mercoledì 15 maggio 2019

Autobiografia di Bede Griffiths


La religione della natura


Bede Griffiths, nato a Walton on Thames (Inghilterra) nel 1906, fu educato nella fede cristiana, secondo la confessione Anglicana. Così ricorda un particolare della sua infanzia: «Mia madre raramente parlava della sua religione, ma la fede era il fondamento della sua vita. Quando ora penso a lei, la rivedo ancora così come la vedevo quando entravo nella sua stanza, inginocchiata a pregare ai piedi del letto, cosa le fece abitualmente, di notte e di mattina, per tutta la sua vita» (FD 39). Nonostante l'istruzione della madre, da adolescente abbondò la pratica della fede, pur continuando ad avere una certa venerazione per Gesù, considerandolo un essere umano perfetto, come Socrate (46).
Il sentimento religioso si orientò piuttosto verso il mistero della Natura, svelato dalla bellezza del creato. Fu preso intensamente dall'amore per essa, provando una specie di estasi nei suoi confronti. L’aver sperimentato la forza travolgente delle esperienze contemplative, lo portò a dare maggiore importanza all'intuizione rispetto alle altre facoltà dell'uomo: la verità doveva essere affascinante, assorbire tutte le energie della persona; essere percepita come appagante, come lo è la Bellezza.
Si sentiva molto a disagio riguardo alla massiccia industrializzazione avviata in Inghilterra, già da anni. «Non era tanto la povertà degli operai che ci preoccupava allora, ma il fatto che la vita umana venisse depauperata e degradata con la privazione di quella bellezza che gli apparteneva di diritto... La nostra prima reazione a quella situazione fu la fuga» (60). Soffrì anche a motivo del puritanesimo vittoriano, che provocava, a suo dire, «la separazione della ragione morale e della coscienza dall'istinto e dalla passione» (66).
Si iscrisse all'università di Oxford. Non amando vivere in città, spesso cercava rifugio in campagna, a contatto con la natura. Andava in cerca di luoghi solitari, insieme ad altri amici che condividevano il suo sentimento di disagio (63). Così racconta: «Ricordo che una volta che uscii da solo sulle colline, cominciò a raccogliersi intorno a me una coltre di nebbia ed io m sentii solo in quella misteriosa solitudine…, ed ancora una volta il senso di quella presenza… si impossessò di me. Ma tali esperienze non erano che transitorie» (63).
Collaborò, in maniera sporadica, con alcune iniziative pacifiste sostenute dal partito socialista, senza mai lasciarsi assorbire dall’impegno politico. Ad Oxford conobbe C. S. Lewis, il futuro scrittore delle Cronache di Narnia e delle Lettere di Berlicche, che lo esortò a studiare filosofia. «Mentre studiavo filosofia, tenni una costante corrispondenza epistolare con lui e fu tramite lui che la mente venne gradualmente riportata al cristianesimo» (73).
La lettura di Marco Aurelio, di Spinoza, gli aprirono la mente verso la possibilità che l'universo fosse abitato dal divino e che l'idea di Dio avesse una base razionale. S. T. Coleridge, l'ispiratore del romanticismo inglese, lo aiutò, invece, a conciliare filosofia e poesia, sentimento e ragione. In questo pensatore il soprannaturale diventa una metafora per rivelare profonde esperienze umane, non rappresentabili dal mondo materiale ma esprimibili attraverso il linguaggio delle immagini. Di qui la preferenza per l'uso di immagini simboliche e del mito. Per p. Bede, l'esperienza doveva sempre avere la prevalenza: «Un'idea di Dio che non avesse alcuna relazione con la mia esperienza non mi interessava affatto» (83).
Gradatamente superò il fastidio provato verso le norme morali, avvertite come oppressive, a causa delle mentalità puritana che le faceva pesare: «Cominciai a concepire la virtù morale come il fiorire dell'intera natura di una persona» (83).
Lewis gli suggerì la lettura delle Confessioni di Agostino e di Dante, nella lingua originale (84). Entrambe le opere lo colpirono in profondità. Riguardo ad Agostino, scrive: «... La sensazione di essere in contatto con una mente che era stata consumata dall'ardore per la verità e per quella vita virtuosa che io desideravo, penetrò nel profondo della mia anima» (85). In Dante colse soprattutto la passione etica: «Il Purgatorio impresse nella mia mente la convinzione che la virtù morale consisteva nel trasformare la passione, e non nel sopprimerla, e così mi liberai per sempre dalla paura del puritanesimo» (89).
In quel frangente, p. Bede scopre altri testi che determineranno una svolta nella sua vita: «Darei una falsa impressione della direzione in cui la mia mente si stava muovendo, se non citassi altri tre libri, di tipo completamente diverso, che entrarono nel flusso del mio pensiero in quel periodo: la Baghavad Gita, "II Sentiero della Virtù di Buddha" (una traduzione del Dhammapada) e "I detti" di Lao Tzu... Per quanto mi possa ricordare, fui introdotto a queste letture da un'amica di mia madre, che era una teosofa. Era una donna eccezionale: era stata una suffragetta e meravigliava tutti noi ragazzi perché fumava sigarette, cosa che ci era allora sconosciuta in una donna. Più tardi l'influenza di questi libri sulla mia vita sarebbe stata immensa e li considero ancora i tre più grandi testi di sapienza spirituale esistenti al di fuori del Nuovo Testamento. Possiedo ancora i tre libri, con le sottolineature che vi feci quando li lessi la prima volta. Avrebbero agito come un fermento segreto nella mia anima» (92-93).

Primo ritiro in solitudine


Nell'aprile del 1930, mentre la situazione politica dell'Europa sprofondava sempre più ed emergeva il radicalismo contrapposto di destra e di sinistra, egli ed altri amici, decisero di vivere un'esperienza comunitaria in una vita primitiva nel Costwolds, una catena collinare situata nell'area centrale dell'Inghilterra. Comprarono un casolare (cottage), il più semplice possibile, nel villaggio di Eastington. Non avevano acqua corrente e dovevano recarsi ad una fonte vicina con i secchi per procurarsela (d'inverno scaldando il rubinetto ghiacciato). S’alzavano molto presto per mungere le mucche nelle aziende agricole vicine. Coltivavano un orto. Il cibo era frugale; non usavano né giornali, né grammofono, né radio. Si spostavano in bicicletta (l'uso del treno era ripudiato in quanto rappresentava un simbolo tipico dello sviluppo moderno). Recuperavano così la cultura del buon tempo antico. «Il nuovo mondo delle città industriali la stava decisamente distruggendo, ma almeno noi avemmo la possibilità di imparare alcuni dei segreti di quel modo di vivere che si era mantenuto in vita per così tanti secoli» (103). Ripudiavano la ricerca del lusso materiale, spesso a danno della salute e della vera felicità e cercavano, invece, una crescita organica in cui l'uomo e la natura vivevano insieme in armonia.
In questo periodo, insieme ad altre numerose letture (Aristotele), cominciò a leggere la Bibbia. Tutto il capitolo quinto è dedicato a descrivere i suoi primi contatti con l'Antico e il Nuovo Testamento. Fu colpito particolarmente dal Vangelo di Giovanni. «Era chiaro che si trattava di uno dei lavori più significativi del genio umano. Qualunque potesse esserne il significato preciso, era il racconto di un'esperienza di insondabile profondità. Sia la persona che la dottrina di Gesù erano ritratte con una bellezza che superava di gran lunga ogni immaginazione umana; non c'era nulla di simile in Platone» (121).
Affrontò la lettura della Lettera ai Romani. Ritengo opportuno trascrivere un intero passo perché riassume bene il trapasso di vita vissuto da p. Bede, il quale, ora, non mette in discussione la cultura dell'industrializzazione o quella dei miti della politica, ma l'intera cultura mondana: «Da allora fui pronto ad affrontare la dottrina paolina del peccato originale. Non mi facevo più alcuna illusione circa la natura dell'uomo. Avevo compreso che non solo la nostra civiltà, ma tutte le civiltà del passato avevano mostrato la stessa tendenza alla corruzione. ... La storia della nostra civiltà, il suo rifiuto di Dio, il suo sviluppo di una scienza falsa, il suo materialismo, la sua immoralità, erano semplicemente la storia di tutta la civiltà umana. Il "mondo" in quanto tale era male; era in uno stato di "peccato". A questo S. Paolo opponeva una nuova speranza; c'era la possibilità di un altro tipo di vita rispetto a quella del mondo... Ricordo che a quel tempo scrissi una lunga lettera a Lewis sul verso "come tutti moriamo in Adamo, così tutti abbiamo la vita in Cristo". Non so esattamente cosa dissi, ma probabilmente allora capii chiaramente che come tutti ereditiamo una natura che ha in sé la tendenza al male, così tutti possiamo ricevere una nuova natura in Cristo... Fu allora che apparve per la prima volta nella mia mente il vero significato della Chiesa.... allora mi resi conto che la Chiesa non era nient'altro che questa nuova umanità. Era sì un'istituzione sociale, ma un'istituzione che trascendeva questo mondo, cioè tutta la civiltà umana. Era un organismo sociale di cui Cristo era il "capo" e di cui tutti gli uomini erano potenzialmente i membri» (124-125).
Decise di ritornare ad Oxford, poi di trasferirsi a Londra, e di rientrare nella Chiesa Anglicana. Provò molta difficoltà a inserirsi di novo nella vita normale. In questo tempo, fu come sopraffatto da un bisogno intenso di digiuno e dalla necessità di esprimere un profondo pentimento.
Più significativo fu il conflitto con la sua ragione e con la sua volontà. In che cosa consiste? Per comprendere tutto ciò è preferibile seguire le sue stesse parole: «... ciò che realmente mi spaventava era il conflitto con la mia ragione. Finora la mia ragione ed il mio istinto avevano sempre camminato mano nella mano. Le mie prime esperienze della bellezza e del mistero della natura erano state confermate dalla lettura dei poeti e poi dei filosofi. Anche la mia scoperta del cristianesimo era andata avanti lungo percorsi razionali; ad ogni tappa mi era parso di trovare il libro di cui avevo bisogno per soddisfare sia la mia ragione che la mia inclinazione verso la bellezza e la santità.... ora qualcosa di irrazionale sembrava introdursi nella mia vita. Già il desiderio di digiunare si era abbattuto su di me come un impulso irrazionale, sebbene fossi in un certo senso capace di giustificarlo razionalmente; ed ora arrivava questo richiamo alla penitenza, come una necessità apparentemente irrazionale, e la mia ragione gli si ribellava. A cosa dovevo obbedire, a questo oscuro istinto, a questa necessità apparentemente irrazionale, o alla mia ragione e al buon senso?» (142).
Oltre al conflitto con la ragione, ne sostiene un altro con la sua volontà: «Finora ero cresciuto basandomi sulla mia volontà. Avevo elaborato la mia filosofia e la mia religione da solo e, senza rendermene conto, avevo fatto della mia stessa ragione un Dio. Mi ero reso giudice di ogni cosa, in cielo e in terra, e non riconoscevo nessun potere o autorità sopra di me. Anche se in teoria ora riconoscevo l'autorità di Dio e della Chiesa, in pratica ero ancora io il governante e il giudice. Ero io il centro della mia esistenza, e il mio isolamento dal resto del mondo era dovuto al fatto che mi ero deliberatamente chiuso tra le barriere della mia volontà e della mia ragione. Ora venivo sollecitato ad abbandonare questa indipendenza.... Ero chiamato a consegnare proprio la cittadella del mio io. La mia ragione era il serpente che minacciava di divorare la mia vita» (143).
Come ha risolto questo conflitto? Durante una prolungata preghiera, sentì l'invito a partecipare ad un ritiro. Ebbe così l'occasione di ascoltare la predicazione di un frate cappuccino che illustrò i misteri della fede e provocò in lui un profondo ripensamento: «Tutta la mia vita mi sembrò un gigantesco errore» (145). Decise così di confessarsi: «Per la prima volta nella mia vita andai a confessarmi e le lacrime scesero dai miei occhi, un tipo di lacrime che non avevo mai conosciuto prima. Tutto il mio essere sembrò rinnovato» (146).
Capì che per tutto quel tempo non era stato lui a cercare Dio, ma Dio aveva cercato lui  (147). Ricevette un'altra ispirazione: «Quella sera, prima di andare a letto, aprii un libro di S. Giovanni della Croce e vi lessi queste parole: "Ti condurrò su una strada che non conosci, alla camera segreta dell'amore". Le parole colpirono nel segno, come se fossero pronunciate per me. Anche se non mi era mai mancato l'affetto della mia famiglia ed avevo molti amici, fino a quel momento non avevo mai conosciuto veramente il significato dell'amore… Ora sentii l'amore impossessarsi della mia anima. Fu come se un'ondata d'amore mi sommergesse, un amore reale e personale quanto un amore umano, eppure infinitamente al di là di tutti i limiti umani. Invase il mio essere e sembrò riempire non solo la mia anima, ma anche il mio corpo. Il mio corpo sembrò dissolversi, come tutto ciò che mi riguardava, e mi sentii leggero ed allegro. Quando mi sdraiai, mi sentii come se stessi galleggiando sul letto e sperimentai un rapimento tale da non poter immaginare nessuna superiore estasi d'amore» (148).
Nonostante quest'esperienze confortanti, affioravano in lui dubbi tormentosi su come pensare la presenza di Cristo nell'Eucarestia (la teologia anglicana forniva versioni contrastanti) e come concepire Dio (personale secondo la tradizione cristiana o impersonale, come voleva l'Induismo). La sua mente fu ridotta al caos. Allora decise di condurre per un po' una vita di isolamento ritornando in un casolare del Cotswolds.


Secondo ritiro in solitudine


Cominciò a riprendere la vita austera che aveva condotto tempo prima con i suoi amici, senza però trovare pace. Mentre era in preghiera, avvertì l'ispirazione a completare la sua vita eremitica, recandosi a lavorare nelle fattorie vicine (156). Ciò avvenne nel corso d’una preghiera profonda, a lui sconosciuta sfino a quel momento; poco dopo prese la risoluzione decisiva che completò la sua rinascita spirituale: rimettersi a Dio in modo totale, abbandonarsi a Lui.
Ora fu in grado di volgersi indietro per esaminare la sua vita e comprendere la trafila dei passaggi di grazia sperimentati: «Ad Eastington [nella prima esperienza nel Cotswolds] fui portato, mediante l'ascetismo al quale il nostro stile di vita ci aveva condotto, a rompere col mondo materiale e a controllare i miei sentimenti e i miei appetiti naturali. Poi nella dolorosa lotta in preghiera [durante il ritiro] fui portato a rinunciare alla mia ragione. Ora venivo costretto a rinunciare alla mia volontà... Volevo tener salda la mia volontà e dirigere la mia vita; ma a questo punto fui costretto ad arrendermi. Posi la mia vita nelle mani di una forza che mi era infinitamente superiore e da quel momento seppi che il solo scopo della mia esistenza doveva essere abbandonarmi in quelle mani e permettere alla mia anima di essere governata da quella volontà» (158).
Cominciò a leggere, all'inizio solo per curiosità, un'opera di J. H. Newman, Development of Christian Doctrine, il forbito prosatore anglicano che si fece cattolico. Grazie a questa lettura arrivò a comprendere che la Chiesa Cattolica, da lui guardata fino a quel momento come una realtà estranea alla nazione inglese e un relitto medievale, era il naturale sviluppo della comunità primitiva apostolica e che il papato voleva essere la continuità col ministero dell'apostolo Pietro. Persuaso della solidità della posizione cattolica, non gli restava altro che prendere contatto con essa. Un prete gli suggerì di trascorrere un periodo di tempo in un monastero cattolico vicino, ossia nel priorato di Prinknash, nel Gloucester.
Il monastero aveva tutte le caratteristiche per piacere a p. Bede. Situato all'interno di un paesaggio amabile, offriva una vita regolare molto semplice e ordinata. «Scoprii quale era stata la vita interna delle cattedrali e dei monasteri che avevo visitato nel passato. Era una bellezza di tipo diverso... Non naturale ma soprannaturale» (174). Qui scopre il valore della preghiera comunitaria, pubblica. Comprende che è stata l'assenza della preghiera a rendere la vita moderna vuota e priva di significato (175).
Così sente nascere in lui il desiderio di farsi cattolico: «qui era la pienezza della verità che stavo cercando» (176). Nello stesso tempo matura l'aspirazione di diventare monaco in quel luogo: «Non era, però, solo la certezza intellettuale ciò che desideravo; volevo trovare una vita che soddisfacesse tutto il mio essere, il mio cuore, la mia anima ed il mio corpo, come pure la mia mente. Mi ci volle un po’ di tempo prima di sentirmene pienamente convinto. Vidi che la vita era fondata non solo sulla preghiera, ma anche sul lavoro, ed ebbi l'impressione che il lavoro venisse preso sul serio» (176).
Fu accolto nella Chiesa Cattolica la vigilia di Natale del 1931, nella piccola chiesa di Winchombe, situata ai margini del villaggio. «Quando lessi il Mattutino di Natale, con il grande sermone sull'Incarnazione di S. Leone, mi resi conto che avevo trovato la voce autentica de cristianesimo e che nella Messa di quella piccola chiesa ero in comunione con la Chiesa Cattolica di tutto il mondo e di tutte le epoche» (177).
In un primo tempo pensava di entrare in uno degli Ordini dei predicatori (francescani o domenicani). Credeva che per seguire Cristo in modo autentico, dovesse impegnarsi nella predicazione del Vangelo. A Prinknash, invece, si rese conto che Cristo non la spese la maggior parte della sua vita nella predicazione, ma nel lavoro e nel silenzio. Anzi, «non fu con la sua opera o con la sua predicazione, ma con il sacrificio della sua vita sulla croce che Cristo salvò il mondo, ed il monaco era un uomo chiamato ad offrire la sua vita in sacrificio, giorno per giorno, nel suo lavoro e nella sua preghiera, in unione con Cristo sulla croce» (179).
Sentì il desiderio di alimentare il dialogo tra il Cristianesimo e le religioni dell’India e riprese a meditare sui testi sacri dell’Oriente. Intanto l’atteggiamento del cattolicesimo verso le religioni, stava cambiando in modo radicale. P. Bede partecipò a questa nuovo fermento (FD 225).
Esprime così le sue convinzioni: «Non c’è nessuno, dall’inizio alla fine del mondo, che non riceva la grazia da Cristo e che non sia chiamato alla vita eterna in lui» (FD 228). Qui l’attenzione è ancora posta in prevalenza sulla situazione dei singoli. Per quanto riguarda le religioni, attesta: «Tutte le tradizioni religiose contengono alcuni elementi di verità, ma c’è una sola religione assolutamente vera; tutte le religioni hanno insegnato qualcosa della via della salvezza, ma c’è una sola Via assoluta. Cristo è la Via, la Verità e la Vita, e senza di Lui nessun uomo viene al Padre» (FD 228). Altrettanto convinta era la sua adesione alla Chiesa: «La Chiesa, con la sua gerarchia ed i suoi sacramenti, è la sola base capace di unire l’umanità, perché questa Chiesa visibile e gerarchica costituisce il Corpo mistico di Cristo sulla terra» (FD 229).

Trasferimento in India


P. Bede cessa il racconto autobiografico nell’atto della sua adesione al Cattolicesimo e l'ultima parte è dedicata ad illustrare i pensieri che sono maturati in lui vivendo l'esperienza monastica.
Per conoscere il seguito della sua vita, dobbiamo fare riferimento alla prima parte della sua opera Matrimonio tra Oriente e Occidente (MO 15-51).
Espone lui stesso i fatti che gli capitarono: «Quando scrissi La catena d’oro [The golden string, 1954] per raccontre la storia della mia ricerca di Dio, ricerca che mi condusse alla chiesa cattolica e a un monastero benedettino, pensavo di aver concluso il mio viaggio, almeno per quanto concerne la vita di questo mondo. Ma, proprio mentre scrivevo La catena d'oro, stava per incominciare un nuovo periodo, che avrebbe portato nella mia vita cambiamenti profondi, almeno quanto quelli di prima…. Tutto questo lo scoprii durante un incontro con un monaco benedettino indiano, che in quel periodo si dava da fare per iniziare una fondazione monastica in India. Erano anni ormai che studiavo il vedanta ed avevo incominciato ad intuire la sua importanza per la chiesa e per il mondo» (MO 15).
Dopo un primo tentativo a Bangalore (1955), il progetto cominciò ad attuarsi nel 1958, quando  collaborò  con un altro monaco per fondare un monastero a Kurisumala (in Kerala). Cominciò, soprattutto, a vivere cambiamenti profondi: «Avevo capito che era necessario cambiare il nostro stile di vita, se desideravamo entrare nel profondo dell'autentica cultura indiana. Allora adottammo il kavi, l'abito sacro del sannyasi, colui che rinuncia ai mondo per ricercare Dio e che in India corrisponde a ciò che noi identifichiamo col monaco. Cominciammo anche a seguire le ordinane abitudini dei sannyasyn: andare scalzi, sedere per terra sia durante le preghiere che durante i pasti, mangiare con le mani e dormire su una stuoia. Così ci avvicinammo di più alla condizione dell'indiano povero» (MO 25).
Tempo dopo, nel 1968, ricevette la richiesta di trasferirsi nel Tamil Nadu, nell’eremo di Shantivanam fondato nel 1950 da due religiosi francesi, J. Monchanin e Henry Le Saux. Monchanin morì poco dopo la fondazione (1957). Le Saux, desiderando andare a vivere come eremita nell’Himalaya, chiese a p. Bede di prendersi cura della nuova costruzione monastica. Acconsentì e vi rimase fedelmente fino alla morte avvenuta nel 1993.
Perché si recò in India? Per trovare il buon tempo antico, come aveva fatto da giovane quando si rifugiò nel Costwold. Allora, opponendosi alla rivoluzione industriale, voleva indicare una via alternativa. Con altri amici, precorse i tempi ed avviò un ripensamento critico a cui si aggregarono poi molti altri (MO 46). Ora vuole stabilire in India un segno per favorire il sorgere di un nuovo orientamento di carattere ecumenico. In pratica intende:
1. «Cercare la dimensione contemplativa dell’esistenza umana… la mente dell’est è aperta non solo all’uomo e alla natura, ma anche a quella potenza nascosta che pervade uomo e natura e rivela, a colori che sono in sintonia, il senso reale della vita umana» (MO 18).
2. Favorire il dialogo fra le religioni (MO 31-32) e superare la mentalità esclusivista, a motivo della quale non soltanto ognuno pensa che la propria religione sia vera, ma ritiene che l’altra sia del tutto falsa (MO 29). 

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