lunedì 7 aprile 2025

Reincarnazione e cristianesimo

Fin dalle origini il cristianesimo si distingue dalle religioni e dalle filosofie orientali, specie indiane, per il fatto che non prende affatto in considerazione il loro postulato della reincarnazione. In India, in effetti, sono fondamentali i concetti di karma (secondo cui, per il principio di causa-effetto, le azioni degli uomini, buone o cattive, devono essere ripagate in maniera corrispondente in rinascite successive) e di samsara (che è il ciclo stesso delle trasmigrazioni). In questa prospettiva si arriva fino a sostenere che le menomazioni fisiche o psichiche di un individuo non sono altro che punizioni di colpe commesse in esistenze precedenti. 

Per la verità, anche in Occidente l'antica Grecia conosceva almeno in parte la metempsicosi o, meglio, metensomatosi, più tardi detta palingenesi o rigenerazione: essa è un'eredità orfica e pitagorica (circa un principio divino imprigionato in ognuno di noi) che a partire da Platone, pur con variazioni, giunge fino al neoplatonismo della tarda antichità. In ambito giudaico, abbiamo una discussa testimonianza di Flavio Giuseppe, secondo cui Farisei ritenevano che l'anima è immortale ma che soltanto quella dei buoni passa in un altro corpo, mentre quelle dei malvagi sono punite con un castigo senza fine; egli si riferisce con ogni probabilità alla resurrezione .



A parte l'assoluta inconsistenza presunto di un presunto fondamento in specifici, inesistenti testi biblici, si può chiedere quali siano i motivi teoretici di derivazione biblica che rendono inaccettabile la reincarnazione. Sono sostanzialmente quattro, di cui i primi due hanno a che fare anche con la visione filosofica delle cose. 

1. Secondo la Bibbia l'uomo è concepito in modo unitario come un tutt'uno costituito pressoché inseparabilmente di anima e di corpo. Adamo è formato e definito semplicemente come un essere vivente. La resurrezione conferma questa visione. Contrariamente alla concezione platonica l'anima e il corpo non sono due unità accostate e unite insieme, come se le anime presistessero da sempre e si fossero unite al corpo solo in un secondo tempo: questa visione delle cose intende l'anima come la parte più nobile dell'uomo e il corpo soltanto come una prigione o al massimo un alloggio estrinseco. La speranza cristiana concerne non soltanto l'immortalità dell'anima ma tutto l'uomo compreso il corpo.

2. Un secondo motivo consiste nella visione biblica del tempo e della storia. Mentre molte religioni concepiscono il divenire in forma circolare come un eterno ritorno, sì che ogni evento non è che la ripetizione di un archetipo primordiale, la Bibbia invece pone con forza l'accento sulla unicità e irripetibilità dell’agire di Dio. Le sue scelte sono senza pentimento, egli non deve ripensarci a rifare di nuovo ciò che ha già fatto una volta. Lo si vede soprattutto nell'evento Gesù, nella sua vita morte e resurrezione che è qualcosa accaduto una volta sola e una volta per tutte. 

Ciò vale analogamente anche per la vita di ogni persona umana. Le esortazioni a riscattare il tempo presente e ad approfittare di «quest'oggi» invitano a valutare saggiamente le occasioni che nella vita attuale ci si presentano come uniche. La stessa cosa vale per le sofferenze patite in questo mondo: esse non sono paragonabili alla Gloria Futura che dovrà essere rivelata in noi.

3. Il terzo motivo ha a che fare con la tipica teologia cristiana della grazia, secondo cui la compiuta realizzazione dell'uomo non è tanto il frutto dell'impegno personale di ciascuno piuttosto dona incondizionato della grazia di Dio. Il principio del karma ritiene che l’agire umano determini meccanicamente il destino ultimo di chi lo compie. Ciò che conta allora è la prestazione morale del singolo in quanto richiede necessariamente una ricompensa adeguata, la quale si concretizza in un ciclo di rinascite diverso per ciascuno. Per il cristianesimo invece tutto parte si fonda sulla gratuità immotivata di Dio, il quale è misericordioso e imparziale al punto da elargire in modo indistinto a tutti la luce e la forza della sua superiore grazia.

4. L'ultimo motivo è di ordine cristologico: come Gesù Cristo ha realizzato una volta per tutte la redenzione dell'uomo con l'irripetibilità della sua morte in croce così egli verrà un'altra sola volta per mettere termine alla presente, instabile situazione del mondo, e inaugurarne una nuova, risolutiva. La presenza di Cristo tra gli uomini conosce un duplice momento: una volta nella storia passata e una volta nel compimento futuro, sia che questo secondo riguarda il singolo al momento della morte oppure l'insieme alla fine del mondo. Non che si tratti di incontri fugaci. Tutt'altro: Cristo si presenta per «essere con», cioè condividere una storia, una vita ma l'inizio degli incontri è puntuale, e soprattutto non c'è una terza volta!

La dottrina della reincarnazione, in definitiva, implica quella dell 'auto-redenzione, secondo cui ciascuno costruisce la propria salvezza da solo, esclusivamente in base alle proprie azioni. Ciò conduce all' idea terribile di una totale solitudine, come si legge in un antico testo indiano: «Terminata questa vita, non giovano né padre, né madre, né figli, né spose, né parenti: soltanto il merito permane. L'uomo nasce solo, solo muore, solo, poi, fruisce del merito, solo del demerito» (Manavadharmasastra, cit Dizionario delle religioni, Einaudi, Torino 1993, 401). Questa prospettiva, come si vede, è lontanissima dall'idea di comunione che costituisce la materia prima e fondamentale del cristianesimo. Qui l'ultima perfezione dell'uomo è solo in Dio, anzi è lui stesso. La comunione con lui e la vita in lui non possono mai essere propriamente opera dell'uomo, ma è un dono che comunque Dio non lesina a nessuno. Perciò né una vita né molte vite possono bastare per giungere alla perfezione. Dio è un orizzonte talmente vasto e irraggiungibile che egli si accontenta del limite a cui ciascuno perviene inquesta vita.

Romano Penna, Ecco ora il tempo favorevole, San Paolo, 2024, 127 ss.


domenica 6 aprile 2025

Omelia 5 quaresima

 

«Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò nel deserto una strada» (Is 43). 

La cosa nuova creata dal Signore può corrispondere alla presenza di nuovi testimoni della fede, di nuovi santi oppure anche di nuove opinioni teologiche le quali, per essere vere e feconde, approfondiscono il messaggio evangelico, senza annacquarlo o deturparlo. 

La cosa nuova è sempre e soprattutto la potenza rinnovatrice della Pasqua del Signore. 

In realtà, il centro [del Vangelo] o la sua essenza è sempre lo stesso evento: il Dio che ha manifestato il suo immenso amore in Cristo morto e risorto. Egli rende i suoi fedeli sempre nuovi, quantunque siano anziani, riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi » (Is 40,31). Cristo è il « Vangelo eterno » (Ap 14,6), ed è « lo stesso ieri e oggi e per sempre » (Eb 13,8), ma la sua ricchezza e la sua bellezza sono inesauribili. Egli è sempre giovane e fonte costante di novità. La Chiesa non cessa di stupirsi per « la profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio » (Rm 11,33). Come affermava sant’Ireneo: « [Cristo], nella sua venuta, ha portato con sé ogni novità». Egli sempre può, con la sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra comunità, e anche se attraversa epoche oscure e debolezze ecclesiali, la proposta cristiana non invecchia mai». 

La donna adultera salvata da Gesù ha compreso la novità di Gesù quando si è accorta che la cosa che più premeva al Signore era quella di salvare tutta la sua persona, nella sua totalità. Gesù non ha detto “adesso ti assolvo e poi lascia che ti uccidano con le pietre. A me interessa che tu non ti trovi in peccato mortale e che tu non finisca nella morte eterna”. Questo per Gesù non era sufficiente. Salvare la persona dell’adultera, secondo il sentire di Gesù, comportava vari aspetti: evitare la sua uccisione violenta, ma anche ricondurla all’interno della società, convincerla che agli occhi di Dio rimaneva una persona preziosa anche se aveva peccato, convincerla a non peccare più. Gesù non l’avrebbe salvata, se questa donna, pur evitando la morte, avesse continuato a tradire il coniuge o avesse dato primaria importanza al piacere. Non l’avrebbe salvata del tutto se avesse dovuto vivere quasi nascosta perché disprezzata da tutti. Salvare, secondo la visione di Dio, significa recuperare l’integrità di ogni creatura sotto tutti gli aspetti: fisici, spirituali e relazionali. Siamo corpo, spirito e persone in relazione con gli altri. Questa guarigione totale sarà possibile soltanto nella vita eterna. Là saremo santi tra i santi, liberi dal male, liberi da ogni sofferenza, amici di Dio e di tutti gli altri santi. La vita futura, però non dobbiamo soltanto attenderla ma anticiparla per quanto possibile. 


Anche Paolo ha scoperto la novità del Vangelo, anzi la sublimità di Gesù. Ha compreso, per grazia, che soltanto Gesù era una fonte di vera vita e di rinnovamento della sua esistenza. Soltanto in Gesù poteva ritrovarsi. Soltanto grazie a Gesù poteva ottenere la rettitudine a cui aspirava. Gli sudi teologici e i titoli che aveva conseguito, le severe pratiche giudaiche alle quali s’era sottoposto, la stima che godeva come rabbino non sarebbero stato un vantaggio ma una danno incalcolabile, se per continuare a godere di questi vantaggi avesse perso Gesù. Dal punto di vista spirituale, aveva dovuto faticare molto per guadagnarsi da vivere, ottenendo scarsi risultati ma poi ricevette con sorpresa un tesoro immenso. 

Azzardiamo un paragone: uno gioca una scheda da un euro e da quella ottiene una somma cospicua. Il tesoro messo a disposizione è il forziere cosituito da tutti i meriti di Cristo, dalla sua santità. La schedina ce la offre gratuitamente il Signore stesso; s’accontenta che noi la graffiamo per poter donarci una ricompensa senza misura. La schedina è la fede, il nostro raschiare è la fedeltà quotidiana della nostra carità, il ricavo corrisponde al tesoro immenso della santità di Gesù, ed infine alla vita in cielo. C’è sempre una sproporzione tra ciò che noi diamo a Dio e quello che riceviamo da lui. Se le cose stanno così, il nostro sforzo ha soltanto lo scopo di corrispondere al dono. Dal momento che Dio vuole rendere sante e piene di carità, come è Lui, persone meschine ed indegne come noi siamo, allora è vantaggioso per noi cercare di raggiungere la massima santificazione perché non c’è per noi felicità più grande. Non c’è per Dio felicità più grande di vederci risplendenti di Lui e, di riflesso, non c’è per noi felicità più grande di quella che corrisponde a rendere felice Dio per la nostra ritrovata sensatezza.



sabato 29 marzo 2025

Omelia IV quaresima

 Il padre, nel momento di accogliere il figlio che tornava, avrebbe potuto dirgli le parole che il Signore disse a Giosuè: oggi si è allontanata da te l’infamia d’Egitto!

Questa infamia sono tutti i pensieri, i desideri, le parole e le azioni di malvagità di cui ti sei nutrito finora. Forse il Signore aspetta di poter dire a qualcuno di noi: oggi ho allontanato da te ogni infamia. 

Questa nuova situazione è la Pasqua. Esiste prima di noi, fuori di noi e per tutti, ma deve essere vera e nuova anche  per ognuno di noi. Finchè in noi non domina la verità e la libertà non possiamo dire che abbiamo compiuto il passaggio pasquale. La libertà esiste quando siamo dotati dell’autodonio. Se c’è ancora qualcosa di distruttivo da cui siamo dominati, non siamo liberi. 


Gli Ebrei mangiarono finalmente i prodotti della terra e il padre prepara per il figlio un banchetto delizioso. Il Signore desidera la nostra sanità, integrità, la nostra gioia e la nostra pace. Chi vive nel Signore, non vive una esistenza stentata ma gusta il cibo delizioso della grazia e si dilata nella gioia di essere in pace con Dio e di essere libero. 

Quando Israele godette dei prodotti della terra, vide che la manna era cessata. La manna sono gli aiuti che il Signore, con estrema pazienza, continua a donarci mentre camminiamo con difficoltà dietro di Lui. Intanto ci nutre in qualche modo ma Egli vorrebbe donarci un cibo solido, un alimento sostanzioso come si legge nei Salmi: Apri la bocca, la voglio riempire! Ti nutrirei con fiore di frumento, ti sazierei con miele dalla roccia; Hai messo più gioia nel mio cuore di quanta ne diano ai mondani grano e vino in abbondanza! Come saziato dai cibi migliori, con labbra gioiose ti loderà la mia bocca. 

La fortuna del figlio sperperatore è stata quella di essere convinto che il padre lo avrebbe riaccolto. Non c’è per noi possibilità di vera vita, di progresso spirituale né di superamento delle nostre angosce se non siamo persuasi di essere amati da Dio. Soltanto questa fiducia costitisce un vero orientamento nella nostra vita. 

Noi siamo persuasi di dover convincere Dio a volerci bene. Tutti i sacrifici di culto onerosi che gli uomini facevano per Dio erano fatti per cercare di cambiare il sentimento di Dio nei loro confronti: speriamo che non sia ancora adirato! Speriamo che ci ascolti! San Paolo dice che Egli era sempre  - e ancora lo è - del tutto ben disposto verso di noi; aspetta che finalmente decidiamo noi di riconciliarci con Lui. Non esiste nessuna rottura tra Dio e gli uomini che dipenda da Dio. 

Aggiunge una frase portentosa che dovremmo ricordarla ogni giorno: Dio fece Gesù peccato, perché noi diventassimo giustizia. Attenzione! Non dice che Dio ha punito Gesù come fosse un peccatore. Gesù è stato fatto peccato, non peccatore. Che cosa vuol dire: Ha conosciuto la peggiore situazione che una persona poteva incontrare ma questa situazione l’ha vissuta nell’amore, nel perdono, nella fedeltà alla sua missione. Gesù ha ricevuto il peggio degli uomini ma ha vissuto questo peggio nel modo più umano e migliore con cui poteva fare. Noi diciamo che una mela marcia guasta tutte le altre ma Gesù, venendo a contatto con gli uomini non è stato contaminato dal marcio ma lo ha risanato. Il Signore ci unisce a sé perché non ci facciamo deteriore dalle situazioni della vita ma attraversandole diventiamo sempre migliori e cosi diventiamo in grado di risanare anche chi ci fa soffrire. 


Il significato di espiazione

 Negli scritti del Nuovo Testamento, ci sono diversi tentativi di interpretare la croce di Cristo come il nuovo culto e la vera purificazione del mondo inquinato. 

Più volte abbiamo parlato del testo fondamentale di Romani 3,25 in cui Paolo qualifica Gesù Cristo come «strumento di espiazione» (hilasterion). 

Nella passione di Gesù, tutto lo sporco del mondo viene a contatto con l'immensamente Puro, con l'anima di Gesù Cristo e così con lo stesso Figlio di Dio. Se di solito la cosa impura mediante il contatto contagia ed inquina la cosa pura, qui abbiamo il contrario: dove il mondo, con tutta la sua ingiustizia e con le sue crudeltà che lo inquinano, viene a contatto con l'immensamente Puro. 

Egli, il Puro, si rivela al contempo il più forte. In questo contatto lo sporco del mondo viene realmente assorbito, annullato, trasformato mediante il dolore dell'amore infinito. Siccome nell'Uomo Gesù è presente il bene infinito, è ora presente ed efficace nella storia del mondo la forza antagonista di ogni forma di male, il bene é sempre infinitamente più grande di tutta la massa del male, per quanto essa sia terribile.


Senso autentico di espiazione

Pian del Levro (Trambileno)
Deposizione 

Se cerchiamo di riflettere un po' più a fondo su questa convinzione, troviamo anche la risposta ad una obiezione che ripetutamente viene sollevata contro l'idea di espiazione. Sempre di nuovo si dice: Non è forse un Dio crudele colui che richiede un'espiazione infinita? Non è questa un'idea indegna di Dio? Non dobbiamo forse, a difesa della purezza dell'immagine di Dio, rinunciare all'idea di espiazione? Nel discorso su Gesù come "strumento d'espiazione" (hilasterion) diventa evidente che il perdono reale che avviene a partire dalla croce si realizza proprio in modo inverso. La realtà del male, dell'ingiustizia che deturpa il mondo e insieme inquina l'immagine di Dio - questa realtà c'è: per colpa nostra. Non può essere semplicemente ignorata, deve essere smaltita. Ora, tuttavia, non è che da un Dio crudele venga richiesto qualcosa di infinito [un compenso dal valore infinito]. E proprio il contrario: Dio stesso si pone come luogo di riconciliazione e, nel suo Figlio, prende la sofferenza su di sé. Dio stesso introduce nel mondo come dono la sua infinita purezza. Dio stesso «beve il calice» di tutto ciò che è terribile e ristabilisce così il diritto mediante la grandezza del suo amore, che attraverso la sofferenza trasforma il buio.

 L'autore ella Lettera agli Ebrei qualifica il culto dell'Antico Testamento come «ombra» (10,1) e lo spiega così: «E impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati» (10,4). Poi cita il Salmo 40,7ss ed interpreta queste parole del Salmo come dialogo del Figlio col Padre, un dialogo in cui si compie l'incarnazione e, al contempo, la nuova forma del culto divino diventa realtà: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà"» (Eb 10,5ss; cfr Sal 40,7ss).

In questa breve citazione del Salmo c'è una modifica importante rispetto al testo originale. Il salmista aveva detto: «gli orecchi mi hai aperto», mentre la Lettera agli Ebrei preferisce: «Un corpo mi hai preparato». 

Già qui [nel salmo] al posto dei sacrifici del tempio era entrata l'obbedienza. La vita impostata sulla base della parola di Dio e all'interno di essa conosciuta come il vero modo di venerare Dio. Quanto più l'uomo diventa parola, o meglio diventa con l'intera sua esistenza risposta a Dio, tanto più egli pone in essere il culto giusto. Dio è venerato in modo giusto se noi viviamo nell'obbedienza alla sua parola e, plasmati così interiormente dalla sua volontà, diventiamo conformi a Dio. 

Rimane pur sempre anche un'impressione di insufficienza. La nostra obbedienza è sempre nuovamente mancante.  

Il profondo senso dell'insufficienza di ogni obbedienza umana la parola di Dio fa, tuttavia, erompere sempre nuovamente il desiderio dell'espiazione, che però in virtù di noi stessi e della nostra prestazione di obbedienza non può organizzarsi. Per questo nel bel mezzo del discorso dell'insufficienza degli olocausti e dei sacrifici, erompe poi anche sempre di più il desiderio che essi possono ritornare in modo più perfetto. Nel versetto della Lettera agli Ebrei, è contenuta la risposta a tale desiderio : il desiderio che a Dio sia dato ciò che noi non siamo in grado di dargli e che il dono sia tuttavia dono nostro, il suo adempimento. Il salmista aveva pregato: Non hai chiesto olocausto del sacrificio per il peccato. Gli orecchi mi hai aperto. Il Figlio dice al Padre: Non hai voluto né sacrifici né offerte, un corpo invece mi hai preparato. Il Verbo stesso, il Figlio, si fa carne, assume un corpo umano. Così è possibile una nuova forma di obbedienza, che va al di là di ogni adempimento umano dei comandamenti. Il Figlio diventa uomo e nel suo corpo riporta a Dio l'intera umanità. Solo il Verbo fattosi carne il cui amore si compie sulla croce, è l'obbedienza perfetta. In lui non è soltanto divenuta definitiva la critica ai sacrifici del tempio ma è adempiuto anche il desiderio che era restato: la sua obbedienza corporea è il nuovo sacrificio nel quale coinvolge tutti noi e in cui al contempo tutta la nostra disobbedienza è annullata mediante il suo amore. 

Detto ancora in altre parole: la nostra personale moralità basta per venerare Dio in modo giusto. Questo San Paolo ha chiarito con grande forza nella controversia circa la giustificazione. Ma il Figlio fattosi carne porta in sé tutti noi e dona così ciò che noi da soli non potremmo dare. Per questo fa parte dell'esistenza Cristiana sia il sacramento del battesimo quale accoglienza nell'obbedienza di Cristo, sia a l'Eucaristia in cui l'obbedienza del Signore sulla croce ci abbraccia tutti, si purifica tirar dell'adorazione perfetta realizzata da Gesù Cristo. 

[Paolo ci coinvolge tutti nella donazione di Cristo]: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (Rm 12,1-2). 

È qui ripreso il concetto del culto a Dio mediante la parola, l'abbandono a Dio dell'intera esistenza, un abbandono in cui l'uomo intero diventa come parola, diventa conforme a Dio. In ciò è sottolineata la dimensione della corporeità: proprio la nostra esistenza corporea deve essere pervasa dalla parola e diventare dono per Dio. Paolo che pone tanto in rilievo l'impossibilità della giustificazione in base alla propria moralità, presuppone in ciò che questo nuovo culto dei Cristiani, in cui essi sono il sacrificio vivente e santo sia possibile solo nella partecipazione all'amore corporeizzato di Gesù Cristo, quell'amore che mediante il potere della sua santità supera ogni nostra insufficienza. Se, da una parte, dobbiamo dire che Paolo con una tale esortazione non cede ad alcuna forma di moralismo e non smentisce affatto la sua dottrina della giustificazione mediante la fede e non mediante le opere, dall'altra diventa tuttavia evidente che l'uomo con questa dottrina della giustificazione non è condannato alla passività, non diventa un destinatario solamente passivo della Giustizia di Dio che in tal caso, resterebbe in fondo qualcosa di esterno a lui. No la grandezza dell'amore di Cristo proprio nel fatto che egli , nonostante tutta la nostra miserevole insufficienza si accoglie in sé , nel suo sacrificio vivente e santo così che diventiamo veramente il suo corpo.

(Benedetto XVI, Gesù di Nazaret 2)







Lettera agli Ebrei 8

 «Avendo dunque, fratelli, pieno diritto di entrare nel santuario, nel sangue di Gesù, avendo questa via nuova e vivente che Egli ha inaugurato per noi, attraverso il velo, cioè la sua carne, avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci...» (10,19-22). L'Autore dice all'inizio fratelli (v. 19). Il termine esprime l'unione dei credenti nella Nuova Alleanza. Siamo fratelli in Cristo, anzi, siamo fratelli di Cristo, perché Cristo si è fatto nostro fratello e ha saldato questa unione con la sua passione e la sua resurrezione. Alla fine del passo l'Autore torna sull'unione fraterna, esortando alla carità, ma nel mezzo insiste soprattutto sulla relazione dei credenti con Dio. 

Il diritto di entrare

Nell'antica alleanza questa relazione era ostacolata in vari modi. Nella Nuova Alleanza, invece, tutti i credenti hanno pieno diritto di entrare nel santuario per accostarsi a Dio. Le traduzioni mettono “con piena fiducia”; è una traduzione possibile. Il termine greco però è parrêsían, che non indica semplicemente un sentimento di fiducia, ma un diritto oggettivo. La parola significa il diritto di dire tutto; era un termine caratteristico della città greca democratica. Il termine viene usato più volte nel Nuovo Testamento per caratterizzare la nuova situazione di libertà creata dal mistero pasquale di Gesù. San Paolo insiste molto sulla libertà cristiana, sulla libertà dei figli di Dio. Quella dei figli di Dio è una situazione di diritto di accesso. Abbiamo diritto, pieno diritto di ingresso nel santuario. Vuol dire che sono state abolite tutte le separazioni che esistevano nell'Antico Testamento; ne era pieno. Nell'antica alleanza c'era prima la separazione tra le nazioni pagane e il popolo. 

Quest'ultimo era protetto da divieti molteplici per evitare il contatto con le nazioni pagane. C'era poi la separazione tra il popolo e i sacerdoti: il popolo non era mai autorizzato ad entrare nell'edificio del tempio, poteva soltanto stare nei cortili. Soltanto i sacerdoti avevano il diritto di penetrare nell'edificio. 

C'era pure una separazione tra semplici sacerdoti e sommo sacerdote. I primi potevano entrare solamente nella parte santa dell'edificio, non nella parte più santa, nel Santo dei Santi. L'Autore ha ricordato che solo il sommo sacerdote aveva il diritto di penetrare nella parte più santa e soltanto una volta all'anno, durante una eccezionale funzione penitenziale di espiazione. C'era inoltre la separazione tra sacerdote e vittima. Come abbiamo visto, il sacerdote non poteva offrire se stesso, non era degno, non era capace, doveva offrire come vittima un animale. Infine la separazione tra vittima e Dio, fin troppo chiara: un animale non può entrare in comunione con Dio. Si aveva quindi una situazione segnata da una serie di separazioni che formavano una specie di piramide con la speranza di raggiungere Dio. In realtà, l'ultimo grado segnava una forte separazione da Dio perché fra un animale e Dio c'è impossibilità di comunione. 

Ora, invece, per mezzo dell'offerta di Cristo, tutti abbiamo il diritto di entrare nel santuario e nel vero santuario; non più nel santuario fabbricato dalle mani d'uomo, ma nel santuario che è l'intimità celeste di Dio. Questo diritto di ingresso è fondato, dice l'Autore, sul sangue di Gesù, perché il sangue di Gesù è un sangue di alleanza, versato in una offerta generosissima che ha abolito tutte le separazioni antiche e ha stabilito la piena comunicazione, la piena comunione tra tutti e Dio, cioè fra tutti i credenti. 

Con la sua offerta, Cristo ha abolito la separazione tra vittima e Dio. Egli è stato una vittima quanto mai gradita a Dio, una vittima senza macchia, ha detto l'Autore; una vittima che ha adempiuto perfettamente la volontà di Dio e quindi non può che essergli gradita. Cristo, d'altra parte, ha abolito la separazione tra sacerdote e vittima, in quanto, offrendo se stesso, è stato nel contempo sacerdote e vittima. Offrì se stesso come sacerdote e come vittima. Nel momento in cui Dio ha gradito la vittima, ha gradito anche il sacerdote e lo ha innalzato presso di sé nella gloria. Ma Cristo ha abolito anche la separazione tra popolo e sacerdoti, perché la sua offerta è stata un atto di totale solidarietà con noi, un atto nel quale la perfezione consacrazione a lui conferita è stata contemporaneamente comunicata a noi. Abbiamo visto che l'Autore parla più volte della perfezione raggiunta da Cristo e il verbo usato, rendere perfetto, ha pure il significato, nell'Antico Testamento, di consacrare sacerdote. Nel Pentateuco si usa solo tale verbo e viene usato unicamente per la consacrazione del sommo sacerdote. Quindi, quando l'Autore dice che Cristo è stato reso perfetto dice allo stesso tempo che Cristo è stato consacrato sacerdote e la sua perfezione è una perfezione sacerdotale. 

D'altra parte l'Autore ha detto che Cristo con un'unica oblazione è stato reso perfetto e ci ha resi perfetti, ci ha comunicato la sua consacrazione sacerdotale. Così il sangue di Cristo è diventato veramente un sangue di alleanza, un sangue che stabilisce una situazione nuova che non era mai stata realizzata in precedenza. Lo dice anche Paolo nella lettera agli Efesini: "Ora in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo" (Ef 2,13). In questo passo Paolo aggiunge una cosa che non viene detta nella lettera agli Ebrei, cioè che anche la separazione tra il popolo eletto e le nazioni viene abolita. Il pagano, colui che era lontano, nel sangue di Cristo è diventato vicino e partecipa agli stessi privilegi del popolo eletto. Il sangue di Cristo possiede una straordinaria forza di coesione, stabilisce la comunione con Dio e con i fratelli proprio perché è l'espressione di un amore estremo nella docilità filiale e nella solidarietà fraterna. 

La via nuova e vivente

Dopo aver nominato il diritto di entrare, l'Autore aggiunge altri due aspetti. Per entrare nel santuario non basta avere il diritto di accesso, occorre avere anche una via per entrare e una persona autorevole che ci guidi in tale via. Tutto questo lo troviamo in Cristo. In Lui abbiamo la via nuova e vivente che Egli ha inaugurato per noi attraverso il velo del tempio; e l'Autore precisa, cioè la sua carne (10,20). Di nuovo un cambiamento di situazione rispetto al culto dell'Antico Testamento. In precedenza l'Autore ha affermato che nell'Antica Alleanza la via del vero santuario non era stata ancora manifestata. Abbiamo notato questo verbo: manifestata. Non soltanto non era aperta, ma non era nemmeno conosciuta, perciò era impossibile la comunicazione autentica con Dio. Ora, invece, abbiamo la via; la via è stata manifestata e questa via è la carne di Gesù, la natura umana del Figlio di Dio in quanto ha percorso la distanza che ci separava da Dio ed è entrata nell'intimità di Dio. L'Autore dice che questa via è stata inaugurata da Cristo stesso nel suo mistero pasquale: vuol dire che per entrare nell'intimità celeste di Dio, Cristo ha usato la sua umanità glorificata, che è costituita via di accesso a Dio. Nel Quarto Vangelo Gesù presenta se stesso come la Via, la Verità, la Vita. Quando proclamava queste parole non aveva ancora raggiunto la meta. Quindi la via era ancora incompleta, ma adesso è completa perché Gesù è passato dal mondo al Padre per mezzo del suo sacrificio. Ora che è risorto, Cristo è veramente la Via che consente di entrare in comunione con il Padre. 

L'Autore dice che questa via è nuova e per affermare ciò usa l'aggettivo raro, prósphaton, lo stesso che il Qohelet utilizza per dire che non c'è niente di nuovo sotto il sole. L'Autore della lettera agli Ebrei dice che c'è qualcosa di nuovo, è la via tracciata da Cristo. L'aggettivo nuovo, richiama questa novità di vita di cui parla Paolo a proposito della Risurrezione. D'altra parte l'Autore dice una via vivente proprio perché si tratta di Cristo risorto; Cristo risorto è il vivente. "Perché cercate il vivente tra i morti?" chiede l'Angelo alle donne. Pietro nella sua lettera dice: "Stringendovi a lui, pietra vivente" (1Pt 2,4). Usare l'espressione la via nuova e vivente è un altro modo di designare ciò che l'Autore aveva chiamato la Tenda più grande e perfetta, per mezzo della quale Cristo è entrato nel santuario divino. Siamo sempre riportati all'umanità glorificata di Gesù, la quale è diventata per tutti noi l'unica via di accesso al Padre. Dovremmo capire meglio la straordinaria novità introdotta nel mondo dal mistero pasquale di Cristo che ci dà la capacità di trasformarci rinnovando continuamente la nostra mente. Non siamo chiamati a rimanere nella condizione del mondo vecchio, ma ad entrare in una creazione nuova, nella condizione del cuore nuovo, dello spirito nuovo. La ricerca della volontà di Dio ci introduce in questa novità, perché questa volontà non è un codice fisso come erano i dieci comandamenti, ma una creazione continua.

Cristo sacerdote e guida

Dopo aver parlato della via, l'Autore parla della guida in questa via. "Abbiamo un sacerdote grande sopra la casa di Dio" (10,21), letteralmente: stabilito sopra la casa di Dio. Vediamo che l'Autore fa cenno alla prima qualità sacerdotale di Cristo, cioè alla sua autorevolezza. Nel III capitolo aveva già usato questa espressione "sopra la casa": "Cristo è degno di fede in qualità di Figlio stabilito sopra la sua casa e la sua casa siamo noi" (3,6). Pertanto la Nuova Alleanza non è come l'antica, una istituzione impersonale, una legge scritta sulla pietra. La Nuova Alleanza è in realtà una persona, una realtà viva: Cristo risorto. Il valore di tale Alleanza non proviene soltanto dall'evento passato che l'ha fondata, ma dalla presenza attuale del mediatore, il quale ne è anche il garante nella propria persona, come ci ricorda l'Autore nel VII capitolo. La Nuova Alleanza esiste nella persona, nell'umanità di Cristo risorto. Questa dunque è la nostra situazione, veramente privilegiata. L'Autore ne parla con un entusiasmo segreto. Abbiamo pieno diritto nel sangue di Gesù, abbiamo la via, la carne di Gesù, abbiamo Gesù stesso per guidarci, non ci manca niente. Avendo tutto questo, siamo invitati a procedere con sollecitudine. L'Autore rivolge questo invito: "Accostiamoci con cuore sincero". 

Dobbiamo progredire nel nostro rapporto con Dio. Qui possiamo di nuovo notare un forte contrasto con l'Antico Testamento che vietava di accostarsi. Era severamente proibito ai fedeli di accostarsi al Santuario. Chi lo faceva meritava la pena di morte. Solo il Sommo Sacerdote poteva farlo, ma in circostanze molto determinate e limitate. Nel libro dei Numeri per ben tre volte si dice che chi si accosta sarà punito di morte: "Nessun estraneo che non sia della discendenza di Aronne si accosti, l'estraneo che si accosterà sarà messo a morte". Anche per i sacerdoti c'era il pericolo di morte. 

All'inizio del XVI capitolo del Levitico, prima di descrivere la liturgia del giorno di Kippur, il Signore dice a Mosè: "Parla ad Aronne tuo fratello, digli di non entrare in qualunque tempo nel Santuario oltre il velo davanti al coperchio che è sull'arca, altrimenti potrebbe morire". Ora, invece, tutti siamo invitati ad avvicinarci a Dio senza nessuna limitazione, siamo invitati ad entrare in contatto intimo con Dio per mezzo di Cristo risorto. Ci sono buone ragioni per pensare che l'Autore abbia composto la sua predica in vista di assemblee cristiane eucaristiche. 

Fede speranza carità

Per definire gli orientamenti fondamentali della Nuova Alleanza, l'Autore nomina tre virtù teologali: la "pienezza di fede", la "professione della nostra speranza", la volontà di "stimolarci a vicenda nella carità". 

Non fa esortazioni morali, ma teologali. Avrebbe potuto invitare i fedeli a praticare le virtù morali o anche le virtù cardinali. Non l'ha fatto perché queste virtù non hanno un rapporto diretto con la Nuova Alleanza, nella quale invece le virtù teologali sono essenziali perché riguardano tutte la relazione con Dio e con i fratelli. 

Già nell'Antico Testamento si insisteva molto sulla fede, sulla fiducia in Dio. Ad esempio, nel salmo 78, che ricorda tutta la storia di Israele, leggiamo: «Dio comandò ai nostri Padri di farlo sapere ai loro figli perché ponessero in Dio la loro speranza». Il salmista poi si lamenta perché il popolo non ha corrisposto a questa esigenza di fede e di fiducia: Non si fidavano di Dio, non confidavano nel suo aiuto. L'Antico Testamento insisteva molto sulla necessità della fede, sulla sua importanza. Nel corso della storia d'Israele, questa prospettiva teologale è stata oscurata dalla preoccupazione sempre più forte delle osservanze. Gli Ebrei erano preoccupati soprattutto di osservare bene le prescrizioni, delle opere di legge da compiere per essere in regola con Dio. 

Il Nuovo Testamento non insiste tanto sulla legge da osservare, quanto sulla fede, la speranza, la carità. La prima condizione che la lettera agli Ebrei pone per accostarsi a Dio non è l'adempimento della legge, ma l'adesione di fede a Dio per mezzo della mediazione sacerdotale di Cristo. Ritroviamo qui la dottrina paolina che respinge le pretese della legge e pone a fondamento di tutto la fede. La sfumatura è diversa. Paolo critica la legge perché non era in grado di giustificare gli uomini, tutti peccatori. Invece l'Autore della lettera agli Ebrei critica la legge perché non era in grado di stabilire una vera mediazione, non poteva istituire un sacrificio efficace, un sacerdozio valido, un'alleanza irreprensibile. 

L'invito alla fede si fonda sull'efficacia perfetta del sacrificio e del sacerdozio di Cristo per una mediazione perfetta. La fede è un atteggiamento del cuore, secondo la Scrittura. Paolo afferma che si crede con il cuore. L'Autore esorta quindi: accostiamoci con cuore sincero, in pienezza di fede. Come un peccatore può procurarsi un cuore sincero se il suo è un cuore duplice, traviato? L'Autore ricorda il rimedio che è stato già adoperato dai cristiani, perché si tratta di cose già fatte secondo il testo greco. Dice: "il cuore purificato dalla cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua, con acqua pura". A ragione i commentatori vedono in questa frase un riferimento al battesimo sotto il duplice aspetto: rito esterno (lavati con acqua pura) ed effetto interno: il cuore purificato dalla cattiva coscienza. L'Autore però non dice cuore purificato. Questa è una traduzione approssimativa perché l'espressione dell'Autore è sorprendente. Egli dice: cuore asperso; al plurale anzi, con i cuori aspersi e questo è significativo perché il verbo aspergere si riferisce all'istituzione dell'alleanza del Sinai. 

Nel IX capitolo l'Autore ha ricordato che Mosè ha asperso il popolo con il sangue dell'alleanza, ha asperso anche il libro, tutti i corredi del culto. Il verbo torna due volte. Qui c'è una novità: l'aspersione riguarda i cuori. Avere i cuori aspersi suona strano, perché un'aspersione normalmente non raggiunge il cuore. Nell'Antica Alleanza l'aspersione era esterna, nella Nuova Alleanza è interna. Il sangue di Cristo raggiunge l'uomo nella sua profondità, nella sua interiorità, nel suo cuore e lo libera dalle cattive disposizioni di coscienza, dalla cattiva situazione di coscienza. Così si realizza la promessa che Dio aveva fatto per bocca dei profeti Geremia ed Ezechiele sulla Nuova Alleanza che portava il perdono delle colpe. Assieme alla trasformazione interiore viene indicato anche il rito esterno. Nella descrizione del rito viene usata un'espressione che ci sembra molto naturale, ma che è rarissima nella Bibbia: con acqua pura. La si trova soltanto due volte in tutto l'Antico Testamento, una volta nel libro di Giobbe e una volta, è significativo, nel brano di Ezechiele in cui compare unito il verbo aspergere e che fa riferimento al la Nuova Alleanza. Conosciamo benissimo questo testo. Dio dice per bocca di Ezechiele: "Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo." È l'oracolo della Nuova Alleanza. Si vede che l'Autore era consapevole che il battesimo introduceva nella Nuova Alleanza con l'aspersione del cuore e con l'acqua pura. 

La professione della nostra speranza

 Poi l'Autore parla della speranza. «Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso». In tutta la lettera la speranza è sempre strettamente unita alla fede; anzi, quando l'Autore vuole definire la fede la definisce in primo luogo per mezzo della speranza. Che cos'è la fede? «La fede è un modo di possedere le cose che si sperano» (Eb 11,1). La speranza esprime l'aspetto dinamico della fede, in quanto il messaggio che riceviamo non è una rivelazione astratta, ma la rivelazione di una persona che è via e causa di salvezza. Perciò la Nuova Alleanza è piena di migliori promesse e la nostra fede produce la speranza. Nella Nuova Alleanza ci sono già comunicati molti doni che non sono più oggetto di speranza, però altri doni sono di una portata più grande e sono sperati. Abbiamo la speranza di ricevere l'eredità eterna, di entrare per sempre nel riposo di Dio, nella patria celeste e la nostra speranza è sicura. «Nella speranza noi abbiamo come un'ancora della nostra anima sicura e salda», la quale penetra nell'interno del velo del santuario dove Gesù è entrato per noi come precursore; la nostra speranza penetra già dove Gesù si trova.

Infine troviamo un'esortazione all'amore cristiano: «Cerchiamo di stimolarci a vicenda nell'amore e nelle opere buone». Il rapporto tra alleanza e carità è quanto mai stretto, è troppo chiaro. La carità presenta le due dimensioni dell'alleanza: l'unione con Dio nell’amore, l'unione con i fratelli nella carità operosa. Sono le due dimensioni inseparabili della Nuova Alleanza. L'Autore, alla fine, rende ancora più pressante la sua esortazione facendo riferimento al giorno (10,25) cioè al giorno del Signore di cui parlavano i profeti che annunciavano quel giorno: "Tanto più che potete vedere come si avvicina il giorno". Giorno in greco (tên hêméran) è l'ultima parola della frase; si tratta dell'intervento decisivo del Signore. 



venerdì 28 marzo 2025

Lettera agli Ebrei 7

Efficacia del sangue di Cristo 

"Se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalla opere morte, per servire il Dio vivente? Per questo Egli è mediatore di una Nuova Alleanza". 

Questo brano molto ricco ci permette di approfondire il mistero della passione e della glorificazione di Cristo, ci fa capire in che maniera il sangue versato da Cristo è diventato sangue della Nuova Alleanza. Lo è diventato perché è stato espressione di un'offerta personale, perfetta, fatta sotto l'impulso dello Spirito Santo. Nel culto antico venivano offerti doni e sacrifici esterni, cadaveri di animali immolati che non potevano fondare un'autentica alleanza, perché erano incapaci di avere un influsso reale sulla coscienza delle persone. Invece Cristo offrì se stesso senza macchia a Dio sotto l'impulso dello Spirito Santo. Il suo sacrificio è stato non un'offerta esterna, ma un'offerta personale, di tutto il proprio essere umano. Offrire se stesso completa l'aspetto di sottomissione espresso in altri testi: Gesù non si è mai accontentato di un'accettazione passiva della volontà di Dio. In tutta la sua volontà si è dimostrato pieno di iniziativa, affrontava le difficoltà, in particolare ha preso risolutamente la via di Gerusalemme per andare alla sua passione e, dopo l'agonia, si è mostrato energico e ha impedito a Pietro di difenderlo. 

Il sacerdote antico non poteva offrire se stesso perché non era né degno, né capace. Non era degno perché era un peccatore e doveva offrire per se stesso gli animali immolati. Non poteva essere lui una vittima gradita a Dio perché la condizione posta era che la vittima fosse senza macchia (espressione che ricorre più volte nel Levitico). D'altra parte non era capace di offrire se stesso perché, essendo peccatore, non aveva in sé la potenza di amore necessaria per offrirsi a Dio. Un peccatore è debole, il suo egoismo gli impedisce di offrirsi a Dio perfettamente. Gesù, invece, è stato vittima degna e sacerdote capace. 

Vittima degna perché era senza macchia, dice l'Autore, cioè aveva una perfetta integrità morale e religiosa. L'aggettivo è lo stesso che viene applicato agli animali nel Levitico, ma quando si applica ad un uomo, come in alcuni salmi, allora si tratta di una integrità morale e religiosa. Gesù era santo, innocente, senza macchia.

 D'altra parte è stato sacerdote capace in quanto pieno della forza dello Spirito Santo: "Con Spirito eterno offri se stesso senza macchia a Dio": una frase molto densa che esprime gli aspetti principali dell'offerta di Cristo. La principale novità che troviamo qui consiste nel ruolo attribuito allo Spirito nel sacrificio di Cristo. I Vangeli menzionano più volte lo Spirito Santo in relazione a Gesù: nei Vangeli dell'infanzia in relazione al suo concepimento, nel momento del battesimo e nel corso del ministero.


Il mistero pasquale e lo Spirito Santo


I Vangeli non parlano dello Spirito Santo nel racconto della passione; la lettera agli Ebrei, invece, afferma che il mistero pasquale di Cristo è stato una mistero adempiuto sotto l'impulso dello Spirito Santo. È vero che l'Autore non dice Spirito Santo ma Spirito eterno. Però dire eterno è un altro modo di designare lo Spirito Santo. Solo Dio è eterno, perciò lo Spirito eterno è lo Spirito di Dio, lo Spirito Santo. L'aggettivo eterno non è stato scelto senza motivo. Con esso l'Autore vuole esprimere il valore dell'offerta di Cristo, fatta per ottenerci una redenzione eterna (9,12), cioè una redenzione definitiva, perfetta, fatta per donarci "l'eredità eterna" (9,15) e per fondare un’alleanza eterna (13,20). Ha voluto quindi esprimere una proporzione tra lo Spirito e il frutto dell'offerta. Solo la potenza dello Spirito eterno poteva comunicare a Cristo lo slancio necessario per realizzare un'offerta di così grande efficacia, un'offerta capace di fondare l'alleanza nuova e definitiva, eterna. San Giovanni Crisostomo insegna: lo Spirito Santo prende, nel sacrificio di Cristo, il posto che teneva il fuoco nei sacrifici antichi.

Quale era la funzione del fuoco nel culto antico? Una funzione essenziale, perché il problema del culto nell'Antico Testamento era un problema di ascensione, cioè come far salire le vittime fino a Dio. Il mezzo adoperato a tale scopo era il fuoco dell'altare. Per mezzo del fuoco le vittime si trasformavano in fumo che saliva verso il cielo sino a Dio. Dio respirava il fumo dei sacrifici. Abbiamo già visto quest'immagine a proposito dei sacrifici di Noè: "Dio odorò il fumo dei sacrifici", "un odore di soave fragranza", espressione che si ritrova nel Nuovo Testamento e anche nella liturgia con traduzioni. Nella lettera agli Efesini leggiamo: "Camminate nell'amore nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha consegnato se stesso per noi offrendosi a Dio in sacrificio di soave fragranza" (5,2). Però per essere un sacrificio di fragranza, l'offerta di Cristo è stata consumata dallo Spirito Santo, non dal fuoco dell'altare. Quindi, secondo la mentalità dell'Antico Testamento, il fuoco conferiva all'offerta la forza ascensionale necessaria per raggiungere Dio. 

La Bibbia precisa che non qualsiasi fuoco può servire a questo scopo. Perché un'offerta possa salire veramente sino a Dio occorre un fuoco disceso da Dio, l'unico in grado di risalire verso Dio portando con sé la vittima. San Giovanni ha una frase che esprime la stessa prospettiva. Gesù dice: "Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo" (3,13). Il libro del Levitico ci ricorda quindi che il culto sacrificale del popolo di Dio si era attuato per mezzo di un fuoco venuto da Dio. Nel capitolo IX, al versetto 24, nel momento dell'inaugurazione del culto sacerdotale alla fine della consacrazione del sommo sacerdote, il testo dice che un fuoco uscì dalla presenza del Signore e consumò sull'altare l'olocausto e i grassi. Un evento analogo viene riferito in occasione della dedicazione del tempio da parte di Salomone. Nel Secondo libro delle Cronache al capitolo VII è detto: "Appena Salomone ebbe finito di pregare, venne dal cielo il fuoco che consumò l'olocausto e le altre vittime, mentre la gloria del Signore riempiva il tempio". Questa è l'attuazione perfetta del sacrificio. Così la validità dei sacrifici era assicurata. La Bibbia dà quindi la prescrizione di conservare accuratamente il fuoco venuto dal cielo sull'altare. Secondo il Levitico (6,6) questo fuoco doveva essere sempre tenuto acceso. Alla sera si ricopriva per mantenerlo sotto la cenere e al mattino lo si rianimava. Era sempre lo stesso fuoco venuto dal cielo che serviva per le offerte dei sacrifici. 


Il fuoco che viene da Dio

Sacrificare non è un'azione umana, ma un'azione divina. Soltanto Dio può rendere sacra un'offerta. L'uomo può presentare un'offerta, ma non la può sacrificare nel senso pieno. Per attuare un sacrificio non bastano quindi gli sforzi umani, nemmeno il fuoco acceso da un uomo, ci vuole un fuoco celeste, un fuoco che venga da Dio stesso. L'uomo non è in grado di sacrificare. Soltanto Dio può rendere sacra l'offerta, mettendo dentro il suo fuoco divino, la sua santità. Dio in più passi dell'Antico Testamento viene definito fuoco divorante, e nella lettera agli Ebrei l'Autore lo ripete anche alla fine del capitolo XII. Questa intuizione era quindi molto valida, ma rimaneva imperfetta perché il fuoco divino veniva concepito in modo materiale, come il fulmine che cade dal cielo. L'Autore della lettera agli Ebrei supera questa concezione imperfetta e, riflettendo sulla passione di Gesù, scopre il vero significato del simbolo: il fuoco di Dio non è il fulmine che cade dalle nubi, ma è lo Spirito Santo, lo Spirito di santificazione, come viene detto nella lettera ai Romani. Lo Spirito Santo è l'unico capace di effettuare la vera trasformazione sacrificale, cioè di far passare l'offerta nella sfera della santità divina. Nessuna forza materiale è in grado di far salire veramente un'offerta fino a Dio, nemmeno il fuoco, perché non si tratta di fare un viaggio nello spazio, ma di ottenere una trasformazione interiore, rendere perfetto nella coscienza l'offerente, come dice l'Autore. 

Per accostarsi a Dio l'uomo ha bisogno di una trasformazione del cuore, trasformazione resa possibile ed effettiva solo dallo Spirito Santo: "Vi darò un cuore nuovo, vi darò uno spirito nuovo, metterò il mio spirito dentro di voi" (Ez 36.26). 

Il sacrificio di Cristo, dunque, non è avvenuto per mezzo del fuoco che bruciava continuamente sull'altare del Tempio, ma per mezzo dello Spirito eterno. Questo è il segreto del dinamismo interno della sua offerta. In quanto animato dalla forza dello Spirito Santo, Gesù ha avuto lo slancio interno necessario per trasformare la propria morte, orrendo evento di rottura, in offerta di se stesso a Dio per stabilire la Nuova Alleanza. Questa forza spirituale ha realizzato la vera trasformazione sacrificale, facendo passare la natura umana di Cristo dal livello terreno, cioè dal livello del sangue e della carne in cui Egli si trovava in virtù dell'incarnazione, al livello della definitiva unione con Dio nella gloria celeste. Gesù è così passato da questo mondo al Padre, come dice Giovanni, non con un viaggio spaziale, ma con una trasformazione, una santificazione. Gesù stesso nel Quarto Vangelo dice nella preghiera sacerdotale: "Per loro io santifico me stesso affinché siano anch'essi santificati nella verità» (Gv 17,19). Il verbo significa santificare ma si può anche tradurre con sacrificare o consacrare. È importante che noi cogliamo quest'idea di sacrificio e di offerta, un'idea molto positiva di santificazione per mezzo dello Spirito Santo. Sono espressioni equivalenti. 

 Invece di soffermarci sull'aspetto di privazione, di dolore, dovremmo rivolgere tutta la nostra attenzione al momento della trasformazione. Quando il Signore ci chiede un'offerta, non è per arricchire se stesso. Egli non ha bisogno delle nostre offerte. Già l'Antico Testamento lo dichiara. Se ci chiede un'offerta è per comunicarci la Sua Santità, per trasformarci ed elevarci nell'amore. Dobbiamo capire che con le nostre sole forze non siamo in grado di attuare un vero sacrificio; possiamo soltanto presentare la nostra offerta chiedendo al Signore di trasformarla profondamente grazie alla forza dello Spirito Santo. 

Come possiamo ottenere tale forza? Come l'ha ottenuta Gesù. Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare al brano del capitolo V della lettera agli Ebrei che ci offre un'altra descrizione dell'offerta di Cristo, una descrizione più esistenziale, più dettagliata, meno densa della frase del IX capitolo. Abbiamo già letto questo passo: "Cristo nei giorni della sua carne offri preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà". L'offerta di se stesso, di cui parla al capitolo IX, cominciò con l'offerta di preghiere e suppliche; Gesù si trovava nei giorni della sua carne, come dice letteralmente l'Autore. Vuol dire che non si trovava in una situazione pienamente spirituale. L'offerta di Gesù non ha avuto un punto di partenza facile, come di un essere pienamente spirituale, ma un punto di partenza umile, penoso. Cristo aveva assunto la nostra carne, cioè la nostra natura umana, fragile, debole, mortale e per questo si trovava in una situazione tremendamente angosciosa. A partire da tale situazione Egli ha offerto se stesso per mezzo dello Spirito Santo, ottenuto grazie a una preghiera intensa. 


L'azione dello Spirito Santo

Per ottenere lo Spirito Santo che trasformerà le nostre offerte è indispensabile seguire l'esempio di Cristo e pregare con intensità, specialmente se siamo in un tempo di prova. La prova deve diventare un sacrificio, un'offerta, grazie allo Spirito Santo ottenuto con la preghiera. In fin dei conti, ogni preghiera ha questo risultato: ottenere lo Spirito Santo. Lo dice una frase del Vangelo di Luca dove Gesù dichiara. "Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli quanto più il vostro Padre celeste darà lo Spirito Santo a quelli che lo pregano" (11,13). Non si deve tradurre come si fa abitualmente: "a quelli che glielo chiedono", ossia darà lo Spirito Santo a coloro che chiedono lo Spirito Santo. Gesù non dice questo, dice semplicemente: darà lo Spirito Santo a quelli che lo pregano. Vuol dire che ogni preghiera ha come risultato una comunicazione dello Spirito Santo. Anche quando chiediamo cose materiali, benefici terreni, il Signore dà lo Spirito Santo che trasforma la situazione, uno Spirito creatore. Dio non si accontenta mai di darci cose materiali, trasforma la nostra situazione con il dono del suo Spirito. Ogni nostra preghiera deve essere un'offerta di noi stessi all'azione dello Spirito, proprio per permettere a Dio di esaudirci. Il brano del capitolo V ci consente di cogliere due aspetti dell'azione dello Spirito Santo, in risposta alla preghiera intensa di Gesù. Il primo aspetto è quello della docilità verso Dio, il secondo è la solidarietà fraterna con gli uomini. Lo Spirito Santo produce questi due frutti: docilità verso Dio, solidarietà con i fratelli. 

L'Autore esprime il primo risultato della preghiera di Gesù dicendo che Egli imparò l'obbedienza dalle cose che patì (5,8). È il primo risultato della preghiera. Di per sé la sofferenza non provoca un movimento di docilità, ma un movimento di ripugnanza, di rigetto. L'uomo che soffre è tentato di ribellarsi a Dio. Se viene affrontata nella preghiera, la sofferenza diventa occasione di trasformazione positiva per opera dello Spirito Santo. Durante la sua passione, Gesù è stato condotto dallo Spirito Santo ad una nuova perfezione di obbedienza. L'Autore ha l'audacia di dire questo: imparò l'obbedienza. 


Il cuore nuovo

C'è un altro aspetto dell'incarnazione alquanto suggestivo: il sangue di Cristo che offre se stesso per lo Spirito Santo, è in grado di purificare proprio a causa dello Spirito Santo. I sacramenti della Chiesa comunicano lo Spirito Santo proprio perche il sangue di Cristo si è come imbevuto di Lui. Possiamo ricordare ancora un altro brano della lettera agli Ebrei, che completa la prospettiva e che parla dello Spirito. Nel X capitolo l'Autore parla di nuovo dell'oblazione di  e dice che "con un'unica oblazione Egli ha reso perfetti per sempre quelli che ricevono la santificazione. Questo lo attesta lo Spirito Santo perché dopo aver detto: Questa è l'alleanza che io stabilirò con loro dopo quei giorni, dice il Signore: Darò loro le mie leggi e le imprimerò nei loro cuori e nella loro mente, e dei loro peccati, delle loro iniquità non mi ricorderò più" (10,14-17). Con un'unica offerta Cristo ha ottenuto due effetti contemporanei: da una parte è stato reso perfetto, dall'altra parte ci ha resi perfetti perché questa perfezione che ha ottenuto, l'ha ottenuta per noi. Cristo ha accettato la sua passione per noi; noi ne riceviamo il frutto che è la perfezione, che consiste nell'avere la legge di Dio inscritta nei nostri cuori. La Nuova Alleanza consiste nel fatto che Cristo, presentandosi al Padre per fare la Sua volontà, ha accettato che la legge di Dio venisse scritta in maniera nuova nel suo cuore umano e per mezzo di Cristo anche noi veniamo resi perfetti, cioè riceviamo la legge di Dio nei nostri cuori per obbedire a Dio con amore. Riceviamo "il cuore nuovo," promesso nell'oracolo di Ezechiele: "Vi darò un cuore nuovo, metterò in voi uno spirito nuovo, vi darò il mio Spirito" (Ez 36,26). Quel cuore nuovo è il cuore stesso di Cristo fatto nuovo nella sua passione. Siamo invitati ad accoglierlo in noi. "Vivo non più io, Cristo vive in me" (Gal 2,20), dice Paolo, e Cristo vive specialmente per mezzo del suo cuore, l'organo principale, interiore.


giovedì 27 marzo 2025

La preghiera del Getsemani


Dopo la rituale recita in comune dei Salmi, Gesù prega da solo - come durante tante notti in precedenza. 

Lascia, tuttavia, vicino a sé il gruppo dei tre, Pietro, Giacomo e Giovanni. Cosi questi, anche se ripetutamente sopraffatti dal sonno, diventano testimoni della sua lotta notturna. Marco ci racconta che Gesù comincia a «sentire paura e angoscia». Il Signore dice al discepoli: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate!» (14,33s). 

L’appello alla vigilanza è già stato un tema nell'annuncio a Gerusalemme e adesso appare con un' urgenza molto immediata. Ma pur riferendosi proprio a quell'ora, tale appello rimanda in anticipo alla storia futura della cristianità. La sonnolenza dei discepoli rimane lungo i secoli l'occasione favorevole per potere del male. Questa sonnolenza è un intorpidimento dell'anima che non si lascia scuotere dal potere del male nel mondo, da tutta l'ingiustizia e da tutta la sofferenza che devastano la terra. È un'insensibilità che preferisce non percepire tutto ciò; si tranquillizza col pensiero che tutto, in fondo, non è poi tanto grave, per poter cosi continuare nell'autocompianto della propria esistenza soddisfatta. Ma questa insensibilità delle anime, questa mancanza di vigilanza sia per la vicinanza di Dio che per la potenza incombente del male conferisce al maligno un potere nel mondo. 

Di fronte ai discepoli assonnati e non disposti ad allarmarsi, il Signore dice di se stesso: «La mia anima è triste fino allamorte». E questa una parola del Salmo 43,5 nella quale risuonano altre espressioni dei Salmi. Anche nella sua passione - sul Monte degli ulivi come sulla croce-Gesù parla di sé e a Dio Padre mediante parole dei Salmi. Ma queste parole tratte dai Salmi sono diventate del tutto personali, parole assolutamente proprie di Gesù nella sua tribolazione: Egli è di fatto il vero orante di questi Salmi, il loro vero soggetto. La preghiera molto personale e il pregare con le parole di invocazione dell'Israele credente e sofferente sono qui una cosa sola. 

Dopo questa esortazione alla vigilanza, Gesù si allontana un po'. Inizia la preghiera vera e propria del Monte degli ulivi. Matteo e Marco ci dicono che Gesù cade faccia a terra - è la posizione di preghiera che esprime l'estrema sottomissione alla volontà di Dio, il più radicale abbandono a Lui. Luca dice invece che Gesù prega in ginocchio. Inserisce cosi, in base alla posizione di preghiera, questa lotta notturna di Gesù nella storia della preghiera cristiana: Stefano, durante la lapidazione, piega le ginocchia e prega (cfr At7,60); Pietro s'inginocchia prima di risuscitare Tabità dalla morte (cfr At 9,40); Paolo s'inginocchia, quando si congeda dai presbiteri di Efeso e un'altra volta quando i discepoli gli dicono di non salire a Gerusalemme (cfr At 21,5). Dice Alois Stöger al riguardo: «Tutti questi, di fronte alla morte, pregano in ginocchio; il martirio non può essere superato che mediante la preghiera. Gesù è modello dei martiri» (Das Evangelium nachLukas II). 

Segue poi la preghiera vera e propria in cui è presente tutto il dramma della nostra redenzione. Marco dice prima in modo riassuntivo che Gesù pregava affinché, «se fosse possibile, passasse via da Lui quell'ora» (14,35). Riporta poi cosi la frase essenziale della preghiera di Gesù: «Abbà! Padre!Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu»(14,36).

Possiamo distinguere, in questa preghiera di Gesù, tre elementi. Cè innanzitutto l'esperienza primordiale della paura, lo sconvolgimento di fronte al potere della morte, lo spavento davanti all'abisso del nulla, che lo fa tremare, anzi che, secondo Luca, lo fa sudare gocce di sangue (cfr 22,44)… È lo sconvolgimento particolare di colui che è la vita stessa davanti all'abisso di tutto il potere della distruzione, del male, di ciò che si oppone a Dio, e che ora gli crolla direttamente addosso, che Egli in modo immediato deve ora prendere su di sé, anzi deve accogliere dentro di sé fino al punto di essere personalmente «fatto peccato» (2 Cor 5,20). Proprio perché è il Figlio, vede con l'estrema chiarezza l'intera marea sporca del male, tutto il potere della menzogna e della superbia, tutta l'astuzia è l'atrocità del male, che si mette la maschera della vita e serve continuamente la distruzione dell'essere, la deturpazione e la annientamento della vita. Proprio perché è il Figlio, egli sente profondamente l'orrore, tutta la sporcizia e la perfidia che deve bere in quel calice a lui destinato: tutto il potere del peccato e della morte. Tutto questo e Egli deve accogliere dentro di sé affinché in lui sia privato di potere e superato. ... 

L'angoscia di Gesù è una cosa molto più radicale di quell'angoscia che assale ogni uomo di fronte alla morte: è lo scontro stesso tra luce e tenebre, tra vita e morte - il vero dramma della scelta che caratterizza la storia umana. In questo senso possiamo con Pascal in modo tutto personale applicare l'avvenimento del Monte degli Ulivi anche a noi: anche il mio peccato era presente in quel calice spaventoso. «Quelle gocce di sangue, le ho versate per te», sono le parole che Pascal sente rivolte a sé dal Signore in agonia sul monte degli Ulivi (Pensieri, VII, 553). 

Le due parti della preghiera di Gesù appaiono come la contrapposizione di due volontà: la volontà naturale dell'uomo Gesù, che ricalcitra di fronte all’aspetto mostruoso e distruttivo dell'avvenimento e vorrebbe chiedere che il calice passi oltre; e c’è volontà del Figlio che si abbandona totalmente alla volontà del Padre. Se vogliamo cercare di comprendere per quanto possibile questo mistero delle due volontà, è utile accettare ancora uno sguardo sulla versione di Giovanni di quella preghiera. Anche in lui troviamo le due domande di Gesù: Padre Salvami da quest'ora... Padre glorifica il tuo nome" (12,27). Il rapportotra le due domande non è diverso da quello rinvenibile nei sinottici. La tribolazione dell'anima umana di Gesù spinge Gesù a chiedere di essere salvato da quell'ora. Ma la consapevolezza circa la sua missione, il fatto cioè che proprio per quell'ora Egli è venuto, lo fa pronunciare la seconda domanda, la domanda che Dio glorifichi il suo nome: proprio la croce, l’accettazione della cosa orribile, l'entrare nell'ignominia dell’annientamento della dignità personale, nell'ignominia di una morte infame diventa la glorificazione del nome di Dio. Proprio così infatti, Dio si rende manifesto per quello che è: Il Dio che nell’abisso del suo amore, nel donare se stesso oppone a tutte le potenze del male il vero potere del bene. Gesù ha pronunciato ambedue le domande, ma la prima, quella di essere salvato, è fusa insieme con la seconda, che chiede la glorificazione di Dio nella realizzazione della sua volontà e così il contrasto dell'intimo dell'esistenza umana di Gesù è ricomposto in un'unità.


Alla fine dobbiamo ancora dedicarci al testo della Lettera agli Ebrei concernente il Monte degli Ulivi. Lì si legge: 

«Nei giorni della sua vita terrena egli ofri preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per ilsuo pieno abbandono a lui, venne esaudito » (5,7). In questo testo è riconoscibile una tradizione autonoma sull'evento del Getsemani, poiché di forti grida e lacrime non si parla nei Vangeli. Dobbiamo, certo, tener presente che l'autore ovviamente non si riferisce soltanto alla notte del Getsèmani, ma all'intero cammino della passionedi Gesù fino alla crocifissione, fino a quell'istante, quindi, del quale Matteo e Marco ci dicono che Gesù proclamò «a gran voce» le parole inizialidel Salmo 22. Ambedue dicono anche che Gesù spirò con un forte grido; Matteo vi usa esplicitamente la parola «grido» (27,50). Di lacrime di Gesù parla Giovanni in occasione della morte di Lazzaro e questo in rapporto al «turbamento» di Gesu, che viene descritto con la stessa parola usata nel racconto del Monte degli Ulivi per la sua angoscia. 

Sempre si tratta dell'incontro di Gesù con le potenze della morte, il cui abisso Egli, come il Santo di Dio, percepisce tutta la sua profondità e spaventosità. La Lettera agli Ebrei vede cosi l'intera passione di Gesù dal Monte degli ulivi fine all'ultimo grido sulla croce pervasa dalla preghiera, come un'unica ardente supplica a Dio per lavita contro il potere della morte. Se la Lettera agli Ebrei considera l'intera passione di Gesù come una lotta, nella preghiera, con Dio Padre e insieme con la natura umana, manifesta con ciò in modo nuovo la profondità teologica della preghiera sul Monte degli ulivi. Per la Lettera, questo gridare e supplicare costituisce la messa in atto del sommo sacerdozio di Gesù. Proprio nel suo gridare, piangere e pregare Gesù fa ciò che è proprio del sommno sacerdote: Egli porta il travaglio dell'essere uomini in alto verso Dio. Porta l'uomo davanti a Dio. Con due parole, l'autore della Lettera ha evidenziato questa dimensione della preghiera di Gesù. La parola «portare» (prosphérein: portare davanti a Dio, portare in alto - cfr Ebr 5,1) è un espressione della terminologia del culto sacrificale. Con questo Gesù fa ciò che, nel più profondo, diviene nell'atto del sacrificio. Si è offerto a fare la volontà del Padre. 

La seconda parola, che qui è importante, dice che Gesù ha imparato l'obbedienza da ciò che ha sofferto e cosi è stato «reso perfetto» (cfr Ebr 5,8s). L'espressione «rendere perfetto» nel Pentateuco viene usata esclusivamente nel significato di « consacrare sacerdote». Dice quindi questo brano che l’obbedienza di Cristo, l'estremo «sì» al Padre, a cui Egli giunge nella lotta interiore sul Monte degli ulivi, lo ha, per così dire, « consacrato sacordote»; proprio in questo, nella sua autodonazione, nel portare l'umanità in alto verso Dio, Cristo è diventato sacerdote nel senso vero «secondo l’ordine di Melchisedek». 

Gesù supplicò Colui che poteva salvarlo da morte e«per il suo pieno abbandono a lui venne esaudito» (57). Ma è stato Egli veramente esaudito? Di fatto, è morto sulla croce! Dobbiamo piuttosto cercare di comprendere questo modo misterioso di «esaudimento», per avvicinarci con ciò anche al mistero della nostra salvezza. Si possono individuare diverse dimensioni di tale esaudimento. Una poossibile traduzione di questo testo è: «è stato esaudito e liberato dalla sua angoscia». Ciò corrisponderebbe al testo di Luca secondo cui venne un angelo lo confortava. Allora si tratterebbe della forza interiore da Gesù nella preghiera, così che egli è stato poi capace di affrontare con decisione e la passione. Ma il testo significa ovviamente di più: il Padre lo ha sollevato dalla notte della morte, nella Resurrezione lo ha definitivamente per sempre salvato dalla morte: Gesù non muore più. La resurrezione non è solo il personale salvanltaggio di Gesù dalla morte. In questa morte egli non si è trovato per sé soltanto. Il suo è stato un morire per gli altri; si è trattato del superamento della morte come tale. Così si può sicuramente comprendere l'esaurimento anche a partire dal testo parallelo in Giovanni dove alla preghiera di Gesù : «Padre glorifica il tuo nome», la voce dal cielo risponde: «Lo glorificato glorificherò ancora». La croce stessa è diventata glorificazione di Dio, manifestazione della gloria di Dio nell'amore del Figlio. Questa gloria va oltre il momento e pervade la storia. Questa gloria è vita. Sulla croce stessa appare, in modo velato e pure insistente, la gloria di Dio, la trasformazione della morte in vita. Dalla Croce viene incontro agli uomini una vita nuova. Sulla croce, la morte viene vinta. L'esaurimento di Gesù riguarda l'umanità nel suo insieme: la sua obbedienza diventa vita per tutti. E così questo passo della Lettera agli Ebrei in modo coerente conclude con le parole: «Egli divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedek». 

Benedetto XVI Gesu di Nazaret 2, 165 ss.