e perdonare noi stessi. Tante volte i nostri sbagli, o lo sguardo critico delle persone che amiamo, ci hanno fatto perdere l’affetto verso noi stessi. Questo ci induce alla fine a guardarci dagli altri, a fuggire dall’affetto, a riempirci di paure nelle relazioni interpersonali. Dunque, poter incolpare gli altri si trasforma in un falso sollievo. C’è bisogno di pregare con la propria storia, di accettare sé stessi, di saper convivere con i propri limiti, e anche di perdonarsi, per poter avere questo medesimo atteggiamento verso gli altri.
Ma questo presuppone l’esperienza di essere perdonati da Dio, giustificati gratuitamente e non per i nostri meriti. Siamo stati raggiunti da un amore previo ad ogni nostra opera, che offre sempre una nuova opportunità, promuove e stimola. Se accettiamo che l’amore di Dio è senza condizioni, che l’affetto del Padre non si deve comprare né pagare, allora potremo amare al di là di tutto, perdonare gli altri anche quando sono stati ingiusti con noi. Diversamente, la nostra vita in famiglia cesserà di essere un luogo di comprensione, accompagnamento e stimolo, e sarà uno spazio di tensione permanente e di reciproco castigo.
non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità
Godere del male indica qualcosa di negativo insediato nel segreto del cuore della persona. È l’atteggiamento velenoso di chi si rallegra quando vede che si commette ingiustizia verso qualcuno. La frase si completa con quella che segue, che si esprime in modo positivo: si compiace della verità. Vale a dire, si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità e le sue buone opere. Questo è impossibile per chi deve sempre paragonarsi e competere, fino al punto di rallegrarsi segretamente per i suoi fallimenti. Quando una persona che ama può fare del bene a un altro, o quando vede che all’altro le cose vanno bene, lo vive con gioia e in quel modo dà gloria a Dio, perché « Dio ama chi dona con gioia » (2 Cor 9,7), nostro Signore apprezza in modo speciale chi si rallegra della felicità dell’altro. Se non alimentiamo la nostra capacità di godere del bene dell’altro e ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia, dal momento che, come ha detto Gesù, « si è più beati nel dare che nel ricevere! » (At 20,35).
L’elenco si completa con quattro espressioni che parlano di una totalità: “tutto”.
Tutto scusa
In questo modo, si sottolinea con forza il dinamismo contro-culturale dell’amore, capace di far fronte a qualsiasi cosa lo possa minacciare. In primo luogo si afferma che “tutto scusa” (panta stegei). Si differenzia da “non tiene conto del male”, perché questo termine ha a che vedere con l’uso della lingua; può significare “mantenere il silenzio” circa il negativo che può esserci nell’altra persona. Implica limitare il giudizio, contenere l’inclinazione a lanciare una condanna dura e implacabile. «Non condannate e non sarete condannati » (Lc 6,37). «Non sparlate gli uni degli altri, fratelli» (Gc 4,11). Soffermarsi a danneggiare l’immagine dell’altro è un modo per rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le invidie senza fare caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto difficili da riparare. Per questo la Parola di Dio è così dura con la lingua, dicendo che è « il mondo del male » che «contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita» (Gc 3,6), «è un male ribelle, è piena di veleno mortale» (Gc 3,8). Se «con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio» (Gc 3,9), l’amore si prende cura dell’immagine degli altri, con una delicatezza che porta a preservare persino la buona fama dei nemici. È l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere dell’altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto quello che a me dà fastidio. È molto più di questo. Per la stessa ragione, non pretendo che il suo amore sia perfetto per apprezzarlo. Mi ama come è e come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale, ma limitato e terreno. Perciò, se pretendo troppo, in qualche modo me lo farà capire, dal momento che non potrà né accetterà di giocare il ruolo di un essere divino né di stare al servizio di tutte le mie necessità. L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata.
tutto crede
Tale fiducia fondamentale riconosce la luce accesa da Dio che si nasconde dietro l’oscurità, o la brace che arde ancora sotto le ceneri. Questa stessa fiducia rende possibile una relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di seguire minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti. In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti. Uno che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano senza compassione, che non lo amano in modo incondizionato, preferirà mantenere i suoi segreti, nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi quello che non è. Viceversa, dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante tutto, ciò permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna.
Tutto spera
L’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra. Qui si fa presente la speranza nel suo senso pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte. Quella persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo. Là, completamente trasformata dalla risurrezione di Cristo, non esisteranno più le sue fragilità, le sue oscurità né le sue patologie. Là l’essere autentico di quella persona brillerà con tutta la sua potenza di bene e di bellezza. Questo altresì ci permette, in mezzo ai fastidi di questa terra, di contemplare quella persona con uno sguardo soprannaturale, alla luce della speranza, e attendere quella pienezza che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia visibile.
Tutto sopporta
Significa mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida.
«La persona che ti odia di più, ha qualcosa di buono dentro di sé; e anche la nazione che più odia, ha qualcosa di buono in sé; anche la razza che più odia, ha qualcosa di buono in sé. E quando arrivi al punto di guardare il volto di ciascun essere umano e vedi molto dentro di lui quello che la religione chiama “immagine di Dio”, cominci ad amarlo nonostante tutto. Non importa quello che fa, tu vedi lì l’immagine di Dio. C’è un elemento di bontà di cui non ti potrai mai sbarazzare. […] Un altro modo in cui ami il tuo nemico è questo: quando si presenta l’opportunità di sconfiggere il tuo nemico, quello è il momento nel quale devi decidere di non farlo. […] Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema. […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male. […] Qualcuno deve avere abbastanza fede e moralità per spezzarla e iniettare dentro la stessa struttura dell’universo l’elemento forte e potente dell’amore» (Martin Luther King.
L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo verso le persone, dal desiderio di ferire o di far pagare qualcosa. L’ideale cristiano, e in modo particolare nella famiglia, è amore malgrado tutto. Ammiriamo, per esempio, l’atteggiamento di persone che hanno dovuto separarsi dal coniuge per proteggersi dalla violenza fisica, e tuttavia, a causa della carità coniugale che sa andare oltre i sentimenti, sono stati capaci di agire per il suo bene, benché attraverso altri, in momenti di malattia, di sofferenza o di difficoltà. Anche questo è amore malgrado tutto.
8La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. 9Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. 10Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Dopo aver inneggiato all'amore evangelico, proietta lo sguardo verso la vita eterna. «Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede Colui che ha promesso» (Eb 10,23). Dal punto di vista della venuta gloriosa di Cristo, l'amore risulta ancora più notevole, essendo l'unica realtà che non verrà meno. Se guardiamo le cose dal punto di vista terreno, sono poche quelle che valgono davvero e che rimangono a fondamento della vita dei credenti: sono la fede, la speranza e la carità. «Sopra tutte queste cose rivestitevi della carità» (Col 3,14).
Bisogna ridimensionare l'importanza riservata ai doni spirituali, anche quelli più prestigiosi come la capacità di pregare in lingue la profezia e il dono della conoscenza. Legati come sono a questo mondo transitorio e imperfetto, ne condividono le carenze e sono destinati a svanire con esso. Passando dalla condizione terrena alla vita dei risorti con un processo di maturazione analogo a quello che dall'infanzia conduce alla maturità, i credenti in Cristo scopriranno con chiarezza la caducità e l'imperfezione dei doni terreni dello spirito.
12Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto. 13Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!
Per quanto riguarda la conoscenza, per esempio, sulla terra possiamo sì conoscere Dio cioè entrare il rapporto con lui, ma in fondo vediamo di lui soltanto qualche immagine come in uno specchio. A quei tempi gli specchi piuttosto rudimentali non permettevano una visione nitida. La creazione del mondo manifesta qualche cosa del suo autore, ma di fatto, per chi è ancora in cammino in questo mondo, Dio rimane invisibile. Paolo ammette che per ora conosce il Signore in maniera imperfetta. Spera che da risorto lo conoscerà perfettamente faccia a faccia come si narrava di Mosè (Es 33,11). Quando saremo resuscitati potremo conoscere Dio in un modo più perfetto rispetto a quello della fede terrena. La fede si trasformerà in visione e non avremo più bisogno di sperare la felicità eterna perché di fatto ne saremo entrati in possesso definitivamente. «Sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo - camminiamo infatti nella fede e non nella visione -, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi» (2 Cor 5,6-8). «Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2)
Ciò che quindi rimarrà per sempre in paradiso è il bene che avremmo voluto e che continueremo a volere a Dio e agli altri. I ricchi «facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera» (1 Tm 6,18-19). «Le fu data (alla Sposa/Chiesa) una veste di lino puro e splendente. La veste di lino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19,8). Se questo è il destino glorioso dell'amore umano, è chiaro perché esso, sia la virtù più grande. Ogni altra realtà della vita, inclusi i doni della grazia, profuma fin d'ora di eternità tanto nella misura in cui è intrisa di carità. «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4, 16). (Cf. Manzi 189-190).
Capitolo 14
1Aspirate alla carità. Desiderate intensamente i doni dello Spirito, soprattutto la profezia. 2Chi infatti parla con il dono delle lingue non parla agli uomini ma a Dio poiché, mentre dice per ispirazione cose misteriose, nessuno comprende. 3Chi profetizza, invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto. 4Chi parla con il dono delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l'assemblea. 5Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono della profezia. In realtà colui che profetizza è più grande di colui che parla con il dono delle lingue, a meno che le interpreti, perché l'assemblea ne riceva edificazione.
Paolo, dopo aver celebrato il valore della carità, invita a procurarsi questa virtù e offre delle esemplificazioni su come viverla nella pratica. Ad esempio, il dono della profezia è migliore di quello di parlare lingue sconosciute, proprio perché è più utile per edificare il prossimo. Nelle scelte di vita, l’utilità del prossimo ha sempre la precedenza rispetto al nostro diritto o al nostro bisogno.
I testi del Nuovo Testamento fanno risaltare l’importanza della profezia, dell’istruzione e del reciproco sostegno. Il Signore Gesù ha dato ad alcuni di essere profeti «per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo» (Ef 4,12). L’apostolo confermava «i discepoli esortandoli a restare saldi nella fede perché, dicevano: dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni» (At 14,22). «Confortatevi a vicenda e siate di aiuto gli uni agli altri, come già fate» (1 Ts 5,11). Il vescovo sia «fedele alla Parola, che gli è stata insegnata, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare i suoi oppositori» (Tt 1,9).
Uno dei mezzi principali con i quali le diverse Chiese cercavano di consolidarsi a vicenda era l’epistolario. «Quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi» (Col 4,16). «Non ho potuto scrivere a tutte le chiese perché sono dovuto partire all’improvviso, secondo gli ordini. Scrivi tu [o Policarpo] alle chiese della regione orientale, tu che conosci la volontà di Dio, perché anch’esse facciano lo stesso. Quelle che possono mandino messaggeri, le altre almeno lettere, e le affidino a coloro che tu invierai, e ne avrete ben giustamente gloria eterna» (Ignazio a Policarpo, 8,3).
«Nel ricevere le vostre lettere e nel leggere, nei vostri scritti, i buoni sentimenti e l'amore che nutrite per me, mi sono sentito in mezzo a voi, fratelli carissimi, quasi trasportato all'improvviso da lontanissima distanza, come Abacuc che dall'angelo fu portato a Daniele. Le lacrime si mescolavano alla mia gioia; il vivo desiderio di leggere era impedito dal pianto. Passai in questo stato d'animo alcuni giorni nei quali mi sembrava di parlare con voi. Mi sentivo come investito da ogni parte di ricordi consolanti che mi facevano rivivere la vostra fede, il vostro affetto, i frutti della vostra carità, e così mi pareva di non essere più in esilio, ma di trovarmi quasi d'improvviso in mezzo a voi…» (Eusebio di Vercelli, Epistolario, 2).
6E ora, fratelli, supponiamo che io venga da voi parlando con il dono delle lingue. In che cosa potrei esservi utile, se non vi comunicassi una rivelazione o una conoscenza o una profezia o un insegnamento?
Per ribadire il principio del primato dell’edificazione della comunità, l’apostolo si serve di alcuni esempi. Il primo è un esempio personale. Se, giunto a Corinto, avesse parlato in lingue, non sarebbe nata la comunità e non riuscirebbe oggi a confermarla nellla fede.
7Ad esempio: se gli oggetti inanimati che emettono un suono, come il flauto o la cetra, non producono i suoni distintamente, in che modo si potrà distinguere ciò che si suona col flauto da ciò che si suona con la cetra? 8E se la tromba emette un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia? 9Così anche voi, se non pronunciate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate dicendo? Parlereste al vento!
Il secondo esempio è musicale. Perché ci sia una melodia, uno strumento deve emmettere un suono distinto rispetto a quello d’un altro. Un esercito non inizia la battagia se non ha udito il segnale d’attacco con chiarezza. Allo stesso modo la comunità non matura nella fede e nella battaglia della vita se non ha ascoltato in modo adeguato le parole della predicazione.
10Chissà quante varietà di lingue vi sono nel mondo e nulla è senza un proprio linguaggio. 11Ma se non ne conosco il senso, per colui che mi parla sono uno straniero, e chi mi parla è uno straniero per me. 12Così anche voi, poiché desiderate i doni dello Spirito, cercate di averne in abbondanza, per l'edificazione della comunità. 13Perciò chi parla con il dono delle lingue, preghi di saperle interpretare.
Esempio delle lingue. Gli uomini non comunicano tra loro in modo soddisfacente se non parlano la stessa lingua. La comunità non può essere composta da persone che sono estranee le une dalle altre ma da persone che comunicano bene tra loro. Lo scopo di ogni incontro comunitario sta nel reciproco consolidamento mediante una comunicazione chiara e profonda. Chi parla in lingue cerchi anche di saperle interpretare.
14Quando infatti prego con il dono delle lingue, il mio spirito prega, ma la mia intelligenza rimane senza frutto. 15Che fare dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l'intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l'intelligenza. 16Altrimenti, se tu dai lode a Dio soltanto con lo spirito, in che modo colui che sta fra i non iniziati potrebbe dire l'Amen al tuo ringraziamento, dal momento che non capisce quello che dici? 17Tu, certo, fai un bel ringraziamento, ma l'altro non viene edificato. 18Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue più di tutti voi; 19ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue.
Paolo mostra, partire dalla propria esperienza personale quanto sia fecondo fare preghiere a Dio non solo con il proprio spirito, anche con la propria intelligenza. Designa con il termine spirito gli aspetti più emotivi della persona, mentre con intelligenza la mente cosciente razionale dell'essere umano. L'ideale sarebbe pregare con entrambi. Per questo richiede che la preghiera in lingua sia tradotta, così Da coinvolgere anche le facoltà intellettuali sia del carismatico che la eleva a Dio, sia degli altri che lo ascoltano. Egli propone se stesso come modello in quanto, anche se potrebbe parlare le lingue, preferisce essere utile agli altri piuttosto che abbandonarsi alla sua preferenza personale.
20Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi. 21Sta scritto nella Legge: In altre lingue e con labbra di stranieri parlerò a questo popolo, ma neanchecosì mi ascolteranno, dice il Signore. 22Quindi le lingue non sono un segno per quelli che credono, ma per quelli che non credono, mentre la profezia non è per quelli che non credono, ma per quelli che credono.
v.20 I fedeli devono essere innocenti come i bambini che non hanno peccato ma maturi nel modo di pensare. L’incapacità di assumere le istanze proprie della carità rende un credente una persona immatura nella fede. Bisogna crescere nella fede «così non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all'errore. Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo» (Ef 4,14-15). «Mentre mi rallegro di voi, voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male. Il Dio della pace schiaccerà ben presto Satana sotto i vostri piedi» (Rm 16,20).
v.21 In una profezia (28, 11-12), Isaia annuncia che Dio parlerà in altre lingue. Questo carisma, allora, viene realmente da Dio. Tuttavia più che ai credenti, esso è un segno destinato ai pagani, i quali potranno rimanere impressionati e colpiti, benchè questo stupore non sia sufficiente per condurli alla fede. A Pentecoste, «tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue» (At 2,4); alcuni rimasero stupiti favorevolmente ma «altri li deridevano e dicevano: “si sono ubriacati di vino dolce» (At 2,13).
23Quando si raduna tutta la comunità nello stesso luogo, se tutti parlano con il dono delle lingue e sopraggiunge qualche non iniziato o non credente, non dirà forse che siete pazzi? 24Se invece tutti profetizzano e sopraggiunge qualche non credente o non iniziato, verrà da tutti convinto del suo errore e da tutti giudicato, 25i segreti del suo cuore saranno manifestati e così, prostrandosi a terra, adorerà Dio, proclamando: Dio è veramente fra voi!
Un non credente viene colto da stupore nell’ascoltare il ronzio delle lingue ma si converte soltanto ascoltando la predicazione espressa dai profeti. «Così dice il Signore degli eserciti: In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle nazioni afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: “Vogliamo venire con voi, perché abbiamo udito che Dio è con voi”» (Zc 8,23). «Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; quando me lo hai fatto capire, mi sono battuto il petto, mi sono vergognato e ne provo confusione» (Ger 31,19). «All'udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». E Pietro disse loro: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo» (At 2,37-38).
26Che fare dunque, fratelli? Quando vi radunate, uno ha un salmo, un altro ha un insegnamento; uno ha una rivelazione, uno ha il dono delle lingue, un altro ha quello di interpretarle: tutto avvenga per l'edificazione. 27Quando si parla con il dono delle lingue, siano in due, o al massimo in tre, a parlare, uno alla volta, e vi sia uno che faccia da interprete. 28Se non vi è chi interpreta, ciascuno di loro taccia nell'assemblea e parli solo a se stesso e a Dio.
La comunità si esprimeva tutta con grande libertà e senso di partecipazione. «Non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé; siate invece ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef 5,18-20). «La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori» (Col 3,16). Suggerisce delle norme pratiche perché il culto si svolga in modo ordinato, nella pace.
29I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. 30Ma se poi uno dei presenti riceve una rivelazione, il primo taccia: 31uno alla volta, infatti, potete tutti profetare, perché tutti possano imparare ed essere esortati. 32Le ispirazioni dei profeti sono sottomesse ai profeti, 33perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace.
Giovanni, autore del libro dell’Apocalisse, si presenta come un profeta: «Queste parole sono certe e vere. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi le cose che devono accadere tra breve. Ecco, io vengo presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro» (Ap 22,6).
Compare la necessità del discernimento delle parole espresse sotto ispirazione: «Non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio. In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio» (1 Gv 4,1-3).
v. 33 «Il Signore della pace vi dia la pace sempre e in ogni modo. Il Signore sia con tutti voi» (2 Ts 3,16).
Come in tutte le comunità dei santi, 34le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. 35Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea.
Il comando che impone alle donne di tacere, sembra in contraddizione con la possibilità concessa a loro di profetare durante il culto (Cf 11,5), purché lo facciano con il capo velato. Del resto nella Chiesa primitiva esisteva il ministero della profezia femminile. Ad esempio, l’evangelista Filippo «aveva quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezia» (At 21,9). Non è documentato che, oltre alle parole profetiche su ispirazione, le profetesse si dedicassero all’istruzione durante il culto ma, comunque, erano invitate a farlo almeno in altre circostanze: «Le donne anziane abbiano un comportamento santo: non siano maldicenti né schiave del vino; sappiano piuttosto insegnare il bene, per formare le giovani …, perché la parola di Dio non venga screditata» (Tt 2,3-5).
Paolo, che aveva molte collaboratrici che trattava con molta deferenza (Rm 16), sollecita così due donne di prestigio della comunità di Filippi: «Esorto Evodia ed esorto anche Sintiche ad andare d’accordo nel Signore» (Fil 4,2).
Già nell’Antico Testamento esisteva il ministero della profezia femminile. Maria, Debora, Culda, Anna erano profetesse. «Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un tamburello: dietro a lei uscirono le donne con i tamburelli e con danze. Maria intonò per loro il ritornello» (Es 15,20). «In quel tempo era giudice d’Israele una donna, una profetessa, Dèbora, moglie di Lappidòt. Ella sedeva sotto la palma di Dèbora, sulle montagne di Èfraim, e gli Israeliti salivano da lei per ottenere giustizia» (Gdc 4,4-5). «Il sacerdote Chelkia [con altri] si recò dalla profetessa Culda, moglie di Sallum, la quale abitava nel secondo quartiere di Gerusalemme; essi parlarono con lei» (2 Re 22,14). Luca ricorda la profetessa Anna: «C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme» (Lc 2,36-38).
Come c’erano falsi profeti, c’erano anche false profetesse; il discernimento era necessario: (Ne 6,14 [Noadia] Ez 13,17 [«Rivolgiti alle figlie del tuo popolo che profetizzano secondo i loro desideri»].
36Da voi, forse, è partita la parola di Dio? O è giunta soltanto a voi? 37Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto vi scrivo è comando del Signore. 38Se qualcuno non lo riconosce, neppure lui viene riconosciuto. 39Dunque, fratelli miei, desiderate intensamente la profezia e, quanto al parlare con il dono delle lingue, non impeditelo. 40Tutto però avvenga decorosamente e con ordine.
Mette in discussione l’atteggiamento di alcuni membri della comunità che si comportavano come se la rivelazione fosse un dono esclusivo per loro. In realtà dovrebbero confrontarsi con altre Chiese e riconoscere l’autorità dell’apostolo. Le persone che si considerano animate dallo Spirito Santo, proprio per questo, dovrebbero approvare l’istruzione dell’apostolo e consentire ad esso perché il ministero dell’autorità è carismatico come lo è la profezia (cf 12,4-5).
Riassume, quindi, il messaggio appena esposto: esprimersi in lingue è permesso ma è preferibile comunicare parole di profezia perché esse convincono e confortano. «Quando non c’è visione profetica, il popolo è sfrenato» (Pr 29,18).
Ordine e decoro devono sempre animare le assemblee cultuali, evitando caos e protagonismi.