«La carità è paziente,
benevola è la carità;
non è invidiosa,
non si vanta,
non si gonfia d’orgoglio,
non manca di rispetto,
non cerca il proprio
interesse,
non si adira,
non tiene conto del male
ricevuto,
non gode dell’ingiustizia
ma si rallegra della verità.
Tutto scusa,
tutto crede,
tutto spera,
tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7).
Questo si vive e si coltiva nella
vita che condividono tutti i giorni gli sposi, tra di loro e con i loro
figli. Perciò è prezioso
soffermarsi a precisare il senso delle espressioni di questo testo, per
tentarne un’applicazione
all’esistenza concreta di ogni famiglia.
Pazienza
[92] Pazienza… Essere pazienti non
significa lasciare che ci maltrattino continuamente, o tollerare aggressioni
fisiche, o permettere che ci trattino come oggetti. Il problema si pone quando
pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette,
o quando ci collochiamo al centro e aspettiamo unicamente che si faccia la
nostra volontà. Allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire con
aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle scuse per
rispondere con ira, e alla fine diventeremo persone che non sanno convivere,
antisociali incapaci di dominare gli impulsi, e la famiglia si trasformerà in
un campo di battaglia. Per questo la Parola di Dio ci esorta: «Scompaiano da
voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità»
(Ef 4,31). Questa pazienza si rafforza quando riconosco che anche l’altro
possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com’è. Non
importa se è un fastidio per me, se altera i miei piani, se mi molesta con il
suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto come mi aspettavo.
L’amore comporta sempre un senso di profonda compassione, che porta ad
accettare l’altro come parte di questo mondo, anche quando agisce in un modo
diverso da quello che io avrei desiderato.
93. Atteggiamento di benevolenza. Segue
la parola chresteuetai, che è unica in tutta la Bibbia, derivata da chrestos
(persona buona, che mostra la sua bontà nelle azioni). Però, considerata la
posizione in cui si trova, in stretto parallelismo con il verbo precedente, ne
diventa un complemento. In tal modo Paolo vuole mettere in chiaro che la
“pazienza” nominata al primo posto non è un atteggiamento totalmente passivo,
bensì è accompagnata da un’attività, da una reazione dinamica e creativa nei
confronti degli altri. Indica che l’amore fa del bene agli altri e li promuove.
Perciò si traduce come “benevola”.
94. Nell’insieme del testo si vede che
Paolo vuole insistere sul fatto che l’amore non è solo un sentimento, ma che si
deve intendere nel senso che il verbo “amare” ha in ebraico, vale a dire: “fare
il bene”. Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle
opere che nelle parole». In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e
ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di
donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per
il solo gusto di dare e di servire.
95. Guarendo l’invidia. Quindi si rifiuta come contrario
all’amore un atteggiamento espresso con il termine zelos (gelosia o invidia).
Significa che nell’amore non c’è posto per il provare dispiacere a causa del
bene dell’altro (cfr At 7,9; 17,5). L’invidia è una tristezza per il bene
altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo
esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da
noi stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io. Il vero amore
apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera
del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e
strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per
essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro.
96. In definitiva si tratta di adempiere
quello che richiedevano gli ultimi due comandamenti della Legge di Dio: «Non
desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo
prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino,
né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). L’amore ci porta a
un sincero apprezzamento di ciascun essere umano, riconoscendo il suo diritto
alla felicità. Amo quella persona, la guardo con lo sguardo di Dio Padre, che
ci dona tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), e dunque accetto dentro di
me che possa godere di un buon momento. Questa stessa radice dell’amore, in
ogni caso, è quella che mi porta a rifiutare l’ingiustizia per il fatto che
alcuni hanno troppo e altri non hanno nulla, o quella che mi spinge a far sì
che anche quanti sono scartati dalla società possano vivere un po’ di gioia.
Questo però non è invidia, ma desiderio di equità.
97. Senza vantarsi o gonfiarsi Segue
l’espressione perpereuetai, che indica la vanagloria, l’ansia di mostrarsi
superiori per impressionare gli altri con un atteggiamento pedante e piuttosto
aggressivo. Chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre,
poiché è centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di
stare al centro. La parola seguente – physioutai – è molto simile, perché
indica che l’amore non è arrogante. Letteralmente esprime il fatto che non si
“ingrandisce” di fronte agli altri, e indica qualcosa di più sottile. Non è
solo un’ossessione per mostrare le proprie qualità, ma fa anche perdere il
senso della realtà. Ci si considera più grandi di quello che si è perché ci si
crede più “spirituali” o “saggi”. Paolo usa questo verbo altre volte, per
esempio per dire che «la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore
edifica» (1 Cor 8,1). Vale a dire, alcuni si credono grandi perché sanno più
degli altri, e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli, quando in
realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende, cura, sostiene il
debole. In un altro versetto lo utilizza per criticare quelli che si “gonfiano
d’orgoglio” (cfr 1 Cor 4,18), ma in realtà hanno più verbosità che vero
“potere” dello Spirito (cfr 1 Cor 4,19).
98. E’ importante che i cristiani vivano
questo atteggiamento nel loro modo di trattare i familiari poco formati nella
fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni. A volte accade il
contrario: quelli che, nell’ambito della loro famiglia, si suppone siano cresciuti
maggiormente, diventano arroganti e insopportabili. L’atteggiamento dell’umiltà
appare qui come qualcosa che è parte dell’amore, perché per poter comprendere,
scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e
coltivare l’umiltà. Gesù ricordava ai suoi discepoli che nel mondo del potere
ciascuno cerca di dominare l’altro, e per questo dice loro: «tra voi non sarà
così» (Mt 20,26). La logica dell’amore cristiano non è quella di chi si sente
superiore agli altri e ha bisogno di far loro sentire il suo potere, ma quella
per cui «chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt 20,27).
Nella vita familiare non può regnare la logica del dominio degli uni sugli
altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché
tale logica fa venir meno l’amore. Vale anche per la famiglia questo consiglio:
«Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai
superbi, ma dà grazia agli umili» (1 Pt 5,5).
Amabilità 99. Amare significa anche
rendersi amabili, e qui trova senso l’espressione aschemonei. Vuole indicare
che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro
nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti, sono gradevoli e non
aspri o rigidi. Detesta far soffrire gli altri. La cortesia «è una scuola di
sensibilità e disinteresse» che esige dalla persona che «coltivi la sua mente e
i suoi sensi, che impari ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a
tacere».[107] Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o
rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò «ogni
essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano». Ogni
giorno, «entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra
vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la
fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più
esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la
porta del suo cuore».
100. Per disporsi ad un vero incontro con
l’altro, si richiede uno sguardo amabile posato su di lui. Questo non è
possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli
errori altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci
permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro, e così possiamo
tollerarlo e unirci in un progetto comune, anche se siamo differenti. L’amore
amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti d’integrazione,
costruisce una solida trama sociale. In tal modo protegge sé stesso, perché
senza senso di appartenenza non si può sostenere una dedizione agli altri,
ognuno finisce per cercare unicamente la propria convenienza e la convivenza
diventa impossibile. Una persona
antisociale crede che gli altri esistano per soddisfare le sue necessità, e che
quando lo fanno compiono solo il loro dovere. Dunque non c’è spazio per
l’amabilità dell’amore e del suo linguaggio. Chi ama è capace di dire parole di
incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano.
Vediamo, per esempio, alcune parole che Gesù diceva alle persone: «Coraggio
figlio!» (Mt 9,2). «Grande è la tua fede!» (Mt 15,28). «Alzati!» (Mc 5,41).
«Va’ in pace» (Lc 7,50). «Non abbiate paura» (Mt 14,27). Non sono parole che
umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano. Nella famiglia
bisogna imparare questo linguaggio amabile di Gesù.
101. Distacco generoso Abbiamo detto molte volte che per amare
gli altri occorre prima amare sé stessi. Tuttavia, questo inno all’amore
afferma che l’amore “non cerca il proprio interesse”, o che “non cerca quello
che è suo”. Questa espressione si usa pure in un altro testo: «Ciascuno non
cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4). Davanti ad
un’affermazione così chiara delle Scritture, bisogna evitare di attribuire
priorità all’amore per sé stessi come se fosse più nobile del dono di sé stessi
agli altri. Una certa priorità dell’amore per sé stessi può intendersi
solamente come una condizione psicologica, in quanto chi è incapace di amare sé
stesso incontra difficoltà ad amare gli altri: «Chi è cattivo con sé stesso con
chi sarà buono? [...] Nessuno è peggiore di chi danneggia sé stesso» (Sir
14,5-6).
102 Però lo stesso Tommaso d’Aquino ha spiegato
che «è più proprio della carità voler amare che voler essere amati»[110] e che,
in effetti, «le madri, che sono quelle che amano di più, cercano più di amare
che di essere amate».[111] Perciò l’amore può spingersi oltre la giustizia e
straripare gratuitamente, «senza sperarne nulla» (Lc 6,35), fino ad arrivare
all’amore più grande, che è «dare la vita» per gli altri (Gv 15,13). È ancora
possibile questa generosità che permette di donare gratuitamente, e di donare
sino alla fine? Sicuramente è possibile, perché è ciò che chiede il Vangelo:
«Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
103. Senza violenza interiore. Se la prima espressione dell’inno ci
invitava alla pazienza che evita di reagire bruscamente di fronte alle
debolezze o agli errori degli altri, adesso appare un’altra parola –
paroxynetai – che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione
provocata da qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una
irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come
se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività
intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci.
L’indignazione è sana quando ci porta a reagire di fronte a una grave ingiustizia,
ma è dannosa quando tende ad impregnare tutti i nostri atteggiamenti verso gli
altri.
104. Il Vangelo invita piuttosto a
guardare la trave nel proprio occhio (cfr Mt 7,5), e come cristiani non
possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare
l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare
il bene» (Gal 6,9). Una cosa è sentire la forza dell’aggressività che erompe e
altra cosa è acconsentire ad essa, lasciare che diventi un atteggiamento permanente:
«Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef
4,26). Perciò, non bisogna mai finire la giornata senza fare pace in famiglia.
«E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo
gesto, una cosina così, e l’armonia familiare torna. Basta una carezza, senza
parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace!».La reazione
interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere
anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che
lo liberi e lo guarisca: «Rispondete augurando il bene. A questo infatti siete
stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1 Pt 3,9). Se
dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla
violenza interiore.
105. Perdono. Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle
nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. La frase
logizetai to kakon significa “tiene conto del male”, “se lo porta annotato”, vale
a dire, è rancoroso. Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un
atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a
cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: «Padre, perdona
loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso
quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più cattiverie, di
supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si
radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il
vincolo d’amore e la stabilità familiare. Il problema è che a volte si
attribuisce ad ogni cosa la medesima gravità, con il rischio di diventare
crudeli per qualsiasi errore dell’altro. La giusta rivendicazione dei propri
diritti si trasforma in una persistente e costante sete di vendetta più che in
una sana difesa della propria dignità.
106. Quando siamo stati offesi o delusi,
il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. La verità
è che «la comunione familiare può essere conservata e perfezionata solo con un
grande spirito di sacrificio. Esige, infatti, una pronta e generosa
disponibilità di tutti e di ciascuno alla comprensione, alla tolleranza, al
perdono, alla riconciliazione. Nessuna famiglia ignora come l’egoismo, il
disaccordo, le tensioni, i conflitti aggrediscano violentemente e a volte
colpiscano mortalmente la propria comunione: di qui le molteplici e varie forme
di divisione nella vita familiare».
107. Oggi sappiamo che per poter perdonare
abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante di comprendere e
perdonare noi stessi. Tante volte i nostri sbagli, o lo sguardo critico delle
persone che amiamo, ci hanno fatto perdere l’affetto verso noi stessi. Questo
ci induce alla fine a guardarci dagli altri, a fuggire dall’affetto, a
riempirci di paure nelle relazioni interpersonali. Dunque, poter incolpare gli
altri si trasforma in un falso sollievo. C’è bisogno di pregare con la propria
storia, di accettare sé stessi, di saper convivere con i propri limiti, e anche
di perdonarsi, per poter avere questo medesimo atteggiamento verso gli altri.
108. Ma questo presuppone l’esperienza di
essere perdonati da Dio, giustificati gratuitamente e non per i nostri meriti.
Siamo stati raggiunti da un amore previo ad ogni nostra opera, che offre sempre
una nuova opportunità, promuove e stimola. Se accettiamo che l’amore di Dio è
senza condizioni, che l’affetto del Padre non si deve comprare né pagare,
allora potremo amare al di là di tutto, perdonare gli altri anche quando sono
stati ingiusti con noi. Diversamente, la nostra vita in famiglia cesserà di
essere un luogo di comprensione, accompagnamento e stimolo, e sarà uno spazio
di tensione permanente e di reciproco castigo.
109. Rallegrarsi con gli altri. L’espressione chairei epi te adikia
indica qualcosa di negativo insediato nel segreto del cuore della persona. È
l’atteggiamento velenoso di chi si rallegra quando vede che si commette
ingiustizia verso qualcuno. La frase si completa con quella che segue, che si
esprime in modo positivo: synchairei te aletheia: si compiace della verità.
Vale a dire, si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la
sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità e le sue buone opere. Questo
è impossibile per chi deve sempre paragonarsi e competere, anche con il proprio
coniuge, fino al punto di rallegrarsi segretamente per i suoi fallimenti.
110. Quando una persona che ama può fare
del bene a un altro, o quando vede che all’altro le cose vanno bene, lo vive
con gioia e in quel modo dà gloria a Dio, perché «Dio ama chi dona con gioia»
(2 Cor 9,7), nostro Signore apprezza in modo speciale chi si rallegra della
felicità dell’altro. Se non alimentiamo la nostra capacità di godere del bene
dell’altro e ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo
a vivere con poca gioia, dal momento che, come ha detto Gesù, «si è più beati
nel dare che nel ricevere!» (At 20,35). La famiglia dev’essere sempre il luogo
in cui chiunque faccia qualcosa di buono nella vita, sa che lì lo festeggeranno
insieme a lui.
111. Tutto scusa L’elenco si completa con
quattro espressioni che parlano di una totalità: “tutto”. Tutto scusa, tutto
crede, tutto spera, tutto sopporta. In questo modo, si sottolinea con forza il
dinamismo controculturale dell’amore, capace di far fronte a qualsiasi cosa lo
possa minacciare. 112. In primo luogo si afferma che “tutto scusa” (panta
stegei). Si differenzia da “non tiene conto del male”, perché questo termine ha
a che vedere con l’uso della lingua; può significare “mantenere il silenzio”
circa il negativo che può esserci nell’altra persona. Implica limitare il
giudizio, contenere l’inclinazione a lanciare una condanna dura e implacabile.
«Non condannate e non sarete condannati» (Lc 6,37). Benché vada contro il
nostro uso abituale della lingua, la Parola di Dio ci chiede: «Non sparlate gli
uni degli altri, fratelli» (Gc 4,11). Soffermarsi a danneggiare l’immagine
dell’altro è un modo per rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le
invidie senza fare caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la
diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando
colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto
difficili da riparare. Per questo la Parola di Dio è così dura con la lingua,
dicendo che è «il mondo del male» che «contagia tutto il corpo e incendia tutta
la nostra vita» (Gc 3,6), «è un male ribelle, è piena di veleno mortale» (Gc
3,8). Se «con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio» (Gc 3,9),
l’amore si prende cura dell’immagine degli altri, con una delicatezza che porta
a preservare persino la buona fama dei nemici. Nel difendere la legge divina
non bisogna mai dimenticare questa esigenza dell’amore.
113. Gli sposi che si amano e si
appartengono, parlano bene l’uno dell’altro, cercano di mostrare il lato buono
del coniuge al di là delle sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso,
mantengono il silenzio per non danneggiarne l’immagine. Però non è soltanto un
gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E non è neppure
l’ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i punti deboli
dell’altro, bensì è l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e
quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte,
non sono la totalità dell’essere dell’altro. Un fatto sgradevole nella
relazione non è la totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con
semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro
non è soltanto quello che a me dà fastidio. È molto più di questo. Per la
stessa ragione, non pretendo che il suo amore sia perfetto per apprezzarlo. Mi
ama come è e come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore sia
imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale, ma
limitato e terreno. Perciò, se pretendo troppo, in qualche modo me lo farà
capire, dal momento che non potrà né accetterà di giocare il ruolo di un essere
divino né di stare al servizio di tutte le mie necessità. L’amore convive con
l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della
persona amata.
114. Ha fiducia. Panta pisteuei: “tutto
crede”. Per il contesto, non si deve intendere questa “fede” in senso teologico,
bensì in quello corrente di “fiducia”. Non si tratta soltanto di non sospettare
che l’altro stia mentendo o ingannando. Tale fiducia fondamentale riconosce la
luce accesa da Dio che si nasconde dietro l’oscurità, o la brace che arde
ancora sotto le ceneri.
115. Questa stessa fiducia rende
possibile una relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di
seguire minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre
braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a
possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia,
apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca
e non diventi una endogamia senza orizzonti. In tal modo i coniugi, ritrovandosi,
possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al
di fuori del cerchio familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità
e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne
apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti. Uno
che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano senza compassione, che
non lo amano in modo incondizionato, preferirà mantenere i suoi segreti,
nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi quello che non è. Viceversa, una
famiglia in cui regna una solida e affettuosa fiducia, e dove si torna sempre
ad avere fiducia nonostante tutto, permette che emerga la vera identità dei
suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la
menzogna.
116. Spera. Panta elpizei: non dispera del futuro. In connessione con la
parola precedente, indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare. Spera
sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di
bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno.
Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe
cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle
righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non
riesce a superare in questa terra.
117. Qui si fa presente la speranza nel
suo senso pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte.
Quella persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo.
Là, completamente trasformata dalla risurrezione di Cristo, non esisteranno più
le sue fragilità, le sue oscurità né le sue patologie. Là l’essere autentico di
quella persona brillerà con tutta la sua potenza di bene e di bellezza. Questo
altresì ci permette, in mezzo ai fastidi di questa terra, di contemplare quella
persona con uno sguardo soprannaturale, alla luce della speranza, e attendere
quella pienezza che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia
visibile.
118. Tutto sopporta. Panta hypomenei
significa che sopporta con spirito positivo tutte le contrarietà. Significa
mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel
tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica
e costante, capace di superare qualsiasi sfida. È amore malgrado tutto, anche
quando tutto il contesto invita a un’altra cosa. Manifesta una dose di eroismo
tenace, di potenza contro qualsiasi corrente negativa, una opzione per il bene
che niente può rovesciare. Questo mi ricorda le parole di Martin Luther King,
quando ribadiva la scelta dell’amore fraterno anche in mezzo alle peggiori
persecuzioni e umiliazioni: «La persona che ti odia di più, ha qualcosa di
buono dentro di sé; e anche la nazione che più odia, ha qualcosa di buono in
sé; anche la razza che più odia, ha qualcosa di buono in sé. E quando arrivi al
punto di guardare il volto di ciascun essere umano e vedi molto dentro di lui
quello che la religione chiama “immagine di Dio”, cominci ad amarlo nonostante
tutto. Non importa quello che fa, tu vedi lì l’immagine di Dio. C’è un elemento
di bontà di cui non ti potrai mai sbarazzare […] Un altro modo in cui ami il
tuo nemico è questo: quando si presenta l’opportunità di sconfiggere il tuo
nemico, quello è il momento nel quale devi decidere di non farlo […] Quando ti
elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa
che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono
intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema
[…] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male
nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e
tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua
all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve
avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la
persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male […]
Qualcuno deve avere abbastanza fede e moralità per spezzarla e iniettare dentro
la stessa struttura dell’universo l’elemento forte e potente dell’amore».
119. Nella vita familiare c’è bisogno di
coltivare questa forza dell’amore, che permette di lottare contro il male che
la minaccia. L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo verso le
persone, dal desiderio di ferire o di far pagare qualcosa. L’ideale cristiano,
e in modo particolare nella famiglia, è amore malgrado tutto. A volte ammiro,
per esempio, l’atteggiamento di persone che hanno dovuto separarsi dal coniuge
per proteggersi dalla violenza fisica, e tuttavia, a causa della carità
coniugale che sa andare oltre i sentimenti, sono stati capaci di agire per il
suo bene, benché attraverso altri, in momenti di malattia, di sofferenza o di
difficoltà. Anche questo è amore malgrado tutto.
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