domenica 1 novembre 2015

Chi è il cristiano? Von Balthasar


III – DIO DINANZI A NOI,
O: CHI È IL CRISTIANO?
DIRETTAMENTE AL CENTRO
Molte cose si decidono in anticipo col ricordare una semplice
legge del pensiero: l’essenza di una cosa si afferra nel modo più chiaro là dov’essa appare allo stato più puro.1 Chi vuole indagare l’essenza del cavallo o dell’asino nel mulo, incontrerà difficoltà; chi vuole studiare l’essenza del cristiano in un uomo che non si sa ben decidere ad essere o non essere tale, che in qualche modo conosce le esigenze che essa pone, ma non ha il coraggio di realizzarle, che sa o sente con esattezza di non attuarla secondo un sufficiente grado di purezza, per cui essa possa apparire convincente a lui stesso e ad altri, indaga in un oggetto non adatto. 
Ciò vale di quest’oggetto, il cristiano, ancor più chiaramente che di altri, perché nella parola di Cristo egli viene continuamente determinato in base ad una decisione fondamentale. Cristo sollecita l’uomo a questa decisione, che non è intesa come semplice porta d’ingresso all’essere cristiano (ciò sia supposto), ma coincide già sostanzialmente, sia pure in modo solo iniziale, con questo essere. Se si considera la gradazione degli atteggiamenti cristiani, dal compromesso più basso cui può ancora essere riconosciuta una partecipazione all’essere cristiano su su, fino al grado più alto di esenzione da compromessi, ognuno vede che l’idea irradia la sua forza luminosa ed evidenzia tanto più chiaramente, quanto più profondamente la forma cristiana domina una vita. Un ‘santo’ diritto (ce ne sono anche di storti) non può essere posto in dubbio. Sentirà talora la frase: ‘Se tutti fossero come lei...’. Qui si noti subito che proprio il ‘santo’ è colui che cerca di rendere cristiana ogni cosa, che sa meglio e più profondamente quanto egli stesso è peccatore. Altri facilmente desistono o si rassegnano dinanzi a ciò che li separa dalla piena rispondenza. Altri formano a se stessi una coscienza; ma questa cerca di vedersi nella pura luce della grazia e della esigenza di amore di Dio: per quel che la riguarda, essa viene definitivamente umiliata e privata di tutte le illusioni. Chi è il cristiano? Per andare verso una risposta non bisogna vagabondare al margine più basso ed esterno (‘uno che è battezzato’, ‘uno che compie il suo dovere pasquale’ ecc.), ma andare direttamente al centro. Il minimalista è una figura estremamente complicata perché indistinguibile ed opaca, da cui non c’è da aspettarsi una chiara nozione. Invece il massimalista – se il termine fosse a proposito, ma non lo è – presenta la figura semplice, trasparente, così semplice da essere lui il vero minimalista, perché in lui tutte le complicazioni si sono integrate. Per i minimalisti, secondo Paolo, sono poste le innumerevoli proibizioni della morale, di modo che dinanzi agli alberi non si vede quasi la foresta; per il massimalista, cioè per colui che aspira a Cristo, tutti questi divieti negativi si riducono ad un semplice comandamento; chi l’osserva, ha osservato come di passaggio anche tutti gli altri comandamenti, e di questo comandamento Cristo dice che non è difficile.
Si doveva premettere questa osservazione metodologica, prima di sviluppare la problematica concernente la determinazione dei contenuti.


COME SI UNISCONO LE COSE INCONCILIABILI?
Il nome di cristiano viene da Cristo. La sua essenza sta e cade con l’essenza di Cristo. Ciò è chiaro. Ma ora sorge minacciosa la domanda: quale affinità essenziale, quale tipo di comunione può esistere tra Cristo ed il cristiano?
 Un primo ed insuperabile enunciato per chiunque crede veramente all’essenza ed all’opera di Cristo dice: Cristo è Piglio unico del Padre, l’unico mediatore tra Dio e l’uomo, l’unico Redentore che in croce ha soddisfatto per tutti, la ‘primizia’ anche dei risorgenti dai morti, che, secondo Paolo, detiene il primato in tutto (Col. 1,1-9). Ciò che egli è, ciò che si effettua per mezzo suo, è circoscritto nella più completa solitudine della sua dignità divino-umana. Egli ci ha redenti attivamente, noi siamo i redenti passivamente; tutto ciò che in seguito noi, rispondendo, facciamo attivamente, si fonda sempre su questa passività prima, si riconosce nella fede, si proclama nella testimonianza. Il rendere testimonianza è ciò che conferisce la forma unitaria a tutto il nostro essere ed agire cristiano. Questo è un enunciato così chiaro, che ad esso si ferma il protestantesimo ortodosso. Infatti tutto ciò che vi può essere ancora aggiunto, sembra nuovamente oscurarlo.
Ma, per contro, sarà bene tenere dinanzi agli occhi i racconti evangelici. Guardando superficialmente, potrebbe sembrare a tutta prima che qui si presenti al popolo un uomo fornito di doti profetiche, che con la predicazione annunzia il regno di Dio, mediante i miracoli esige rispetto per il suo mandato divino, ed infine, fede nella sua persona; che inoltre si sceglie un piccolo seguito di uomini affinché colgano e registrino i suoi discorsi e le sue azioni e da ultimo, quando egli sarà morto e risorto, gli «rendano testimonianza a Gerusalemme, in Samaria e fino ai confini della terra» (Atti 1,8). Questo primo ‘strato’ dell’essere cristiano indubbiamente esiste e permane anche fino all’ultimo; il mandato della testimonianza conclude i vangeli di Matteo e di Luca ed inizia gli Atti degli Apostoli che, assieme alle lettere, contengono la relazione del modo in cui è stata resa questa testimonianza.
Ma questo non è tutto. Cristo non solo parla ed agisce dinanzi agli uomini, ma va con essi e li invita ad andare con lui. Ciò avviene in forma particolarmente visibile nella elezione degli Apostoli: «Chiamò a sé quelli che egli volle, ed essi andarono con lui. E ne costitu1 dodici perché stessero con lui» (Mc. 3,13-14). In altre scene di vocazione troviamo la frase: sequere me, che si può tradurre con «vieni dietro a me», se si prende ‘dietro’ non in senso locale, ma nel senso di un rapporto tra maestro e discepolo, per cui il discepolo segue in quanto viene ammesso nel mondo interiore del maestro e introdotto spiritualmente in esso. Quanto più ci si guarda attorno, tanto più l’essere-con (Mitsein) appare come la forma dominante della vita terrena di Cristo. Egli inizia la sua esistenza nel seno della madre, che ha manifestato il suo accordo con la parola di Dio; trascorre la sua giovinezza in seno ad una famiglia, che abbandona per un paio di giorni, per intrattenersi «nella cerchia dei dottori», ascoltando ed interrogando. La sua vita pubblica inizia con la formazione di un gruppo di discepoli, è trasfigurato dinanzi a tre discepoli in compagnia di Mosé e di Elia, è turbato dinanzi a quegli stessi tre sul monte degli Ulivi, va in croce con due malfattori, che pendono alla sua sinistra ed alla sua destra; persino risorgendo non è solo, ma, poiché il venerdì santo si aprono i sepolcri, nel giorno di Pasqua i corpi di molti santi che erano morti «risuscitarono e, uscendo dai sepolcri dopo la risurrezione di lui, entrarono nella città santa ed apparvero a molti» (Mt. 27,5I-53). E quando, risorto, va in campagna discorrendo con i discepoli di Emmaus, rivela fino all’ultimo la sua abitudine di essere-con (Mitsein).Ma lo stadio dell’essere-con, senz’essere eliminato, tende verso un terzo stadio di estrema intimità: verso l’essere-in (Insein), che egli realizza nel mistero del pane e del vino, che egli «desidera ardentemente» e a cui ha accennato in anticipo in molti segni e parole di promessa, e che egli vede in unione con la sua morte redentrice. Ma anche questa egli anticipa con disposizione sovrana e, morendo, si distribuisce ai suoi, nei SUOI, come una vita che perdura ed è presente ad ogni epoca del mondo. La sua preghiera finale al Padre suggella con sublime chiarezza l’acquisizione di questo essere-in: essi tutti sono una sola cosa in lui ed egli in essi, così come egli è una sola cosa con il Padre. E su questo essere-una-sola-cosa mediante l’essere-in egli ripone tutta la sua speranza: da ciò il mondo deve riconoscere la sua missione divina. I discepoli che permangono nella loro missione di rendere testimonianza attingono la forza nella fede che li fa consapevoli del loro essere ‘nel Signore’ e del suo essere-in loro («Cristo vive in me»).
 Siamo così abituati a questi concetti, che non ne percepiamo quasi più il paradosso. In quanto discepoli rendono testimonianza della sua antecedente singolare presenza dinanzi ad essi; ma egli pur essendo-con essi ed essendo in essi, rimane fino all’ultimo quest’unico; anzi, si deve andare oltre e dire: quanto più egli fu con essi, tanto più si aprirono i loro occhi per la sua unicità, quanto più egli rimane in essi ed essi si nutrono e partecipano della sua vita, tanto meno essi si scambiano con lui, tanto più egli s’innalza su di essi come il Kyrios, il Signore. Con la vicinanza cresce il senso della distanza, con la visione del suo incomprensibile abbassamento cresce la conoscenza che proprio in esso sta ed appare tutta la inimmaginabile altezza. Quanto più egli nasconde la sua forza nella impotenza della Passione, tanto più appare chiaro che egli solo ha il potere «di dare la sua vita per le sue pecorelle» e «di riprenderla» (Gv. 10,16-18): egli solo quindi può soffrire e morire e risorgere dai morti in rappresentanza di tutti gli altri. E così il discepolo, che per la sua intimità con Gesù afferra tutto ciò con la fede, è continuamente rimandato e per così dire respinto verso il dovere di rendere testimonianza.
 La cristianità odierna, stanca di una pratica puramente esteriore, ha raccolto il suo amore e la sua attenzione sul cristiano che rende testimonianza. Témoignage è la parola che risuona dovunque in Francia e spesso fin quasi a sazietà. La vita dei preti operai fu témoignage, quella dei Piccoli Fratelli e Sorelle è témoignage, nello stesso senso viene intesa quella delle nuove comunità secolari, ed infine ogni seria esistenza cristiana nella Chiesa e nel mondo. Per quanto serio sia questo progresso nei confronti della religione farisaica di una tiepida borghesia, e per quanto il concetto di ‘testimonianza’ possa includere anche l’esser-con e l’essere-in (nel concetto pieno del martirio), per sé sola è un atto che potrebbe anche essere concepito in senso minimalistico, come testimonianza di un evento storicamente avvenuto. In questo senso, come caso limite, persino un incredulo potrebbe attestare la crocifissione ed il ‘sepolcro vuoto’. E la celebrazione eucaristica della comunità potrebbe essere similmente concepita come una festa commemorativa di riconoscente ricordo del beneficio della redenzione avvenuta, come ad esempio l’atto vittorioso di Giuditta sull’esercito nemico veniva celebrato ogni anno con giubilo dagli Israeliti e «fu messo nel numero dei giorni santi da quel tempo fino ad oggi» (Gdt. 16,31, volg.). Ma evidentemente una simile concezione della celebrazione comunitaria non è sufficiente: non solo perché i cristiani devono esperimentare in essa la parola di Dio come una parola che (nello Spirito santo) è presente e si avvicina, ma perché nella consacrazione e nella comunione il Signore ‘ricordato’ è presente nella sua realtà corporeo-spirituale: dinanzi ad essi, con essi, in essi.
Il vangelo insegna che le cose stanno cosi, ed il cristiano lo crede. Ma egli aspira a comprendere ciò che crede: com’è possibile che ciò che Cristo ha di unico, di incomparabile, sia non soltanto dinanzi a noi, ma con noi ed in noi? Che anche noi lo compiamo veramente, senza che cessi di essere l’essere e l’agire dell’unico? Si noti che qui non si tratta soltanto di sottigliezze vacue, ma del punto centrale che dev’essere chiarito se si deve dare una risposta all’interrogativo avanzato dal nostro titolo. Si noti inoltre che qui, e in nessun altro punto, si trovano gli argomenti decisivi del dialogo ecumenico con il protestantesimo.
IL PUNTO D’INCONTRO
Imprimiamoci ancora una volta nella mente il decorso formale della vita di Gesù. La giovinezza potrebbe essere considerata come la lunga preparazione, una graduale iniziazione dell’adolescente alla sua missione per il mondo; il battesimo come conferimento dello spirito e della missione; la dimora nel deserto con la tentazione diabolica come l’ultima prova e tempera esistenziale. Ora, preparato da lontano, egli inizia la sua vita attiva, chiamando per prima cosa al suo seguito singoli uomini. Non come spettatori, ma come compagni che devono partecipare alla terrificante unicità della sua esistenza. Anch’essi si sono esposti con lui, ed egli lo conferma quando, nell’ultima cena, dice loro: «Voi mi siete rimasti fedeli nelle mie prove» (Lc. 22,28). Essi hanno fatto liberamente; hanno sempre avuto la possibilità («anche voi volete andarvene?») di abbandonarlo.
 In questa unione di una piena fedeltà di discepoli sembra dimostrarsi a tutta prima soltanto una virtù umana: quella tra la persona dei seguaci e il Signore. Ma poiché Gesù è di più, fa di più ed esige di più che non un uomo, la fedeltà dei suoi discepoli è anche di più di un attaccamento umano: è fede. Tuttavia le due cose non si unirebbero mai, se Gesù non avesse compiuto il suo atto sovrano in una forma umana e quindi aperta ed accessibile per principio agli uomini: nella forma di un’assoluta obbedienza a Dio. Egli non fa la sua volontà, bensì quella del Padre. Lo protesta tra lacrime e sudore di sangue sul monte degli Ulivi, nascondendo la sua volontà umana – al di là dei limiti del suo volere e potere nella volontà del Padre. Questa obbedienza, che fa sconfinare la finitezza di ogni facoltà umana nella infinità di Dio, è la forma di servo, liberamente assunta, dell’amore eterno, trinitario tra Padre e Figlio nello Spirito santo. È la sovrana decisione di amore di non conservare gelosamente la propria forma divina (come dice Paolo), ma di trasferirla nella piccolezza della forma umana, nella anonimità di una singola vita poco appariscente, infine in una obbedienza a Dio fino alla morte, anzi fino alla più obbrobriosa morte in croce. Obbedienza per libero amore fino alle estreme conseguenze: questa è esattamente la forma di vita del Dio incarnato. Ed è questo atto centrale che fonda ora anche la possibilità per gli uomini ordinari di partecipare alla vita, all’azione ed alla passione dell’uomo-Dio.
La libera obbedienza d’amore è il punto in cui le cose incomparabili si toccano fino ad identificarsi. Da parte dell’uomo questa obbedienza d’amore porta il nome distintivo di fede. Questa fede, in quanto atto dell’uomo, è un tentativo iniziale di consegnarsi («credo, Signore, aiuta la mia incredulità»), che da parte del Signore viene raccolto benignamente nella sua propria obbedienza, nella forza del suo esempio e modello, anzi viene già suscitato nel primo tentativo, stimolato, sostenuto, portato a successo (gratia praeveniens et consequens). Allo stesso modo che nel campo puramente umano la fiducia, la dedizione, il sì definitivo di una ragazza, può essere provocato e portato fino all’ultimo compimento dalla forza d’amore di un giovane. Ora l’arrendersi umano, per quanto si creda illimitato, conserverà forse sempre in qualche punto dei limiti inconsci, ad esempio quando l’uomo a cui ci si è dati, si trasformi completamente in infedele, disamorato, malvagio, e un legame con lui non sia più oltre sopportabile. Invece la fede in Cristo ha la sua prova esattamente nella completa sconfinatezza della dedizione: poiché ogni infedeltà da parte di Cristo rimane esclusa, persino quando la sua fedeltà divenisse a noi invisibile nelle tenebre di un completo abbandono; poiché la fedeltà di Dio per essenza è senza fine e senza pentimento, anche l’atto di dedizione amorosa, obbediente, come risposta ed affidamento alla forza della grazia di Dio che lo permette e rende possibile, può essere incondizionato ed illimitato. È l’atto che nella sua pienezza si chiama fede – amore speranza: fede amorosa che tutto spera, od amore speranzoso che tutto crede, o speranza credente che ama tutto ciò che Dio vuole. È l’atto che pone il nucleo fondamentale dell’essere cristiano, per modo che insperatamente abbiamo trovato la risposta alla nostra domanda: «Chi è il cristiano?». Cristiano è l’uomo che ‘vive di fede’ (Rom. 1,17), che cioè ha regolato tutta la sua esistenza sull’unica possibilità apertagli da Gesù Cristo, il Figlio di Dio, obbediente per noi tutti fino alla croce: quella di partecipare al sì obbediente, che redime il mondo, detto a Dio.
Da parte di Cristo è l’atto di obbedienza per amore che fonda l’esistenza, poiché il Figlio di Dio non entra nell’esistenza ‘a modo di chi è gettato’, (geworfenerweise), ma ‘a modo di chi è inviato’ (gesendeterweise). Il fatto che egli in genere esista, ed esista in tal modo, dice già manifestazione dell’amore di Dio Padre per noi, che ‘dà’ il suo Figlio per noi. Nel Verbo c’è già l’idea di sacrificio ed in questo il consenso della vittima, dell’obbedienza. Nell’esistenza del Figlio obbediente risplende quindi chiarissimamente anche il mistero della Trinità divina. Tuttavia il Figlio non obbedisce a se stesso, bensì ad un altro, ma per un amore eterno, che è il fondamento della possibilità di una simile obbedienza e nello stesso tempo l’unità di colui che comanda e di colui che obbedisce. Infatti, se il Figlio fosse obbediente in ragione di una naturale subordinazione a Dio Padre, obbedendo, non farebbe che il suo dovere, e in ciò non apparirebbe l’amore di Dio assolutamente libero. Ma se egli obbedisce senza motivo, cioè per puro amore, allora in colui che è dato appare l’amore infondato di colui che dà per noi peccatori, un amore così infondato che Paola non esita a chiamarlo insensato. E se, dopo il compimento del segno di amore che Dio inscrive nella storia umana, se, dopo la vita, morte e risurrezione della vittima, il comune Spirito del Padre e del Figlio sarà inviato come testimone perpetuo dell’evento nella Chiesa e nel mondo, allora questo Spirito non potrà mai essere ed attestare altro se non appunto l’amore infondato-insensato, di qui perciò gli uomini non potranno mai disporre e servirsi per le loro prudenti macchinazioni.
 Infatti, ciò che dell’essenza di questo amore appare nell’esistenza del Figlio è la rinuncia a disporre di sé. Soltanto questa rinuncia dà all’attuazione del suo mandato l’inaudita forza esplosiva. Egli ha rinunciato ad agni prudenza, ha lasciato l’intera provvidenza al Padre che manda e dirige, e ciò lo esonera da ogni dovere di calcalo, di dosaggio, di diplomazia; gli conferisce la slancio infinito che non ha bisogno di curarsi dei muri di contraddizione, di dolore, di fallimento e di morte, perché il Padre lo dirige e lo afferra all’estrema fine della notte. Mediante l’atto di obbedienza totale il Figlio è quindi giunto alla totale libertà; tutto l’infinito spazio di Dio, sia della morte, della notte eterna, sia della vita eterna, è aperto alla sua azione. Fin dal principio egli è al di là dell’ ‘affanno’ («per il domani, di quel che si mangerà e berrà, di che si indosserà» Mt. 6,25) e nella tranquillità di colui che può lasciare tutto una volta e per sempre alla provvidenza del Padre.
 Come si vede, la dogma tic a nei suoi due pilastri fondamentali: Incarnazione e Trinità, è anche l’essenza della dottrina cristiana della vita: dogma ed esistenza stanno o cadono assieme. Infatti Gesù Cristo non è soltanto il Figlio eterno del Padre, che nella sua vita e passione ci mostra e ci porta la grazia del Padre, ma è anche vero uomo che, in quanto tale, dà inizio ‘in modo originario’ e ‘per primo’ all’esistenza cristiana. Egli crea il campo della fede e lo pone a nostra disposizione, ma in modo da compiere egli stesso, come modello, l’atto di fede. Di fatto, quantunque Dio possa brillare ed essere riconosciuto in mille modi frammentariamente nel campo delle sue creature, in questo campo c’è soltanto un unico modo che gli accorda la possibilità di una manifestazione essenziale (quantunque sempre velata di mistero): il sì illimitato della creatura spirituale che si dichiara pronta ad andare fin dove Dio ritiene necessario, a lasciar libero col suo inchinarsi tanto spazio quanto Dio vuole esigere.
 Che ciò avvenga è, secondo l’istruzione di Cristo, la nostra preghiera quotidiana. Noi preghiamo: «Sia santificato il tuo nome», e per lo più non comprendiamo bene che cosa le parole significhino. Il tuo nome, cioè ciò con cui sei conosciuto in modo distintivo nel mondo, ciò che rivela in noi la tua singolare realtà di unico vero, onnipotente, vivente Iddio, quegli atti che tu solo puoi fare e mediante i quali ti sei fatto presso di noi un ‘nome’: questo deve ‘essere santificato’, deve imporsi ad essere riconosciuto come santo, come divino. La tua realtà divina prenda il potere in noi, prevalga in noi contro ogni nostra resistenza, si procuri la preponderanza su tutti i nostri onerosi contrappesi.
 Noi preghiamo: «Venga il tuo regno». Regno di Dio è egli stesso in quanto viene riconosciuto come unico Signore, come egli è, e non come preferiamo raffigurarcelo. Quando le nostre concezioni dominano il campo, si tratta sempre del nostro regno. Egli con la sua forza e non noi con la nostra, che presumiamo di usare per mandato di Dio al fine di far prevalere a nostro modo la sua potenza. Nulla può oscurare maggiormente la potenza di Dio, impedire maggiormente la venuta del suo regno, che lo spingere avanti la nostra potenza per scopi del regno venturo di Dio.
 Noi preghiamo: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo cosi in terra». Come in cielo presso di te, cosi in terra presso di noi. Come la tua volontà riempie il cielo, il ‘luogo’ dove tu sei, dove il tuo nome si santifica ed il tuo regno è venuto, cosi possa la tua volontà riempire anche la terra, che siamo noi e che noi amministriamo, dove il tuo nome è ancora appena noto ed il tuo regno è ancora appena sensibile. La nostra terra ha le sue proprie leggi, che tu hai posto in essa e hai affidato a noi perché le sviluppassimo.
 Concedi quindi che in queste leggi, che sono terrene e non celesti, creaturali e non divine, la tua volontà celeste si appalesi e prenda corpo, e ciò mediante la nostra collaborazione che in ultima analisi non deve avvenire nello spirito e nel senso della terra, bensì del cielo.
 Così preghiamo e, se non vogliamo ciarlare peggio dei pagani, in queste parole riconosceremo con spassionatezza creaturale la chiara distinzione tra cielo e terra e con cristiana speranza afferreremo la chiara promessa che la volontà di Dio, se le facciamo posto, può imporsi non soltanto presso Dio in cielo, ma anche presso di noi sulla terra.
IL PATTO ED IL SÌ
Di qui si vede quanto sia precaria l’applicazione della categoria ‘patto’ a questo rapporto. Infatti non può trattarsi di un accordo che Dio e l’uomo stipulano tra di loro ed in cui ognuno pone le sue condizioni incontrandosi poi su una linea di mezzo. Nella conclusione di questo patto non ci sono, come in altri casi, due partner aventi uguali diritti su un qualche piano, tanto che chiamare l’uomo ‘partner di Dio’ teologicamente è una insulsaggine (ci si immagini: Maria partner dello Spirito santo!). No: ciò che qui appare come un patto, si fonda unicamente su una elezione unilaterale da parte di Dio; questa elezione (che diviene visibile in Abramo) ha come conseguenza una promessa ed un accaparramento, che per l’uomo significa essere ritenuto degno di esperimentare, affermare, credere la grazia di Dio nei suoi confronti, di regolare la propria esistenza su questa verità della grazia. L’elezione personale diviene collettiva al Sinai, e ad essa il popolo deve dire sì: esclusivamente sull’atto gratuito della libera elezione si fonda il permesso di esperimentare liberamente questa elezione e questa dimora di Dio nel popolo: appare nuovamente l’unione di libertà e di obbedienza.
 Questa libera risposta a Dio si realizza nel sì di Maria quale ‘Figlia di Sion’ al compimento della grazia del patto nella incarnazione di Dio. Questo sì è realizzazione dell’evento del Sinai e modello di ogni esistenza cristiana nella Chiesa futura. È realizzazione delle tre prime domande del Pater Noster, che allora vengono pienamente esaudite da Dio anche in virtù di questa forma completa. La incondizionatezza e quindi la irrevocabilità di questo sì di Maria dà via libera alla dedizione definitiva, senza riserve e senza garanzie, di Dio al mondo, al di là della quale non ci si può più aspettare da parte di Dio nulla di più definitivo. La debolezza del sì vetero-testamentario aveva costretto Dio a circondare il suo patto di clausole e di minacce; egli personalmente non diverrà infedele, ma lo sarà Israele, che dovrà espiare in modo così terribile il suo tradimento nei confronti dell’eternamente fedele, proprio perché Dio non può recedere dal suo patto. Nel sì definitivo a Dio c’era quindi allora, tra parentesi, un no. Ma «il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che noi... abbiamo tra voi predicato, non fu sì e no; in lui non c’è stato che sì. Tutte le promesse di Dio hanno infatti trovato in lui il loro sì» (2Coro 1,19-20). Questo sì visibile, che con Cristo e con la sua morte redentrice Dio dona al mondo, entra nel sì irrevocabile, che il mondo può appena udire, della ‘ancella del Signore’; e questo sì è fondamento ed essenza della Chiesa neotestamentaria. Chi si unisce in modo vivente a questo sì, è membro vivo del popolo di Dio, e quanto più ampiamente lo può dire, tanto più diviene ecclesiale.
 Il sì del popolo di Dio, che risuona in Sion-Maria-Chiesa, è totalmente condizionato e reso possibile non soltanto dalla promessa gratuita di Dio, bensì dalla realizzazione gratuita in Gesù Cristo, uomo-Dio. Egli stesso è l’unità indissolubile del sì di Dio all’uomo e del sì dell’uomo a Dio. Egli è quindi il nuovo ed eterno patto sussistente. E lo è a quel modo che già abbiamo visto: la sua umanità a disposizione della sua divinità in una obbedienza assoluta, per rivelare Dio e per lasciarsi consumare e distruggere fino all’ultimo in questo ufficio: sacerdote e vittima nello stesso tempo.
 Il sì assoluto, esente cioè da ogni condizione restrittiva (cosciente od inconscia), di Cristo e della sua madre-sposa Maria-Chiesa è il metro con cui si misura l’essere cristiano del cristiano. È la forma cristiana in cui può entrare colui che vuole porre la sua esistenza sotto questo segno. Una forma assoluta, che non tollera condizioni, che tutto esige, soprattutto dal peccatore (che mette sempre clausole), ed inoltre una forma che, a colui il quale (nella fede) è d’accordo, fa sperimentare dolcemente, ma inesorabilmente e talvolta brutalmente – o non è forse brutale la croce? – le conseguenze inopinate del suo sì. Egli infatti non ha detto sì a un proprio disegno controllabile, bensì ai disegni del Dio che è sempre più grande, disegni che in ogni caso appaiono diversi da come l’uomo li ha immaginati. In questa esperienza del diverso si decide se il suo sì è stato detto a Dio od a se stesso, se è stata obbedienza di fede o speculazione personale, se viene il regno di Dio od il regno dell’uomo.
Il vero giudizio, che separa pecore e capri, che mette in luce la fede e l’incredulità, è quindi la croce. Gesù promette a Pietro la croce quando dice: «Un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorrai» (Gv. 21,18). Il profeta Agabo predice a Paolo la sua prossima passione prendendo la sua cintura, legandosi con essa mani e piedi e dicendo: «Così dice lo Spirito santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così a Gerusalemme dai Giudei e consegnato in mano ai pagani» (Atti 21,10-11). L’estensione decisiva della volontà umana, ansiosamente preoccupata della autoconservazione, all’ampiezza della volontà divina spensierata ed imprevidente non è opera di azione umana, bensì di passione imposta. Finché agisce l’uomo, non è ancora dimostrato sperimentalmente che nel farlo obbedisca a Dio. Lo dimostra l’obbedienza del dolore. Nulla può sostituire quella ‘esperienza’, questo ‘entrare’ nell’ ampiezza di Dio. Di Cristo stesso è detto che «imparò per le cose patite l’obbedienza» (Eb. 5,8). Tra il sapere e l’imparare c’è quindi nell’uomo una differenza sostanziale, e proprio riguardo alla fede. Perciò la categoria della ‘prova’ (dell’uomo da parte di Dio) appartiene al patrimonio biblico fondamentale. Dio stesso è, per così dire, ‘sicuro’ di un uomo, quando lo ha provato come oro nel fuoco. «Perfetta gioia riputate, fratelli miei, l’imbattervi in prove d’ogni genere» (Giac. 1,2).
PORTA PIÙ IN LÀ DI QUEL CHE TU PENSI
Il cristianesimo ha quindi una proposta molto insolita da presentare di fronte all’universale desiderio di tutte le religioni di unione con Dio. Le religioni, qualora non si fermino al ritualismo, devono tuttavia adattarsi in definitiva o ad eliminare la distinzione tra Dio e mondo, od a far dissolvere l uomo in Dio (nella morte, nell’estasi o nella concentrazione, ecc.). Com’è possibile, domanda il cristianesimo, una identità tra Dio e l’uomo, nel presupposto che i due siano e rimangano sostanzialmente diversi? E risponde: una identità è possibile in quanto Dio conferisce al suo amore la forma dell’obbedienza, e l’uomo alla sua obbedienza il senso dell’amore. Ciò avviene quando questi consente ad essere portato da Dio (che egli ama, perché Dio lo ha amato) al di là di tutto ciò che egli stesso può progettare, calcolare, desiderare e sostenere con la propria forza. Questo trascendere tutto ciò che gli è proprio lo porta nel divino-libero. La trascendenza sostanzialmente non è ‘eros’ – questo non è che il piacere di trascendere, bensì obbedienza di fede in virtù del Dio che comanda. Così come Pietro cammina sulle acque in forza dell’obbedienza; così come Lazzaro in forza dell’obbedienza si alza e cammina come cadavere avvolto in bende.
 La parola, che ci chiama oltre la sfera dei nostri piani e del nostro volere finito, è necessariamente dura. Deve infatti schiacciare il duro guscio della nostra finitezza, della nostra trincea peccaminosa. Perciò tutte le parole del Signore nel vangelo suonano dure come l’acciaio. L’umanità vi si romperà i denti fino alla fine del mondo. E nel centro della loro durezza queste parole nascondono una infinita dolcezza. La loro inesorabilità, che nella sostanza è uguale a quella dell’Antico Testamento, non fa che sottolineare la realtà, la libertà, la sovranità del Dio vivente, la cui volontà di santità rimane infinitamente superiore ad ogni aspirazione, brama e comprensione umane e, in quanto l’uomo è peccatore, anche in opposizione. La volontà di desiderio dell’uomo (voluntas ut natura, eros, desiderium) non può mai essere l’ultima norma dell’azione morale, quando Dio ha manifestato la sua libera volontà di amore. In virtù della sua tendenza all’assoluto, la volontà di desiderio può essere, è vero, un ampio criterio per ciò che nel campo finito dev’essere omesso o (col superamento di sé) ricercato, ma tuttavia non giungerà mai se non fin dove giunge l’orizzonte della comprensione propria dell’uomo. Se uno volesse prefiggersi un ideale morale altissimo, difficilissimo, cui aspirare, sarebbe necessariamente un ideale che egli stesso può progettare, di cui può assumere la responsabilità, e conseguentemente può anche giudicare come giusto. Il voler oltrepassare di per sé questo orizzonte, non rientra né nella possibilità, né nella responsabilità dell’uomo; non nella possibilità, perché anche la volontà creata, in quanto è libera, confina con l’assoluto – diversamente non sarebbe libera – e perciò ha in sé la responsabilità di questo elemento di assolutezza. Ma essa non può assolutamente afferrare in anticipo l’assoluto in quanto amore che gli viene liberamente incontro: ciò che è l’assoluto in quanto amore, gliela può dire soltanto il Dio dell’amore, al di là di tutti i criteri di un desiderio creaturale.
Questa è la ragione per cui il primo amore decisivo della creatura è l’obbedienza, e non un sapere già in anticipo (con Dio dietro le spalle) in che consiste l’amore e come si estrinseca. Certamente in una cura disinteressata per i poveri e i bisognosi, tuttavia: «I poveri li avrete sempre con voi, ma non avrete sempre me» (Mt. 26,11). Davanti a tutti i programmi umani, per quanto intelligenti, si pone il fatto insopprimibile che è presente lo stesso amore eterno: e mentre tutti i programmi terreni dividono per distribuire («Perché non s’è venduto questo unguento per trecento denari e non s’è dato ai poveri?» Gv. 12,5), ogni prodigalità deve andare prima e senza calcolo allo stesso amore eterno («Lasciatela stare, perché le date noia? essa ha compiuto verso di me un’opera buona. Essa ha fatto ciò che ha potuto: ha anticipato l’unzione del mio corpo per la sepoltura» Mc. 14,6-8).
 Il sì illimitato di Maria di Betania è l’ ‘opera’ perfetta, la ‘possibilità’ esaurita dell’uomo; ma essa è infinitamente più ricca di significato, di conseguenza e di frutti che tutti i programmi progettati dall’uomo stesso. Proprio perché colui che ama in tal modo non scorge la portata del suo atto, ma lascia il suo tentativo di amore al libero uso dell’amore di Dio. Ma Dio se ne serve per i suoi scopi, che l’uomo neppure sospetta, e la cui rivelazione (ora o nel giudizio finale) lo sorprenderà come somma beatitudine. L’amore ‘cieco’ di Maria viene usato da Dio per gli scopi della passione di Gesù: senza sapere quel che fa, essa unge il Signore per la sua morte redentrice, e con ciò dà, in nome della Chiesa che ama, il consenso dell’umanità a quest’opera gratuita di Di
Appunto questa ‘opera’, che Gesù ci elogia, è l’opera assoluta, in sostituzione della quale il cristiano non ne può offrire nessun’altra per quanto gli paia piena di effetto. Non una forza di fede carismatica, capace di trasportare i monti, non un’eloquenza spirituale, addirittura angelica, che senza l’amore rimane un semplice cicaleccio, non la teologia profonda, profeticamente alata, non una generosa cura dei poveri («e se distribuissi, per sfamare i poveri, tutti i miei beni»), neppure il martirio (ad esempio di una vita verginale o della testimonianza di Dio): tutto ciò «non serve a nulla» (1Cor. 13,1-3). Tutti i più grandi sforzi degli uomini nel fare propositi buoni e migliori rimangono soltanto un dimenarsi ed un contorcersi; ciò che Dio esige è che il cuore si dia con ardente amore.
 Ma non è possibile che l’uomo pronunci seriamente il «Non come voglio io, ma come vuoi tu» senza partecipare al turbamento del monte degli Ulivi. In un punto decisivo della via cristiana la natura deve andare con Cristo alla morte. La sua crescita rettilinea deve rompersi, la sua visione deve trasformarsi in notte, la sua accurata compiacenza di sé in maltrattamento. Non si può che andare di male in peggio; se il peccatore non fosse duro, Dio non avrebbe bisogno di diventare duro con lui; e quando anche fosse il cuore più dolce dinanzi a Dio, come quello di Gesù o di Maria, dovrebbe trovare durezza in funzione vicaria.
 Nessuna meraviglia che tutti quanti fuggiamo continuamente dinanzi a questo momento, che la cristianità lo differisca, infine lo scacci e da ultimo lo dimentichi. Si potrebbe anche descrivere una volta la storia della Chiesa sotto questo segno: come la storia di tutte le offerte sostitutive che essa fa a Dio per scansare l’atto della vera fede. Ricadiamo con ciò nella zona delle ambiguità, dove cose per sé molto buone possono essere l’espressione di una fuga nascosta. Tutto il ‘mandato culturale’ dei cristiani, che a gloria del contenuto della loro fede costruiscono cattedrali e regni, compongono poesie e sinfonie; tutto il sistema di un ‘regime ecclesiastico chiuso’, che, quale istanza esperta, offre protezione e sicurezza contro i pericoli ed i rischi della fede; un’etica nomistica ed una casistica protettiva; ed oggi, ma piuttosto in modo contrario, le abdicazioni e relativizzazioni di questo regime di fronte alla emancipazione dei cosiddetti ‘laici maturi’: tutto ciò, accanto a molti altri sintomi, può anche essere indizio di una paura che induce alla fuga.
SOLTANTO PER I POVERI È UN LIETO MESSAGGIO2
Sia l’Antico che il Nuovo Testamento sono pieni di beatitudini per i poveri, di ammonizioni e di minacce contro i ricchi. I poveri sono coloro che, in mancanza di qualcosa di proprio, dispongono di spazio per accogliere con gioia Dio ed il suo messaggio. Maria ha scelto ‘la parte migliore’ perché svuota tutta l’anima sua al fine di tenerla libera per l’’unica cosa necessaria’, la parola di Dio, per la sua venuta. Marta, invece, si dà molto da fare, perché da sé è ricca di progetti circa il modo in cui intende accogliere e trattare il Signore.
Per il ricco la parola di Dio giunge sempre importuna, perché esige tutto lo spazio, e questo è sbarrato dal possesso proprio. Per lui quindi il messaggio non è lieto, ma penoso, forse è addirittura un giudizio. La prima Maria sintetizza uno degli enunciati principali dell’Antico Testamento, quando canta: «Ha rovesciato i potenti dai loro troni e innalzato gli umili, ha colmato di beni gli affamati e rimandato a mani vuote i ricchi». Già Anna, madre di Samuele, aveva cantato così: «Egli solleva dalla polvere il misero, dalle immondizie innalza l’indigente» (1 Sam. 2,8; ripreso in Sal. 113,7), e similmente Giuditta: «Tu sei Dio degli umili, aiuto dei miseri, difensore dei deboli, rifugio degli sfiduciati, salvatore dei disperati» (Gdt. 9,11). I poveri o umiliati (la parola è la stessa: anawim) sono sia i disprezzati che gli oppressi a motivo della loro povertà ed impotenza; in favor loro Jahvé, per bocca dei profeti, esige giustizia, sia corporale che spirituale (Am. 2,6; Is. 3,15; 10,2; ecc.), ma essi la trovano soltanto in Cristo, che inizia il suo messaggio subito con una beatitudine per i poveri, che sono anche quei ripuliti (katharoi, ‘puri’) che non potendo farsi giustizia da soli, perciò ‘sono afllitti’, ‘hanno fame e sete di giustizia’ e per amore di Cristo o del regno di Dio sono «oltraggiati, perseguitati e calunniati» (Mt. 5,3-12). Per essi, che non hanno altro da aspettarsi, valgono tutte le promesse di Dio. Nelle parabole hanno tempo di accettare l’invito, mentre i ricchi sono totalmente presi dalle loro preoccupazioni. E poiché non hanno nulla, si sentono un nulla e, nei confronti di Dio, eterni debitori e con il pubblicano possono stare in fondo al tempio, professarsi colpevoli e tornare giustificati a casa. Dinanzi a Dio questi poveri sono gli eterni minorenni, mentre i ‘maggiorenni’ ed edotti sono i ricchi, i fari sei e gli scribi. Ma la promessa di Dio è che «in quel giorno... allontanerò da te i tuoi superbi millantatori... lascerò sopravvivere in mezzo a te un popolo oppresso e povero che cercherà rifugio nel nome di Jahvé: il resto di Israele» (Sof. 3,11-13). Nella predicazione di Cristo i poveri, normalmente disprezzati, vilipesi e trascurati come zen che non contano, sono identici ai ‘piccoli’ o ‘bambini’ o ‘umili’ o ‘ultimi’. Sono nel mondo gli irrilevanti, gli insignificanti, dei quali non c’è nulla da raccontare e dei quali non si tien conto, come quei cristiani di Corinto, ai quali Paolo dice apertamente: «Non molti sono tra voi i sapienti secondo l’estimazione terrena; non molti i potenti; non molti i nobili», ma: «Ciò che è stolto per il mondo... ciò che per il mondo è debole... ciò che per il mondo non ha nobiltà e valore... ciò che non esiste... Dio ha scelto per ridurre al nulla ciò che esiste» (1Cor. 1,26-28).
Non è necessario dimostrare espressamente che con questa povertà Cristo intende anche la povertà reale, letterale, in cui in partenza e come prima condizione pone i suoi discepoli e di cui egli stesso dà l’esempio per tutta la vita. E soltanto quando in primo luogo e soprattutto essa esiste, c’è da sperare che i ricchi – di beni materiali e spirituali – imparino un po’ a comprendere che cos’è la povertà ‘in spirito’. Anzi, è possibile che il pubblicano abbia posseduto più beni del fariseo. Ma se non si incomincia con la povertà materiale, tutto rimane un nobile mormorio e non si fa nulla. Allora ogni fariseo, che «paga le decime di tutto ciò che possiede» (Lc. 18,12), ogni pubblicano, che «dà ai poveri la metà dei suoi averi» (Lc. 19,8), potrebbe immaginarsi di essere già con ciò un povero in spirito. Quanto è diversa la povera vedova, che dà del suo necessario per chi è ancora più povero, e così fa tabula rasa al pari dei discepoli eletti!
 Nell’Antico ed all’inizio del Nuovo Testamento la sterilità corporale ha la stessa evidenza della povertà totale: la incapacità di concepire, di portare, di mettere al mondo un figlio. Una simile donna è profondamente umiliata, viene nello stesso tempo disprezzata e commiserata. Essa non riesce neppure a fare ciò che potrebbe fare un animale, non è umanamente completa, delude il marito, la sua famiglia. Vicinissima a questa sterilità biblica, che regolarmente costituisce il presupposto per l’azione promessa da Dio – in Isacco, in Giacobbe, in Sansone, in Samuele, in Giovanni Battista – sta la miseria e spregevolezza di una verginità per amore di Dio, perché Dio, fedele alla sua azione promessa, intende portare non altrimenti anche la realizzazione: perciò Maria designa se stessa come la humilis ancilla, la ‘serva umile, spregevole’, a cui il Signore ha guardato dall’alto (Lc. 1,48). La grazia della fecondità per Dio è il paradosso per eccellenza, come esclama nel «libro della consolazione» la figlia di Sion in vista dei suoi figli: «Chi mi generò costoro, mentre io ero priva di figli e sterile, bandita e ripudiata? Chi ha allevato costoro? Ecco io ero rimasta sola; donde vengono costoro?» (Is. 49,21). Ma, invece di meravigliarsi, essa deve dar lode: «Esulta, o sterile, che non hai partorito; giubila, esulta, tripudia, tu che non hai provato le doglie, perché i figli della derelitta sono più numerosi dei figli della maritata, dice Jahvé» (Is. 54,1: ripreso da Paolo: Gal. 4,27).
 Con tutto questo siamo al punto centrale della rivelazione, che appunto solo per i poveri diviene lieto messaggio e fruttifica soltanto nella sterilità, così come soltanto nell’obbedienza di fede, che si lascia portare dalla parola al di là di ogni programma personale, può diventare un ‘tesoro’ in Dio, una ‘perla preziosa’, un meraviglioso ‘possesso’ (Is. 57,13; Mt. 5,4; 19,29; ecc.). Soltanto in tal modo il terreno accogliente dell’uomo ‘risponde’ al seminatore divino, non già portando un frutto che, per il fugace ed oblio so ascolto della parola, cresce in breve tempo e subito secca, ma perseverando in un atto di fede abituale, che nella tradizione ecclesiastica si chiama atto di contemplazione. È l’atteggiamento di un’anima generalmente aperta, che permane nell’ascolto della parola. Così la madre Maria che «conservava con cura tutte queste cose in cuor suo e le meditava» (Lc. 2,19-51). Così Maria di Betania che, perseverando nell’accoglienza pura, contemplativa della parola, fa l’«unica cosa necessaria».
PRIMATO DELLA CONTEMPLAZIONE DELLA FEDE
Si vede ora come la vita contemplativa è indispensabile e centrale nel complesso della Chiesa. Non c’è azione esterna senza contemplazione interiore (che è la dimensione esistenziale della stessa fede), mentre è perfettamente possibile riempire una vita con la contemplazione interiore senza l’azione esterna. Infatti l’atto contemplativo è l’atto che fonda in permanenza ogni azione esterna; è attivo ed efficace, fecondo e missionario più di tutte le imprese esterne della Chiesa. È una testimonianza di povertà in senso deteriore per la Chiesa, quand’essa non comprende più questa verità e quando i suoi teologi diffondono sempre più sfacciatamente l’opinione che la contemplazione, che la Chiesa fin dal sec. III ha preso sul serio anche come forma esteriore di vita, sia un corpo estraneo, alla cui faticosa ed infine vittoriosa eliminazione i millenni avrebbero dovuto lavorare. Così il card. Suenens3 parla di «stadi di evoluzione» in cui la clausura delle monache, che egli evidentemente molto deplora, fu finalmente mitigata e da ultimo in gran parte soppressa. Angela Merici, Pietro Fourier, Francesco di Sales e la Signora di Chantal, Vincenzo de’ Paoli sono tappe «di una battaglia che è stata combattuta per la libertà dello Spirito santo. S. Vincenzo de’ Paoli è riuscito a fare un’importante avanzata, ma non ha ancora conquistato del tutto il campo». Per il cardinale questa terra promessa, considerata nel suo complesso, è la libertà e l’ardire dell’impegno esterno al servizio del prossimo. A suo giudizio questo impegno fu di volta in volta il primo impulso di fondazione, e le successive ritirate paurose in convento ed in clausura ne sono il parziale tradimento. Il destino della fondazione della Signora di Chantal può valere qui come esempio. Certamente Suenens ammette (ma soltanto come raro caso eccezionale) una vita di pura contemplazione, come quella cui aspiravano i primi eremiti e cenobiti. Questa vita «era concepita soprattutto in ordine a Dio che viene ricercato in sé e per sé, e ciò è normale. Corrisponde al dovere della diretta adorazione di Dio; il suo perno sono la vita liturgica – opus Dei – e l’unione con Dio. (Ma) la vita apostolica è nello stesso tempo diretta verso Dio per se stesso, e verso Dio, cui si serve nel prossimo... L’apostolo lascia Dio per Dio».
C’è qui una concezione della contemplazione che non è del tutto esatta né teologicamente né storicamente, e che Suenens successivamente – dove descrive l’inseparabilità tra una vita esclusiva per Dio e la disponibilità per la Chiesa (69) – in parte corregge. Quando si parla cristianamente della contemplazione della fede, non si deve partire dal concetto greco-filosofico, che la intende come una ‘ascesa’ univoca-unilaterale dal temporale all’eterno, dal mondo a Dio, un concetto che riappare segretamente non soltanto nel monachismo siro-egiziano (Evagrio e la sua scuola), ma anche in Tommaso d’Aquino, e che soltanto esternamente e successivamente può essere collegato con l’apertura apostolica al mondo. La contemplazione deve essere piuttosto concepita in modo biblico, concreto; allora implica la risposta totalitaria del credente alla parola di Dio: dedizione illimitata a questa parola ed ai suoi scopi di redenzione del mondo. Cosi Antonio, padre del monachismo, ha combattuto le sue esemplari battaglie, estremamente attive, contro il nemico maligno; così Origene ha assegnato ai contemplativi il compito di combattere con sommo impegno, dall’alto del monte le battaglie del popolo di Dio, al pari di Mosè, le cui braccia durante la battaglia erano sostenute verso il cielo; così Teresa ha riformato il Carmelo, per convogliare, mediante la preghiera e l’olocausto totale, forze alla Chiesa contro le perdite della riforma; così la piccola Teresa ha concepito ancor più ampiamente la sua contemplazione come centro dell’opera missionaria della Chiesa, e dalla Chiesa è stata elevata – evidentemente a conferma della sua concezione – a patrona universale delle missioni; così nel deserto Charles de Foucauld lotta quotidianamente dinanzi al tabernacolo per la piena risposta di amore, ben sapendo di non poter dare al mondo un aiuto più profondo di questo.
 Se si vogliono consolare le monache ‘vecchio stile’ col dire che anche oggi, accanto alle crescenti comunità laiche, hanno ancora una ragion d’essere nella Chiesa perché «danno a tutti una testimonianza (témoignage) visibile» (61), ciò è indubbiamente vero, ma è ben lungi dal bastare; l’azione decisiva della vera contemplazione, a dispetto di tutte le statistiche, sta completamente nel campo invisibile; la fede si tiene senza calcolo e senza riflessione a disposizione di Dio, ed al credente, in definitiva, non importa nulla di ciò che Dio ne fa. Egli è preso, sfruttato a tal punto che la via della contemplazione, percorsa onestamente e rettamente, sfocia normalmente in una notte: nel non vedere più perché si prega, perché si è rinunciato; nel non sapere più se Dio sta ancora ad ascoltare, se vuole ed accetta ancora il sacrificio...
 Vogliamo sperare che la Chiesa non venda i suoi misteri più profondi ed i suoi privilegi più alti per il piatto di lenticchie di soddisfazioni apostoliche esterne; che non sacrifichi i rischi estremi, giustificabili soltanto teologicamente, per ogni sorta di considerazioni psicologiche, sociologiche e statistiche: sarebbe uno dei livellamenti descritti all’inizio. Non significa prestare ascolto allo Spirito santo il gettare al vento il messaggio di Teresa di Lisieux, di Edith Stein e di Charles de Foucauld. Infatti la ‘testimonianza’, che qui viene resa, non è primariamente una testimonianza per la forma di vita esclusivamente contemplativa, che rimarrà sempre soltanto privilegio di pochi eletti, ma una testimonianza per il fondamento contemplativo di ogni esistenza cristiana, quale abbiamo cercato di indicare.
 Chi non vuole ascoltare prima Dio, non ha nulla da dire al mondo. Si ‘affannerà per molte cose’, come fanno tanti sacerdoti e laici oggi, fino allo svenimento ed all’esaurimento, trascurando l’unica cosa necessaria; anzi, dirà parecchie bugie a se stesso per dimenticare o giustificare questa trascuranza. Tali giustificazioni si possono sentire oggi dovunque dalla bocca di laici e di sacerdoti; c’è da inorridire. I tempi della contemplazione, si dice, sarebbero definitivamente tramontati. La contemplazione apparterrebbe ad un’epoca culturale passata – rivive qui il concetto filosofico antico della teoria -, in cui era cosa nobile (ed anche riservata ai nobili, che avevano agio di farlo) guardare le stelle e provare in ciò un desiderio dell’assoluto. Lo sguardo di chi oggi guarda romanticamente al cielo, non incontra che ciminiere fumanti. Viviamo in un freddo mondo di lavoro, che impegna inesorabilmente tutto l’uomo. Anzi, nel quartiere moderno, nell’appartamentino moderno con le sue stanze comuni canti, piene del rumore dei bambini, non c’è neppur più un angolo, dove uno si possa concentrare e gustare la concentrazione. Tanto meno il sacerdote della grande città, assillato giorno e notte: se finisce a singhiozzo il suo breviario, ciò costituisce il massimo che si possa pretendere da lui. Oggi si tratta di incontrare Dio nell’azione, altrimenti non lo si troverà. Il mondo è avviato e nessuno ne fermerà più il motore. 
Così essi parlano e non desiderano più sentire argomenti contrari. Si sono rassegnati e pensano che la loro rinunzia (così comoda) abbia qualcosa di duramente realistico, forse di eroico. «Dio servito per primo», diceva Giovanna d’Arco. Sì: quando Dio è servito per primo, tutta la nostra vita nel mondo può acquistare il senso di un servizio divino, il nostro servaggio nella fabbrica dell’umanità può essere un atto di libera dedizione ed accettazione, il nostro incontro continuo ed inevitabile con le cose palesemente mondane può essere sorretto e guidato da un incontro con Dio, che tanto più efficacemente accompagna e ritorna dovunque alla memoria, quanto più è posto con forza all’inizio della nostra esistenza di fede. La decisione fondamentale ‘sia fatta la tua volontà’ – proprio là dove essa intralcia e mi pone esigenze che vanno al di là dei miei progetti – prevale in tutto ciò che ci reclama: in questo senso la vita del mondo e la sua azione diventano esercitazione nella contemplazione. Infatti ora non abbiamo Dio dietro le spalle, ma camminiamo in attesa aperta verso di lui.
 Possiamo avvicinarci a Dio solo se, al di là di tutti i nostri propri problemi, rimane in noi spazio libero per ciò che la sua volontà ha di inatteso. E se tutti i programmi, le previsioni e i calcoli son posti in movimento e tenuti in sospeso da ciò che c’è sempre di più grande della sua chiamata che giunge a noi. Soltanto in questa disposizione di assoluta risolutezza ad obbedire innanzi tutto, il cristiano può rivendicare la parola ‘amore’ per la sua vita e la sua azione. Diversamente il suo atteggiamento ed il suo impegno non supererebbero il livello di un impegno umano medio, che, stando all’esperienza, sovente rende molto di più ed è pronto a maggiori sacrifici che non quello di taluni cristiani.
IL SENSO DELL’IRREVOCABILE
A questo punto quel prudente riserbo nell’impegno, che si può incontrare così frequentemente in giovani cristiani moderni, diventa pericoloso. Essi vogliono certo impegnarsi, ma nello stesso tempo conservare le redini in mano. Vogliono anche impegnarsi totalmente, ma solo per un tempo determinato. Perché per un tempo più lungo non è possibile controllare se meriti ancora impegnarsi, ed essi vogliono restare liberi di cambiare idea, di impiegare diversamente le loro energie, di contrarre nuovi legami. In tal modo ritengono di accrescere il loro rendimento generale – perché fanno sempre soltanto ciò che loro pare chiaro e fin quando, a loro giudizio, merita e tengono il manico in mano. 
È un po’ come un ‘matrimonio a termine’. Anzi, oggi c’è persino il ‘convento a termine’. Quantunque propriamente non vi possa essere né l’una né l’altra cosa. L’una è il rapporto sessuale a titolo sperimentale. L’altra è una parentesi contemplativa, per persone molto occupate, in certi casi negli ambienti di una abbazia ospitale. Come il matrimonio è formalmente costituito da una reciproca promessa per sempre, come si può diventare sacerdoti soltanto in eterno e non a termine, così anche nella forma di vita determinata dai consigli. Nei tre casi il carattere definitivo è assolutamente ciò che dinanzi a Dio conferisce il peso massimo ad una forma cristiana di vita ed in essa a tutti i suoi singoli atti.
 Da quanto s’è detto si vede facilmente che questo carattere definitivo di una dedizione di vita è profondamente connesso con l’obbedienza cristiana di fede. In tutti e tre i casi – stato matrimoniale, stato sacerdotale, stato religioso – la vita è irrimediabilmente consegnata a Dio. Nella speranza che la palla da noi lanciata sia afferrata dalla mano dell’onnipotenza. Chi invece dà la sua vita soltanto pezzo per pezzo, se ne riserva l’amministrazione; quindi in fondo non la dà affatto. Si va forse per tre anni nelle missioni come aiutanti laici, e poi si può riconsiderare la cosa. Oppure si diventa suora ospedaliera con il pensiero recondito che ci si può ancor sempre sposare. Oggi, infatti, le cose mutano talmente in fretta!
 Ma ogni vera fecondità della vita procede dalla irrevocabilità. Kierkegaard ha chiamato, quel modo di vivere, esistenza estetica (che per lui ha avuto la sua forma più pura in Don Giovanni), questo l’ha chiamato esistenza etica (come matrimonio) e religiosa (nella rinunzia al matrimonio). È male soltanto se, sotto pretesti etici, si sceglie l’esistenza estetica. Oggi questo male è all’ordine del giorno a motivo della trasformazione abusiva di una bella frase in uno slogan pernicioso: l’espressione ‘cristiano maturo’.
CHI È IL CRISTIANO MATURO?
Che cosa potrebbe significare quest’espressione nel campo della rivelazione biblica? Ci sono, ad esempio, nell’ Antico Testamento dei giudei maturi? Cristo, obbediente al Padre fino alla morte, è stato maturo? Nella Chiesa il sacerdote, il religioso, la monaca possono mai essere designati come maturi? Oppure l’espressione dev’essere applicata soltanto ai laici, che forse sono maturi quando sono usciti dalla ‘tutela’ del clero? Per ottenere un po’ di chiarezza dobbiamo aprire la Bibbia. 
’Minorenne’ (nepios) può essere chiamato semplicemente il bambino normale («quando ero bambino, parlavo da bambino, e da bambino pensavo e ragionavo» 1Cor. 13,11. «Dalla bocca dei bambini e dei lattanti ti sei procurato una lode» Mt. 21,26; Sal. 8,3). Ma se lo stato d’infanzia spirituale si protrae oltre il tempo, diventa riprovevole. Eb. 5,11-12: «Sopra di che molte cose avremmo da dire, difficili a spiegare, poiché siete divenuti lenti a capire. Infatti, mentre dovreste, a ragione del tempo, essere maestri, avete ancora bisogno che altri v’insegni i primi rudimenti degli oracoli di Dio e siete divenuti bisognosi di latte e non di solido nutrimento». Qui l’immaturità è un non comprendere, e questo a sua volta si fonda su una durezza d’orecchio nei confronti della parola; l’espressione significa alla lettera: siete lavoratori indolenti, cattivi con le orecchie. In modo del tutto simile Paolo in 1Cor. 3,1 s. In precedenza egli aveva detto che l’uomo terreno non comprende lo spirito di Dio, che per capirlo occorre essere uomo spirituale ed egli, Paolo, ha lo Spirito. Poi continua: «E io, o fratelli, non potei parlare a voi come a uomini spirituali ma come a carnali, come a bimbi nel Cristo. Latte vi diedi a bere, non cibo solido». Se dal contesto della lettera si cerca di comprendere che cosa Paolo intende con le cose spirituali, che soltanto gli uomini spirituali possono capire, risulta trattarsi (nel cap. 1, 18-25) essenzialmente della «dottrina della croce», che per il mondo è una stoltezza, ma una stoltezza che è sapienza nascosta di Dio, la quale convince di stoltezza la sapienza del mondo. L’immaturità dei Corinti consiste nel non essere ancora all’altezza di questo ‘scandalo’, che solo permette di vedere nell’ ‘intimo di Dio’. Ciò viene confermato nel passo più importante: Col. 4,1-7, che è nello stesso tempo il più paradossale.
 Nell’Antico Testamento i fedeli sono sotto la legge come sotto un pedagogo; ma ormai, mediante la fede in Gesù Cristo, essi sono tutti quanti figli di Dio. Paolo si serve qui di una immagine giuridica: «Sino a quando l’erede è fanciullo, non differisce in nulla da uno schiavo, quantunque sia padrone di tutti i beni, ma sottostà a tutori e amministratori fino alla data fissata dal padre. Casi noi pure: da minorenni eravamo asserviti agli elementi del mondo. Ma allorché il tempo raggiunse la sua pienezza, Iddio mandò il suo Figlio, nato da una donna, nato sotto la legge, affinché riscattasse quelli che erano soggetti alla legge; affinché ricevessimo la dignità di figli adottivi. E prova che siete figli si è che Iddio mandò lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, il quale grida: Abba, Padre! Di conseguenza, tu non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio sei, grazie a Dio, anche erede».
 Qui minorenne non è più il cristiano immaturo, ma il fedele precristiano, il giudeo, perché serviva a Dio soltanto per mezzo della legge, un ‘elemento del mondo’ (amministrato da ‘angeli’, cioè da potenze cosmiche), e non in libertà ed a diretto contatto con Dio. La emancipazione a vero figlio maggiorenne avviene per mezzo del Figlio di Dio, ma, caso strano, proprio perché il Figlio, soggetto alla legge fisica dello sviluppo (‘da una donna’), viene inoltre sottomesso ancora alla ‘legge’; per mezzo dello Spirito di questo Figlio gli schiavi diventano figli ed eredi. È lo spirito dell’amore obbediente, disinteressato, che discende e si sottomette, come lo descrive efficacemente Paolo in seguito (Gal. 5,6). È lo spirito di coloro «che appartengono a Cristo ed hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue voglie» (Gal. 5,24). 
L’elemento comune di questi passi è la connessione tra maturità e croce. Si spiega la conclusione del citato passo della lettera agli Ebrei: «Ora chi si nutre di latte perché è bambino, è ignaro della dottrina di giustizia che invece è solido nutrimento dei perfetti, di quelli che, per l’esercizio, hanno le facoltà addestrate a distinguere il buono e il cattivo» (Eb. 5, 13-14). La ‘dottrina di giustizia’ di Dio, apparsa in Cristo, è la stessa che la ‘dottrina della croce’ o, nella lettera agli Ebrei, la dottrina del sommo sacerdozio di Cristo. Ciò rimane insipido ed indigesto per i cristiani non cresciuti. Per assimilarlo, l’uomo ha bisogno di un sensorio adulto. Soltanto chi ne è provvisto «gusta il dono celeste... gusta la buona parola di Dio e le meraviglie del secolo futuro» (ibid. 6,4-5), perché nella sua esistenza la verità esistenziale della morte e risurrezione di Cristo ha acquistato il primato ed è divenuta il criterio della percezione di ciò che è bene e di ciò che è male.
Se questo sensorio per la croce è sviluppato in un individuo, in una comunità, l’apostolo può considerare come terminata la sua opera di nutrice. «È cosa buona – dice ai Galati – essere oggetto di zelo, ma nel bene e sempre, e non solo quando io mi trovo presso di voi. Figlioli miei, di nuovo io soffro per voi i dolori del parto, finché Cristo non sia formato in voi» (Gal. 4,18-19). Questa ‘forma’, che deve imprimersi nel cristiano, è la stessa che inizialmente è stata impressa in lui dalla Chiesa con il sacramento del battesimo, nella speranza che essa si imponga nella materia recalcitrante: «Non sapete forse che tutti noi, che fummo battezzati in Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte? Fummo, col battesimo, sepolti con lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato da morte dalla potenza gloriosa del Padre, così noi pure vivessimo di una vita nuova. Se infatti siamo diventati un essere solo con lui nella somiglianza della sua morte, lo diventeremo altresì nella somiglianza della sua risurrezione; poiché, sappiamo bene, il nostro vecchio uomo fu crocifisso con lui..., crediamo che con lui parimenti vivremo» (Rom. 6,3-8). Conseguentemente è maturo colui che realizza in sé, in modo soggettivo-esistenziale, la realtà sacramentale oggettiva. Colui che non ha più bisogno di essere continuamente costretto dall’esterno a morire a questo mondo, ma liberamente e responsabilmente una volta per tutte «ha crocifisso la carne con le sue passioni e le sue voglie» e può dire con l’apostolo: «grazie a Cristo il mondo è per me crocifisso ed io lo sono per il mondo... porto impresse nel mio corpo le stigmate di Gesù» (Gal. 6,14-17).
 Se, concludendo, cercassimo un esempio di maturità, il quale possa nello stesso tempo servire anche di norma ad ognuno, si raccomanda di meditare gli Atti degli Apostoli 16,6-7: «Essendo stato loro proibito dallo Spirito santo di diffondere la parola nell’Asia proconsolare, attraversarono la Frigia e il territorio della Galazia. Arrivati di fronte alla Misia, si disponevano ad incamminarsi verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù ancora non lo permise». Paolo ed i suoi fanno progetti – senza dubbio nello spirito di disinteresse cristiano, solleciti di ciò che era meglio per il regno di Dio, – ma ciò nonostante lo Spirito santo ha altri progetti più lungimiranti. Progetto contro progetto. Il cristiano che, avendo nella preghiera dimestichezza con lo Spirito santo di Gesù che continuamente guida e comanda, è in grado di sentire di dover abbandonare l’intero suo progetto a favore del disegno di Dio: ecco il cristiano maturo! Uno che sia divenuto totalmente ‘elemento’ atto a ricevere la forma di Cristo, ‘materia’ che da una simile ‘passività’ viene elevata alla suprema attività della ‘matrix’ e ‘mater’ di Gesù («...questi è a me fratello, sorella e madre» Mt. 12,50).
La maturità cristiana non è quindi una cosa così semplice ed univoca, come credono i più. Non è affatto solo un problema di formazione della propria coscienza in base a presunti princìpi cristiani purchessia. La coscienza, in quanto fa parte della nostra natura umana, è, sì, il fondamento della nostra azione morale naturale, ma in quanto siamo cristiani la nostra coscienza deve avere continuamente uno spiraglio aperto per lo Spirito santo di Cristo, che agisce in noi e su di noi in modo libero ed indipendente. Lo Spirito non si può travasare in bottiglie e princìpi che si possano turare una volta per sempre; soltanto la fresca vivezza di un ascolto continuo ha la possibilità di percepirlo, addirittura di comprenderlo. Ciò suppone una estrema docilità, un incarnato istinto soprannaturale di obbedienza, quindi il contrario di ciò che, nella nostra massiccia grossolanità, noi immaginiamo come ‘maturità’. Quanto più siamo obbedienti al libero Spirito di Cristo, tanto più possiamo crederci liberi o maturi. Tutto il resto è perfida autoillusione. 
Le condizioni per realizzare questo ideale sono state indicate: si tratta di far nostra con tutta serietà la morte di Cristo in croce come la forma fondamentale della nostra vita terrena, perché soltanto così possiamo sperimentare ‘le forze del mondo futuro’ nella ‘buona parola di Dio’; cioè quelle forze eterne ed immortali, dall’alto delle quali il cristiano deve distinguere, amministrare, dominare le cose terrene. Queste ‘forze’ naturalmente non sono le nostre, ma sono messe a nostra disposizione, le possiamo ‘indossare’ come un abito, più ancora, come un nuovo corpo, possiamo infilarci dentro ed identificarci con esse; questo la Scrittura chiama «rivestire il Cristo», «rivestirsi dell’uomo nuovo» (Rom. 13,14; Gal. 3,27; Ef. 4,24; Col. 3,10).
 Se facessimo ciò che vuole il nuovo uomo-Cristo, saremmo liberi e maggiorenni, ma, finché siamo sulla terra, questa libertà conserva il carattere di un servizio. Infatti questo uomo nuovo, libero, non ce lo siamo dato noi, ma lo dobbiamo alla grazia di Dio in Cristo; prima schiavi del peccato, ora siamo «divenuti servi di Dio», e di questo servizio è frutto la ‘santità’, «fine la vita eterna» (Rom. 6,22).
VIVERE DELLA MISSIONE
Questa vita di libertà al servizio di Dio può essere designa come esistenza nella missione. Per venirne a capo, bisogna consacrarvi una volta per sempre. La irrevocabilità è sacramentalmente il battesimo ed il suo carattere indelebile, ma esso esige una ratifica esistenziale. In Dio non c’è impiego ed incarico ‘a termine’. L’ ‘impiego fisso’ è il fondamento perché il servo possa ricevere incarichi particolari sempre nuovi ed inaspettati. Egli è continuamente di guardia: «Signore, che vuoi che io faccia?» (Atti 9,6). Nessun servo può andarsene definitivamente nella persuasione di aver compreso pienamente il suo incarico e dì non aver più bisogno, per eseguirlo, di ulteriori domande, di comunicazioni con la volontà del Signore. Le forze, di cui egli vive, non sono infatti quelle della vita presente, ma del ‘mondo futuro’; egli stesso è una ‘esistenza escatologica’, il suo uomo nuovo si fonda totalmente sugli atti di fede (in Cristo), di speranza (in ciò di cui non può ancora disporre), di amore (per Dio e per il prossimo nella rinuncia a sé). L’eterno movimento di questo triplice atto tiene il servo continuamente sul piede di partenza, in un continuo ricorso a Dio.
Si aggiunge una seconda cosa. Il cristiano è tale soltanto come membro della Chiesa. Il battesimo è un atto della Chiesa, che incorpora nella comunità della Chiesa. Nessuno è cristiano di propria iniziativa. E lo Spirito santo, che rende maggiorenne l’uomo se egli lo vuole, è in primo luogo e soprattutto lo Spirito della Chiesa. Essa è il corpo santo di Cristo e la sua sposa immacolata. Qui Chiesa non significa clero, ma neppure una società qualsiasi, in cui si possa entrare pagando una piccola quota di associazione. Lo Spirito della Chiesa è lo Spirito di santità. Lo Spirito di Maria, degli Apostoli, dei santi provati, che san fatti dal Signore «colonne nel tempio del mio Dio» (Apoc. 3,12). Immaturo è il cristiano che non vuole e non si sforza di far suo questo Spirito. La sua attenzione viene richiamata su di esso da ‘educatori’, gli si propongono mezzi e pratiche perché egli cresca in esso, perché elimini il rapporto esteriore e lo trasformi in interiore. Finché egli resta estraneo di fronte a questo Spirito, anche le pratiche gli appariranno estranee e legali, ed egli si lagnerà del formalismo della Chiesa. Deve attribuire queste sensazioni alla sua immaturità. Se egli si decide una volta per sempre ad identificarsi con lo Spirito della Chiesa, diviene cristiano maturo, e assumendo la piena corresponsabilità, non può più concedersi il lusso di agire come un estraneo e di star di fronte ad osservare e a registrare.4 Poiché l’individuo è membro della Chiesa, spirito e vita gli vengono dal Cristo totale come capo e corpo, la sua missione cristiana è sempre anche un ‘carisma’ ecclesiastico (servizio-incarico dalla grazia). Paolo designa la ripartizione delle grazie ecclesiastiche da parte dello Spirito santo tra i membri della Chiesa secondo le necessità di tutto l’organismo come «misura della fede» o «analogia della fede» (Rom. 12,3-6). La ‘misura’ della missione assegnatami, cristianamente considerata, non è in me; la devo ricevere come qualcosa che mi è dato, e questa è l’’obbedienza ecclesiastica’ fondamentale del membro, che è più profonda e più radicale che non l’obbedienza del laico al clero, in quanto questo costituisce una funzione esterna di ordine ed una mediazione ufficiale per conservar pura e trasmettere la dottrina ed i sacramenti. Il rapporto del membro con l’assegnazione dell’incarico, in quanto fondato sulla rivelazione, è un rapporto così oggettivo e nello stesso tempo così spirituale-vivo, che la sua concretizzazione in un rapporto carismatico-ufficiale di obbedienza nei confronti di un ‘superiore’ (nel cosiddetto ‘consiglio’ evangelico dell’obbedienza) sta completamente nella linea di ciò che è presupposto.5 In questo modo gli apostoli, che avevano lasciato tutto per amore di Cristo, gli hanno obbedito come a uomo che concretizzava per essi la volontà di Dio, molto prima di avere la certezza che quest’uomo era Figlio di Dio in senso stretto. In questo modo anche Paolo esige dalle sue comunità (ad esempio nella seconda lettera ai Corinti) un’obbedienza che, nelle sue drastiche ed improvvise esigenze, nella varietà ed intensità del suo esercizio, trascende di molto la semplice funzione ufficiale di ordine del clero ordinario. Perciò non si può affatto supporre come dimostrato, dal tono di queste intimazioni all’obbedienza, che la comunità di Corinto sia stata fondamentalmente ‘immatura’. Nei confronti degli immaturi (caratterizzati da un attaccamento pseudo-maturo alle proprie idee) Paolo, nella piena consapevolezza di essere dotato dello Spirito (1Cor. 7,40), sa non di rado comportarsi con ironica superiorità. «Ve ne prego: che non debba, presente, mostrarmi audace con quell’ardire con cui ho in animo di affrontare certa gente, la quale ci considera come se regolassimo la nostra condotta secondo criteri terreni... Le armi della nostra milizia non sono deboli; anzi hanno la forza di abbattere fortezze per la causa di Dio. Con esse riduciamo al nulla ogni macchinazione e superbia che si elevi contro la conoscenza di Dio e facciamo prigioniero ogni intelletto perché obbedisca a Cristo, pronti a punire ogni disobbedienza, quando la vostra obbedienza sia piena» (2Cor. 10,2-6). Infatti soltanto allora, così pensa Paolo, la comunità avrà raggiunto mediante l’obbedienza quella maturità, che le apre gli occhi per la legittimità e giustezza del suo intervento punitivo.
Chi non comprende l’unità di maturità e di obbedienza cristiano-ecclesiastica, è ben lungi dall’essere maturo. Ma i nessi li scorge soltanto chi prega con fede viva, e senza questo presupposto tutto si perde in chiacchiere superficiali e pericolose. Perciò nell’usare il concetto di maturità si dovrebbe essere molto parsimoniosi ed accurati. La maggioranza di coloro che lo hanno continuamente in bocca, non conosce evidentemente l’accento dato dalla Scrittura; parlano, avendo Dio dietro le spalle, di cose che (vox temporis vox Dei) pretendono siano richieste dalle circostanze dei tempi e dalla struttura dell’uomo moderno. Non si domandano che cosa Cristo esige. Pensano di essere all’altezza della loro missione, ritengono di conoscere il modo migliore di servire il regno di Dio e perciò non si peritano neppure di amputare per il loro letto di Procuste le parti di più vitale importanza della rivelazione, quando queste parti non si adattano alloro concetto moderno. Questo modo di procedere si chiama demitizzazione.
L’AMORE, FORMA DELLA VITA CRISTIANA
Il lettore diventa impaziente. Com’è possibile parlare così a lungo del cristiano, senza menzionare il comandamento principale dell’amore di Dio e del prossimo? Ne abbiamo parlato continuamente ed intensamente; ma in modo da assicurare anzitutto il carattere particolare che distingue questo amore dall’amore generale per gli uomini, conosciuto da sempre, dell’umanesimo. Si noti la strana costruzione della frase di Giovanni: «In questo sta l’amore: non noi amammo Dio, ma egli amò noi e inviò il Figlio suo a espiare per i nostri peccati» (1Gv. 4,10). L’interruzione e la ripresa sono cristianamente la cosa principale e da essa derivano tutte le conseguenze per il nostro stesso amore.
 La direzione di questo amore va da noi a Dio ed al prossimo; l’uno e l’altro intimamente congiunti in Gesù Cristo, Dio e uomo, Dio presso noi tutti e uomo per noi tutti. «Chi non ama il suo fratello che vede, non può amare quel Dio che non vede» (1Gv. 4,20). «Chi dice: lo conosco, ma non osserva i suoi comandamenti, è mentitore» (1Gv. 2,4). «Chi non ama, dimora nella morte; chi odia il suo fratello è omicida» (1Gv. 3,14-15). «Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv. 4,8). Il modo di questo nostro amore è determinato dal fatto che noi stessi lo abbiamo ricevuto da Dio e corrispondentemente lo dobbiamo trasmettere ai fratelli. «Ecco ora da che cosa abbiamo conosciuto l’amore: dal fatto che egli offrì per noi la sua vita. Anche noi quindi dobbiamo per i fratelli offrire le nostre vite» (1Gv. 3,16). «Carissimi se casi Iddio amò noi, noi pure dobbiamo amarci scambievolmente» (1Gv. 4,11). Questo movimento dell’amore, che viene da Dio a noi e va da noi ai fratelli, ha il suo centro nel nostro riconoscente amore a Cristo, che ci impone l’amore come suo comandamento: in tal modo esso è originariamente il suo e conseguentemente il nostro: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti... Chi non mi ama, non osserva le mie parole... Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato. Nessuno ha maggior amore di questo: che dia la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici se fate ciò che vi comando» (Gv. 14,15-24; 15,12-14). 
La caratteristica di questo amore sta evidentemente nell’andare fino alla morte, secondo l’esempio di Cristo. La legge universale della simpatia che c’è nel cosmo consiste in un prudente e giusto equilibrio tra autoconservazione ed autodedizione; questa a sua volta è al servizio della conservazione della specie; casi biologicamente, quando i genitori si consumano per i figli; sociologicamente, quando i combattenti muoiono per la patria. Ma sarebbe pazzia se ognuno volesse dare la propria vita per ognuno. L’amore cristiano introduce questo elemento di infinità, perché l’autodedizione di Dio entra nell’amore. Dio si è donato totalmente nella morte per ciascun uomo, che è stato redento sulla croce dai suoi peccati e da un immenso distacco da Dio; quindi dietro ogni uomo sta questa realtà. Ognuno è, in sé, un diletto dell’eterno Dio, nonostante tutto ciò che egli può sembrare a me. Con la fede, dietro ognuno, io vedo l’amore del Figlio dell’uomo, e forse tanto più, quanto più questi ha dovuto soffrire per esso. I più poveri sono i suoi fratelli più prossimi; ed i più poveri non sono soltanto coloro che soffrono miseria esterna, bensì anche gli spiritualmente poveri, che non hanno finestre aperte per l’amore, siedono nella notte del loro egoismo, della loro superbia e della loro avarizia.
 Per il cristiano è eresia ritenere che il Figlio di Dio non sia morto per tutti i peccatori. Non c’è uno che sulla croce gli sia stato più lontano dell’altro; ognuno gli era vicinissimo, fino allo scambio, fino all’identità; ognuno era il suo prossimo. Questo elemento infinito, immenso entrò nell’amore sulla croce.
«Dare la propria vita per i fratelli» non significa che si possa morire fisicamente per ognuno. Ciò lo può fare soltanto il Signore. Ma significa che dobbiamo essere pronti per principio, in caso di necessità, a non rifiutare nulla a nessuno. «Se qualcuno ti requisisce per un miglio, fanne due con lui» (Mt. 5,41), o tre o quanti sono necessari. E Paolo: «Ora, è già per voi in ogni modo un segno di inferiorità che abbiate delle liti gli uni contro gli altri. Perché non soffrite piuttosto le ingiustizie? Perché non vi lasciate piuttosto defraudare?» (1Cor. 6,7). E infine, quando si tratta della salvezza eterna, quando potrebbe essere in gioco la mia o la sua salvezza: «Mi augurerei d’essere io stesso maledetto, separato di Cristo, per i miei fratelli» (Rom. 9,3).
 È fonte di meraviglia e di vergogna il fatto che Cristo sviluppi la dottrina del prossimo con l’esempio di un ‘eretico’: il samaritano, il quale, noncurante delle barriere di ostilità esistenti tra giudei e samaritani, fa quel che il sacerdote ed il levita non hanno fatto. Può darsi che l’abbia fatto per un sentimento di compassione o per pura umanità, ma il Signore innalza questi sentimenti nella luce del suo stesso amore. Gli ascrive il suo atto come amore cristiano. E con ciò egli stesso, Figlio di Dio, si pone nelle file di coloro che amano semplicemente, in modo anonimo. Chi può sapere con esattezza dove, nell’ampio mondo, ha luogo una simile dedizione della propria vita? Dove uno dà al prossimo la preferenza sulla propria importanza? Rimane nascosto nel mistero di Dio.
 Ma per il cristiano questo prossimo, che sempre incontra, diventa lo specchio in cui vede risplendere Cristo. L’altro sembra senza volto, un pezzo di massa, una cellula, come me, nello stesso insieme informe. Ma all’improvviso, quando l’incontro diviene vero, esso diventa realmente l’altro, dietro il quale sta la libertà, la dignità, l’unicità del completamente diverso; da Cristo egli riceve un volto, acquista un peso massimo ed una importanza infiniti e costringe anche me ad uscire dall’anonimità: devo stargli di fronte, riconoscere i miei lineamenti, essere responsabile per me stesso e per lui. Il mondo indeciso dei sogni diviene realtà, forse resistenza: in ogni caso ci si urta contro la realtà, si acquista forma. Dietro il mio fratello sta l’impegno di Dio fino alla morte; egli infatti ha realmente per Dio un valore eterno; lo sguardo si perde nell’infinito. E in compenso, emergono anche, a guisa di abbozzo e tuttavia reali, tutte le sfaccettature della rivelazione; esse non sono più ‘proposizioni’ fredde, ma colori necessari a completare il quadro. Se Cristo non fosse Dio, il suo sacrificio non sarebbe eccellente ed il suo frutto non sarebbe qui presente. Se non fosse uomo, non potrebbe aver luogo la misteriosa rappresentanza, in ordine alla quale io lo considero fratello. Se Dio non fosse trino, Cristo non avrebbe potuto compiere la sua opera per amore dell’eterno Padre, Dio non sarebbe affatto in se stesso l’amore, oppure, per amare, avrebbe bisogno della creatura, ed allora non sarebbe più Dio. E se non ci fosse la grazia dell’obbedienza, questo incontro non potrebbe avvenire veramente nella realtà di Cristo, ed io non potrei nutrire una speranza eterna per questo fratello. E se Cristo non fosse nel sacramento, non saremmo incorporati in lui in questo modo indicibile per cui ci tocchiamo l’un l’altro come membri di un solo corpo e nella ‘memoria’ di lui. E se non ci fosse la confessione dei peccati, rimarremmo in ultimo murati in noi stessi e non potremmo, con un atto umanamente perspicace, diventare da figli perduti figli ritrovati. Ed allora c’è anche di nuovo la distanza tra noi, che non dobbiamo giudicare, e l’alto giudice divino sopra di noi, il cui giudizio nessuno di noi deve anticipare; ciò nonostante questa distanza è misteriosamente colmata da una figura che non può mai mancare: dalla donna che a questo bambino fu e rimane madre e non perde la sua autorità amorosa, intercedente; dalla donna che femminilmente ci nasconde tutti nel suo seno, per la quale noi rimaniamo sempre suoi figli, che essa ha generato nei dolori, e continua a generare finché non finiscano le doglie della Chiesa e la donna si rallegri e «dimentichi l’ambascia per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv. 16,21).
Nel corpo della dottrina cristiana della fede non c’è membro che nell’incontro con il prossimo non si muova anch’esso. Tutti questi membri dormono, inanimati e teorici, nelle copertine di un catechismo, tutti si dilatano e si allungano quando, nell’incontro, la teoria diviene prassi. Cristiano pratico è quello per il quale questa risurrezione alla verità passa nella realtà della vita. Così si può dire che il vero cristiano praticante è colui che ama Gesù e «osserva i suoi comandamenti». Praticare significa tradurre in pratica questi comandamenti, e sappiamo che tutti i comandamenti di Cristo hanno la loro sintesi in quello dell’amore. In base a quest’unico comandamento saremo giudicati un giorno: in base all’esercizio dell’amore pratico-attivo, realizzatore, o in base alla sua omissione. Da quest’unico comandamento si misura pure se abbiamo, o no, una conoscenza di Dio: «Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv. 4,8). Non esiste affatto una fede teorica, un essere cristiano teorico. Il cristianesimo è una forma che non può esistere fuori della materia, così come la forma di una statua è reale soltanto nella materia. La materia è ciò in cui si manifesta e risplende l’amore, ciò per cui esso si dona, cioè il prossimo, che tuttavia può essere così vicino solo perché Dio in Cristo è presente in lui, e può essere così amato solo perché in lui l’amore eterno di Dio per me e per lui abbraccia, quale primo ed ultimo, tutto, anche il nostro incontro.
 A tutta prima sembra che questa definizione della pratica cristiana sia stata fatta senza tener conto del concetto corrente di pratica; si tratta ora di dimostrare che esso vi è incluso.
CHE SIGNIFICA ‘PRATICARE’?
Sia per la parola che per il senso significa ‘esercitare’, tradurre in atto una capacità professionale o altra. Un medico, ad esempio, pratica: applica la sua arte a favore degli ammalati. Così pratica il cristiano: fa circolare, a favore dei suoi simili, le grazie che gli sono state donate. Non è quindi del tutto esatto quando, per definire la pratica di un cristiano, osserviamo semplicemente se va alla chiesa ogni domenica e riceve i sacramenti a Pasqua. Da una parte ciò costituisce un minimo, per quanto riguarda i precetti della Chiesa; dall’altra non è neppure la cosa principale, perché questa è l’amore cristiano vissuto. Forse è piuttosto un sintomo: che egli fondamentalmente si attiene al suo essere cristiano. Ma ci si domanda ancora se sia un sintomo di sanità o di malattia. Sarebbe sintomo di malattia nel caso in cui uno considerasse il cristianesimo come un istituto di assicurazione per il cielo e pagasse i suoi premi minimali; sarebbe invece sintomo di sanità qualora egli fosse cosciente che il suo essere cristiano, per durare, ha bisogno di questo atto regolare di autodisciplina, che alla lunga costituisce un sacrificio non piccolo. Ad esempio sentire, una domenica dopo l’altra, delle prediche che urtano. In questa partecipazione al sacrificio c’è un rilevante valore di pratica religiosa; ciò può giustificare in certa misura l’accentuazione e considerazione quasi esclusive di questo atto da parte del clero, che ormai è abituato a contare le sue pecorelle da questo punto di vista.
Tuttavia il termine rimane molto equivoco, perché rivendica per un singolo aspetto – certamente non privo di importanza – il nome del tutto; o meglio: perché la totalità che, come in tutti gli altri particolari, è presente anche in questa parte, per il ‘praticante’ non giunge in essa ad essere sufficientemente un dato pratico.
La Chiesa è la luce del mondo, il sale della terra, il lievito nella farina. Essa quindi è relativa al mondo; così come il sole è fuoco concentrato, per poter far sentire i suoi effetti luminosi e calorifici fino ai confini del sistema solare. Con il solo lievito o il solo sale non si può fare nulla: entrambi rivelano la loro forza e completano la loro natura penetrando e scomparendo, disciogliendosi e svanendo nella carne o nella farina. La Chiesa è la concentrazione assolutamente indispensabile per la dilatazione. Infatti «se il sale diventa scipito, con che cosa gli si renderà sapore?». La concentrazione significa un ritorno, nell’ascolto e nell’azione, all’essenziale. ‘Praticare’ significa andare ogni domenica alle funzioni. Nella liturgia della parola della santa Messa ascoltiamo la parola (e se questa predicazione non fosse per noi esistenzialmente sufficiente, siamo obbligati a completarla mediante una lettura personale della Scrittura); naturalmente questo ascolto non è fine a se stesso, ma mira alla nostra azione: anzitutto alla nostra conversione personale, affinché possiamo indirizzare in modo convincente verso Dio gli altri che son fuori. L’eucaristia è ripresentazione di Cristo in mezzo alla comunità e fin nel centro di ogni cuore; essa salda i cuori in un corpo santo, perché nella missione nessuno è solo, ma ha sempre alle spalle la comunità; l’eucaristia conquista il posto centrale nei cuori, affinché «non io viva, ma Cristo viva in me». Proprio nella devozione e nel ringraziamento più personali, essa è rinuncia dell’io per colui che è più grande, per Cristo ed i suoi postulati: la Chiesa ed il mondo. Perciò la duplice celebrazione – parola e sacramento – termina necessariamente con la missione: Ite, missa (missio) est. È mandato colui che mediante la celebrazione è divenuto ‘maturo’: egli ha compreso la dottrina della croce ed il corpo in croce (le due cose sono una sola) e ne ha fatto la sua forma di vita nel mondo e per il mondo.
 Nel ‘praticare’ rientra in secondo luogo l’atto della confessione: una o più volte all’anno. È un atto sommamente personale e per nessun verso meccanico. Nella misura in cui lo compiamo con responsabilità – mediante la sincerità della confessione, mediante la genuinità del dolore e del proposito acquistiamo la certezza e facciamo addirittura l’esperienza dell’effetto profondo della grazia del perdono. Esempio: il figliuol prodigo. Esaminare e confessare tutta l’ingratitudine in cui ogni giorno vegetiamo spensieratamente, mentre uno espia con la morte e l’abbandono per la nostra dimenticanza di Dio.
Sospettare la distanza spaventosa che esiste tra il comandamento principale di Cristo – amare Dio con tutte le forze ed il prossimo come se stesso, o, più profondamente: il prossimo a se stesso nello Spirito di Cristo – ed il mio proprio comandamento principale. Mettere tutti gli altri comandamenti del Sinai e le leggi naturali sotto questo segno cristiano, al fine di trovare la giusta misura per valutare se stesso. E una volta trovata questa misura con un genuino esame di coscienza per la confessione, applicarle alla nostra vita quotidiana realizzando, ‘praticando’. Anche la confessione è concepita come luce e sale di tutta la vita: la luce non si pone sotto il moggio, la confessione non la si rinchiude in un confessionale impenetrabile all’aria ed al suono. Essa è un atto nella Chiesa, ed è molto significativo il fatto che nei primi tempi avvenisse pubblicamente dinanzi alla comunità. Essa deve riconciliare noi egoisti, che ci eravamo confinati ai margini dell’amore ecclesiale o addirittura fuori del suo campo, non soltanto con Dio, ma altresì con la «comunità dei santi». Essa deve ridarci la purezza di spirito che ci permette di rappresentare, com’è nostro dovere di cristiani, lo spirito di Cristo e di questa comunità dei santi nel mondo. Ben sapendo che l’assoluzione è pura grazia e mai merito, e che non dobbiamo metterci farisaicamente in mostra come ‘convertiti’ dinanzi agli inconvertiti, noi, mediante il tentativo della nostra vita di cristiani, possiamo offrire l’indicazione dell’unica fonte di ogni grazia e missione. 
’Praticare’ implica in terzo luogo inserire la vita nella cornice e nel ritmo del tempo ecclesiasticamente organizzato nell’ ‘anno liturgico’ Il ritorno ciclico del ricordo degli avvenimenti salvifici più importanti deve essere esercitazione nella vita cristiana. Il cristiano deve realizzare praticamente i tempi festivi così come per la Chiesa, quale santa sposa di Cristo, si attualizza continuamente l’ ‘oggi’ del Natale, della Passione, della Risurrezione e della missione dello Spirito. Siamo troppo abituati a questo ritmo per apprezzare ciò che di meraviglioso e di benefico c’è in esso; ma immaginiamo che manchino le feste cristiane; come diverrebbe scipito il tempo che si dilegua! Praticare il Natale significa conseguentemente trasporre nella nostra vita lo spirito della festa: Dio che, quantunque ricco, diviene povero per amor nostro, al fine di arricchir ci con la sua povertà (2Cor. 8,9); la festa così vergognosamente abusata quale giorno natalizio di Mammona, mascherata fino a renderla irriconoscibile, trasformata nel suo contrario, deve essere ricondotta dai cristiani al suo senso originario; similmente il rammollimento moderno non deve estendersi anche al periodo di penitenza che precede il giorno della morte di Gesù; Pasqua deve essere la festa della nostra risurrezione, non per un’allegra vita presente e per una evoluzione ottimistica del mondo, bensì per il Padre di Gesù Cristo, che per noi e con noi lo ha strappato «mediante la potenza della sua gloria» alla notte eterna e l’ha trasportato nella vita eterna. Perciò ]’Ascensione non è partenza del Signore, bensì un «essere trasferiti con lui nel regno dei cieli» (Ef. 2,6), ed il dono dello Spirito nella Pentecoste è il punto di partenza della missione apostolica in ‘tutto il mondo’, «nel sentimento della debolezza..., non con argomenti persuasivi della saggezza umana, bensì nell’efficacia dimostrativa dello spirito e della potenza divina» (1Cor. 2,3-4): per questo le lunghe settimane dopo Pentecoste ci lasciano simbolicamente tutto il tempo necessario.
Ed infine l’individuo ‘praticherà, non soltanto nelle vie sociali pre-tracciate dell’anno liturgico, ma anche nelle vie non tracciate e non note del suo destino personale, che gli si rivelerà consapevolmente come tale nei giorni di gioia, ma più efficacemente ancora nelle prove. Qui egli viene duramente invitato ad interpretare praticamente la sua esistenza in ordine a Dio. Egli urta contro i suoi limiti, sente la sua impotenza, è immensamente deluso di se stesso e della sua vita; una persona cara, morendo, lo ha lasciato, un’altra gli si è dimostrata infedele; nel posto rimasto vuoto spira una fredda corrente d’aria, ci si deve decidere: Dio o il nulla. Un lavoro ancora più efficace compiono le umiliazioni, che il Signore ha promesso ai suoi come grande grazia, e che, quando giungono, ce lo devono sempre richiamare alla memoria: «il servo non è da più del suo padrone. Il discepolo si contenti di essere come il maestro ed il servo di essere come il suo padrone» (Mt. 10,24). Esse sono un segno che il padrone e maestro non ha dimenticato il servo. Insuccessi, rovesci, retrocessioni, calunnie, disprezzi e infine, come sintesi della vita, una grande bancarotta: tutto ciò fu il pane quotidiano di Cristo, rimarrà il destino della Chiesa in questo mondo, e chi vuole appartenere alla Chiesa deve rassegnarsi a cose del genere, poiché nessuna evoluzione le potrà mai eliminare.
In tal modo il ‘praticare’ viene collocato al giusto poste nel contesto di tutta la vita cristiana. È, sì, un atto di concentrazione rivolto all’indietro «fate questo in memoria di me» -, ma sempre con direzione verso la dilatazione nel mondo. Dobbiamo trovare Dio nel segno della parola e del sacramento, ma ‘soltanto per cercarlo sempre più appassionatamente – ut inventus quaeratur immensus est – là dove ancora non è e dove dobbiamo portarlo; o meglio (poiché egli è già sempre dovunque), dove si trova già nascostamente e dove noi dobbiamo scoprilo.
1 «Quando la verità è enunciata da più cose – in modo originario o derivato -, il pieno concetto di vero deve essere enunciato da ciò in cui si trova realizzato in modo originario». (S. Tommaso, De Veritate 1,2).

2 Devo la formulazione di questo titolo al prof. P. D. Barthélemy (o.p.), il quale ha riflettuto in modo così penetrante sulla connessione tra povertà e vangelo.

3 Nel suo libro Krise und Erneuerung der Frauenorden (Crisi e rinnovamento degli ordini femminili).

4 Questa trasformazione è molto ben descritta da Henri de Lubac, in Credo Ecclesiam; in Festschrift für Hugo Rahner (‘Sentire Ecclesiam’) 1961, 13-16. Cf. pure Henri de Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Queriniana, Brescia 1968.

5 Le cose migliori in proposito si trovano in Willibrord Hillmann, Perfectio evangelica. Der klösterliche Gehorsam in biblisch-theologischer Sicht. (Perfectio evangelica. L’obbedienza monastica sotto l’aspetto biblico-teologico), in Wissenschaft und Weisheit 25 (1962), 163-168.

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